L’atomica italiana, di inimicizie

L’atomica italiana

E’ il 1968: USA, URSS, Regno Unito e molti altri paesi firmano il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Un negoziato durato anni, iniziato nel ’63 dopo la firma del Trattato per la Messa al Bando Parziale dei Test Nucleari. Una delle tappe più significative di quel processo di “razionalizzazione imperiale” in cui si imbarcarono le due superpotenze una volta che l’URSS riuscì faticosamente a raggiungere la parità nucleare e la dottrina della “Massive Retaliation” americana cessò definitivamente di essere credibile, un processo noto comunemente come “detente” o distensione che vide Washington e Mosca fissare i propri confini – oltre i quali non sarebbe stato saggio avventurarsi – ma anche dietro i quali sarebbe stato necessario un ferreo controllo. Una stabilizzazione del sistema internazionale in preparazione ad una nuova era di confronto, che inizierà alla fine degli anni ’70.

Ciò che pochi oggi sanno – e che Leopoldo Nuti, considerato il massimo esperto italiano sulla vicenda, ci racconta nel suo “La Sfida Nucleare” – è che l’Italia, a dispetto della sua moderna immagine di potenza multilateralista e promotrice di qualsiasi iniziativa internazionale, quel trattato non lo voleva firmare. E non lo firmò fino a 6 mesi dopo, con ben 12 dodici riserve, per poi non ratificarlo in parlamento – e quindi non aderirvi – fino al 1975. Accompagnata dalla Germania.

UN PAESE SCONFITTO PUO’ AVERE L’ATOMICA?

Quella di Italia e Germania è una storia camminata mano nella mano. Si unificano insieme, anche combattendo su fronti diversi contro Francia e Austria, entrambe vedono nella prima guerra mondiale il completamento del loro Risorgimento (questa volta dai lati opposti della barricata) entrambe successivamente vivono il fascismo e la seconda guerra mondiale, perdendola, e subendone le conseguenze.

Entrambe dopo la guerra si rimettono in piedi piuttosto velocemente nella cornice dell’Europa Occidentale a guida americana (per quanto riguarda la Germania Ovest) delle prime iniziative di integrazione europea – anch’esse collegate all’integrazione atlantica – della ricostruzione post-bellica ma anche (soprattutto l’Italia) delle opportunità offerte dall’avere (giocoforza) “le mani nette” sul fronte coloniale, opportunità che istituzioni come l’ENI di Enrico Mattei, in sinergia con la politica, sfrutteranno pienamente.
Con gli anni ’60 diventano attori economici di tutto rispetto nell’arena dei paesi industrializzati, ma questo rinnovato slancio non si traduce in un rinnovato status strategico. Dunque, la ricchezza di questi due paesi rimane di fatto in balia dei detentori dell’hard power, dietro e oltre cortina. Quand’anche si parla di riarmo in funzione antisovietica – peraltro non sempre visto di buon grado a casa, per ragioni questa volta del tutto interne – l’ambito di discussione è se subordinarlo ad una struttura a guida americana, ad una a guida francese (CED) o se evitarlo del tutto. La NATO rimarrà – fino ad oggi – ancora un’organizzazione dedita a tenere i “tedeschi sotto” (certamente i più temibili della coppia).

E dove può manifestarsi nel modo più chiaro questo “fattore sconfitta”, se non nelle questioni riguardanti il sacro graal della potenza militare e della sovranità nazionale, l’arma atomica?
Il nostro paese proverà in ogni modo – scoprendo i limiti imposti dall’esterno alla sua azione, talvolta lambendoli pericolosamente – ad avvicinarsi all’arma atomica.

Un missile a medio raggio "Alfa", sviluppato interamente in Italia dalla fine degli anni '60 alla metà degli anni '70.
Un missile a medio raggio “Alfa”, sviluppato interamente in Italia dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70.

Le ragioni sono principalmente due, e sono entrambe condivise con la Germania. Una riguarda la possibilità di un’invasione del Patto di Varsavia: l’Italia è un paese di frontiera nella guerra fredda, e non può essere sicura – soprattutto dopo la fine della Massive Retaliation – che gli Stati Uniti rischieranno una guerra (convenzionale o nucleare) con l’URSS per difenderla, ma non può neanche sperare di difendersi da sola con le sue esigue forze convenzionali. Washington ha da sempre un problema di credibilità strutturale, causato dall’estrema sicurezza di cui gode il suo territorio, difeso da due grandi oceani e ricco di risorse in grado di consentire l’autarchia. In sostanza, sconta il vantaggio di potersi ritirare dai suoi impegni senza subire conseguenze irreversibili.
La seconda invece, derivante dalla prima, una questione di bilanciamento all’interno dell’alleanza: se sono solo le armi – convenzionali e nucleari – statunitensi a poter garantire la sicurezza dell’Italia, il paese rimane di fatto in uno status di protettorato permanente, incapace di adottare una politica estera indipendente, se necessario in rottura con Washington. Non è assolutamente un caso che durante la crisi del sistema valutario di Bretton Woods alla fine degli anni ’60 l’unico paese a pretendere le sue spedizioni di oro dalla Fed – nonostante le forti pressioni americane per convertire i propri dollari in titoli, come tutte le altre banche centrali – sia la Francia. Non è un caso che nel ’73 – in occasione della crisi transatlantica scatenata dalla Guerra del Kippur – sia la Francia l’unico paese a voler andare fino in fondo, rigettando la costituzione dell’IEA e spingendo sul dialogo euro-arabo nonostante la minaccia americana di ritirare le truppe dal continente: Parigi, forte del proprio deterrente nucleare, è l’unica capitale pronta a dire “fate pure”.

Perciò tentiamo di avvicinarci all’arma nucleare da 4 diverse angolazioni, tutte quelle possibili: tramite il rapporto bilaterale con gli USA, tramite la NATO, tramite l’integrazione europea… e infine tramite l’estremamente controversa “opzione nazionale“.

SLBM classe M51 della Forza Oceanica Strategica francese, considerato da molti esperti il migliore missile intercontinentale balistico al mondo
SLBM classe M51 della Forza Oceanica Strategica francese, considerato da molti esperti il migliore missile intercontinentale balistico al mondo

L’OPZIONE BILATERALE: TATTICHE E MISSILI JUPITER

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Nel 1959, accettammo di buon grado lo schieramento di missili nucleari a medio raggio americani Jupiter in due siti a Gioia del Colle, in Puglia. Con una gittata di oltre 3000km, il momento in cui l’Italia si sia più avvicinata a possedere un’arma atomica strategica in tutta la sua storia.

Sì, perché i missili Jupiter erano quasi più italiani di quanto non fossero americani: spiega Nuti – citando il generale Graziani – che le testate nucleari (che secondo il sistema della doppia chiave, sarebbero dovute essere custodite dagli USA, mentre all’Italia spettava il controllo del vettore) fossero permanentemente montate sui missili in posizione da combattimento, pronti ad essere lanciati in soli 15 minuti.
Inoltre, la loro collocazione in una base interamente gestita dall’aeronautica italiana ne avrebbe concretamente reso possibile l’uso anche contro il parere americano, in caso di estrema emergenza. Lo spiega Holifield, segretario del comitato congressuale americano responsabile delle armi atomiche, dopo un’ispezione in un’altra base Jupiter in Europa nel 1960, causando uno scandalo politico: “La cosa più simile a quello che dovrebbe essere il loro possesso da parte degli Stati Uniti, è il fatto che là fuori ci sono 7 uomini e un carrello collegato elettricamente con quel coso. Sei di loro sono di un’altra nazionalità, e il settimo, che ha la chiave, è americano. Tutto quello che devono fare per prendersi la chiave è dargli una botta in testa con uno sfollagente“. Una scelta deliberata secondo Nuti, orientata verso la condivisione nucleare con gli alleati NATO, aggirando la legge statunitense.

L’amministrazione Heisenhower – agendo nella cornice della supremazia nucleare sull’URSS – puntava molto sulla condivisione nucleare con gli alleati, nel suo “minimalismo strategico”: un contenimento dell’Unione Sovietica improntato quasi esclusivamente sull’arma nucleare; anche condivisa con gli alleati – per rendere più credibile la deterrenza – risultava preferibile rispetto ai costi esorbitanti che avrebbe implicato una difesa convenzionale dei nuovi territori dove l’impero americano aveva estesa la sua influenza. Sarà però un’impostazione strategica destinata a finire con l’amministrazione Kennedy, resa impraticabile dall’ascesa dell’URSS come potenza nucleare a pieno titolo.

Il programma Jupiter dunque durerà poco, e nel 1963 i missili nucleari “italiani” – operativi da fine 1960 – saranno sacrificati sull’altare della crisi dei missili di Cuba – insieme a quelli turchi – per essere sostituiti da missili Polaris nel Mediterraneo – ad esclusivo controllo statunitense – causando sia malumori che velati sospiri di sollievo a Roma. Contemporaneamente, Washington a Nassau decide di fornire i Polaris esclusivamente al Regno Unito, una mossa male accolta sia in Francia che nel resto d’Europa, che contribuì all’uscita di Parigi dalla NATO e all’indurimento del veto nei confronti dell’integrazione europea di Londra. Sintomatica di una nuova era nucleare, in cui l’arma atomica – soprattutto strategica – non sarebbe più stata condivisa con facilità.

Restano le armi nucleari tattiche, una componente più fumosa della deterrenza nucleare, meno documentata e poco coinvolta nella contesa politica. Tattiche che sono ancora presenti nelle basi italiane.
All’inizio degli anni ’60, in Italia sono presenti (con vari gradi di controllo statunitense, da quello operativo fino a quello della sola custodia formale delle testate) due battaglioni di lanciarazzi nucleari Honest John – gittata massima 50km – due battaglioni di lanciarazzi nucleari Corporal, mine nucleari da utilizzare nel Gorizia Gap, 24 obici M-115 dotati di proiettili nucleari, e persino un centinaio di missili anti-aerei nucleari Nike-Hercules, pensati per colpire concentrazioni di bombardieri ma spendibili anche in funzione terra-terra con un raggio massimo di circa 170km. Tutte armi utilizzabili in un teatro di operazioni locale, alcune forse – come i Jupiter – senza approvazione statunitense.

Sistema d'arma Nike Hercules installato in Italia. Oggi non esistono più missili da contraerea nucleari, essendo venute a mancare le concentrazioni di bombardieri dell'epoca della seconda guerra mondiale, con l'avvento dell'era dei missili.
Sistema d’arma Nike Hercules installato in Italia. Oggi non esistono più missili da contraerea nucleari, essendo venute a mancare le concentrazioni di bombardieri dell’epoca della seconda guerra mondiale, con l’avvento dell’era dei missili.

LA FORZA MULTINAZIONALE

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Con la fine del programma Jupiter e lo spostamento della deterrenza nucleare americana in mare – con i Polaris – l’Italia comunque non si arrenderà ad essere esclusa da ogni tipo di controllo sulle armi atomiche strategiche necessarie alla sua difesa.

La nuova idea è quella di creare una forza nucleare NATO – a carattere però multinazionale e non sovranazionale, dato importante, con unità controllate dai singoli paesi membri – armata di missili Polaris, basata nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico. A Roma questa iniziativa è presa estremamente sul serio, con la riconversione dell’Incrociatore (ereditato dalla Regia Marina) Giuseppe Garibaldi in una delle prima navi lanciamissili al mondo, la prima che avrebbe ospitato delle testate nucleari. Il progetto era quello di creare altre unità simili, e di imbarcarvi missili Polaris armati con testate nucleari, con equipaggi interamente italiani – solo una minima presenza formale americana – nell’ambito di una forza nucleare a comando NATO.

E’ una prospettiva che Washington intrattiene – o fa finta di intrattenere – ma superata dai tempi: l’era della condivisione nucleare è giunta al capolinea con la crisi dei missili di Cuba e il primo ban sui test nucleari, inizia l’era della razionalizzazione delle due sfere d’influenza. Questo significa un più ferreo controllo da parte di Washington (e Parigi, Londra) sul proprio arsenale nucleare: il sogno della “forza nucleare NATO” svanirà, sostituito dall’annacquato Nuclear Planning Group, dotato del solo compito di studiare i possibili bersagli di armi nucleari strategiche saldamente in mano a Washington. E’ qui che l’Italia inizia a guardare ad alternative più radicali.

L'Incrociatore Giuseppe Garibaldi lancia un Polaris UGM-27 durante i suoi test
L’Incrociatore Giuseppe Garibaldi lancia un Polaris UGM-27 durante i suoi test

LA FIRMA DEL TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE E L’OPZIONE EUROPEA

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Morte le opzioni di condivisione bilaterale – o multilaterale – dell’arsenale atomico americano, salvo le sempre presenti armi nucleari tattiche, Italia e Germania si avviano ai negoziati che porteranno al Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) con atteggiamento estremamente guardingo.

Due nazioni ormai cardinali nel sistema economico delle nazioni industrializzate, vedono (giustamente) il TNP come l’istituzionalizzazione del loro status di potenze sconfitte, la ratifica permanente della loro condizione di minorità rispetto non solo a USA e URSS, ma anche (argomento forse ancora più sentito) rispetto a Francia e Regno Unito. L’Ambasciatore Roberto Ducci riassumerà le perplessità italiane con una formula succinta ed elegante, definendo il TNP “Il trattato col quale si pretende che coloro che hanno fatto voto di castità si evirino“.

Convinte però di non poter fare molto altre (sicuramente consce delle possibili conseguenze di una vera e propria opposizione) Roma e Berlino tentano di apportare modifiche al trattato, in mancanza delle quali la firma – secondo l’ambasciatore a Berlino, Luciolli – sarebbe stata “Una capitolazione totale“: una durata non illimitata (25 anni, diventerà illimitata nel 1995) maggiori obblighi di disarmo per i paesi nucleari (ignorata) minori restrizioni per l’uso civile (parzialmente accolta) e infine l’importante (accolta, col tempo) sostituzione dell’agenzia europea EURATOM all’IAEA per i paesi membri. Con quest’ultima modifica al trattato, è evidente che Italia e Germania vogliano tenere la porta aperta all’opzione nucleare strategica che sembra più realistica: un’atomica tinteggiata – come scrive Caracciolo in “La pace è finita“, rimarcando l’attualità di questo proposito – “con qualche mano di vernice gialla e blu“. L’integrazione europea è sempre stato il veicolo delle ambizioni italiane e tedesche di tornare potenza – un’ambizione, va detto, non condivisa da quasi nessun altro paese membro – ma la prospettiva è senz’altro lontana e incerta. Lo è oggi, lo era a maggior ragione negli anni ’60.

Roma e Berlino infatti non si rassegneranno, e fino al ’75 non ratificheranno il TNP. A casa nostra, si accarezzerà anche l’ipotesi più controversa e inconfessabile: quella nazionale.

Già nel 1967 – prima della firma del TNP – a porte chiuse i toni si fanno accesi, scrive Nuti:

Quando il 20 febbraio si riunì il Consiglio Supremo di Difesa per discutere sul problema della non-proliferazione e di un’eventuale scelta nucleare nazionale, Fanfani [allora Ministro degli Esteri N.d.R.] constatò una radicata e diffusa ostilità nei confronti del trattato da parte di quasi tutti i principali esponenti del governo, in particolare per quanto riguardava la ‘discriminazione illimitata proposta dal TNP tra non-nucleari e nucleari’. Saragat [PDR N.d.R.] in particolare, sembrò anche in quell’occasione assumere una posizione dai connotati fortemente nazionalistici, quasi favorevole a un’opzione nucleare nazionale, ma anche gli altri partecipanti alla riunione non nascosero le loro riserve.

E in effetti, il Capo di Stato Maggiore – Generale Aldo Rossi – aveva dato il via libera nel 1964 allo studio in gran segreto di un deterrente nucleare italiano.

VERSO LA RATIFICA: LO SPORCO DIBATTITO

Il dibattito si farà molto più acceso – e sporco – in Italia nei 6 e rotti anni che separeranno la firma dalla ratifica.

Un lungo periodo di attesa giunge al termine quando finalmente – nel 1973 – viene completata la tanto voluta intesa tra EURATOM e IAEA: adesso ogni “scusa” cade, ed è il momento di decidere o meno per la ratifica. I paesi del Benelux – che fino a questo punto avevano agito di concerto con Italia e Germania, essendo in una situazione simile dal punto di vista della deterrenza nucleare – ratificheranno immediatamente, lasciando fuori solo Roma e Berlino.

La contesa non investe – perlomeno inizialmente – l’opinione pubblica, ma si consuma nel nostro paese tramite una serie di dichiarazioni, riunioni coperte dal segreto di stato, articoli scritti sotto pseudonimo, campagne di disinformazione.

Con il primo test nucleare dell’India – paese non firmatario del TNP – la fronda dello stato profondo italiano contraria alla ratifica del trattato prende coraggio, denotando un evidente fallimento del regime di non proliferazione: apre le danze Roberto Gaja – Segretario Generale del Ministero degli Esteri – scrivendo un articolo sotto pseudonimo, in cui esorterà Roma a non ratificare il trattato a meno che all’Italia (come ad altri paesi) non venisse riconosciuto il ruolo di “paese soglia” che effettivamente ricopriva, sotto il regime del trattato. Sì, perché l’Italia, ai (bei) tempi era il terzo produttore di energia nucleare civile della NATO (dopo USA e Regno Unito, più della Francia) e aveva la capacità di produrre materiale fissile adatto a far partire un programma nucleare militare nel giro di pochi mesi, grazie all’impianto EUREX I di Saluggia, che dagli anni ’80 sarebbe stato coadiuvato dall’impianto EUREX II in grado di produrre abbastanza materiale fissile da sostenere un programma nucleare in piena regola. Come evidenziavano Aldo Moro e altri membri di spicco della Democrazia Cristiana, l’Italia non partecipava alla “contesa nucleare” solo perché non voleva, non perché non poteva. Molti in Italia (tra gli addetti ai lavori) ritenevano che questa capacità dovesse essere mantenuta, per esercitarla nel caso di mutate condizioni internazionali.
Addirittura – a TNP già firmato – l’Italia svilupperà un suo missile a medio raggio indigeno al 100%, l’Alfa – con gittata di 1600km – abbandonandolo, dopo 3 test avvenuti con successo, solo dopo la ratifica.

Proseguirà il pezzo grosso del CNEN (Centro Nazionale per l’Energia Nucleare) Achille Albonetti su La Discussione – organo stampa della DC – evidenziando il fatto che l’Italia si stesse mettendo in condizione di minorità nel suo teatro geopolitico prioritario – il Mediterraneo – ratificando il TNP senza che lo facessero anche Albania, Algeria, Francia, Egitto, Libia, Spagna, Turchia e Israele (che nel ’74 aveva già l’arma nucleare, anche se forse Albonetti non lo sapeva).

La rivista su cui "Roberto Guidi" esprime sotto pseudonimo le sue perplessità sul Trattato di Non Proliferazione
La rivista su cui “Roberto Guidi” esprime sotto pseudonimo le sue perplessità sul Trattato di Non Proliferazione

Poi la vicenda diventerà ulteriormente fumosa, coinvolgendo questa volta anche i media mainstream.

La rivista Politica e Strategia, edita dall’Istituto per gli Studi Strategici e della Difesa (ISSED) del Generale dell’Aeronautica Dullio Fanali – che appena 2 anni dopo diventerà una delle principali persone d’interesse nello scandalo Lockheed – pubblicherà nel settembre 1974 un’edizione speciale tutta dedita alla proliferazione nucleare italiana, contenente articoli che spazieranno da posizioni di pacata critica al TNP ad ardite ipotesi di deterrente nucleare nazionale.

Immediatamente, partirà una vera e propria macchina del fango mediatica contro il milieu contrario alla ratifica del trattato – da parte di testate di area comunista e socialista – ricca di riferimenti all’eversione nera che da pochi anni aveva iniziato a scuotere il paese: il quotidiano di area comunista Paese Sera titolerà “Tattica e nera. L’H sognata dai golpisti“, il settimanale di area socialista L’Europeo scriverà “I Mau-Mau delle ambasciate” – alludendo al movimento di guerrigliero/terroristico in Kenya – Il Manifesto invece “La ‘diplomazia nera‘ preme per l’atomica italiana“. In particolare il dito venne puntato contro Albonetti, considerato il “capofila” di una cordata di diplomatici, politici, industriali e militari favorevoli all’atomica italiana e collegati (secondo questa campagna) con trame eversive. Il direttore del CAMEN (Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare), l’Ammiraglio Avogadro di Valdengo, rassegna le sue dimissioni: tra le speculazioni che circolano, l’opzione che sia venuta alla luce la pianificazione segreta di un test nucleare dimostrativo come quello indiano, utilizzando uranio arricchito ottenuto dalla Francia un decennio prima per un progetto di nave a propulsione nucleare, o processato all’impianto EUREX di Saluggia.

Esponenti della sinistra presentarono interrogazioni parlamentari al governo. Infine, una petizione per la ratifica immediata del TNP da parte di 142 scienziati guidati dal “ragazzo di Via Panisperna” Ugo Amaldi, contribuì a scandalizzare l’opinione pubblica.

Cosa succede dietro le quinte? E’ impossibile dirlo, un altro grande mistero italiano. Che esistesse in quegli anni un milieu eversivo legato sia a settori delle istituzioni sia ai movimenti neofascisti è un dato di fatto. Ma estremamente chiari sono anche i suoi rapporti – o meglio dire la sua simbiosi, ormai diventata innegabile, da Borghese a Fiore, passando per Edgardo Sogno – con Londra e Washington, due capitali estremamente contrarie ad ogni ipotesi nucleare nazionale. D’altro canto, un’altra potenza fermamente contraria – ancor più di Londra e Washington – all’atomica italiana era l’Unione Sovietica, con cui il PCI (ed i media intorno ad esso gravitanti) mantenevano ancora stretti rapporti, nonostante la conversione all’atlantismo in fieri sotto la direzione di Berlinguer, che con Mosca romperà al punto da diventare (forse) vittima di un attentato dei servizi segreti bulgari.

E comunque, il milieu contrario alla ratifica del TNP era davvero sovrapponibile a quello dell’eversione nera/golpista/angloamericana? Su questo punto è facile oggi rispondere di no. Alcuni suoi esponenti – come Fanali – saranno lambiti dalle inchieste sull’area golpista, altri – ambasciatori come Gaja, Ducci, Quaroni, burocrati come Albonetti – ne rimarranno del tutto estranei.

La campagna di pressione da parte della sinistra fu promossa da Mosca? Londra e Washington furono coinvolte, in una convergenza d’interessi con l’URSS nel belpaese – volta a mantenere intatto l’assetto di Yalta/Helsinki – che avrà occasione di manifestarsi anche altre volte durante la distensione? Domande a cui invece non è possibile dare risposta. Forse si trattò solo della reazione isterica di un paese spaventato, sia dagli eventi degli anni precedenti, sia dalle armi in generale, sia dall’idea stessa di ritornare potenza. Anche questo è possibile.

Fattostà che al governo e alla coalizione parlamentare non rimane altra scelta: dietro la pressione dell’opinione pubblica “benpensante” ma anche dei governi alleati (come Nuti scriverà di aver appreso in una discussione riservata con un diplomatico britannico) l’Italia ratifica il TNP nel maggio 1975. Insieme alla Germania.

1953, primo test del sistema d'artiglieria nucleare M65. Sistemi d'arma simili erano presenti in Italia durante tutta la guerra fredda
1953, primo test del sistema d’artiglieria nucleare M65. Sistemi d’arma simili erano presenti in Italia durante tutta la guerra fredda

GLI EUROMISSILI E IL TRAMONTO DELL’OPZIONE NAZIONALE

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Armi nucleari strategiche verranno schierate nuovamente in Italia – i cosiddetti “euromissiliPershing e Cruise – nel 1983, nel contesto di un confronto bipolare ripartito a pieno regime dopo la razionalizzazione, tra guerre per procura in Afghanistan e Angola, superamento senza precedenti dei “confini di Yalta” con il supporto a Solidarnosc in Polonia, guerra commerciale, fine della stabilità strategica nucleare e incidenti estremamente pericolosi.
Questa volta però con delle differenze: non solo i missili americani sono meno ben accetti in Europa rispetto agli anni ’60 – un’Europa che si è imbarcata nelle sue “Ostpolitik” e arriva vicina ad una guerra commerciale con gli USA per partecipare alla costruzione del gasdotto Yamal – ma sono anche privi del lasco sistema a “doppia chiave” che rendeva i Jupiter degli anni ’60 un sistema d’arma quasi più italiano che americano, racconta Nuti:

Gli americani […] non si mossero dalle loro posizioni iniziali, dal momento che ritenevano impossibile installare fisicamente sui missili una doppia chiave, e non desiderabile la partecipazione italiana alla catena di comando” […] “L’ex ministro della Difesa Lagorio conferma l’esistenza di questo negoziato e racconta di essersi adoperato a più riprese durante il suo mandato perché i missili fossero gestiti congiuntamente secondo il meccanismo della doppia chiave, sul modello proprio di quanto era accaduto con i missili Jupiter […] La disponibilità americana a negoziare sarebbe continuata fin quando il presidente Raegan non manifestò in proposito la sua netta ostilità in una lettera al Presidente del Consiglio Fanfani […] aggiunge nelle sue memorie che il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Santini, gli avrebbe suggerito di risolvere il problema, nel caso in cui non si fosse riusciti a trovare una soluzione concordata e si fosse davvero verificato un disaccordo con gli americani circa l’impiego dei missili, bloccandoli nei loro rifugi con il ricorso alla forza

In sostanza, se prima ci si chiedeva se gli americani sarebbero riusciti a fermare un lancio di missili Jupiter da parte di un’Italia “uscita dal seminato” ora ci si chiedeva se l’Italia sarebbe riuscita a fermare un lancio di missili Cruise – controllati interamente dal 487th Tactical Missile Wing americano di stanza a Comiso, in Sicilia – nel caso in cui gli americani avessero deciso di procedere contro il parere di Roma. Un completo ribaltamento dei rapporti di forza – per quanto concerneva la catena di comando – che di fatto sobbarcava sull’Italia tutti i costi dell’ospitare armi nucleari sul suo territorio (essere un bersaglio per le armi nucleari sovietiche o di altri avversari degli Stati Uniti) senza però conferirgliene i benefici (disporre in qualche misura di un proprio deterrente nucleare strategico). Sintomatico dei nuovi rapporti di forza – più sbilanciati verso Washington – che si instaureranno tra Italia e Stati Uniti con la fine della guerra fredda, e con il (conseguente) cambio di regime che avverrà sull’onda di tangentopoli, dello sgretolamento del PCI e dell’MSI.

Gli “euromissili”, comunque, verranno rimossi già nel 1987.

Anni '80, un aviere della 485th Tactical Missile Wing mantiene la sua posizione durante un test di lancio del sistema d'arma GBM-109G (Cruise), Europa
Anni ’80, un aviere della 485th Tactical Missile Wing mantiene la sua posizione durante un test di lancio del sistema d’arma GBM-109G (Cruise), Europa

Per quanto riguarda le altre “opzioni nucleari” nella disponibilità di Roma – anche dopo la ratifica del TNP – l’Italia rimarrà di fatto un “paese soglia” – dotato di un’avanzata industria nucleare civile e di strutture convertibili in breve tempo ad uso militare – per altri 15 anni, fino a quando il referendum dell’87 – promosso da radicali, socialisti e ambientalisti sull’onda del disastro di Chernobyl, sostenuto poi anche da DC e PCI – non renderà di fatto impossibile la costruzione di nuove centrali (e addirittura impedirà ad ENEL di partecipare in progetti di nucleare all’estero, come a voler spargere sale sulle rovine del programma nucleare italiano) e il governo nel 1990 deciderà di chiudere tutti e 4 gli impianti già esistenti.
Tramontata ogni ipotesi di atomica nazionale, ad oggi rimangono aperte come strade soltanto la futuribile – quanto incerta – opzione europea, e l’eventuale utilizzo di armi nucleari tattiche americane a corto raggio, ad ora presenti nella sola variante di bombe gravitazionali B-61 sganciabili da jet Tornado o F-35A di stanza a Ghedi ed Aviano.

L’Italia è certamente più lontana dall’atomica oggi rispetto agli anni ’60, ’70, ’80. Questo dato, unito a quello di forze convenzionali tenute al minimo (e forse al di sotto, se si esclude la marina) livello di guardia, dice già tutto sulle reali possibilità di autonomia strategica del paese, al netto dei (per quanto auspicabili) sogni europei.

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LA DOTTRINA MORAWIECKI: IL PIANO DELLA DESTRA RADICALE POLACCA PER RIORGANIZZARE L’EUROPA, di Valentin Behr

Un discorso fondamentale, quello sostenuto nella “lectio magistralis” del premier polacco Morawiecki all’università tedesca di Heidelberg, il 20 marzo scorso. Da leggere con grande attenzione. Un vero e proprio manifesto del particolare nazionalismo conservatore, riemerso e sempre più radicato purtroppo nel mondo slavo dell’Europa Orientale, ma che ha le punte di espressione più radicale in Polonia e totalitarie e sempre più apertamente nazisteggianti in Ucraina. Un testo che lascia una impronta chiara ed inquietante della direzione che stanno prendendo progressivamente le dinamiche geopolitiche europee, soprattutto grazie all’imprimatur statunitense dato alla costruzione dell’Unione Europea e della NATO a partire dagli anni ’80 ed in particolare dalla caduta del “muro di Berlino” e dall’implosione del blocco sovietico; ma che potrebbe proseguire, come un seme avvelenato, per inerzia, anche dopo un eventuale, se pur al momento improbabile, dissolvimento o rarefazione dell’egemonia statunitense sul suolo europeo. L’intero manifesto, intriso di forzature e manipolazione ottusa delle vicende europee del novecento, è pervaso da un intento polemico apparentemente inconciliabile nei confronti della tecnocrazia della UE in nome della democrazia, resa possibile e garantita dagli stati nazionali europei, e della resistenza all’imperialismo oppressivo ed aggressivo russo. In realtà un atteggiamento antitetico polare alla visione “tecnocratica”, imprescindibile uno dall’altro, in un rapporto simbiotico indispensabile a celare e rimuovere il fondamento comune che giustifica e consente l’esistenza e la crescita di entrambe: il viatico e l’influenza diretta statunitense nelle vicende europee degli ultimi decenni.

Nelle more, una ipoteca definitiva a quel movimento federalista europeo, già sconfitto negli anni ’50 dalla componente funzionalista, il quale, benché anch’esso lautamente foraggiato anche da sponde americane, propugna il sostegno e la trasformazione della Unione Europea in una entità politica autonoma e indipendente.

La giurisdizione europea, il vincolo atlantico, i fondi strutturali, la regolazione del mercato unico sono stati le costanti sommerse che hanno sostenuto la ragione di esistenza della Unione; la guerra in Ucraina, la gestione della pandemia, l’invenzione del catastrofismo ambientale su base antropica la cartina di tornasole rivelatrice. Il manifesto potrebbe essere la pietra tombale di una Unione sempre più ridotta ad un simulacro ornamentale dai disegni statunitensi e dalla litigiosità europea.

Il documento, infatti, fonda le sue posizioni partendo da due assunti: il vicinato, nel corso dei secoli spesso proficuo e solidale, con il mondo tedesco da una parte e dall’altra con la terribile oppressione russa, in realtà sovietica, subita dall’altro versante, nel dopoguerra e incombente, a partire dagli anni ‘90, grazie al ricorrente imperialismo espansionista russo. Le contraddizioni con il primo sarebbero risolvibili facilmente con la soddisfazione dell’ennesima richiesta di risarcimento danni per i crimini compiuti nella seconda guerra mondiale in nome di una amicizia cementata dalle strette relazioni economiche e dalla avversione contro il comune nemico r(o)usso.

Il buon Morawiecki, infatti, glissa elegantemente su quegli antefatti storici scomodi e poco edificanti di una classe dirigente nel 800 tanto prona verso il dominio prussiano e asburgico, quanto romanticamente e inconcludentemente ostile verso la ottusa dominazione zarista e, nel primo dopoguerra, ad indipendenza ottenuta, così impegnata ad aggredire le repubbliche sovietiche e ad emulare, sia pure in competizione, e con il sovrappiù della millanteria propria di quella dirigenza impersonata per un buon periodo dal maresciallo Pilsudski e ancor peggio dalla pletora di formazioni politiche, le nefandezze del regime nazista, fuori e soprattutto dentro il paese; come pure sorvola sul fatto che l’influenza e il dominio sovietico in Europa Orientale non fu solo il frutto della sconfitta militare del nazismo, ma anche di aspettative di emancipazione, interne a quei paesi e, per la verità, rapidamente naufragate dopo timidi tentativi riformatori. Tentativi che conobbero, in chiave “socialdemocratica”, un ultimo sussulto anche dopo la caduta del muro di Berlino, con il timido sostegno della Germania e della Deutschbank, sino a tramontare definitivamente per ragioni interne a quei paesi e, soprattutto, con la pesante e adulante normalizzazione imposta dalla dirigenza statunitense sia in Europa Occidentale che in quella Orientale. È ormai notoria la particolare attenzione, in termini di finanziamenti ed investimenti economici oltre che militari, riservata dalla leadership statunitense, ben corroborata dal sostegno complementare di Unione Europea e Germania, alla nascente classe dirigente polacca e dei paesi baltici. È ormai altrettanto notorio che nei piani militari statunitensi è previsto un pesante intervento diretto solo in caso di crisi destabilizzanti in Italia e Polonia. Da qui il repentino e contestuale allargamento ad est della Unione Europea e della NATO sino all’interno delle vecchie frontiere della Unione Sovietica, comprensivo di installazioni militari offensive a ridosso della frontiera russa e non ostante le pesanti riserve espresse in alcuni importanti dossier depositati negli archivi della UE. Non a caso Morawiecki rivendica, con l’avvento del suo partito, il PIS, nel 2015, la svolta più coerentemente filo-NATO e russofoba affermatasi in Polonia e con essa la coerente adozione di una politica economica ordoliberista, fatta di estrema apertura al mercato e alle aziende estere, di controllo della propria moneta e di scarso welfare.

Come già precisato, l’intero documento poggia su due assunti fondamentali, sostanzialmente corretti, ma giustificati in maniera del tutto fuorviante.

  • Il valore preminente e legittimante degli stati nazionali europei è il primo. In effetti, a dispetto delle teorie che vedevano nella globalizzazione una dinamica di svuotamento e addirittura di estinzione degli stati nazionali, questi ultimi hanno confermato e riaffermato il loro ruolo preminente nelle dinamiche politiche e geopolitiche a prescindere dai regimi particolari che li reggono. Quanto al loro carattere democratico, Morawiecki dovrebbe spiegare la differenza positiva sostanziale tra tanti regimi democratici europei, con le loro limitazioni e forme di controllo e manipolazione crescenti, se non addirittura di aperta discriminazione sociale e delle minoranze etniche rispetto a quello russo.

  • Il carattere tecnocratico del governo, per meglio dire della amministrazione della UE, non è una caratteristica meramente intrinseca di quella struttura, quanto, assieme a quella lobbistica curiosamente glissata dal polacco, derivata soprattutto dal potere effettivo detenuto dal Consiglio Europeo dei capi di governo e dalla influenza diretta e stringente sulla Commissione Europea e sui leader di governo degli stati europei delle leadership statunitensi sull’onda dei vari trattati sottoscritti a partire dagli anni ‘50.

Il carattere fondante di uno stato consiste in realtà nel grado di capacità di esercitare autonomamente la propria sovranità all’interno e all’esterno dei propri confini.

Proprio quella qualità che manca in misura considerevole nelle strutture della UE, negli Stati Europei e in particolare in quelli guidati da centri decisori accecati da un nazionalismo straccione e sciovinista, impossibilitato ad agire senza la longa manus della nazione egemone.

Morawiecki ambisce a diventare il leader; è il rappresentante di punta di questo schieramento e del paese che rappresenta; non per forza propria, ma perché meglio inserito geopoliticamente e politicamente nell’onda russofoba sollevata dalle leadership statunitensi degli ultimi trentacinque anni. Con questo cerca di rompere il possibile asse tra Germania e Russia, con gli occhi del passato potenzialmente deleterio per la Polonia e senza dubbio in linea con i propositi dell’attuale dirigenza statunitense.

L’enfasi attribuita alle radici elleno-romane-cristiane, glissando volutamente su quelle dell’illuminismo della fase emergente e su quelle del particolare romanticismo che tanto ha pesato sul suo paese; l’insistenza sugli impulsi imperiali pluridecennali di una Russia in realtà impegnata in una difesa strenua della propria esistenza, a partire dallo scempio compiuto negli anni ‘90; l’asserita concordia storica con il mondo occidentale, da sancire con l’espiazione del peccato di tradimento degli accordi di Yalta, sono tutti funzionali alla creazione e al mantenimento del blocco occidentale del quale Morawiecki vorrebbe assumere la codirezione nell’agone europeo.

Morawiecki su questo si è guadagnato un altro merito. Quello di aver esplicitato la tendenza, già da tempo in atto, alla formazione in Europa di quattro sfere di influenza, delle quali una, quella mediterranea, del tutto amorfa, l’altra, quella orientale con la funzione di trascinare il resto del continente nella crescente ostilità bellicista verso la Russia e, in tempi più lunghi e modalità differenti, verso la Cina. Il modo più semplice e suicida di lasciare alla attuale leadership statunitense il compito di definire strategie ed avversari e agli europei quello di sostenere sul terreno l’onere dello scontro ai confini della Russia e indirettamente con essa nell’area mediterranea e subsahariana.

Il programma di pesante riarmo dell’esercito polacco assume questa volontà, piuttosto che essere uno strumento di deterrenza per conquistare un ruolo di mediazione e di ponte tra Europa e Russia.

Con esso, il leader polacco ha reso evidente che la Unione Europea è solo una particolare intelaiatura, un campo di azione nel quale si esercitano le attività, le rivalità e gli interessi degli stati nazionali, compresi quelli fondamentali e preponderanti degli Stati Uniti. Non un consesso in grado di garantire l’emancipazione e l’autonomia di un continente uscito prostrato e sconfitto da una guerra di ottanta anni fa.

Vive del dualismo irrisolvibile tra un federatore economico, la Germania e un federatore politico, gli Stati Uniti, del tutto disinteressato ed impossibilitato a compiere l’unificazione politica del continente o il suo assorbimento nella propria unità politica, già, per altro, di per sé problematica. Le conseguenze di questa incompatibilità cominciano ad affiorare velocemente e drammaticamente: sarà il federatore economico a capitolare e ad essere dissanguato; sarà il continente a cadere in una situazione di vassallaggio sempre più remissivo e di caos e avventurismo crescente con il progressivo eventuale allentamento delle redini. Un simulacro amministrativo sempre più appendice dell’entità politica che conta, la NATO, nemmeno più utile ad annichilire i sussulti di autonomia che sorgono ancora qui e là.

Il suo proclama pone anche un’altra questione fondamentale. Il sovranismo è un concetto politico-sociologico necessario ad affermare e confermare l’esistenza delle prerogative degli stati nazionali rispetto alla globalizzazione, alle dinamiche geopolitiche e sociopolitiche.

È una assunzione necessaria, ma del tutto insufficiente.

A seguire e collegate ad esse sono fondamentali le politiche concrete di esercizio di tale sovranità sia all’interno che all’esterno dei confini.

Su questo le politiche straccione nazionaliste e scioviniste prospettate da Morawiecki rappresentano l’antitesi ai propositi di pace nelle relazioni esterne e di giusta coesione sociale all’interno. La Polonia, purtroppo, nella sua storia, è caduta spesso tragicamente vittima delle illusioni e delle millanterie della sua classe dirigente. Non le è evidentemente bastato. Adesso sta provando a trascinare un intero continente in questo precipizio nella connivenza e nella cecità generale.

Tra i conniventi, più o meno consapevoli, per affinità ideologica e per inerzia politica, si può inserire tranquillamente e giocosamente Giorgia Meloni.

La dirigenza polacca ritiene di strumentalizzare a questi fini la stessa potenza egemone; rimarrà ancora una volta vittima delle proprie trame. È il destino delle mosche cocchiere. Buona lettura, Giuseppe Germinario

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LA DOTTRINA MORAWIECKI: IL PIANO DELLA DESTRA RADICALE POLACCA PER RIORGANIZZARE L’EUROPA
A pochi mesi dalle elezioni e a più di un anno dall’invasione dell’Ucraina, il PiS polacco ha una nuova dottrina europea. Traduciamo e commentiamo per la prima volta in francese il “discorso della Sorbona” di Mateusz Morawiecki pronunciato martedì scorso a Heidelberg. Un programma politico da studiare molto attentamente.

AUTORE VALENTIN BEHR

Questa settimana, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha tenuto un importante discorso all’Università di Heidelberg che non è stato letto abbastanza. Sulla scia dei discorsi sul futuro dell’Unione pronunciati dal presidente francese Emmanuel Macron (alla Sorbona nel settembre 2017) e dal cancelliere tedesco Olaf Scholz (all’Università di Praga nell’agosto 2022). Si tratta di un discorso importante perché, a pochi mesi dalle elezioni polacche, offre il punto di vista di un leader dell’Europa centrale, il cui Paese ha visto rafforzato il proprio ruolo politico all’interno dell’Unione dopo la guerra in Ucraina, qui descritta come una “svolta storica”. Morawiecki espone una visione delle sfide che l’Unione deve affrontare e dei modi per affrontarle, in netto e radicale contrasto con quelle proposte dai suoi omologhi francese e tedesco.

Sua Magnificenza, professor Eitel,

Primo Ministro Kretschmann,

Signore e Signori,

Cari studenti

Grazie per avermi invitato a Heidelberg. È un grande onore per me parlare qui in una delle più antiche università del continente. È un luogo che ha formato decine di generazioni di straordinari europei. Molti grandi tedeschi, naturalmente, ma anche molti polacchi. Uno di loro è stato addirittura rettore.

Heidelberg è una città bellissima, costruita e mantenuta per generazioni. Eppure questa meravigliosa città, che per molti versi è un microcosmo dell’Europa, è stata testimone di molto male, violenza, guerra e atrocità.

Oggi stanno tristemente tornando nel nostro continente.

L’Europa è a una svolta storica. Ancora più grave della caduta del comunismo. Per la maggior parte, questi cambiamenti sono stati pacifici. Oggi, quando il mondo intero è minacciato da una guerra di aggressione russa, ci ricordiamo del periodo di 70 o 80 anni fa.

Oggi voglio parlarvi di quattro questioni fondamentali per il futuro dell’Europa. Dividerò quindi il mio discorso in quattro parti.

In ognuna di queste parti affronterò quella che considero una questione fondamentale, ovvero il ruolo degli Stati nazionali.

Inizierò con un primo tema generale: 1. Cosa ci insegna oggi la storia dell’Europa.

Poi passerò a: 2. L’importanza della lotta dell’Ucraina contro la Russia e le conclusioni che possiamo trarre dalla guerra in Ucraina per l’Europa.

In seguito, affronterò una terza questione: 3. quali sono i valori europei e cosa li minaccia oggi; infine, 4. discuteremo di come l’Europa possa assumere il ruolo di leader mondiale.

Cosa ci insegna la storia dell’Europa.
Se ci chiediamo cosa può insegnarci la storia dell’Europa, vorrei iniziare parlando delle relazioni tra Polonia e Germania.

Siamo vicini da oltre undici secoli. Abbiamo vissuto, lavorato, affrontato e risolto i nostri problemi, non solo fianco a fianco, ma spesso insieme. Abbiamo fondato le nostre prime università nello stesso periodo: a Cracovia nel 1364, a Heidelberg nel 1386. Nel corso dei secoli, ci sono stati molti polacchi di origine tedesca o tedeschi di origine polacca e slava.

Origine slava.

Oggi, polacchi e tedeschi lavorano a stretto contatto dal punto di vista economico, il che crea interdipendenza.

Siamo il quinto partner commerciale della Germania, dopo Cina, Stati Uniti, Paesi Bassi e Francia. Presto saliremo al quarto posto, superando la Francia. Poi arriveremo addirittura al terzo posto.

Molti non lo sanno, ma la Russia è al 16° posto e la Polonia, insieme agli altri Paesi di Visegrad, è oggi un partner molto più importante della Cina e degli Stati Uniti. Vale la pena sottolineare l’importanza che Germania e Polonia rivestono l’una per l’altra. Sebbene abbiamo opinioni diverse su alcune questioni, condividiamo anche molti problemi comuni che devono essere superati insieme.

Morawiecki inizia ricordando l’importanza cruciale della Polonia, e più in generale dei Paesi dell’Europa centrale, come partner economico della Germania, in un contesto in cui è soprattutto la dipendenza di questo Paese (e di altri in Europa) dal gas russo ad essere stata molto commentata dall’inizio della guerra in Ucraina.

Si tratta di relativizzare il carattere presumibilmente periferico – e quindi trascurabile, nel gioco geopolitico e negli scambi economici – dell’Europa centrale rispetto all’Europa occidentale. Sull’importanza degli scambi economici (ineguali) tra i Paesi di Visegrad e i loro vicini europei, si può fare riferimento a Thomas Piketty, “2018, the year of Europe” (16 gennaio 2018).

La Polonia sta lottando ancora oggi con la crudele eredità della Seconda guerra mondiale. Dopo di essa, abbiamo perso la nostra indipendenza, la nostra libertà e più di 5 milioni di cittadini. Le città polacche erano in rovina e oltre mille villaggi furono brutalmente pacificati. Mentre la Germania occidentale ha potuto svilupparsi liberamente, la Polonia ha perso 50 anni del suo futuro a causa della Seconda guerra mondiale.

Non voglio soffermarmi troppo su questo punto nel mio discorso, ma non posso nemmeno evitarlo.

La Polonia non ha mai ricevuto dalla Germania un risarcimento per i crimini della Seconda guerra mondiale, per la distruzione e il furto dei tesori della cultura nazionale.

Dopo tutto, la piena riconciliazione tra l’autore di un crimine e la sua vittima è possibile solo quando c’è un risarcimento. In questo momento cruciale della storia europea, abbiamo bisogno di questa riconciliazione più che mai, perché le sfide che dobbiamo affrontare sono serie.

La storia dell’Europa, con la sua ferita più grande – la Seconda guerra mondiale – ha gettato il mio Paese, come molti altri, dietro la cortina di ferro per quasi mezzo secolo.

Io e i miei coetanei siamo cresciuti, siamo andati a scuola, abbiamo lavorato e studiato all’ombra dei crimini comunisti.

Milioni di giovani europei che vivevano dietro la cortina di ferro sapevano che da una parte c’era la libertà e dall’altra il colonialismo russo; la sovranità per alcuni, la dominazione imperiale per altri.

Da un lato, l’agognata Europa libera. Dall’altra, un totalitarismo barbaro; una vita sotto il tallone della Russia sovietica. Se qualcuno ci avesse detto che saremmo vissuti per vedere la fine del comunismo, non ci avremmo creduto, così come la maggior parte degli esperti occidentali sulla Russia sovietica.

Eppure è successo! Solidarność, la guerra in Afghanistan, Papa Giovanni Paolo II e la ferma posizione degli Stati Uniti nell’era Reagan hanno portato alla caduta del comunismo criminale.

Era arrivato il tempo della democrazia.

Oggi vorrei sottolineare il ruolo della sovranità dello Stato nazionale nel mantenere la libertà delle nazioni. La lotta delle nazioni schiavizzate dell’Europa centrale fu, in sostanza, una lotta per la sovranità nazionale.

Questo tema ha unito tutti i patrioti al di là dello spettro politico, perché eravamo convinti che i nostri diritti e le nostre libertà potessero essere salvaguardati solo nel contesto di Stati sovrani riconquistati.

Con questo richiamo storico, Morawiecki segue la “politica storica” sostenuta dal PiS, che consiste nel difendere la “visione polacca” della storia per rivendicare la grandezza morale in opposizione ai suoi vicini, soprattutto la Germania. Ciò si è recentemente riflesso nelle richieste del governo polacco alla controparte tedesca di riparazioni di guerra per le immense perdite umane e materiali causate dal Terzo Reich alla Polonia durante la Seconda guerra mondiale. Su questa spinosa questione, che il governo tedesco ha liquidato come giuridicamente chiusa, si veda Mateusz Piątkowski, “The legal questions behind Poland’s claim for war reparations from Germany” (Note dalla Polonia, 9 settembre 2022).

Morawiecki presenta inoltre, secondo le interpretazioni apprezzate dal suo schieramento politico, ossia la destra nazionalista e anticomunista, l’esperienza comunista in Polonia come una semplice occupazione sovietica, di fronte alla quale la società polacca si sarebbe sollevata nel suo complesso per poi liberarsi grazie alle mobilitazioni (Solidarność, Giovanni Paolo II) e al sostegno americano (Reagan). Questa visione semplicistica di una storia più complessa affonda le sue radici anche in una storia personale: il padre di Mateusz, Kornel Morawiecki (1941-2019), è stato una figura importante dell’opposizione anticomunista, fondando in particolare l’organizzazione clandestina “Solidarność Walcząca” (“Solidarietà Combattente”) a Breslavia nel 1982, durante lo stato di guerra, dopo che il sindacato Solidarność era stato messo al bando e i suoi leader arrestati.

È in virtù di questa eredità storica, quella di una nazione che ha lottato per tutta la sua storia per l’indipendenza, in particolare contro il totalitarismo nazista e sovietico nel XX secolo, che Morawiecki presenta lo Stato-nazione non solo come caro ai polacchi, ma anche come il principale garante della democrazia di fronte alle tentazioni imperialiste, un argomento che poi sviluppa in relazione all’Unione Europea.

Sulla politica storica in Polonia, rimandiamo a Valentin Behr, “Genèse et usages d’une politique publique de l’histoire. La ‘politique historique’ en Pologne”, Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 46, n. 3, 2015, nonché al dossier coordinato da Frédéric Zalewski, “La ‘politique historique’ en Pologne. La mémoire au service de l’identité nationale”, Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 1, n. 1, 2020.

E avevamo ragione. Questo è stato particolarmente evidente nei periodi di crisi sociale ed economica. Anche durante la recente crisi del COVID-19, abbiamo visto che Stati nazionali efficaci sono essenziali per proteggere la salute dei cittadini.

In precedenza, durante la crisi del debito, abbiamo assistito a un chiaro conflitto tra i Paesi dell’Europa meridionale, Grecia, Italia e Spagna, e le istituzioni sovranazionali che prendevano decisioni economiche per loro conto senza un mandato democratico.

In entrambi i casi, abbiamo riscontrato i limiti della governance sovranazionale in Europa.

In Europa, niente potrà garantire la libertà delle nazioni, la loro cultura, la loro sicurezza sociale, economica, politica e militare meglio degli Stati nazionali. Altri sistemi sono illusori o utopici.

Possono essere rafforzati da organizzazioni intergovernative e anche parzialmente sovranazionali, come l’Unione Europea, ma gli Stati nazionali europei non possono essere sostituiti.

Menzionando la crisi del debito sovrano e la crisi di Covid-19 nella sua professione di fede in un’Europa delle nazioni, Mateusz Morawiecki sembra dimenticare di sfuggita gli ingenti fondi di recupero istituiti a livello europeo per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia. Il versamento di questi fondi alla Polonia è stato oggetto di un braccio di ferro con la Commissione europea, che ha cercato di usarli come leva per indurre il governo polacco a fare marcia indietro su alcune riforme del sistema giudiziario, accusate di minare lo Stato di diritto. Più fondamentalmente, la sua denuncia di “istituzioni sovranazionali” che operano “senza un mandato democratico” solleva l’annosa e ricorrente questione del rispetto da parte degli Stati membri dei trattati che hanno firmato e ratificato – in particolare con un referendum quando la Polonia ha aderito all’Unione Europea nel 2004. Questo tema è al centro del resto del discorso, quando si parla di valori europei e del futuro dell’Unione.

L’Europa è nata molto prima della Repubblica americana, la cui unità è stata forgiata anche attraverso la guerra civile. Ecco perché è fuorviante fare riferimento a questa analogia storica.

Qualsiasi sistema politico che non rispetti la sovranità altrui, la democrazia o la volontà fondamentale della nazione, prima o poi porta all’utopia o alla tirannia.

È stata l’Europa cristiana a dare vita a una civiltà più rispettosa della dignità umana di qualsiasi altra. Questa civiltà merita di essere protetta. Soprattutto di fronte a civiltà dal cuore duro e sempre più forti, per le quali i valori democratici e liberali non hanno alcuna importanza. Vogliamo costruire un’Europa forte per affrontare le sfide globali del XXI secolo.

Sono le dimensioni dell’Unione europea a renderla una forza significativa nel mondo, non il suo sistema decisionale sempre più incomprensibile. Abbiamo bisogno di un’Europa forte grazie ai suoi Stati nazionali, non di un’Europa costruita sulle loro rovine. Un’Europa del genere non sarà mai forte, perché il potere politico, economico e culturale dell’Europa deriva dall’energia vitale fornita dagli Stati nazionali.

Le alternative sono o un’utopia tecnocratica, che alcuni a Bruxelles sembrano prospettare, o un neo-imperialismo, già screditato dalla storia moderna.

La lotta delle nazioni europee per la libertà non si è conclusa nel 1989. Il nostro confine orientale ne è la migliore testimonianza.

2. Vorrei ora soffermarmi su una questione di vitale importanza per l’Europa: l’Ucraina.

Discuterò l’importanza della lotta dell’Ucraina dal punto di vista dei nostri comuni valori europei. Inoltre, esporrò le conclusioni che dovremmo trarre.

Per cosa combattono davvero gli ucraini oggi? Per cosa sono disposti a rischiare la vita? Perché non si sono arresi immediatamente al secondo esercito più potente del mondo?

La lotta ucraina per il diritto all’autodeterminazione nazionale è un’altra eroica manifestazione di difesa dello Stato nazionale e della libertà. Ma per avere la volontà di combattere, bisogna credere davvero in ciò per cui si combatte.

Oggi gli ucraini non combattono solo per la propria libertà. Dal 24 febbraio 2022, combattono quotidianamente anche per la libertà di tutta l’Europa. Ed è anche il nostro futuro che dipende dall’esito di questa guerra. La sconfitta dell’Ucraina sarebbe la sconfitta dell’Occidente. Anzi, dell’intero mondo libero. Una sconfitta più grande di quella del Vietnam. Dopo una tale sconfitta, la Russia tornerebbe a colpire impunemente e il mondo come lo conosciamo cambierebbe radicalmente. Seguirebbe una lunga serie di pericolose incursioni nell’ignoto. La sconfitta del mondo libero probabilmente incoraggerebbe Putin, proprio come l’acquiescenza degli anni Trenta incoraggiò Hitler.

Morawiecki descrive la lotta ucraina contro gli invasori russi come una lotta civile e politica, con implicazioni che vanno oltre questo conflitto: Gli ucraini stanno combattendo “per la nostra libertà e per la vostra”, per citare uno slogan polacco (“za wolność naszą i waszą”) formulato nel XIX secolo durante le insurrezioni antitsariste, poi ripreso dai combattenti polacchi durante la Seconda guerra mondiale, e che dal 24 febbraio 2022 è tornato di attualità, in particolare nei discorsi ufficiali polacchi e ucraini.

Al di là del simbolismo, si riferisce anche a un immaginario collettivo diffuso nelle società dell’Europa centrale e orientale che temono di essere sacrificate dagli alleati occidentali alla Russia: è il mito di Yalta come “tradimento degli alleati”, da cui le molteplici associazioni nel discorso di Mateusz Morawiecki tra Putin, Hitler e Stalin.

Anche Putin, come Hitler all’epoca, gode di un enorme sostegno pubblico. Non è esagerato dire che siamo di fronte alla minaccia di una terza guerra mondiale. Per evitare questo esito, dobbiamo smettere di alimentare la bestia.

La storia si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

Quando i nostri figli leggeranno i libri di scuola, si chiederanno se abbiamo fatto abbastanza per garantire loro un futuro di pace. Abbiamo pensato a loro e al bene a lungo termine dei nostri Paesi o solo alla comodità a breve termine e a rimandare le decisioni difficili a dopo?

Abbiamo imparato dagli errori del passato o continueremo a ripeterli?

Ecco alcune osservazioni su questo punto:

2.1 Perché l’Ucraina è un punto di svolta nella storia europea?

Fino al 24 febbraio avevo sentito dire che Putin non avrebbe attaccato l’Ucraina.

Molti politici europei hanno preferito credergli, sperando che fosse possibile continuare il “Wandel durch Handel” con la Russia a spese dell’Europa centrale.

In questo contesto, torniamo alla domanda: perché gli ucraini combattono? Se fossero interessati solo ai beni materiali e non fossero uniti dal senso di comunità, si sarebbero arresi molto tempo fa.

È su questo che Putin contava. Pensava che gli ucraini avrebbero scelto la pace piuttosto che la libertà. Ma si sbagliava. Qual è stato l’errore del Cremlino? Putin non è un pazzo, come molti di coloro che hanno fatto affari con lui negli ultimi 20 anni vorrebbero far credere. Putin è stato accecato dalla sua visione del mondo. Non ha capito che gli ucraini erano una nazione.

E ora che finalmente hanno il loro Stato nazionale – anche se è tutt’altro che perfetto – sono disposti a sacrificare le loro vite per esso.

La propaganda russa sostiene che non esiste una nazione ucraina separata. Conosciamo tutti il detto: “se i fatti non corrispondono alla teoria, cambia i fatti”. Ecco perché la Russia sta cercando di spiegare agli ucraini, con la forza, che non hanno diritto a un’identità nazionale.

Eppure, sono i nipoti dei soldati che oggi rischiano la vita per un’Ucraina libera che un giorno diranno con orgoglio a scuola: “Mio nonno ha combattuto vicino a Kherson!”, “E i miei hanno respinto l’assalto a Kiev!”, o “Mio nonno è morto a Mariupol”.

E i soldati di oggi, questi futuri nonni, sanno che stanno combattendo anche perché i loro nipoti possano vivere in un Paese libero. Ricordiamo: Una nazione è una comunità di vivi, morti e non nati.

Oggi l’Europa è testimone di crimini commessi in nome di un’ideologia antinazionale. Questo è ciò che motiva Putin: la volontà di eliminare tutte le differenze, di distruggere tutte le identità nazionali e di fonderle nel grande impero russo.

La propaganda russa non ha mai smesso di accusare falsamente gli ucraini di fascismo.

Questo è esattamente ciò che disse Stalin: “Chiamate i vostri avversari fascisti o antisemiti”. È sufficiente ripetere questi epiteti abbastanza spesso.

Bisogna dirlo chiaramente: un fascista è qualcuno che vuole distruggere altre nazioni. È qualcuno che viola i diritti umani e calpesta la dignità umana. Il fascista oggi è Vladimir Putin e tutti i complici dell’aggressione russa. Come europei, abbiamo il dovere di opporci al fascismo russo. Questa è l’identità europea.

Ora…

2.2 Quali lezioni possiamo trarre dalla guerra in Ucraina?

Gli ucraini di oggi ci ricordano cosa dovrebbe essere l’Europa. Ogni europeo ha diritto alla libertà e alla sicurezza individuale. Ogni nazione ha il diritto di prendere decisioni fondamentali sul futuro del proprio territorio.

La democrazia può essere attuata a livello comunale, regionale o nazionale, ovunque vi siano legami basati su un’identità comune. Pertanto, una votazione in cui 140 milioni di russi votassero “a favore” dell’incorporazione dell’Ucraina alla Russia e 40 milioni di ucraini votassero “contro” non sarebbe democratica, no?

Quali altre lezioni si possono trarre da oltre un anno di guerra in Ucraina? Una cosa mi è chiara: la politica di “fare accordi” con la Russia è fallita.

Chi per decenni ha voluto un’alleanza strategica con la Russia e ha reso i Paesi europei dipendenti da essa per l’energia, ha commesso un terribile errore. Coloro che hanno messo in guardia dall’imperialismo russo e hanno ripetutamente affermato che non ci si poteva fidare della Russia avevano ragione.

Coloro che per molti anni hanno finanziato i preparativi bellici della Russia, disarmato l’Europa e imposto ai più deboli una partnership con la Russia, sono corresponsabili politicamente della guerra in Ucraina e degli attuali problemi economici ed energetici di centinaia di milioni di europei.

Putin si è comportato come uno spacciatore che dà la prima dose gratis, sapendo che il tossicodipendente tornerà più tardi e accetterà qualsiasi prezzo. Putin è astuto, ma non è brillante. Se l’Europa ha ceduto a lui così facilmente, è soprattutto a causa della sua debolezza.

Questa debolezza è il perseguimento di interessi particolari a spese di altri Paesi.

Se le singole nazioni dell’Unione Europea cercano di dominare le altre, l’Europa rischia di ricadere negli stessi errori del passato. E tutte le decisioni prese per fermare l’aggressore russo possono essere nuovamente ribaltate. Questo accadrà se alcuni dei Paesi più grandi decideranno che per le loro élite è più redditizio fare affari con il Cremlino, anche a costo del sangue. Oggi è il sangue ucraino. Domani potrebbe essere sangue lituano, finlandese, ceco, polacco, ma anche tedesco o francese… Dobbiamo evitare che questo accada”.

Morawiecki sviluppa qui il nucleo della sua argomentazione sul conflitto in Ucraina, presentando il punto di vista di un leader dell’Europa centrale per il quale la guerra riflette e deriva dalla cecità dei principali leader europei nei confronti della Russia di Putin.

La politica precedentemente denunciata del Wandel durch Handel (o “commercio morbido”), che si basa sullo scambio economico per provocare un cambiamento politico nei regimi autoritari, ha i suoi limiti in questo caso. Se la dipendenza di diverse economie europee dal gas russo riguarda anche la Polonia e i Paesi dell’Europa centrale, i gasdotti del Mar Baltico che collegano la Germania direttamente alla Russia (NordStream) hanno dato l’impressione che gli Stati dell’Europa centrale e orientale siano stati sacrificati agli interessi economici tedeschi. Ciò convalida tragicamente gli avvertimenti di lunga data di diversi leader politici della regione, compresi quelli del PiS.

Oggi, 3. Queste lezioni dovrebbero indurci a porre la domanda fondamentale: quali sono i valori europei e cosa li minaccia? Mi concentrerò ora su questa terza “grande domanda”.

In termini di prosperità materiale, viviamo nei tempi migliori. Ma questa prosperità ha ucciso il nostro spirito? Ci interessa ancora ciò per cui viviamo? Saremmo pronti a difendere le nostre case, i nostri cari, la nostra nazione, se venissero attaccati?

Questa tensione tra il regno dello spirito e quello della materia non è nuova. Dopotutto, ci troviamo nell’università in cui Hegel era professore. In letteratura, pochi hanno affrontato questo problema come il grande Thomas Mann, “la coscienza della Germania” all’epoca dei crimini nazisti tedeschi. Gli eroi di Mann aspirano a un significato più alto della vita, non solo all’accumulo di beni e al loro consumo.

Negli ultimi decenni, molti europei sono arrivati a credere che il consumo, cosparso di affermazioni superficiali sui “valori europei”, sia la fase finale della storia. Noi ci opponiamo a questo approccio. Colpire gli altri con la frusta dei “valori europei” senza concordare sulla loro definizione o capire quali cambiamenti devono essere apportati dagli Stati europei è autodistruttivo, nel senso di Thomas Mann.

In passato, il simbolo dell’Europa era l’antica agorà. Un luogo in cui ogni cittadino poteva esprimersi su un piano di parità. Oggi l’agorà europea è troppo spesso sostituita dagli uffici delle istituzioni di Bruxelles, dove le decisioni vengono prese a porte chiuse.

Come disse una volta un politico europeo a proposito del meccanismo delle istituzioni europee: “Decretiamo qualcosa… Se non ci sono proteste perché la maggior parte delle persone non capisce cosa è stato attuato, continuiamo passo dopo passo – fino al punto di non ritorno”.

La strada per trasformare l’UE in un’autocrazia burocratica è breve.

Oltre alle nuove circostanze geopolitiche, si sta decidendo anche il destino dell’Unione europea. Sarà una comunità democratica o una macchina burocratica e una struttura centralizzata?

La politica è sempre una questione di scelte. Ma questa scelta deve essere fatta alle urne, non nell’intimità degli uffici dei burocrati. Vogliamo davvero un’élite cosmopolita paneuropea con un potere immenso ma senza mandato elettorale?

Il discorso si orienta verso il dibattito sui “valori europei”, che è valso alle cosiddette democrazie “illiberali” di Polonia e Ungheria una procedura di infrazione contro lo Stato di diritto, avviata ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea (TUE). Mateusz Morawiecki denuncia questa procedura, criticando al contempo un’élite “cosmopolita” e burocratica, in un filone simile a quello di altri discorsi euroscettici. La sua argomentazione riecheggia quella del filosofo Ryszard Legutko, europarlamentare del PiS, il cui libro The Demon in Democracy. Totalitarian Temptations in Free Societies (Encounter Books, 2016; tradotto in francese come Le diable dans la démocratie. Totalitarian Temptations in the Heart of Free Societies, Éditions de l’Artilleur, 2021) è stato ampiamente diffuso nelle reti conservatrici internazionali, in Europa e negli Stati Uniti.

Metto in guardia tutti coloro che vogliono creare un superstato governato da una ristretta élite. Se ignoriamo le differenze culturali, il risultato sarà l’indebolimento dell’Europa e una serie di rivolte, forse anche una nuova Primavera delle Nazioni come quella del 1848.

All’epoca, i tedeschi fecero un notevole sforzo per costruire uno Stato unito e moderno. Dovettero aspettare vent’anni per ottenere risultati politici, ma furono vittoriosi. Oggi ci troviamo di fronte a un dilemma simile. Se i leader europei, come gli aristocratici di Metternich dell’epoca, preferiscono il potere elitario e l’imposizione dei loro valori dall’alto, alla fine incontreranno resistenza. Può arrivare prima o poi, ma è inevitabile.

Vale la pena tornare alla domanda di fondo: quali sono i valori europei?

E soprattutto: cos’è l’Europa? La sua storia non è iniziata qualche decennio fa. L’Europa ha più di due millenni. L’Europa si nutre dell’eredità degli antichi greci, dei romani e del cristianesimo. Queste sono le nostre radici, da cui cresciamo e da cui non possiamo staccarci.

Morawiecki promuove una visione dell’Europa come civiltà, una base culturale comune con una storia secolare. Ciò fa eco a una critica della storia ufficiale europea diffusa in Europa centrale, che viene criticata per aver presentato una storia che sopravvaluta l’eredità dell’Illuminismo e stigmatizza le nazioni, a scapito dell’eredità dell’antichità greco-romana e del cristianesimo. Cfr. Piattaforma della Memoria e della Coscienza Europea, “La Casa della Storia Europea. Relazione sull’esposizione permanente”, 30 ottobre 2017.

Una visione simile dell’Europa come identità e patrimonio culturale si ritrova nella destra conservatrice. Pur non essendo una novità, si tratta di una concezione dell’Europa su cui il governo polacco cerca di basare la sua visione di un’Europa delle nazioni, in contrapposizione a un’Europa federale. Si possono citare le riflessioni dello storico belga David Engels, professore all’Instytut Zachodni di Poznan, tra cui il suo “Preambolo di una Costituzione per una Confederazione di Nazioni Europee”, nonché il libro da lui diretto: Renovatio Europae. Plaidoyer pour un renouveau hespérialiste de l’Europe, Éditions du Cerf, 2019.

Non c’è Europa senza cattedrali gotiche o edifici universitari. L’Europa ha sempre volato sulle ali della fede e della ragione. E il modello di istruzione universitaria creato in Europa si è diffuso in tutto il mondo.

Questo è accaduto perché l’università europea era uno spazio di discussione e di confronto tra idee opposte, l’ambiente più favorevole alla scoperta della verità.

In Europa non dovrebbe esserci spazio per la censura o l’indottrinamento ideologico. Lo abbiamo già sperimentato in passato, quando le autorità comuniste ci dicevano cosa pensare. Lo hanno sperimentato anche i tedeschi ai tempi di Hitler, quando i libri degli autori liberi di pensare venivano bruciati.

L’Europa dovrebbe essere una cattedrale del bene e un’università della verità.

Anche in questo caso, va sottolineato che i vari divieti, le decisioni arbitrarie su ciò che può o non può essere presentato all’interno delle mura universitarie e la correttezza politica minano l’eterna missione dell’accademia, ossia la ricerca della verità.

Anche in questo caso ritroviamo una retorica comune alla destra e all’estrema destra, intorno alla denuncia della “correttezza politica” e, più recentemente, del “wokismo”, che costituirebbero minacce alla libertà di espressione, messe qui sullo stesso piano degli autodafé nazisti. A parte la grossolana esagerazione, va notato che, ironia della sorte, sono proprio i governi polacco e ungherese ad aver messo in atto politiche che hanno portato alla riduzione delle opportunità di espressione per i gruppi minoritari (in particolare LGBT) e ad aver condotto campagne contro l'”ideologia di genere”, in particolare nell’istruzione superiore. Si veda David Paternotte e Mieke Verloo, “De-democratization and the Politics of Knowledge: Unpacking the Cultural Marxism Narrative”, Social Politics: International Studies in Gender, State & Society, vol. 29, n. 3, 2021.

Inoltre, questi discorsi hanno alcune convergenze con quelli di Vladimir Putin, che viene eretto a eroe “anti-sveglio” celebrato da una parte della destra trumpista americana. L’argomentazione di Morawiecki a favore dei valori europei “democratici” e “liberali” trova qui i suoi limiti pratici, poiché l’ideologia nazional-conservatrice del suo schieramento politico è l’antitesi dei valori europei, come definiti nell’articolo 2 del TUE: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Così come proteggiamo il nostro patrimonio materiale, dovremmo proteggere anche il nostro patrimonio spirituale, che consiste in decine di tradizioni culturali e linguistiche diverse. La forza dell’Europa nel corso dei secoli è stata la sua diversità. Condividiamo valori comuni, ma ogni nazione ha la propria identità.

Gleichschalten, uravnilovka, è una strada che non porta da nessuna parte.

Germania e Francia sono due attori centrali in Europa.

Nei 75 anni tra il 1870 e il 1945 hanno combattuto tre guerre e solo dopo l’ultima si sono riconciliate.

Questa riconciliazione sta ora dando i suoi frutti nella speciale relazione politica tra Berlino e Parigi. Questa particolare sensibilità reciproca alle logiche e alle sensibilità delle due capitali è nata da un passato tragico.

Nell’interesse dell’equilibrio europeo, ma anche a causa di un passato molto più tragico, è necessario lo stesso modello di sensibilità reciproca alle logiche e agli interessi di Varsavia. Oggi, a Varsavia non avvertiamo questa sensibilità.

Le basi per questa riconciliazione sono state gettate da due grandi europei, Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Entrambi volevano costruire una pace duratura in Europa.

Essi compresero che il rispetto reciproco e la conoscenza delle radici dell’altro erano i presupposti per la cooperazione. Il Cancelliere Adenauer disse: “Se ora ci allontaniamo dalle fonti della nostra civiltà europea, nata dal cristianesimo, è impossibile per noi non fallire nei nostri sforzi di ricostruire l’unità della vita europea. Questo è l’unico modo efficace per mantenere la pace”.

Anche il generale de Gaulle era profondamente consapevole del grande patrimonio culturale dell’Europa e degli orrori della “guerra interna”. De Gaulle disse: “Dante, Goethe, Chateaubriand appartengono all’Europa in quanto erano rispettivamente ed eminentemente italiani, tedeschi e francesi. Non sarebbero stati molto utili all’Europa se fossero stati apolidi e se avessero pensato e scritto in una sorta di Esperanto o Volapük.

La nostra identità di base è l’identità nazionale. Io sono europeo perché sono polacco, francese o tedesco, non perché rinnego la mia poligonalità o germanizzazione.

L’odierno tentativo europeo di eliminare questa diversità, di creare un uomo nuovo, sradicato dalla sua identità nazionale, equivale a tagliare le radici e a segare il ramo su cui siamo seduti.

Attenzione: possiamo cadere facilmente – culture forti e dure dittature in altre parti del mondo non aspettano altro. Sarebbero certamente felici di vedere l’Europa cadere nell’insignificanza.

Vorremmo che tutti gli europei dimenticassero le loro lingue e parlassero solo il Volapük? Io non lo vorrei.

Alcuni cercano di negare il contributo dell’Europa allo sviluppo del mondo perché vedono solo il lato oscuro della storia. In effetti, i Paesi responsabili dello sfruttamento, del colonialismo, dell’imperialismo e di crimini terribili – come il nazismo tedesco e il comunismo russo, come i crimini commessi nelle colonie – devono fare ammenda per il proprio passato.

Questo fa parte del nostro DNA europeo: la ricerca della verità e della giustizia. Ma l’Europa storica non è solo fonte di vergogna per noi. Lo sviluppo scientifico e la straordinaria prosperità di oggi sono, si potrebbe dire, il frutto dell’Europa.

La via da seguire per l’Europa non è nemmeno la “mondializzazione politica”. Essa deve basarsi sulla propria diversità. Il tentativo di unificare artificialmente l’Europa in nome dell’abolizione delle differenze nazionali e politiche porterà in pratica al caos e al conflitto tra gli europei.

È la cooperazione combinata con la competizione il modo migliore per l’Europa di avere successo nel mondo globale.

Milioni di persone provenienti da tutto il mondo visitano ogni anno Parigi, Roma, Colonia, Madrid, Cracovia, Londra o Praga. La ricchezza di queste belle città e il loro potere di attrazione risiedono nel fatto che ognuna di esse ha una propria identità.

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Non vogliamo un’Europa che dia un ultimatum: rinunciate volontariamente alla vostra nazionalità o eserciteremo su di voi ogni tipo di pressione politica ed economica.

La Polonia ha accolto milioni di rifugiati negli ultimi mesi. Gli ucraini hanno trovato rifugio da noi. La nostra concezione dei valori europei comprende certamente il sostegno al vicino in difficoltà. Tuttavia, abbiamo ricevuto solo un aiuto minimo. In questo contesto, vediamo differenze di trattamento tra Paesi che si trovano nella stessa situazione, il che è la definizione stessa di discriminazione.

Mentre la Polonia è stata in prima linea nel fornire armi all’Ucraina e nell’accogliere i rifugiati ucraini, il che ha contribuito ad appianare le sue divergenze con la Commissione europea, l’Ungheria di Viktor Orban sta lottando per prendere le distanze da Putin. L’enfasi posta da Mateusz Morawiecki sull’accoglienza dei rifugiati ucraini in Polonia non deve far dimenticare che, pochi mesi prima dello scoppio della guerra in Ucraina, il governo polacco si era fatto un nome per la sua intransigenza poco ospitale (e poco cristiana, si sarebbe tentati di aggiungere) quando i rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa centrale si ammassavano al confine tra Polonia e Bielorussia.

Vietando l’accesso ai media e alle ONG nella zona di confine – le stesse ONG che ora svolgono un ruolo centrale nell’accoglienza dei rifugiati ucraini – e praticando il metodo del “respingimento”, il governo polacco si è posto ancora una volta in contrasto con i trattati europei. Alla luce di questa politica dei rifugiati a due livelli, che distingue tra europei e non europei, cristiani e musulmani, il seguente passaggio sulla “discriminazione” di cui la Polonia sarebbe vittima è indecente.

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La Polonia subisce questa discriminazione anche a causa di una totale mancanza di comprensione delle riforme che un Paese emergente dal post-comunismo doveva intraprendere; a causa del coinvolgimento delle istituzioni europee nei conflitti interni di uno Stato membro con lo slogan di “difendere lo Stato di diritto”.

Vorrei sottolineare che in Polonia abbiamo la stessa concezione del termine “Stato di diritto” che abbiamo in Germania. E ci sono poche cose di cui sono sicuro come il fatto che il mio schieramento politico difende il vero Stato di diritto in misura molto maggiore rispetto ai primi 25 anni dopo il 1989.

Combatte contro l’oligarchia, contro il dominio delle corporazioni professionali chiuse, contro la povertà e contro la corruzione. Protegge la Polonia da questi mali. Ma poiché questo non è l’argomento principale della mia discussione, mi fermo qui.

Morawiecki giustifica qui le famose riforme del sistema giudiziario e della magistratura che sono valse alla Polonia una procedura di infrazione dello Stato di diritto.

Possiamo ricordare brevemente le principali misure adottate dal governo polacco dal 2015, che sono tutt’altro che aneddotiche poiché minano la separazione dei poteri: nomine di fedelissimi del PiS alla Corte costituzionale; nomina di membri del Consiglio giudiziario nazionale (competente per la nomina dei giudici) sotto il controllo del Parlamento; pensionamento forzato dei giudici della Corte suprema; licenziamento di oltre 150 presidenti e vicepresidenti di tribunale da parte del ministro della Giustizia; istituzione di una nuova camera disciplinare per i giudici della Corte suprema, i cui membri sono selezionati dal Consiglio nazionale della magistratura; avvio di procedimenti disciplinari contro i giudici che applicano alcune disposizioni del diritto europeo o che sottopongono questioni preliminari alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE).

La CGUE ha ripetutamente condannato queste riforme, che continuano a essere utilizzate per trasferire o licenziare i giudici. Cfr. Johannes Vöhler, “I ‘casi polacchi’ e la giurisprudenza sullo Stato di diritto della Corte di giustizia dell’Unione europea”, Europa dei diritti e delle libertà, marzo 2022/1, n. 5.

Inoltre, recenti sentenze della Corte costituzionale hanno stabilito che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il Trattato sull’Unione europea sono solo parzialmente compatibili con la Costituzione polacca. Questa sfida al principio del primato del diritto dell’UE mina la struttura giuridica su cui si fonda l’integrazione europea.

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In un senso più profondo, il conflitto odierno è tra sovranità statale e sovranità istituzionale; tra il potere democratico del popolo alla base e l’imposizione del potere dall’alto da parte di una ristretta élite.

Nei duemila anni di esistenza dell’Europa, nessuno è mai riuscito a subordinare politicamente l’intero continente. Non funzionerà nemmeno oggi.

La visione di un’Europa centralizzata finirà esattamente come il concetto di fine della storia annunciato 30 anni fa. Prima ci allontaniamo da questa visione e accettiamo la democrazia come fonte legittima di potere in Europa, migliore sarà il nostro futuro.

A proposito, non c’è nessuna fine della storia. La storia accelera e porta sfide di proporzioni illimitate.

L’opposizione tra la sovranità degli Stati e quella delle istituzioni europee, tra il voto democratico del popolo e l’élite cosmopolita, riflette una concezione minimalista della democrazia, come quella difesa da Viktor Orban. Una democrazia puramente formale in cui conta solo la volontà della maggioranza espressa attraverso le elezioni, senza pesi e contrappesi, senza gerarchie di norme e senza libertà fondamentali che possano essere opposte alla volontà dei governanti che, in questa concezione della democrazia, non hanno nulla che impedisca loro di trasformarsi in tiranni.

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Purtroppo, gran parte dell’attuale élite europea opera in una realtà alternativa.

Se le élite dell’UE si ostinano a difendere la visione di un superstato centralizzato, saranno contrastate da un numero maggiore di nazioni europee. Quanto più si ostinano, tanto più feroce sarà la ribellione. Non voglio polarizzazione, divisione e caos; voglio un’Europa forte e competitiva.

4. Passiamo ora all’ultima grande questione: come può l’Europa diventare un polo importante nella corsa alla leadership globale?

Innanzitutto, le politiche dell’Unione devono cambiare. Non nella direzione di una maggiore centralizzazione e di un trasferimento di potere a poche istituzioni chiave e ai Paesi più forti, ma verso il rafforzamento dell’equilibrio di potere tra i popoli del Nord, dell’Ovest, del Centro, dell’Est e del Sud dell’Europa, e per completare l’integrazione dell’UE con i Balcani occidentali, l’Ucraina e la Moldavia, in linea con i confini geografici dell’Europa.

È necessario chiedersi: quanto seriamente prendiamo la questione della costruzione di un’Unione europea forte e influente?

Oggi l’europeismo si esprime nella visione dell’allargamento, non nell’attenzione a noi stessi e alla centralizzazione dell’UE.

Curiosamente, i Paesi che amano presentarsi come europeisti e proporre un’integrazione ad alta velocità sono allo stesso tempo i più scettici nei confronti della politica di allargamento e giocano a poker politico.

Non dovremmo parlare dei valori che uniscono l’UE dividendo l’Europa in coloro che meritano di farne parte e coloro a cui è negato l’accesso.

Un mercato comune più ampio e la diversità delle sue risorse economiche ci renderebbero un forte attore globale.

Spesso sento dire che l’UE ha bisogno di riforme per allargarsi. Molto spesso si tratta di una proposta mascherata di federalizzazione e, di fatto, di centralizzazione.

Infatti, lo slogan della “federalizzazione” è una concentrazione del processo decisionale imposta dall’alto.

Secondo gli autori di questa centralizzazione chiamata “federalizzazione”, il processo decisionale deve passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata in una serie di nuovi settori. L’argomento a favore di questa soluzione è che sarà difficile ottenere l’unanimità di più di 30 Paesi.

È vero che è più difficile ottenere un parere unificato all’interno di un gruppo più ampio di Stati. Tuttavia, la domanda è: dobbiamo pensare che le decisioni debbano essere prese dalla maggioranza, contro gli interessi della minoranza?

Mateusz Morawiecki sostiene un riequilibrio geopolitico dell’Unione a favore degli Stati dell’Europa centrale e orientale, giustificato dalla guerra in Ucraina e dalla prospettiva (ancora molto ipotetica) di un’adesione di questi ultimi all’Unione. Questa posizione si accompagna a una messa in discussione dei progetti di federalizzazione (“centralizzazione”), come quelli avanzati da Scholz e Macron con l’idea di abbandonare il voto all’unanimità in alcuni settori – a favore di una concezione opposta, quella di un’Unione più intergovernativa, ancora una volta in nome della sovranità degli Stati nazionali, presumibilmente democratica.

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Ho un’altra proposta da fare: asteniamoci dall’invadere questioni in cui l’interesse nazionale rimane diviso. Facciamo un passo indietro per farne due avanti. Concentriamoci sui settori in cui il Trattato di Roma ha attribuito all’Unione la competenza e lasciamo che il resto sia guidato dal principio di sussidiarietà.

Da diversi decenni osserviamo il processo di “spill-over” delle competenze dell’UE in nuovi settori. In molti Stati membri viene valutato criticamente. Tuttavia, di recente ha subito un’accelerazione.

La questione della misura in cui gli Stati rimangono “padroni del trattato”, come ha detto una volta la Corte costituzionale di Karlsruhe, è ancora più rilevante oggi.

Pertanto, se l’UE vuole apportare modifiche al suo processo decisionale che abbiano legittimità democratica e permettano la fiducia reciproca, gli Stati membri devono riacquistare la loro piena autorità sui trattati.

Non possono abbandonare il potere decisionale al “quartier generale di Bruxelles” e alle “coalizioni di potere”.

In altre parole, rivediamo i settori di competenza di Bruxelles e, guidati dal principio di sussidiarietà, ripristiniamo un maggiore equilibrio. Più democrazia, più consenso, più equilibrio tra gli Stati e le istituzioni europee. Riduciamo il numero di aree di competenza dell’UE; allora l’Unione, anche con 35 Paesi, sarà più facile da navigare e più democratica.

Più centralizzazione significa più errori. È stato un errore non ascoltare le voci dei Paesi che avevano ragione su Putin. Questo dà potere a persone come Gerhard Schroeder, che ha reso l’Europa dipendente dalla Russia e ha messo l’intero continente a rischio esistenziale”.

Morawiecki si riferisce al ruolo svolto dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che, dopo la fine della sua carriera politica, ha assunto la direzione del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto NordStream ed è entrato nel consiglio di amministrazione della società russa Gazprom.

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Un esempio: solo pochi mesi fa, nel giugno 2021, si parlava di celebrare la riunione del Consiglio europeo con Vladimir Putin. Come se per allora non ci fosse stata alcuna azione aggressiva da parte della Russia. Dove saremmo senza l’opposizione di Polonia, Finlandia e Stati baltici? Se l’unanimità fosse stata rifiutata?

La politica estera polacca – in questo contesto – è decisa in elezioni democratiche dai cittadini polacchi – persone per le quali un vicino aggressivo è un problema reale. Non si tratta di persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza e che vedono la Russia solo attraverso il prisma delle opere di Pushkin, Tolstoj o Tchaikovsky.

Oggi non basta parlare di ricostruzione dell’Europa. Dobbiamo parlare di una nuova visione dell’Europa. In modo che la pace e la sicurezza diventino le basi sostenibili dello sviluppo nei decenni a venire.

Se gli ultimi mesi possono essere considerati un successo, è certamente grazie alla cooperazione nel campo della sicurezza.

La cooperazione transatlantica e la NATO in particolare hanno dimostrato di essere la più efficace alleanza di difesa disponibile. Senza il coinvolgimento degli Stati Uniti e – forse – della Polonia, l’Ucraina oggi non esisterebbe.

La NATO, che presto sarà rafforzata dall’adesione di Finlandia e Svezia, è essenziale per la sicurezza dell’Europa. Deve essere rafforzata e sviluppata. Allo stesso tempo, dobbiamo sviluppare le nostre capacità di difesa. Questo è ciò che sta facendo la Polonia. Stiamo costruendo un esercito moderno, non solo per difenderci, ma anche per aiutare i nostri alleati. Stiamo spendendo fino al 4% del PIL per la difesa, il che è possibile solo grazie alle riparazioni delle finanze pubbliche dopo i buchi lasciati dai nostri predecessori. E proponiamo che la spesa per la difesa non sia inclusa nel criterio del Trattato di Maastricht che prevede un limite del 3%.

L’Europa si è disarmata; oggi non ha le munizioni e le armi di base per rispondere all’invasione russa. Per non parlare di altre minacce che potrebbero sorgere altrove.

Il mio augurio per i Paesi europei è di essere così forti militarmente da non aver bisogno di aiuti esterni in caso di attacco, ma di poter fornire supporto militare ad altri.

Oggi non è così. Senza il coinvolgimento americano, l’Ucraina non esisterebbe più. E il Cremlino sarebbe passato alla sua prossima vittima.

Durante la “distensione” degli anni Settanta sono stati commessi molti errori. Quell’epoca finì con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’Occidente reagì correttamente. Questa volta, l’aggressione russa degli ultimi 20 anni non ha destato altrettanta preoccupazione. La sobrietà è arrivata tardi, il 24 febbraio 2022.

Ora, 4.1 cosa serve ancora per rafforzare la posizione dell’Europa?

Tutti ricordiamo lo slogan della campagna elettorale di Clinton: “È l’economia, stupido!”.

All’epoca, quasi tutti credevano che il denaro fosse un rimedio universale.

Anche in Paesi come la Russia e la Cina, il denaro avrebbe aiutato a sviluppare la classe media e a democratizzare la vita pubblica.

Le cose sono andate diversamente. Oggi sappiamo che l’economia deve andare di pari passo con i desideri sociali e le esigenze di sicurezza.

Molti dei problemi dell’Europa moderna derivano dalla frustrazione dei giovani, le cui prospettive future spesso non sono all’altezza di quelle dei loro genitori. La classe media si sta erodendo in tutta Europa. Un mondo in cui l’1% più ricco accumula più ricchezza del restante 99% è scandaloso. Ed è quello che sta accadendo oggi.

I paradisi fiscali, che sarebbe più corretto chiamare “inferni fiscali”, stanno derubando la classe media e i bilanci pubblici di Germania, Francia, Spagna e Polonia.

La forza dell’Europa deriva principalmente dalla sua base più solida, la sua robusta classe media. La convinzione che la prosperità e la crescita possano essere condivise non solo da un gruppo di ricchi, ma dall’intera società, è stata la forza trainante dello sviluppo occidentale fin dagli anni Cinquanta.

Purtroppo, questa convinzione sta scomparendo e le disuguaglianze stanno aumentando. Questa situazione è molto pericolosa perché, da un lato, rafforza i movimenti radicali che chiedono la distruzione dell’attuale struttura economica e politica. Dall’altro, scoraggia il lavoro e lo sviluppo.

Dobbiamo invertire questo processo. Perché rischiamo di perdere la corsa a favore dei nostri concorrenti, civiltà incallite e intransigenti che organizzano le relazioni sociali ed economiche in modo diverso.

Il nostro compito di politici è quello di garantire a tutti una vita onesta. Il mercato del lavoro europeo deve offrire salari dignitosi, facilitare l’ingresso dei giovani nella vita lavorativa e dare loro un senso di stabilità.

Dobbiamo anche creare le migliori condizioni possibili per la creazione di famiglie. Allora l’Europa avrà un futuro luminoso. Le famiglie ben funzionanti sono la base per una vita sana, felice e stabile.

Dobbiamo anche evitare che l’Europa diventi dipendente da altri. La cooperazione con la Cina è una grande sfida. È un Paese enorme con grandi ambizioni. L’Europa deve, come minimo, essere su un piano di parità con la Cina, il suo partner. La dipendenza dalla Cina è una strada che non porta da nessuna parte. È un obiettivo che l’Europa deve cercare di raggiungere con urgenza. Oltre alla vittoria dell’Ucraina, questa è un’altra grande sfida per gli anni a venire.

Non esistono errori che non possano essere corretti, almeno in parte. Quando sento che il nostro governo ha avuto ragione su Russia e Ucraina, sono soddisfatto. Ma scambierei volentieri anche il più grande senso di soddisfazione con la volontà europea di combattere.

Per una volontà politica ancora più forte – di continuare a sostenere l’Ucraina. E per la volontà di confiscare 400 miliardi di euro di beni russi. Congelarli non è sufficiente. La Russia deve rispondere dei suoi crimini e della distruzione materiale che ha causato. I brutali aggressori devono sapere che prima o poi il loro Paese pagherà per le perdite causate dalla violenza.

Oggi rivolgo un nuovo appello a tutti i leader europei: è tempo di confiscare i beni russi in modo totale e permanente. Ricostruire l’Ucraina e ridurre i costi energetici per i cittadini europei.

L’Europa è molto più forte della Russia. Ma oltre al nostro potenziale, dobbiamo avere la volontà di usarlo. Se lasciamo che la Russia vinca questa guerra, rischiamo di non perdere solo l’Ucraina. Rischiamo di emarginare l’intero continente.

La conclusione di fondo è semplice. Nel mondo contano solo i Paesi forti, efficienti e sicuri di sé. Putin ha attaccato l’Ucraina perché vedeva gli europei esausti, deboli e inattivi. Un anno dopo, vediamo che si sbagliava. Almeno in parte.

L’Europa non è ancora morta, finché vivremo. Ma non è ancora vittoriosa.

Il riferimento è all’inno nazionale polacco: “Jeszcze Polska nie zginęła, kiedy my żyjemy” (“La Polonia non è ancora morta, finché viviamo”).

↓INOLTRE
Signore e signori, all’inizio ho ricordato che anche molti polacchi si sono laureati all’Università di Heidelberg: medici, avvocati, filosofi. Uno di loro era il nostro grande poeta, Adam Asnyk. Nella primavera del 1871, proprio nel momento in cui stava nascendo la Germania unificata, anche Asnyk sognava di far rinascere una Polonia indipendente. Capì che i grandi compiti potevano essere portati a termine solo attraverso un lavoro paziente e sistematico, grazie allo sforzo collettivo di tutta la comunità. Scrisse:

“Disprezzate sempre la vana gloria trionfale,

non applaudire l’oppressore violento

Non venerate l’abbondanza delle vostre sconfitte,

né vantatevi di essere sempre piccoli”.

L’Europa deve dimostrare la sua forza e il suo valore. Questo è il nostro momento di “essere o non essere”. Ma, a differenza dell’Amleto di Shakespeare, non possiamo esitare. Nel 1844, quando la Germania assomigliava ancora alle rovine del castello di Heidelberg – imponente ma incompleto – il poeta tedesco Ferdinand Freiligrath ammoniva: “Deutschland ist Hamlet! I tedeschi esitano troppo invece di prendere una posizione chiara dalla parte del bene”.

Giovanni Paolo II è stato uno dei principali sostenitori dell’unificazione europea. Ha svolto un ruolo chiave nella liberazione delle nazioni europee. E insieme al suo grande successore tedesco, Benedetto XVI, questo singolare duo tedesco-polacco è stato una voce importante per il futuro dell’Europa – la sua direzione, la sua cultura e la sua civiltà.

Infine, permettetemi di riassumere le quattro questioni principali che sono state oggetto del mio discorso.

1. In primo luogo, non possiamo costruire il nostro futuro senza imparare dal nostro passato. La storia dimostra che una politica che non rispetta la sovranità e la volontà del popolo prima o poi si dissolve in utopia o dittatura. L’Europa ha un futuro luminoso se rispetta la diversità delle sue nazioni.

2. In secondo luogo, il futuro dell’Europa è determinato dalla lotta dell’Ucraina per la libertà e dal nostro sostegno. È nostro dovere sostenere l’Ucraina. Lo spirito combattivo degli ucraini deve essere una fonte di ispirazione e una guida per le nostre azioni.

3. In terzo luogo, una comunità democratica di nazioni, basata sull’eredità greca, romana e cristiana, che promuove la pace, la libertà e la solidarietà, è il fondamento dei valori europei. Questi valori hanno costituito la base dell’integrazione europea e possono continuare a essere la forza trainante del continente.

Ciò che minaccia di minare queste forze è la centralizzazione. Il dominio del più forte e l’affidamento arbitrario del futuro dell’Europa a una burocrazia senza cuore, che sta cercando di “resettare i valori”. Questo “reset”, cioè l’accentramento burocratico sotto l’apparenza della “federalizzazione”, è il seme dei grandi conflitti e delle ribellioni sociali che verranno.

4. In quarto luogo, se l’Europa vuole vincere la corsa alla leadership globale, deve trasformarsi. Deve essere pronta ad accettare nuovi Paesi ma anche, di fronte a una comunità più ampia, a limitare alcune delle sue competenze.

Di fronte alle minacce esterne, deve rafforzare le proprie capacità difensive. Di fronte alle sfide economiche e sociali, deve costruire una prosperità egualitaria e ordoliberale e lottare contro gli inferni fiscali mascherati da paradisi fiscali.

L’Europa deve mantenere alleanze solide, ma deve anche promuovere la propria indipendenza e non diventare vittima di ricatti energetici o economici.

Un tempo l’Europa era il centro del mondo, rispettata in tutti i continenti. Ci interessa ancora la sopravvivenza dell’Europa e della nostra civiltà? E non solo se sopravviveranno, ma in quale forma? Abbiamo la volontà di essere leader? O forse abbiamo già accettato di fare da secondo piano? Abbiamo il coraggio di far tornare grande l’Europa? Di rendere l’Europa vittoriosa?

Io credo di sì.

L’Europa ha un grande potenziale. Esso deriva dalla sua storia e dal suo patrimonio, ma oggi si estende alle sue innumerevoli qualità e vantaggi. L’Europa ha bisogno di determinazione e coraggio.

E sono profondamente convinto che se lavoreremo duramente – a nome delle nostre rispettive patrie e del continente nel suo complesso – l’Europa vincerà.

In conclusione, questo è il discorso di un capo di governo polacco la cui posizione nel gioco politico europeo sembra essere stata temporaneamente rafforzata dalla nuova situazione aperta dalla guerra in Ucraina.

Lo scoppio della guerra ha convalidato il punto di vista tradizionalmente diffidente del PiS nei confronti della Russia. La richiesta di un riequilibrio dei rapporti di forza tra gli Stati europei a favore dell’Europa centrale, e in particolare della Polonia, non nasconde il timore di un “accordo” tra i leader europei (guidati da Macron) e Putin, che ricorderebbe ai polacchi il “tradimento di Yalta”. Questo timore di vedere i Paesi dell’Europa centrale e orientale relegati ai margini e sacrificati a vantaggio delle potenze occidentali e russe dovrebbe farci interrogare sulla natura della costruzione europea e sul modo in cui essa integra questa periferia centro-orientale, che vi ha aderito quasi vent’anni fa. Per liberarci da una visione geopolitica ereditata dalla Guerra Fredda, dovremmo prendere sul serio le aspirazioni sovrane delle nazioni poste tra la Germania e la Russia. Questo è l’aspetto più rilevante, ma anche il più inquietante, del discorso di Morawiecki. Ciò non significa, tuttavia, che si debba aderire all’ideologia nazionalista, conservatrice, familista e nativista dell’autore, che è evidente in questo testo. È dubbio che il governo polacco sarà in grado di unire un’ampia coalizione di Stati europei attorno a un’agenda politica di questo tipo. Resta il fatto che l’attuale governo polacco si oppone fermamente a qualsiasi progresso verso un’Europa più federale e potrebbe coalizzare l’opposizione a tale processo, che riflette ancora una volta una certa paura di essere relegati in un’Europa a più velocità.

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L’Europa sarà vittoriosa!

Grazie per l’attenzione.

https://legrandcontinent.eu/fr/2023/03/26/le-projet-europeen-de-la-pologne/

Unità fragile: Perché gli europei si stanno unendo sull’Ucraina (e cosa potrebbe allontanarli), di Ivan Krastev e Mark Leonard

Sintesi
Un recente sondaggio multinazionale condotto dall’ECFR suggerisce che gli europei si sono avvicinati nel sostegno all’Ucraina.
Gli europei ora concordano sul fatto che la Russia è un loro avversario o rivale.
Tre fattori hanno favorito questo notevole avvicinamento: I successi ucraini nel primo anno di guerra; il modo in cui la guerra ha unito la destra e la sinistra politica; la percezione del ritorno di un Occidente forte guidato dagli Stati Uniti.
Ma questi fattori sono fragili e i leader europei dovrebbero essere cauti nel loro ottimismo.
I politici europei dovrebbero approfittare di questa unità per equipaggiare l’Ucraina, facendo al contempo tutto il possibile per mitigare le divisioni causate dal cambiamento delle circostanze all’interno e all’estero.
Introduzione
La saggezza convenzionale vuole che le guerre finiscano con i negoziati. Ma la loro fine è più spesso determinata dalle urne – o addirittura dai sondaggi di opinione. La mancanza di sostegno pubblico ha posto fine alla guerra americana in Vietnam, alla guerra francese in Algeria e, con la sconfitta di Slobodan Milosevic alle urne nel 2000, alle guerre nell’ex Jugoslavia. Gli alleati occidentali dell’Ucraina sono stati finora sorprendentemente uniti nel loro sostegno a Kiev. Ma Vladimir Putin spera sicuramente che l’opinione pubblica occidentale si rivolti, lasciando l’Ucraina a bocca asciutta.

Nel suo discorso sullo stato della nazione, pronunciato pochi giorni prima dell’anniversario dell’invasione dell’Ucraina, il presidente russo ha detto chiaramente che si sta preparando a una lunga guerra, sperando che la logica della politica democratica esaurisca il sostegno occidentale a Kiev e permetta a Mosca di prevalere.

Ma a 12 mesi dall’inizio dei combattimenti, le crepe nella coalizione occidentale sono diventate più piccole che grandi. Un sondaggio multinazionale dell’ECFR condotto nel gennaio 2023 in dieci Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Spagna) mostra che gli europei sono sorprendentemente uniti nella loro determinazione a sostenere l’indipendenza di Kiev. L’unità dell’opinione pubblica europea potrebbe sorprendere Putin, così come ha fatto lo spirito combattivo degli ucraini? Cosa ci dice la dinamica dell’opinione pubblica negli ultimi 12 mesi sulla prossima fase della guerra?

Questo documento documenta il sorprendente avvicinamento dell’Europa, esplora i tre principali fattori di questa unità e spiega come i leader europei possono posizionarsi per le sfide future.

Un’unità sorprendente: la mobilitazione delle opinioni pubbliche europee
Nel maggio 2022, un importante sondaggio dell’ECFR ha rivelato che gli europei, pur essendo uniti nella condanna della guerra e nel desiderio di rompere le relazioni con la Russia, erano profondamente divisi su come vedevano la fine della guerra.

Un gruppo riteneva che fosse molto importante che la guerra finisse il prima possibile, anche se ciò significava che l’Ucraina avrebbe fatto concessioni alla Russia (lo abbiamo definito il “campo della pace”), mentre l’altro gruppo credeva che solo una chiara sconfitta della Russia avrebbe potuto portare la pace, anche se ciò significava una guerra più lunga (il “campo della giustizia”). Nel 2022 la nostra analisi ha indicato che il “campo della pace” era più numeroso del “campo della giustizia”, con la preferenza per la fine della guerra il prima possibile che prevaleva nella maggior parte dei Paesi europei che abbiamo intervistato. La preferenza per questa opzione è particolarmente forte in Italia, Germania, Romania e Francia. La Polonia è stato l’unico Paese in cui il maggior numero di persone voleva che la Russia fosse punita per la sua aggressione, anche se ciò significava una guerra più lunga. Il nostro timore allora era che la divisione tra questi due campi potesse minare l’impressionante dimostrazione di unità che l’Unione Europea aveva raccolto dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio 2022.

Ma nove mesi dopo, sebbene permangano importanti divisioni tra i Paesi europei e al loro interno, il quadro è cambiato.

Dato che la “reazione” all’aggressione russa riguarda sempre più la riconquista di tutto il territorio da parte dell’Ucraina, piuttosto che la semplice punizione della Russia, nel sondaggio del 2023 abbiamo formulato l’opzione “guerra lunga” in modo diverso. Abbiamo anche aggiunto una terza possibile risposta – che il dominio occidentale del mondo dovrebbe essere respinto, anche se ciò significa accettare l’aggressione territoriale russa contro l’Ucraina – poiché il sondaggio 2023 è stato condotto anche in Cina, India, Turchia, Russia e Stati Uniti.

Nonostante queste differenze, i risultati indicano che il desiderio che la guerra tra Russia e Ucraina finisca il prima possibile non è più così popolare tra gli europei. In diversi Paesi – Estonia, Polonia, Danimarca e Gran Bretagna – è ormai evidente la preferenza per la riconquista da parte dell’Ucraina di tutto il suo territorio, anche se ciò significa una guerra più lunga o un maggior numero di morti e sfollati ucraini. In Germania e in Francia, il numero di coloro che vorrebbero che la guerra finisse il prima possibile è diminuito significativamente. In Germania, il numero di persone che desiderano che l’Ucraina riconquisti tutto il suo territorio è quasi uguale a quello che desidera che la guerra finisca il prima possibile. In Francia, l’opzione della guerra lunga è in leggero vantaggio rispetto a quella della fine della guerra il prima possibile. Solo in Italia e in Romania sono molti di più quelli che pensano che la guerra debba finire il prima possibile.

2023: Quale delle seguenti affermazioni si avvicina di più alla sua opinione? In percentuale

I risultati di questo sondaggio confermano anche la nostra affermazione del maggio dello scorso anno, secondo cui – contrariamente al cliché giornalistico secondo cui la guerra ha diviso l’UE in un est falco e un ovest dovish – sono emersi almeno tre blocchi diversi. In primo luogo, ci sono i falchi del nord e dell’est (Estonia, Polonia, Danimarca e Gran Bretagna), dove la maggior parte dei cittadini sostiene fortemente gli obiettivi di Kyiv nella guerra. In secondo luogo, c’è l’occidente ambiguo (Francia, Germania, Spagna e Portogallo), dove le opinioni sono divise su come dovrebbe finire la guerra. Infine, ci sono gli anelli deboli del sud (Italia e Romania), dove la preferenza per una fine della guerra il più presto possibile ha il sopravvento.

La convergenza sul modo in cui gli europei percepiscono la Russia è ancora più sorprendente di quanto non lo sia la convergenza sull’idea di combattere la guerra. In tutti i Paesi intervistati, l’opinione prevalente è che la Russia sia un avversario (da un minimo del 32% in Romania al 77% in Estonia). Nei nove Stati membri dell’UE intervistati, solo il 2% degli intervistati vede la Russia come un alleato e il 12% la considera un partner necessario per il proprio Paese. Il 66% degli intervistati vede invece la Russia come un avversario o un rivale.

Si tratta di un risultato completamente diverso rispetto ai risultati di un sondaggio dell’ECFR condotto nella primavera del 2021. In quell’occasione, abbiamo chiesto ai cittadini la loro percezione del rapporto della Russia con l’Europa, piuttosto che con il loro Paese, il che rende difficile un confronto diretto tra i risultati. Nel complesso, però, il modo in cui gli europei percepiscono la Russia è cambiato notevolmente. Due anni fa, un numero molto inferiore di intervistati (dal 5% in Bulgaria al 38% in Polonia) vedeva la Russia come un avversario. La percezione più diffusa è che la Russia sia un partner necessario per l’Europa: un’opinione condivisa da oltre il 30% degli intervistati in Germania, Francia e Spagna e dalla metà di quelli in Italia.

2023: Quale delle due rispecchia meglio la sua visione di ciò che la Russia rappresenta per il suo Paese? In percentuale
2021 2023
Un alleato – che condivide i nostri interessi e valoriUn partner necessario – con cui dobbiamo cooperare strategicamenteUn rivale – con cui dobbiamo competereUn avversario – con cui siamo in conflittoNon lo so

I motori dell’unità
Perché l’opinione pubblica è cambiata in questo modo? E, soprattutto, quanto durerà questa unità?

Probabilmente non esiste un’unica spiegazione per queste dinamiche. Ma i nostri dati suggeriscono che tre fattori principali, che si rafforzano a vicenda, hanno portato a questo cambiamento: Il successo dell’Ucraina sul campo di battaglia, il modo in cui la guerra ha unito entrambe le parti dello spettro politico e il ruolo degli Stati Uniti.

Lo slancio ucraino
Nel maggio 2022, la grande maggioranza degli intervistati nel nostro sondaggio era unita nel condannare la Russia per la sua aggressione e nel voler sostenere l’Ucraina. In tutti i Paesi intervistati allora, oltre il 50% (dal 56% in Italia al 90% in Finlandia) riteneva la Russia la principale responsabile dello scoppio della guerra, piuttosto che l’Ucraina, l’UE o gli Stati Uniti. Analogamente, in ciascuno dei dieci Paesi intervistati, la maggioranza si è espressa a favore di una maggiore assistenza economica all’Ucraina, dal 51% in Italia al 76% in Svezia. Quasi ovunque (tranne che in Italia e Romania), la maggioranza si è espressa a favore dell’invio di ulteriori armi ed equipaggiamenti militari all’Ucraina.

Nel frattempo, l’esercito ucraino è riuscito a riconquistare oltre il 50% dei territori occupati dalla Russia dal 24 febbraio. I successi ottenuti in estate e in autunno hanno reso più realistica una vittoria ucraina. I risultati di un altro recente sondaggio indicano che la maggioranza degli europei ritiene che l’Ucraina vincerà la guerra. Anche se il nostro sondaggio di quest’anno non comprendeva domande sugli obiettivi di guerra di Putin o sulle possibilità di Kyiv di riconquistare i territori occupati, i risultati indicano comunque che la percezione degli europei sulla condotta della guerra è cambiata.

In primo luogo, i cittadini segnalano un cambiamento nella loro percezione del potere della Russia e dell’UE. Una pluralità di europei ritiene che la Russia sia più debole oggi rispetto a quanto pensavano prima della guerra. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, una media del 46% vede la Russia ugualmente debole o più debole di prima, mentre il 33% la considera forte o più forte. Le risposte non presentano un quadro uniforme. Per i cittadini di Gran Bretagna, Danimarca, Polonia, Estonia e Germania è chiaro che la guerra ha dimostrato la debolezza della Russia. Altrove, gli intervistati hanno una visione più equilibrata. Questa percezione di indebolimento della Russia può far credere a un maggior numero di persone che gli ucraini abbiano una reale possibilità di vincere la guerra.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che la Russia sia più forte o più debole di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forteEra e resta forteNon lo soEra e resta deboleMolto o un po’ più debole

Gli europei condividono ora anche l’ampia percezione che l’UE sia forte come la vedevano prima, o addirittura più forte di quanto pensassero in precedenza. A un anno dall’inizio della guerra, il numero di persone che considerano l’UE più forte di quanto la percepissero prima della guerra è superiore al numero di persone che la considerano più debole. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, una media del 49% ritiene che l’UE sia più forte, o almeno altrettanto forte, rispetto a come la percepivano prima della guerra. Il 32% ritiene invece che sia più debole, o almeno altrettanto debole, rispetto a prima. In quasi tutti i Paesi europei intervistati – con la sola eccezione dell’Italia – l’opinione prevalente è che l’UE sia forte o più forte piuttosto che debole o più debole.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che l’UE sia più forte o più debole di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forteEra e resta forteNon lo soEra e resta deboleMolto o un po’ più debole

E, cosa ancora più importante, questa percezione della forza dell’UE è correlata al sostegno all’Ucraina per la riconquista di tutto il suo territorio. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, la maggioranza (in media il 54%) di coloro che considerano l’UE più forte vuole che l’Ucraina riconquisti tutto il suo territorio, mentre solo il 25% vuole che la guerra cessi il prima possibile. Nel frattempo, coloro che considerano l’UE più debole sono più divisi su questo punto, con una preferenza per una rapida cessazione della guerra (38%) piuttosto che per una resistenza dell’Ucraina alla Russia (32%).

Questo cambiamento di percezione potrebbe anche essere legato al fatto che alcuni degli scenari catastrofici che si temevano all’inizio della guerra non si sono materializzati, soprattutto in termini di escalation nucleare. L’ultimo sondaggio dimostra che, rispetto a un anno fa, il numero di europei che temono la guerra nucleare è diminuito, soprattutto in Francia. Allo stesso modo, in Romania, la percezione che l’azione militare russa contro il Paese sia la principale minaccia è diminuita dal 21 al 16%.

Pensando all’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina, quale dei seguenti aspetti la preoccupa maggiormente? In percentuale
Minaccia dell’uso di armi nucleari da parte della Russia

Mentre la minaccia dell’uso di armi nucleari era considerata la principale minaccia in tutti gli otto Paesi inclusi nei sondaggi del 2022 e del 2023, oggi il quadro è diverso: il costo della vita è ora considerato la principale minaccia nelle tre maggiori economie dell’UE, Germania, Francia e Italia (anche se la minaccia nucleare rimane la principale preoccupazione altrove). Questo leggero cambiamento potrebbe essere spiegato non solo dalla crescente ansia economica, ma anche dal calo della preoccupazione per un attacco nucleare.

Fondere nazionalisti e cosmopoliti
Un altro fattore dell’attuale unità è il modo in cui la guerra della Russia in Ucraina ha unito diversi settori dell’opinione pubblica europea. Anche questo non era scontato all’inizio della guerra. La guerra di Putin non sfida solo la sicurezza e l’economia europea, ma anche la cultura europea. Ciò ha provocato un ripensamento radicale sia a sinistra che a destra dello spettro politico.

La vittoria pacifica dell’Occidente nella guerra fredda ha portato sia le élite che i cittadini europei a dare per scontata la pace. Gli europei hanno sempre più guardato alla sicurezza con gli occhi delle compagnie di assicurazione piuttosto che con quelli dei pianificatori militari. Come ha avvertito l’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, in un discorso tenuto nel febbraio 2011 alla National Defense University, la “smilitarizzazione dell’Europa – dove ampie fasce dell’opinione pubblica e della classe politica sono avverse alla forza militare e ai rischi che ne derivano – è passata da una benedizione nel XX secolo a un ostacolo al raggiungimento di una vera sicurezza e di una pace duratura nel XXI”. Il sacrificio non faceva più parte del contratto sociale europeo.

In questo contesto, non è stata solo l’aggressione imperiale di Putin, ma anche la mobilitazione nazionalista dell’Ucraina a mettere in discussione il modo in cui gli europei liberali vedevano il mondo. Mentre la paura di un attacco russo li ha costretti a ripensare al valore del potere duro, l’ammirazione per la resilienza ucraina li ha costretti a rivalutare il valore di una società post-eroica.

E mentre i liberali e gli europeisti hanno messo in discussione le loro opinioni sul ruolo del nazionalismo, la destra nazionalista è stata costretta a modificare ancora una volta le sue opinioni sul ruolo dell’UE. Questo processo era già iniziato dopo la pandemia di covidio-19. Dopo la crisi finanziaria globale e la crisi dei rifugiati, che hanno catapultato i partiti di estrema destra al centro dei dibattiti politici dell’ultimo decennio, il fallimento della Brexit e l’ascesa del covid-19 hanno visto l’euroscetticismo iniziare a svanire, mentre i partiti tradizionali hanno beneficiato del desiderio del pubblico di protezione dal caos. I sondaggi dell’ECFR hanno mostrato che durante questi eventi, molti elettori di destra hanno capito che la sovranità poteva essere recuperata solo attraverso un’azione congiunta, e molti partiti precedentemente euroscettici hanno abbandonato le loro promesse di lasciare l’UE o l’euro.

La risposta all’invasione russa in Ucraina può essere vista sia come un abbraccio alla sovranità da parte dei liberali, sia come un ulteriore mainstreaming di alcuni partiti della destra nazionalista. Il risultato è un’attenuazione del divario tra destra e sinistra in Europa sulle questioni geopolitiche e un’evoluzione verso la fusione di nazionalismo e cosmopolitismo. Ciò è stato particolarmente evidente nella decisione di offrire all’Ucraina lo status di Paese candidato all’UE: un’organizzazione post-nazionale incentrata sul diritto piuttosto che sulla guerra si è radunata dietro il sostegno militare a una causa nazionalista.

I risultati del nostro sondaggio d’opinione 2023 mostrano come i liberali e i nazionalisti, sia all’interno dei Paesi che tra di essi, si siano avvicinati nelle loro opinioni sull’Ucraina. Ad esempio, gli elettori del partito liberale La République en Marche (LREM) di Emmanuel Macron sono uniti a quelli del partito nazionalista polacco Diritto e Giustizia (PiS). Gli elettori del LREM (il più falco dei partiti francesi) preferiscono questa opzione a quella di fermare la guerra il prima possibile con una proporzione di 61 a 25 per cento; e quelli del PiS (che è unito a tutti gli altri principali partiti polacchi su questo punto) con 62 a 18 per cento. Le persone che hanno votato per il partito tedesco dei Verdi (il più falco dei principali partiti tedeschi) hanno una preferenza simile, con una proporzione di 48 a 23 per cento.

Quale dei seguenti rispecchia meglio la sua opinione?
Partiti selezionati, per intenzione di voto. In percentuale
Il conflitto tra Russia e Ucraina deve cessare al più presto, anche se ciò significa che l’Ucraina cede il controllo di alcune aree alla RussiaL’Ucraina deve riconquistare tutto il suo territorio, anche se ciò significa una guerra più lunga o un maggior numero di morti e sfollati ucraini

Gli elettori dei partiti europei euroscettici o di estrema destra hanno opinioni più varie di quanto ci si aspetterebbe. A differenza dei partiti di cui sopra, gli elettori del partito nazionalista Fratelli d’Italia hanno una preferenza per l’interruzione della guerra il prima possibile rispetto allo scenario di guerra lunga, con una proporzione di 42 a 32 per cento. Ma rispetto agli altri rivali radicali nazionali, sono chiaramente meno prudenti degli elettori della Lega (che hanno optato per questa opzione con una percentuale del 68% sull’11%) o del Movimento Cinque Stelle (che l’hanno preferita con una percentuale del 50-22%). Gli elettori del partito Fratelli d’Italia hanno espresso una preferenza per l’interruzione della guerra simile a quella degli elettori del partito National Rally di Marine Le Pen in Francia (39 a 30 per cento, che è meno radicale di quanto si potrebbe supporre data la posizione precedentemente favorevole alla Russia del partito e gli stretti legami di Le Pen con Putin); e a quelli di Vox in Spagna (35 a 31 per cento) o Chega in Portogallo (42 a 28 per cento).

Ciò rende l’Alternativa per la Germania (AfD) e la Lega e il Movimento Cinque Stelle in Italia degli outlier europei, piuttosto che la norma tra i radicali europei. Gli elettori dell’AfD non solo hanno una forte preferenza per l’interruzione della guerra il prima possibile (59 a 17 per cento), ma sono anche quasi equamente divisi sul fatto che la Russia sia un alleato o un partner (42 per cento), o un rivale o un avversario (48 per cento). Tuttavia, l’opinione prevalente tra gli elettori dell’AfD è ancora che la Russia sia un avversario (37%). Questi risultati sono in linea con quelli degli elettori della maggior parte degli altri partiti di estrema destra, che vedono anch’essi la Russia principalmente come un avversario – una risposta data dal 42% degli elettori di National Rally, dal 41% degli elettori di Fratelli d’Italia, dal 53% degli elettori della Confederazione polacca e dal 41% degli elettori di Chega. Sembra che Putin sia riuscito a inimicarsi gli elettori di molti dei partiti europei più filo-russi.

Quale rispecchia meglio il suo punto di vista su chi è la Russia per il suo Paese?
Partiti selezionati, per intenzione degli elettori. In percentuale
Un alleato – che condivide i nostri interessi e valoriUn partner necessario – con cui dobbiamo cooperare strategicamenteUn rivale – con cui dobbiamo competereUn avversario – con cui siamo in conflittoNon lo so

Il ritorno dell’Occidente
Infine, il ruolo degli Stati Uniti durante tutta la guerra è stato un fattore importante nel determinare questa unità. Molto è stato scritto sull’enorme importanza del sostegno americano allo sforzo militare dell’Ucraina. Ma anche il perno del Presidente Biden verso l’Europa ha avuto un effetto significativo sull’opinione pubblica del continente. Durante la guerra in Iraq del 2003, Washington ha diviso gli europei in parti nuove e vecchie. In Ucraina, invece, l’amministrazione Biden ha contribuito a promuovere una nuova unità tra i tradizionali euro-atlantici e i sovranisti europei.

In un precedente sondaggio dell’ECFR, condotto nell’aprile 2021, la maggioranza degli europei vedeva gli Stati Uniti come “partner necessario” dell’Europa, piuttosto che come “alleato”. Sebbene quest’anno abbiamo chiesto la percezione di ciò che gli Stati Uniti rappresentano per i loro Paesi e non per l’Europa, i risultati possono essere interpretati come una leggera ma significativa differenza. Negli otto Paesi inclusi nei sondaggi del 2021 e del 2023, la maggior parte delle persone continua a considerare gli Stati Uniti come un “partner necessario”, ma in Danimarca e in Gran Bretagna l’opinione prevalente è che gli Stati Uniti siano un “alleato”, mentre in Germania e in Polonia le opinioni sono equamente divise tra queste due opzioni. La differenza è più evidente in Germania e Danimarca. Nel 2021, gli europei erano meno propensi a considerare gli americani come alleati, e questa non era la risposta più ampia in nessun Paese intervistato.

2023: Quale delle due opzioni riflette meglio la sua opinione su ciò che gli Stati Uniti rappresentano per il suo Paese? In percentuale

Ciò che forse colpisce ancora di più è la rinascita dell’idea della forza americana in Europa. I risultati del sondaggio del 2021 rivelavano una crisi del potere americano, con molti europei che temevano che gli Stati Uniti sarebbero stati eclissati dalla Cina entro un decennio. Ma nel 2023, in tutti i Paesi europei oggetto del sondaggio, gli europei vedono chiaramente gli Stati Uniti più forti o almeno altrettanto forti di quanto pensassero in precedenza. La percentuale varia dal 58% della Francia al 76% dell’Estonia. La guerra in Ucraina ha ricordato agli europei la potenza militare americana, il che li ha apparentemente rassicurati.

Inoltre, la percezione di un rafforzamento degli Stati Uniti va di pari passo con quella di un’Unione europea più forte. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, il 63% di coloro che considerano l’UE più forte ritiene che anche gli Stati Uniti siano più forti, mentre questa opinione è condivisa solo dal 22% di coloro che ritengono l’UE più debole di quanto pensassero in precedenza. Il 45% degli intervistati nei nove Paesi dell’UE vede sia l’UE che gli USA più forti di quanto pensassero in precedenza o almeno altrettanto forti di prima, mentre solo il 9% li considera entrambi deboli o più deboli. Questi risultati suggeriscono che molti europei si sentono parte di un Occidente rinnovato e forte, guidato dagli Stati Uniti.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che gli Stati Uniti siano più forti o più deboli di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forti Erano e sono ancora forti Non soErano e sono ancora deboli Molto o un po’ più deboli

Ciò è confermato anche da un altro dato sorprendente. Contrariamente alle speranze di alcuni leader europei, come Emmanuel Macron, gli europei non si aspettano necessariamente che l’Europa diventi uno dei centri di potere in un mondo multipolare. Alla domanda sulla forma dell’ordine globale tra un decennio, una pluralità di intervistati nei nove Paesi dell’UE si aspetta un mondo bipolare, con campi rivali guidati da Stati Uniti e Cina, piuttosto che uno multipolare.

In quasi tutti i Paesi, ad eccezione dell’Estonia, la risposta sostanziale prevalente (che va dal 24% della Romania al 32% della Spagna e dell’Italia, e al 28% in media nei nove Paesi dell’UE intervistati) è che il mondo sarà diviso in due blocchi. La seconda risposta sostanziale più frequente tende ad essere un mondo multipolare (ma con solo il 19 percento in media nei nove Paesi dell’UE intervistati). C’è anche un ampio gruppo di persone che non conosce la risposta a questa domanda (25 percento in media nei nove Paesi dell’UE intervistati, e la risposta principale in Gran Bretagna, Danimarca, Francia, Polonia e Romania), il che potrebbe indicare un notevole livello di confusione, incertezza o semplicemente mancanza di conoscenza su questo tema tra i cittadini europei.

Tra dieci anni, quale delle seguenti ipotesi ritiene più probabile? In percentuale

L’ambizione dell’UE come attore globale autonomo sembra essere stata almeno temporaneamente ritirata a seguito della guerra. Di fronte alla prospettiva di una rottura generazionale delle relazioni con la Russia, ci si potrebbe aspettare che gli europei siano più desiderosi che mai di concentrarsi sulle loro relazioni con il resto del mondo. Invece, gli europei guardano al loro interno e si affidano ancora di più agli Stati Uniti.

Conclusione: Una fragile unità
A un anno dall’inizio della guerra russa in Ucraina, l’unità europea si è approfondita ed è cresciuta, sorprendendo non solo Mosca e Washington, ma anche gli stessi europei.

I leader europei possono sentirsi incoraggiati e rassicurati da questi risultati, ma dovrebbero essere cauti nel loro ottimismo. Ognuna delle tre forze che abbiamo descritto è contingente – e potrebbe cambiare nel corso del prossimo anno – con un grande impatto sull’unità europea.

Se la possibilità di una vittoria ucraina ha contribuito al sostegno degli europei per la riconquista di tutto il territorio ucraino, è molto probabile che il cambiamento sia morbido piuttosto che duraturo. Le battute d’arresto militari potrebbero erodere il sostegno all’Ucraina e portare a un aumento della preferenza per la fine della guerra il prima possibile.

Anche la convergenza tra liberali e nazionalisti potrebbe essere fragile. Come dimostrato, i timori economici sono in cima all’agenda dei cittadini europei – e la loro importanza è aumentata ovunque dal maggio 2022. Se l’inflazione e il costo della vita rimarranno elevati, il sostegno pubblico all’Ucraina potrebbe quindi diminuire. Di fronte ai problemi interni, è probabile che i liberali e i nazionalisti prendano ancora una volta direzioni diverse. Anche altre questioni legate alla guerra hanno il potenziale per far saltare la fragile unione tra destra e sinistra. Ad esempio, se la questione dei rifugiati tornasse al centro della politica europea, potrebbe dare forza agli estremisti, polarizzare le società e mettere in difficoltà i partiti centristi, come è successo nel 2015. Il calo del sostegno ai rifugiati dopo l’enorme compassione dimostrata nei primi anni della guerra siriana fa temere che la migrazione possa essere un tema critico nelle prossime elezioni europee, che dividerebbe ancora una volta la sinistra dalla destra e i liberali dai nazionalisti.

Pensando all’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina, quale dei seguenti aspetti la preoccupa maggiormente? In percentuale
Costo della vita e aumento dei prezzi dell’energia

Ma forse il pericolo maggiore per questa unità è un cambiamento a Washington. Biden è stato quasi altrettanto importante per costruire l’unità europea da una direzione positiva quanto Putin da una negativa. Se Donald Trump – o un altro repubblicano America First – tornerà alla Casa Bianca nel 2024, il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina e all’unità con l’Europa sembrerà molto meno certo. Qualsiasi cambiamento nella politica americana renderebbe l’unità europea particolarmente vulnerabile.

Piuttosto che dare per scontata l’attuale notevole unità, i leader europei dovrebbero sfruttare lo spazio che si crea per rafforzare la propria resistenza alla luce di questi fattori. Dovrebbero fare il possibile per attrezzare l’Ucraina e metterla in condizione di affrontare i negoziati che saranno necessari per porre fine alla guerra. Dovrebbero mettere in atto politiche per mitigare l’aumento del costo della vita e per condividere l’onere della gestione dei rifugiati. E soprattutto dovrebbero sfruttare al meglio i prossimi 18 mesi per diventare immuni ai cambiamenti politici oltreoceano, sviluppando capacità europee e strategie comuni per diversi scenari. Se gli europei riusciranno a fare queste cose, potrebbero scoprire che la loro opinione pubblica sorprende davvero l’uomo del Cremlino.

Metodologia
Il presente rapporto si basa su un sondaggio di opinione condotto all’inizio di gennaio 2023 in dieci Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Spagna). Il numero totale di intervistati è stato di 14.439.

I sondaggi sono stati realizzati per ECFR come indagine online attraverso Datapraxis e YouGov in Danimarca (1.064 intervistati; 3-11 gennaio), Francia (2.051; 3-12 gennaio), Germania (2.017; 4-11 gennaio), Gran Bretagna (2.200; 4-10 gennaio), Italia (1.599; 4-12 gennaio), Polonia (1.413; 3-20 gennaio), Portogallo (1.057; 4-12 gennaio), Romania (1.003; 4-11 gennaio) e Spagna (1.013; 4-11 gennaio); e attraverso Datapraxis e Norstat in Estonia (1.022; 18-24 gennaio). In tutti questi Paesi il campione era rappresentativo a livello nazionale dei dati demografici di base e delle votazioni precedenti. Nel Regno Unito, il sondaggio non ha riguardato l’Irlanda del Nord, motivo per cui il documento si riferisce alla Gran Bretagna.

Gli autori
Ivan Krastev è presidente del Centro per le Strategie Liberali di Sofia e borsista permanente presso l’Istituto per le Scienze Umane di Vienna. È autore di Is It Tomorrow Yet? Paradoxes of the Pandemic, oltre a numerose altre pubblicazioni.

Mark Leonard è cofondatore e direttore dell’European Council on Foreign Relations. Il suo nuovo libro, The Age of Unpeace: How Connectivity Causes Conflict, è stato pubblicato da Penguin in brossura il 2 giugno 2022. Presenta inoltre il podcast settimanale “World in 30 Minutes” dell’ECFR.

Ringraziamenti
Questa pubblicazione non sarebbe stata possibile senza lo straordinario lavoro del team Unlock dell’ECFR. Gli autori desiderano ringraziare in particolare Pawel Zerka e Gosia Piaskowska, che hanno svolto un lavoro minuzioso sui dati alla base di questo rapporto e che hanno individuato alcune delle tendenze più interessanti, nonché Nastassia Zenovich, che ha lavorato alla visualizzazione dei dati. Flora Bell è stata un’ammirevole redattrice, mentre Andreas Bock ha guidato il lavoro strategico di sensibilizzazione dei media. Susi Dennison e Anand Sundar hanno dato suggerimenti sensibili e utili sulla sostanza. Gli autori desiderano inoltre ringraziare Paul Hilder e il suo team di Datapraxis per la paziente collaborazione con noi nello sviluppo e nell’analisi dei sondaggi a cui si fa riferimento nel rapporto. Nonostante i numerosi e variegati contributi, gli eventuali errori restano a carico degli autori.

Questi sondaggi e analisi sono il risultato di una collaborazione tra l’ECFR e il progetto “Europe in a Changing World” del Programma Dahrendorf del St Antony’s College, Università di Oxford. L’ECFR ha collaborato a questo progetto con la Fondazione Calouste Gulbenkian, il Think Tank Europa e l’International Center for Defence and Security.

L’European Council on Foreign Relations non prende posizioni collettive. Le pubblicazioni dell’ECFR rappresentano solo le opinioni dei singoli autori.

https://ecfr.eu/publication/fragile-unity-why-europeans-are-coming-together-on-ukraine/?fbclid=IwAR2QgVl18MLcVDiPrGnAGwMd5XKOjJeKuG0Tpf0qfraPzF17VBJetLV4xeA

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Intervista a Julien Freund nel 1990

Un grande poco conosciuto in Italia. A Cura di Giuseppe Germinario

 

Intervista a Julien Freund

 

L’Europa è in declino, nonostante i suoi successi tecnologici, perché non crede più nei propri valori. Riuscirà a superare questa crisi? Tornerà ai valori tradizionali o ne creerà di nuovi? Manterrà la propria identità o la abdicherà a un globalismo trionfante? Queste sono le domande fondamentali che i popoli europei si pongono e alle quali risponde l’eminente sociologo Julien Freund.

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– I – Lei è l’ex direttore dell’UER per le Scienze Sociali dell’Università di Strasburgo e l’autore, tra l’altro, del famoso Qu’est-ce que la politique? Non crede che tra le cause intellettuali e spirituali della decadenza europea, la prima sia il pluralismo dei valori?

Per sua natura, il valore implica la pluralità. Dove c’è un solo valore, non c’è alcun valore, perché non è possibile il confronto, che è la base di ogni valutazione. Una cosa vale più di un’altra, o meno, o è equivalente ad essa. In altre parole, i valori sono distribuiti su una scala, a seconda che siano superiori o inferiori ad altri o equivalenti. Il rapporto tra superiorità e inferiorità si chiama gerarchia. Chiunque utilizzi il concetto di valore presuppone una gerarchia, almeno implicitamente. L’egualitarismo moderno è un singolare che esclude i valori, poiché essi sono plurali. In questo senso, l’uguaglianza è un valore solo accanto ad altri come la libertà, la carità, la felicità, la virtù, la mediocrità o la malvagità.

Pluralità non significa però pluralismo, così come socialità non significa socialismo o totalità non significa totalitarismo. L’attuale pluralismo dei valori proclama che tutti i valori sono uguali e come tale costituisce una disaggregazione del valore attraverso la disaggregazione di qualsiasi gerarchia. In questo caso, alla fine, l’innocenza non ha più valore della colpa, la rettitudine non più dell’ipocrisia. Ovviamente, in questo caso non c’è più motivo di preferire un parlamentare onesto a uno disonesto, un insegnante consapevole del suo compito a uno pigro. Questo pluralismo di valori è senza dubbio una delle ragioni della decadenza spirituale dell’Europa.

– II – È troppo tardi per un risveglio, per un risveglio?

Non si possono escludere dalla vita e dalla storia situazioni eccezionali ed eventi miracolosi. Se ci riferiamo alle condizioni attuali, la decadenza dell’Europa [*] è irrimediabile. Direi addirittura che l’Europa è in piena decadenza da diversi anni. A questo proposito si possono addurre vari argomenti soggettivi, e quindi discutibili, ma rimane un argomento oggettivo che nessuno può mettere in discussione, se non in malafede. L’Europa è stata finora l’unica civiltà che non era semplicemente localizzata in un territorio di un continente. Non solo era continentale, ma è stata anche l’unica ad acquisire una dimensione globale. Ha infatti riunito popoli che fino ad allora si ignoravano completamente. Un abitante aborigeno ignorava l’Africa quanto un eschimese.

Eppure l’Europa è stata gradualmente presente in tutti i continenti, anche su isole prima disabitate, o scoprendo piccole isole oceaniche che ancora oggi non sono abitate stabilmente. E improvvisamente, all’indomani dell’ultima guerra mondiale, ha abbandonato i suoi territori extraeuropei e si è ritirata all’interno dei suoi confini geografici come subcontinente dell’Asia. Il fatto indiscutibile è che per secoli ha progredito sotto ogni punto di vista, scientifico, artistico, economico e non solo, e improvvisamente, in soli due decenni, è regredita fino a cessare di essere una potenza mondiale a livello politico. Cinquant’anni fa dominava tutti gli oceani, oggi ha tutte le difficoltà del mondo a difendersi efficacemente all’interno dei suoi confini.

– III – Per lei, la decadenza dell’Europa è un fatto irrimediabile?

Non sono né un profeta né un indovino, ma trovo difficile vedere un’inversione della situazione nelle prossime generazioni. L’Europa è in declino, nonostante i suoi successi tecnici. Mi sembra addirittura che l’Europa voglia mettere alla prova la sua debolezza fino in fondo, nonostante tutti gli inviti a rialzarsi, nonostante tutte le buone intenzioni di chi cerca di metterci in guardia dalle inevitabili conseguenze della decadenza. I Romani della decadenza, a parte l’una o l’altra mente lucida (erano rari), non erano affatto consapevoli di vivere in un periodo di decadenza, poiché l’economia non era mai stata così prospera come in quel periodo e ai cittadini venivano offerti tutti i piaceri dei giochi negli stadi e, nei circhi, i giochi più frivoli e assassini. La decadenza è soprattutto morale e politica, non economica o tecnica.

Andate a far capire la prudenza a un maniaco della velocità! Le droghe uccidono, ma il piacere che danno nel presente è il più forte. Tendo a credere che l’economia del tempo libero, oggi predominante al punto da fare della disoccupazione un argomento di retorica politica, contribuirà ad accelerare la decadenza. Lo stesso vale per altri settori, in particolare per l’istruzione. L’ignoranza viene gradualmente elevata a pretesa intellettuale. L’esperienza è resa priva di significato, ogni generazione vive delle conquiste di quelle precedenti, ma allo stesso tempo finge che le conquiste di cui gode siano opera sua. L’educazione moderna consiste soprattutto nell’imparare a mentire a se stessi.

– IV – Orfani, cosa possiamo fare in futuro?

Siamo in presenza di profondi cambiamenti nella mentalità generale che riguardano tutte le menti del mondo. Una mentalità non cambia su comando o raccomandazione, per quanto utile o vantaggiosa possa essere. Il futuro non è però bloccato, perché non esiste una decadenza storicamente assoluta. Anzi, la decadenza è una transizione, che dura diverse generazioni, tra una civiltà esausta e stanca e la nascita di una nuova civiltà consapevole di un nuovo ordine, di nuove forme e norme. Lo sappiamo da tutta la storia conosciuta.

La domanda oggi è se la nuova civiltà che sta nascendo sarà una civiltà globale, non una civiltà che si è globalizzata nel corso del suo sviluppo, come l’Europa, ma una civiltà che è globale nello spirito fin dall’inizio. L’eventualità di questo nuovo tipo può presupporre la comparsa di una nuova autorità, che istituisca una nuova gerarchia riconosciuta come legittima e che riesca a imporsi universalmente. È più che probabile che l’umanità sperimenti quella che definirei una rivolta culturale, in successione più o meno rapida, all’insegna delle rivendicazioni di minoranze etniche o di gruppi radicalizzati incentrati su valori che saranno facilmente scalfiti

Non è affatto detto che ciò che sta accadendo nella Russia sovietica sia una replica di ciò che stiamo vivendo in Europa, perché la discordia che sta lacerando la Russia sovietica può far nascere un altro modo di vedere le cose. Smettiamo di essere schiavi di noi stessi. Le stesse osservazioni possono essere fatte sull’America. La speranza, che è consustanziale alla vita, è l’unico modo per controllare i possibili slittamenti dei travagliati tempi di transizione. Se tutto dovesse diventare certo nel futuro, dovremmo abbandonare ogni speranza, come nell’Inferno di Dante. Chi spera non è mai orfano, perché rimane capace di immaginare e anticipare, alla luce del passato, prospettive che sfuggono alla logica delle teorie. Non cadiamo nella fatuità del Premio Nobel per la Fisica, vittima del suo scientismo, che negli anni Trenta dichiarò che tra sei mesi la fisica sarebbe stata una scienza completamente finita.

– V – Il ritorno della politica condiziona un risveglio del nostro popolo al potere?

Una civiltà non è solo l’espressione di un potere politico perché, per sua stessa essenza, implica altri momenti altrettanto prestigiosi, di natura religiosa, morale, artistica, scientifica, giuridica e altro. In quanto tale, la politica è il potere di regolazione interna delle società per potersi difendere meglio dal nemico esterno; è efficace solo a condizione di riconoscere che questi diversi momenti che compongono una civiltà possono essere conflittuali. Non siamo ciechi: il conflitto è una delle fonti del dinamismo di una società. Una società che vorrebbe essere pacifica fin dall’inizio tra le altre è solo un’utopia destinata al disastro.

Il ritorno alla politica, se concepita come un’entità isolata, potrebbe solo portare a delle illusioni, poiché rimane l’istanza di scelta della gerarchia all’interno di una società. La scelta è inevitabile perché lo sviluppo di una società è caratterizzato dalla pluralità di orientamenti possibili, in funzione di eventi contingenti, ma anche di espressioni e valori concordanti. Una scelta immanente a se stessa è pura necessità che ignora se stessa. La scelta di cui parlo è innanzitutto la fede in una trascendenza che alimenta una speranza il più possibile favorevole per l’umanità a venire.

La speranza è indispensabile, come dimostra il fenomeno dell’emigrazione. La vita implica un gioco di reciprocità tollerabili tra di loro. Altrimenti, diventa una guerra. Quando gli emigranti sono numerosi, introducono inevitabilmente i loro modi di pensare, diventano forze contagiose per la società ospitante. Di conseguenza, introducono altre norme ai popoli non autoctoni. In Europa, siamo all’inizio di un processo di reciprocità che può essere disciplinato solo dalla speranza nella trascendenza dei valori comuni a una nuova storia da costruire. Ci sono nostalgie che sono mortificanti per noi stessi.

– VI – Crede nella fine delle ideologie?

La fine delle ideologie, intese come armi di propaganda e dottrine escatologiche polemiche e secolarizzate, è storicamente un evento innegabile. Le ideologie stanno appassendo, come dimostrano il crollo del marxismo-leninismo e gli antagonismi interni dell’anarchismo in tutti i Paesi. Diciamo che le ideologie filosoficamente qualificate e socialmente bellicose o sterminatrici stanno tutte andando alla deriva, ma hanno lasciato un segno nelle anime. Viviamo inconsapevolmente tra persone ideologizzate (può succedere anche a noi), che non dichiarano più di appartenere a una certa ideologia, ma che hanno integrato il sedimento di ideologie moribonde nei loro comportamenti, nella loro mentalità e nei loro ragionamenti, oltre che nei loro voti.

A destra e a sinistra si sacrifica il terzomondismo, si fanno discorsi lusinghieri sulla pace, sulla giustizia e sulla felicità individuale e collettiva. Le ideologie caratteristiche richiedevano l’adesione volontaria delle menti, l’ideologizzazione, al contrario, è lo svilimento delle anime, distorte dai media. È quello che Max Weber chiamava il paradosso delle conseguenze. In nome delle buone intenzioni, ci prepariamo a un domani infelice. Se la filosofia ha ancora un senso, allora potrebbe riflettere sul divario tra la generosità delle idee e la malvagità degli atti effettivamente compiuti.

– VII – L'”ideologia morbida” non porta con sé il totalitarismo?

È possibile che la “soft ideology” porti al totalitarismo se intesa come terrorismo individuale e collettivo. Forse anche in questo ultimo secolo siamo ossessionati dal totalitarismo che ha caratterizzato la nostra epoca. Non è forse un crepuscolo dal quale dobbiamo uscire? In effetti, ci sono altrettante possibilità, forse anche di più, che la conseguenza non sia più il totalitarismo, ma la decomposizione di tutti i rapporti sociali, purtroppo con il nostro consenso.

Osserviamo semplicemente che l’opinione generale è più o meno consapevolmente ostile all’autorità, alla costrizione, ai divieti e di conseguenza alle regole, all’ordine e al rispetto, al pudore e anche, molto semplicemente, la speranza non è posta di fronte all’alternativa: totalitarismo terroristico o decomposizione della società? Confidando nel trascendente, la speranza è capace di immaginare norme più umane di relazione tra gli uomini, purché riconosca che l’intelligenza è inseparabile dalla memoria e dall’ispirazione. La lotta da condurre è di tipo spirituale: riabilitare la memoria come passato e storia e confidare nella grazia nascosta nel pensiero produttivo, di cui la creatività attualmente in voga non è che una caricatura.

– Professore, la ringraziamo per questa intervista.

 

Intervista di Xavier Cheneseau, Vouloir n°61-62, 1990.

 

Nota aggiuntiva:

 

* In realtà, la problematica deve essere estesa a tutta l’Europa, questo continente all’origine dell’Occidente moderno. L’idea di Europa”, ricorda Julien Freund, “è contemporanea alle grandi esplorazioni dei navigatori che hanno scoperto l’America, l’Africa nera, le Indie, la Cina e l’Oceano Pacifico. Per i popoli che parteciparono a questa immensa impresa fu il mezzo per darsi un’identità di fronte a questi nuovi continenti e per differenziarsi da essi. L’avventura li condusse alla scoperta del mondo intero nella sua finitudine sferica. L’abbandono in meno di due decenni di quasi tutte le terre conquistate nel corso dei secoli e il ritiro dell’Europa nel proprio spazio geografico è un evento decisivo: “L’Europa entra in decadenza non solo in relazione all’impero mondiale che controllava alla vigilia del suo improvviso declino, ma soprattutto in relazione al suo dinamismo interno, all’audacia delle sue imprese e alla vitalità dei suoi abitanti” (La fine del Rinascimento). Dopo aver condotto uno studio complessivo delle diverse teorie e filosofie relative alla caduta degli imperi e delle civiltà in La décadence, Julien Freund torna, in un libro di interviste, alla storia contemporanea dell’Europa. Al di là delle interpretazioni e delle ermeneutiche degli storici, egli mette in evidenza la perdita di controllo sui confini e la scomparsa della base territoriale di un popolo come criterio di decadenza: “C’è un fenomeno oggettivo fondamentale: è la perdita del territorio. La decadenza è finita il giorno in cui si perde il territorio. La decadenza dell’Europa è cominciata il giorno in cui l’Europa si è raccolta sul suo territorio, abbandonando le sue conquiste lontane” (L’avventura della politica). Questo criterio territoriale dei fenomeni di decadenza è eminentemente geopolitico e ci riporta alla situazione attuale dell’Europa. Le nazioni e gli Stati del Vecchio Mondo non sono in grado di difendersi con le proprie forze e di presidiare i confini comuni. L'”Europa dei vecchi parapetti” di Arthur Rimbaud non esiste più e i confini esterni dell’Unione non sono ancora stati stabiliti. La diagnosi della decadenza dell’Europa richiede un’eziologia. Le origini di questo fenomeno sono molteplici e complesse; i fattori esplicativi si influenzano a vicenda e non è facile distinguerli. Va semplicemente sottolineato che ogni grande civiltà si sente superiore alle altre costellazioni socioculturali e si considera universale. In questo modo, pretende di attualizzare al massimo livello le virtualità della specie umana. Un deplorevole etnocentrismo? I gruppi umani, dal più piccolo al più grande, hanno la loro prospettiva e se questa “visione del mondo” non è valida al di fuori dei gruppi che la utilizzano, non può essere confutata all’interno di questi gruppi. Questa è una delle condizioni sine qua non della diversità di culture e civiltà che i “tardo moderni” vogliono rispettare. Certo, la conoscenza permette di superare le particolarità, ma è un’ascesi elitaria. Tesa alla salvezza e alla liberazione, la conoscenza non mira a governare gli uomini e ad assumere le responsabilità del Politico considerato nella sua essenza. (estratto dall’articolo “Penser l’Europe: déclin ou décadence?” di JS Mongrenier)

 

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In memoria di Julien Freund

Il 10 settembre 1993 Julien Freund ci ha lasciato in silenzio. In Europa era uno dei più eminenti filosofi della politica, un riferimento obbligato per tutti coloro che volevano pensare alla politica fuori dagli schemi. La stampa non ha parlato di lui.

Nato a Henridorff, in Alsazia-Lorena, nel 1921, si unì alla resistenza durante la Seconda guerra mondiale. Nell’immediato dopoguerra, prima insegna filosofia a Metz, poi diventa presidente della facoltà di scienze sociali dell’Università di Strasburgo, di cui assicurerà lo sviluppo.

Inizialmente ispirato dal pensiero di Max Weber*, autore all’epoca poco conosciuto in Francia, Freund sviluppò gradualmente una teoria dell’azione politica che formulò, a grandi linee, nel suo capolavoro, L’essenza della politica (Sirey, 1965).

La politica è un’essenza, in un duplice senso: da un lato, è una delle categorie fondamentali, costanti e non eradicabili della natura e dell’esistenza umana e, dall’altro, una realtà che rimane identica a se stessa nonostante le variazioni di potere e di regimi e nonostante il cambiamento dei confini sulla superficie della terra. Per dirla in altri termini: l’uomo non ha inventato la politica, né tanto meno la società, e, d’altra parte, la politica rimarrà sempre ciò che è stata, secondo la stessa logica per cui non potrebbe esistere un’altra scienza, specificamente diversa da quella che abbiamo sempre conosciuto. È infatti assurdo pensare che possano esistere due diverse essenze di scienza, cioè due scienze che abbiano presupposti diametralmente opposti; altrimenti la scienza sarebbe in contraddizione con se stessa.

La politica è un’attività circostanziale, causale e variabile nelle sue forme e nei suoi orientamenti, al servizio di un’organizzazione pratica e della coesione della società […]. La politica, invece, non obbedisce ai desideri e alle fantasie dell’uomo, che non può non fare nulla, perché allora non esisterebbe o sarebbe qualcosa di diverso da ciò che è. Non si può sopprimere il politico – a meno che l’uomo stesso, senza sopprimersi, non diventi un’altra persona.

Sulla base di questa definizione dell’essenza del politico, Freund sottopone a una serrata critica l’interpretazione marxista del politico come mera espressione delle dinamiche economiche in atto nella società. Freund, invece, tiene a sottolineare la sua specificità, una specificità irriducibile a qualsiasi altro criterio. Dal suo punto di vista, la politica è “un’arte della decisione”, basata su tre tipi di relazioniil rapporto tra comando e obbedienza, il rapporto pubblico/privato e, infine, l’opposizione amico/nemico.

Quest’ultima disposizione bipolare costituisce l’essenza stessa della politica: legittima l’uso della forza da parte dello Stato e determina l’esercizio della sovranità. Senza forza, lo Stato non è più sovrano; senza sovranità, lo Stato non è più lo Stato. Ma può uno Stato cessare di essere “politico”? Certamente, risponde Freund:

È impossibile esprimere una volontà veramente politica se si rinuncia in anticipo all’uso dei normali mezzi della politica, che significa potere, coercizione e, in alcuni casi eccezionali, violenza. Agire politicamente significa esercitare l’autorità, manifestare il potere. Altrimenti, si rischia di essere annientati da un potere rivale che vuole agire pienamente in politica. In altre parole, tutta la politica implica il potere. Il potere è uno dei suoi imperativi. Di conseguenza, è contrario alla legge stessa della politica escludere l’esercizio del potere fin dall’inizio, ad esempio facendo di un governo un luogo di discussione o un organo arbitrale come un tribunale civile. La logica stessa del potere è che esso sia davvero potere e non impotenza. In secondo luogo, per il suo stesso modo di esistere, la politica ha bisogno di potere, e qualsiasi politica che vi rinunci per debolezza o per un’osservanza troppo scrupolosa della legge, cessa di essere veramente politica; cessa di svolgere la sua normale funzione per il fatto che diventa incapace di proteggere i membri della comunità di cui è responsabile. Per un Paese, quindi, il problema non è avere una costituzione giuridicamente perfetta o andare alla ricerca di una democrazia ideale, ma darsi un regime capace di affrontare le difficoltà concrete, di mantenere l’ordine, generando un consenso favorevole alle innovazioni in grado di risolvere i conflitti che inevitabilmente sorgono in ogni società.

In questi testi tratti da L’essenza della politica, possiamo notare l’evidente parentela tra la filosofia di J. Freund e il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985).

Particolarmente attento alle dinamiche dei conflitti, amico di Gaston Bouthoul, uno dei principali osservatori mondiali di questi fenomeni, Freund fondò nel 1970, sempre a Strasburgo, il prestigioso Istituto di Polemologia [“Per polemologia”, spiegava, “non intendo la scienza della guerra e della pace, ma la scienza generale del conflitto nel senso del polemos eracliteo”] e, nel 1983, pubblicò, nell’ambito di questa scienza della guerra, un importante saggio: Sociologia del conflitto, un’opera in cui considera i conflitti come processi positivi: “Sono sicuro di poter dire che la politica è per sua natura conflittuale, per il fatto stesso che non c’è politica se non c’è nemico “**.

Così, sulla base di tali elaborazioni concettuali, rivoluzionarie nella loro chiarezza, Freund giunge a una definizione generale di politica, intesa “come l’attività sociale che si propone di assicurare con la forza, generalmente basata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di una determinata unità politica, garantendo l’ordine nonostante le lotte che nascono dalla diversità e dalle divergenze di opinioni e di interessi”.

In un libro in gran parte auto-biografico, pubblicato sotto forma di intervista (L’aventure du politique, Critérion, 1991), Freund esprime il suo pessimismo sul destino dell’Occidente, ormai in preda a una decadenza insanabile, dovuta a cause interne che aveva studiato nelle pagine di un altro suo capolavoro, La décadence (Sirey, 1984). Difensore di un’organizzazione federalista dell’Europa, aveva espresso il suo punto di vista su questa questione cruciale in La fin de la Renaissance (PUF, 1980). Julien Freund è morto prima di aver completato un saggio sull’essenza dell’economia. Il Prof. Dr. Piet Tommissen avrà l’onore di pubblicare la versione definitiva di quest’opera***, certamente fondamentale come tutte le precedenti. Il Prof. Dr. Piet Tommissen sarà anche l’esecutore e il gestore dell’archivio lasciatoci dal grande politologo alsaziano.

► Dott. Alessandra Colla (rivista milanese Orion n°108, settembre 1993).

 

*: Freund ha tradotto Lo studioso e il politico e Saggi sulla teoria della scienza di Max Weber (anch’essi da lui prefati). Cfr. estratti.

** La demonizzazione del nemico è il prezzo da pagare per coloro che ignorano l’opposizione tra amico e nemico. Da qui le guerre di sterminio che, prendendo di mira nemici ridotti a incarnazioni del diavolo, vengono condotte in nome di fini sublimi (pace perpetua, fratellanza universale, ecc.). PA Taguieff, Julien Freund, au cœur du politique, La Table ronde, 2008, p. 54. Il nemico è inteso qui come “polemos” o “hostis”, cioè come nemico pubblico, un’entità che deve essere chiaramente distinta dal nemico privato (“ekhthros” o “inimicus”). Da buon pensatore machiavellico, Julien Freund individua il gioco machiavellico di coloro che rifiutano la nozione di nemico per utilizzare, in cambio, una terminologia moraleggiante che letteralmente evacua il nemico dal genere umano. “Il nemico rientra dalla porta di servizio, ma sotto una veste diabolica”, scrive Taguieff a questo proposito (p. 53).

*** : L’essence de l’économique, Presses univ. de Strasbourg, 1993 [vedi questa intervista]. P. Tommissen ha anche stabilito una bibliografia in appendice a Philosophie et sociologie (Cabay, Louvain-la-Neuve, 1984, p. 415-456: Julien Freund, une esquisse bio-bibliographique).

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Testi aggiuntivi :

Filosofo, sociologo e politologo, Julien Freund ci ha lasciati il 10 settembre 1993, lasciandoci in eredità un ricco e variegato corpus di lavori sul diritto, la politica, l’economia, la religione, l’epistemologia delle scienze sociali, la polemologia, la pedagogia e l’estetica. Tuttavia, era particolarmente interessato a chiarire quelli che Paul Ricœur chiamava i paradossi della politica. Segnato prima della guerra da una concezione idealista della politica, Freund perse le sue illusioni durante gli anni della Resistenza e durante il suo impegno politico e sindacale dopo la Liberazione. Sono state le delusioni causate dalla realtà della pratica politica a spingerlo a studiare cosa sia realmente la politica, cioè a scoprire cosa si nasconde dietro il velo ipocrita di certe concezioni moralistiche. È da questo desiderio di ricercare e descrivere la vera natura della politica, al di là delle contingenze storiche e ideologiche, che nasce L’essence du politique, la sua opera magna pubblicata nel 1965 e riedita nel 2003 da Dalloz con una postfazione di Pierre-André Taguieff.

La grande lezione politica di Julien Freund

Contro la saggezza convenzionale del suo tempo, Julien Freund osò affermare e dimostrare ne L’essenza della politica (1) che la politica ha un peso insormontabile e che è illusorio sperare nella sua scomparsa. Egli sintetizzò questa idea nella formula: “ci sono rivoluzioni politiche, non c’è rivoluzione del politico” (2). Questa affermazione, apparentemente semplice, ha innumerevoli conseguenze filosofiche.

Il pensiero politico di Freund si basa sull’idea che esista un’essenza della politica. Ciò significa, da un lato, che l’uomo è un essere politico e, dall’altro, che la società è un fatto naturale e non una costruzione artificiale dell’uomo (3). Da questo punto di vista, l’autore de L’essenza della politica è in linea con Aristotele e in opposizione alle varie teorie del contratto sociale ereditate da Hobbes. Da ciò deriva una certa concezione del rapporto tra la società e gli individui che la compongono.

La società è intesa come condizione esistenziale dell’uomo: come ogni ambiente, gli impone una limitazione e una finitudine. Spetta cioè all’uomo, attraverso l’attività politica, organizzarla e riorganizzarla costantemente in funzione dell’evoluzione dell’umanità e dello sviluppo delle varie attività umane. Per Freund, la società è quindi “data”, così come l’uomo che, da parte sua, è dotato di una “socievolezza naturale”. L’idea di uno “stato naturale”, che implicherebbe un’umanità asociale, è quindi per lui priva di senso. Può avere senso solo come ipotesi, come “utopia razionale” che permetterebbe di comprendere meglio la società e di mostrare ciò che è convenzionale in essa.

Una visione fondamentalmente conflittuale della società

A causa dell’uso del termine “essenza”, la filosofia di Freund è stata spesso definita essenzialismo, nel senso che rinchiude la politica in un’immobilità estranea alla sua natura. Non è necessario aver letto Freund per pensarlo. La sua intera ambizione teorica era quella di riabilitare la distinzione tra i generi, che si basa sull’idea dell’autonomia delle diverse attività umane, ognuna delle quali ha il proprio scopo e i propri mezzi. Lo scopo della scienza o dell’arte non è lo stesso di quello della politica o della religione. La sua teoria era, tra l’altro, un modo per reagire contro le ideologie o le dottrine sistematiche che cercavano di spiegare tutte le attività umane con un’attività primaria, sia essa l’economia (come nel marxismo), la politica o la religione. Pertanto, quando Freund dice che la politica è un’essenza, significa che è solo un’essenza, cioè un’attività umana tra le altre come la religione, la morale o l’economia. Come sociologo, non vedeva l’esistenza umana solo da una prospettiva politica, ignorando queste altre attività. Non vedeva la politica come un fine in sé, ma come un’attività al servizio di altre aspirazioni umane (estetiche, religiose, metafisiche, ecc.), tornando così alla filosofia aristotelica.

La sua teoria politica si basa su una visione fondamentalmente conflittuale della società, secondo la quale essa è attraversata da tensioni e antagonismi tra le varie attività umane che nessuna razionalizzazione o utopia può superare definitivamente. Come Vilfredo Pareto (4), ritiene che l’ordine sociale si basi su un equilibrio più o meno sensibile tra queste forze antagoniste. Alcune forze tendono a stabilizzare l’ordine sociale, altre a destabilizzarlo e disorganizzarlo per stabilire un ordine migliore. L’equilibrio su cui poggia questo ordine non può mai trovare una soluzione definitiva, ma solo un compromesso; ed è proprio compito della politica mantenerlo, in particolare attraverso la coercizione. Per questo l’ordine politico è in gran parte determinato dall’interazione dialettica tra comando e obbedienza.

Un ostacolo insormontabile per uno Stato universale

Va sottolineato che, come ogni attività, la politica ha dei presupposti, cioè delle condizioni costitutive che la rendono ciò che è, e non qualcos’altro. Per Freund, questi presupposti sono tre: la relazione tra comando e obbedienza, la distinzione tra pubblico e privato e la distinzione tra amico e nemico (5). Tutti e tre questi presupposti riflettono le dinamiche conflittuali in atto nella società.

  1. Il rapporto di comando e obbedienza è il presupposto di base della politica ed è questo che la caratterizza veramente, in quanto introduce il rapporto gerarchico tra governanti e governati. Erede di Max Weber, Freund vede il comando come un fenomeno di potere. È questo potere a plasmare la volontà del gruppo e a garantire l’esistenza del dominio pubblico. Possiamo capire perché la teoria politica di Freund dia alla sovranità la sua piena dimensione politica, presentandola come un fenomeno di potere e di forza e non come un concetto essenzialmente giuridico. Tuttavia, Freund non fa del potere il fine della politica. Per lui, come per Hobbes, potere e protezione vanno di pari passo: il potere è al servizio della protezione della comunità, perché non dobbiamo dimenticare che lo scopo della politica è la sicurezza di fronte al mondo esterno e la concordia all’interno.
  2. La distinzione tra pubblico e privato è il presupposto che permette di delimitare ciò che è di competenza della politica, cioè ciò che riguarda l’ordine pubblico, e ciò che appartiene alla sfera privata e riguarda l’individuo e le relazioni interindividuali. Nella realtà storica, le cose non sono così nette. Inoltre, questo confine non è mai definitivo, poiché dipende dalla volontà politica, che in ultima analisi determina la quota di ciascuna sfera. Ciò che è certo è che la dialettica tra pubblico e privato esiste in ogni società politica. La storia dell’Occidente è caratterizzata da uno sforzo politico per estendere la sfera privata e garantire una serie di libertà fondamentali, mentre il totalitarismo, al contrario, è stato un gigantesco sforzo per cancellare la distinzione tra individuo e pubblico. Eppure il privato è indispensabile quanto il pubblico, nella misura in cui è il luogo delle innovazioni, delle trasformazioni e delle contestazioni. Qui troviamo la dinamica conflittuale che attraversa il lavoro di J. Freund. È la dialettica tra l’ordine pubblico e il ribollire della sfera privata che permette a una società di essere viva e di evolversi costantemente.
  3. Freund ha incorporato il criterio schmittiano della distinzione amico-nemico nella sua teoria politica, rendendolo non il criterio della politica, ma solo uno dei suoi tre presupposti. Questa distinzione non ha la stessa importanza esistenziale o metafisica che aveva per l’autore de La nozione di politica, ma il nemico rimane per Freund il fattore essenziale della politica: nonostante gli idealisti, per lui “non può esserci politica senza un nemico reale o virtuale” (6). Il vantaggio della distinzione amico-nemico è che non è solo simbolica, ma soprattutto concreta ed esistenziale, cioè eminentemente politica. Ciò significa che “la guerra è sempre latente, non perché sia un fine in sé o l’obiettivo della politica, ma come ultimo ricorso in una situazione senza speranza” (7).

Per Freund, la natura conflittuale della natura umana costituisce un ostacolo insormontabile alla costituzione di uno Stato universale. Per questo Freund adotta un approccio realista e sociologico alle relazioni internazionali che deve molto ai suoi maestri, Carl Schmitt e Raymond Aron. Pur ammettendo che le relazioni tra gli Stati si basano anche su scambi amichevoli, Freund osserva che esse si fondano sulla paura e sulla volontà di potenza, piuttosto che su basi giuridiche. Pertanto, a suo avviso, il diritto rimane subordinato agli interessi della politica. Era sospettoso nei confronti dell’atteggiamento moralistico di credere che le guerre potessero essere terminate con mezzi legali, eliminando allo stesso tempo ogni coercizione e violenza. A questo proposito, rimproverava ad alcuni giuristi di negare, in nome di un positivismo troppo stretto, l’esistenza della sovranità o di considerarla un concetto metafisico o filosofico.

In definitiva, se rileggiamo Freund oggi, notiamo che, per la maggior parte, la sua analisi “classica” delle relazioni internazionali non è invecchiata molto, nonostante il forte cambiamento seguito alla scomparsa dell’URSS nel 1991. Come osserva Pierre de Sénarclens, “nonostante lo sviluppo delle istituzioni intergovernative, delle reti di solidarietà transnazionali, dei processi di integrazione regionale e dei regimi di cooperazione settoriale, la politica internazionale mantiene le sue caratteristiche. Continua a svolgersi in un ambiente relativamente anarchico, caratterizzato da Stati di importanza molto diversa, le cui società rimangono culturalmente e politicamente eterogenee” (8). È quindi ancora caratterizzata dall’egemonia delle grandi potenze e dal “ripetersi di crisi e conflitti violenti che le Nazioni Unite o le organizzazioni internazionali non sono in grado di limitare o arbitrare” (9). La “pace di diritto” annunciata dall’Abbé de Saint-Pierre, da Kant [cfr. questo estratto] o da Habermas rimane un’utopia.

Non si può parlare della politica di Freund senza affrontare la questione del diritto, poiché queste due nozioni sono così consustanziali. Freund difende una concezione sociologica del diritto. Infatti, contrariamente ai positivisti, che lo considerano solo per se stesso, nella sua pura positività, Freund pensa che il diritto possa essere compreso solo nella sua relazione con le altre attività umane, e in particolare con la politica e la morale. Questo approccio sociologico lo ha portato a mettere in discussione il normativismo kelseniano, che ritiene che “il diritto sia un ordine di costrizione”, cioè che, in quanto diritto, porti in sé la costrizione. È vero che tale tesi è incompatibile con la nozione di essenza della politica. Se, come pensa Kelsen (10), il diritto è un insieme di norme che contiene in sé la costrizione, la politica è subordinata al giuridico ed è lo Stato che deriva dal diritto e non viceversa. Per l’autore de L’essenza della politica, il diritto è certamente normativo e prescrittivo, ma “non possiede in sé il potere di imporre o far rispettare ciò che prescrive” (11). La legge presuppone un’autorità (politica o gerocratica) che abbia il potere di coercizione e che esegua le sentenze. Non è concepibile senza una costrizione esterna, senza una volontà diversa da quella del giurista.

La volontà politica precede il diritto

Per Freund, il diritto non è quindi un’essenza, un’attività originale e autonoma dell’uomo. È soprattutto una dialettica (nel senso di una mediazione) tra politica e morale, cioè presuppone queste due essenze: la morale e la politica devono essere state date in precedenza perché possa sorgere la relazione giuridica. In altre parole, la politica e la morale sono le condizioni di possibilità della relazione giuridica. In generale, il diritto presuppone una volontà politica preesistente, cioè un’unità politica già formata (da questo punto di vista, è incoerente, ad esempio, parlare di Costituzione europea quando l’unità politica europea non è chiaramente definita). Ma il diritto non è solo un puro effetto della volontà politica. Ha anche un aspetto morale, poiché presuppone che la società riconosca prima “un certo ethos o valori, fini o aspirazioni che determinano la sua particolarità” (12). È la legge che iscrive questi valori e questi fini nell’ordine che regola.

Né la politica né la morale possono quindi fare a meno del diritto, che per sua natura si colloca nell’intervallo che permette alla politica di agire sulla morale e alla morale di agire sulla politica. In cambio, il diritto agisce anche sulla morale e sulla volontà politica; fornisce loro la disciplina, la legittimità delle istituzioni e conferisce durata e unità politica attraverso la sua organizzazione. Senza il diritto, non potrebbe esistere un’organizzazione politica duratura e la politica sarebbe solo una serie di decisioni arbitrarie.

Morale e politica non hanno lo stesso obiettivo

79115110.jpgLa filosofia di J. Freund permette di risolvere il dibattito sempre ricorrente tra morale e politica. Per lui non si tratta di eliminare la politica dal giudizio morale o di isolare queste due attività l’una dall’altra, ma solo di riconoscere che non sono identiche. La morale e la politica non mirano affatto allo stesso obiettivo: “La prima risponde a un’esigenza interiore e riguarda la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, con l’assunzione da parte di ciascuno della piena responsabilità della propria condotta. La politica, invece, risponde a una necessità della vita sociale, e chi la pratica intende partecipare alla presa in carico del destino di una comunità” (13). Aristotele lo aveva già annunciato distinguendo la virtù morale dell’uomo buono, che mira alla perfezione individuale, dalla virtù civica del cittadino, che è legata alla capacità di comandare e obbedire e mira alla salvezza della comunità (14). Sebbene sia auspicabile che il politico sia un uomo buono, può anche non esserlo, perché è responsabile della comunità politica indipendentemente dalla sua qualità morale.

Secondo Freund, l’identificazione tra morale e politica è addirittura una delle fonti del dispotismo e delle dittature (15). È un segno dell'”imperialismo del politico”, nel senso che il politico può invadere tutti i settori della vita umana, che caratterizza i totalitarismi. Come osserva Myriam Revault d’Allonnes, “tutto è politico”, cioè l’abolizione della distinzione tra ciò che è politico e ciò che non lo è, tra il privato e il pubblico, tra il politico e il sociale, significa che nulla è politico (16). La pluralità umana, condizione per la convivenza, è scomparsa.

Su questo tema, J. Freund ha tratto il meglio da Machiavelli. Egli si definisce un pensatore machiavellico, ma distingue tra i termini machiavellico e machiavellico. Il primo termine corrisponderebbe all’analisi teorica, il secondo alla pratica della politica: “Essere machiavellico significa adottare uno stile di pensiero teorico, senza concessioni alle commedie moraleggianti di alcun potere. Non è essere immorali, ma proprio cercare di determinare con il massimo acume possibile la natura del rapporto tra morale e politica […]; essere machiavellici, invece, è adottare una condotta pratica nel gioco politico concreto, che consiste in ‘generose scelleratezze’, inganni più o meno diabolici e manovre perverse” (17). Per quattro secoli il pensatore fiorentino è stato oggetto di interpretazioni diverse e contraddittorie, che riflettono in ultima analisi l’ambiguità del suo pensiero, che in realtà deriva dall’ambiguità insita nella politica stessa. È, come suggerisce Leo Strauss, un nemico del genere umano in combutta con Satana, o è, come pensa Rousseau, un cittadino buono e onesto che finge di dare lezioni ai re per darne al popolo?

 

La concordia

Senza voler sminuire la dottrina di Machiavelli, ma rifiutando le interpretazioni più machiavelliche, possiamo intendere il suo pensiero politico come un appello alla vigilanza e alla lucidità: una lucidità che sa che non potrà far scomparire la morte, la violenza, la malvagità umana, la divisione sociale e la corruzione delle cose; una vigilanza che richiede la costruzione di solidi baluardi, di un regime e di leggi che evitino gli eccessi. È qui che risiede la morale politica di Machiavelli: mantenere lo Stato, sostenere la forza della legge, prevenire il disordine e la violenza, preservare la pace senza la quale la vita comune è impossibile (18).

L’autore de Il Principe non nega i valori morali, ma si rifiuta di considerarli come l’unico criterio di giudizio per un uomo di Stato. La moralità del principe consiste nell’esercitare il suo ufficio politico al meglio delle sue possibilità. Sarebbe infedele a questa morale se, per preservare la propria integrità morale, permettesse alla sua città di sprofondare nel disordine e al suo popolo nell’angoscia. J. Freund riassume questa posizione dicendo che, per Machiavelli, “non esiste una politica morale, ma una morale della politica” (19). Il pensiero di Freund corrisponde a questa interpretazione. Anch’egli ritiene che “la politica non è il raggiungimento di un fine morale, ma il fine della politica, cioè la pace interiore e la sicurezza interiore, anche se ciò significa fare delle curve nella moralità personale” (20).

 

L’ideologia come sostituto della teologia

La grande lezione di Machiavelli è anche questa ricerca della verità effettuale, questa “verità effettiva della cosa”, che rifiuta di fare politica a partire da repubbliche immaginarie, concepite in sogno e che nessuno ha mai conosciuto. Questa diffidenza verso le utopie, questo attaccamento alla “verità effettiva” riflette anche il desiderio di marcare la distanza tra l’essere e il dover essere, tra l’ideale e ciò che è realizzabile, perché la ricerca dell’ideale a tutti i costi porta politicamente al fallimento e spesso alla violenza. Freund fa anche spesso riferimento al paradosso delle conseguenze di Max Weber, che spiega che in politica non basta avere intenzioni moralmente buone all’inizio, ma che bisogna evitare di fare scelte con conseguenze spiacevoli. Infatti, “è nell’azione che il politico dimostra di essere moralmente all’altezza del compito che gli è stato affidato” (21).

La distinzione di Freund tra politica e morale spiega la sua diffidenza verso le ideologie e le utopie (22). Il suo approccio machiavellico lo porta a considerare l’ideologia in modo paradossale. Da un lato, ne riconosce l’importanza in politica, non solo per il consolidamento del potere, ma anche come promessa e speranza, cioè come motore della politica. In assenza di una fede teologica, solo l’ideologia può permettere di affermare un’opinione in mezzo a molteplici opinioni e quindi di stabilire un ordine politico. L’ideologia avrebbe quindi un ruolo di sostituzione della teologia. Per questo Freund la descrive come una “razionalizzazione intellettuale della volontà politica” (23).

D’altra parte, la sua analisi realistica e scientifica, l’importanza che attribuisce al senso di responsabilità nella politica, incoraggiano la sua diffidenza. La politica ideologica gli appare come una politica “intellettualizzata”, che privilegia idee astratte, presumibilmente generose e umanistiche, ma lontane dalla realtà concreta della politica. Tale politica è pericolosa in quanto permette di giustificare filosoficamente certe violenze in nome di fini escatologici, promesse di pace o di giustizia… È ciò che Camus chiamava “violenza comoda”. L’ideologia pretende di raggiungere i fini ultimi senza preoccuparsi dei mezzi a disposizione. Meglio ancora, usa l’esaltazione di questi fini ultimi per mascherare il cinismo che presiede all’uso dei mezzi. È in questo senso che Freund parla di escatologia secolarizzata, nel senso che l’ideologia ci fa credere che i fini escatologici che la teologia proietta nell’aldilà sarebbero realizzabili qui sotto (24).

Per quanto riguarda le utopie, è il loro stesso spirito che si oppone alla nozione di essenza della politica. Le prime utopie non erano la negazione della politica, poiché, pur portando la speranza di una nuova società, riconoscevano la necessità di un’organizzazione della società. Ma le utopie moderne, soprattutto sotto l’influenza del marxismo, hanno assunto una dimensione antipolitica, allontanandosi dall’esperienza umana in nome di speculazioni immaginarie e fittizie sul futuro e credendo di poter trasformare radicalmente l’uomo attraverso le istituzioni. Tale convinzione implica la negazione della natura umana, e quindi il suo sacrificio. In quanto idea puramente astratta e distaccata dalla realtà, l’utopia è quindi esposta ai deliri dell’eccesso, del dispotismo e della tirannia. Immagina che sia possibile instaurare una società perfetta ed eliminare ogni conflitto eliminando ciò che considera negativo o malvagio. Antipolitica, si basa quindi sulla negazione dell’essenza e dei presupposti della politica, sull’ignoranza o sul rifiuto del “peso della natura umana”.

A questa concezione progressista, razionalista e, va detto, un po’ ingenua della società, J. Freund oppone la sua teoria delle essenze, che si basa sul riconoscimento della natura fondamentalmente conflittuale delle società storiche. Egli incoraggia anche la polemologia, lo studio dei conflitti, ritenendo che la sociologia non debba considerare la vita solo dal punto di vista del desiderio, cioè nei termini di una società immaginaria, ma che si debbano prendere in considerazione anche altre nozioni come la violenza o l’aggressione (25). Seguendo Simmel (26), egli considera il conflitto come un fenomeno sociale normale, nel senso che è un fenomeno consustanziale a qualsiasi società. Naturalmente, questa considerazione del conflitto determina un modo di intendere la società. Presuppone l’accettazione dell’idea (su cui si basa la teoria politica di Freund) che l’uomo viva naturalmente in società. Il conflitto, infatti, diventa sociologicamente intelligibile solo se si concepisce la società come un dato dell’esistenza umana e come un insieme di relazioni in permanente trasformazione, di cui il conflitto è uno dei fattori di modifica.

In conclusione, ci si può chiedere a quale corrente politica appartenga Freund. Se possiamo collocarlo, metodologicamente, nella linea degli autori “machiavellici” (27), possiamo concordare con Pierre-André Taguieff nel classificarlo politicamente (con tutte le precauzioni che questo tipo di classificazione merita) come “un liberale conservatore insoddisfatto” (28), tanto che “Freund accumulava nella sua persona due figure paradossali: quella di un liberale dotato di senso del nemico e quella di un conservatore che rifiuta il conservatorismo gretto dei “conservatori” patentati” (29).

 

► Bernard Quesnay, Elementi n°111, dicembre 2003.

 

♦ NOTE:

  1. Freund, L’essence du politique, Sirey, 1965, ripubblicato da Dalloz, 2003, 868 p., 45 €, postfazione di P.-A. Taguieff. Sebbene insista, a nostro avviso, un po’ troppo sul rapporto tra Schmitt e Freund e sulla nozione di nemico – a scapito di altre nozioni essenziali e di altri pensatori importanti per Freund -, l’importante postfazione di Taguieff presenta in modo esauriente e onesto il pensiero dell’autore, restituendo a quest’ultimo l’importanza che merita, collocandolo tra i grandi “educatori” e “illuminatori” del XX secolo, come Alain, Ricœur, Sorel, Valéry, Camus, Cioran, Péguy, Ellul o Aron…
  2. Freund, op. cit. p. IX.

Ibidem, p. 24.

Pareto, autore di un Trattato di sociologia generale (Droz, Ginevra, 1968), occupa un posto fondamentale nel pensiero di Freund, che gli ha dedicato un libro (Pareto. La théorie de l’équilibre, Seghers, coll. Philosophie, 1974). Oltre alla concezione dell’equilibrio sociale, Freund ereditò dal sociologo italiano l’idea generale che, al di là della forma (la politica), la sostanza (la politica) rimane costante; nonché una certa diffidenza nei confronti dei miti e delle utopie, illuminata dalla distinzione paretiana tra residui e derivazioni. Su Pareto, si veda anche G. Busino, Introduction à une histoire de la sociologie de Pareto; Cahiers V. Pareto, Droz, 1967; G.-H. Bousquet, Pareto, le savant et l’homme, Payot, 1960; Raymond Aron, Les étapes de la pensée sociologique, Gal., 1967).

  1. Freund, op. cit. p. 94.

Ibidem, p. 478.

Ibidem, p. 446.

  1. de Senarclens, Mondialisation, souveraineté et théorie des relations internationales, A. Colin, 1998, p. 202.

Ibidem, p. 202.

Hans Kelsen, Teoria pura del diritto, LGDJ, 1999, p. 64. Kelsen (1881-1973), autore di una Teoria pura del diritto (op. cit.) e della Teoria generale delle norme (PUF, 1996), è all’origine di una delle principali correnti del positivismo giuridico: il normativismo, secondo il quale il diritto è un insieme di norme, ciascuna delle quali deriva da una norma superiore, fino ad arrivare a una misteriosa “norma fondamentale”. Secondo questa teoria pura del diritto, è impossibile definire una norma giuridica in base al suo contenuto, ma solo in base alla sua appartenenza a un sistema di norme. Freund, seguendo Schmitt, si è spesso opposto a questa teoria, che porta a una totale identificazione tra diritto e Stato.

  1. Freund, Le droit aujourd’hui, PUF, 1972, p. 9.
  2. Freund, op. cit. p. 88.
  3. Freund, Qu’est-ce que la politique, prefazione, Seuil, 1968, ripubblicato nel 1978 e nel 1983, p. 6.

Aristotele, Politica, III, 4, 1276-b.

  1. Freund, Che cos’è la politica? op. cit. prefazione, p. 6.

Myriam Revault d’Allonnes, Le dépérissement de la politique. Généalogie d’un lieu commun, Aubier-Flammarion, 1999, p. 239.

L’essence du politique, op. cit. p. 818.

“Stabilire la pace significa riconoscere il diritto delle opinioni e degli interessi che non sono i nostri di esistere e di esprimersi. Se neghiamo loro questo diritto, abbiamo la guerra. La pace non è quindi l’abolizione del nemico, ma un accomodamento con lui; e non è nemmeno una sorta di riconoscimento, ma il riconoscimento del nemico”, sottolinea giustamente J. Freund: “La pace che esclude il nemico si chiama guerra”, in: Le Nouvel Âge. Éléments pour la théorie de la démocratie et de la paix, Marcel Rivière, 1970, p. 219.

  1. Freund, Politique et impolitique, Sirey, 1987, p. 243.

Ibidem, p. 243.

Ibidem, p. 244.

“È forse perché la violenza è profondamente radicata nell’uomo che l’utopismo vi ricorre. La violenza non eliminerà la violenza, nonostante l’utopismo. La natura umana pone un problema insolubile, da cui la perennità della metafisica”, J. Freund, Utopia e violenza, Marcel Rivière, 1978, p. 256.

  1. Freund, “L’idéologie chez Max Weber” in Revue européenne des sciences sociales, 1973, 30, p. 16.
  2. Freund, Politique et impolitique, op. cit. p. 17. Nello stesso senso, Aron ha parlato di “religioni secolari” e Schmitt di “concetti teologici secolarizzati”. Su questo tema si veda Jean-Claude Monod, La querelle de la sécularisation de Hegel à Blumenberg, Vrin, 2002, e Karl Löwith, Histoire et Salut, Gal. 2002 (commentato in Elements n. 108).

Ricordiamo che fondò la Facoltà di Scienze Sociali di Strasburgo e creò con Gaston Bouthoul l’Istituto di Polemologia e il Laboratorio di Sociologia Regionale.

Georg Simmel (1858-1918) è uno dei fondatori della sociologia moderna. È soprattutto colui che ha evidenziato il contributo dei conflitti nella vita sociale. La sociologia di Freund dimostra che per strutturare una società non è necessario eliminare tutti i conflitti, poiché anch’essi contribuiscono all’equilibrio sociale. Il suo lavoro ha ricevuto un rinnovato interesse negli ultimi dieci anni: cfr. Le conflit (Circé Poche). Le conflit (Circé Poche, 1995, pref. di J. Freund), Sociologies, Études sur les formes de socialisation (PUF, 1999), La tragédie de la culture et autres essais (Rivages Poche, 1993); su Simmel, si veda anche François Léger, La pensée de Georg Simmel. Contribution à l’histoire des idées au début du XXe siècle (Kimé, 1989, prefazione di J. Freund).

Il termine “machiavellico” è stato utilizzato a partire dal famoso libro di James Burnham, Les machiavéliens. Defenders of Liberty (Calmann-Lévy, 1949), per designare autori diversi come Machiavelli, Pareto, Weber, Schmitt, Mosca, Michels o anche Aron, che si impegnano in un’analisi “realistica” o “scientifica” della politica e sono sospettosi di qualsiasi idealismo.

Questa nozione di liberalismo conservatore, che rimane vaga, ma la cui idea centrale è quella di erigere uno Stato politico forte e autonomo che preservi le libertà degli individui in una società civile liberale, permette di collocare Freund nella linea di Weber, Schmitt, Pareto e Hayek (cfr. Renato Cristi, Le libéralis. Renato Cristi, Le libéralisme conservateur, Trois essais sur Schmitt, Hayek et Hegel, Kimé, 1993).

P-A Taguieff, postfazione alla riedizione de L’essenza della politica, op. cit.

 

 

Da leggere:

Omaggi a J.F.

  1. Freund (AdB, 2008)

Conversazione con J. Freund (P. Bérard)

Il testo di Freund sulla decisione

La negazione del nemico

elementi editoriali n° 105

3 recensioni (Revue française de science politique)

 

 

***

 

L’opera controversa di Julien Freund fa luce sulla tendenza alla depoliticizzazione delle nostre società

Un filosofo contro l’angelismo

medium13.jpgJulien Freund aveva iniziato la sua tesi su L’essenza della politica (1) con Jean Hyppolite. Dopo qualche tempo, gli inviò le prime cento pagine per la revisione. Jean Hyppolite, preoccupato, gli fissò immediatamente un appuntamento al Balzar. Aveva avuto cura di invitare anche Canguilhem. Si trattava di revocare la tesi: “Sono socialista e pacifista”, disse Hyppolite a Freund. “Non posso dirigere una tesi alla Sorbona in cui si afferma che non c’è politica se non quando c’è un nemico”. Freund, stupito e deluso, scrisse a Raymond Aron per chiedergli di dirigere la tesi che aveva iniziato, e lui accettò. Anni dopo, venne il momento della difesa e Jean Hyppolite era nella giuria. Egli rivolse a Freund un discorso severo: “Sulla questione della categoria di amico-nemico, se lei ha davvero ragione, posso solo andare a coltivare il mio giardino”. Freund si difese con coraggio: “Lei crede, come tutti i pacifisti, che sia lei a designare il nemico. Ma è il nemico che designa voi. Se vuole che tu sia suo nemico, lo sei, e ti impedirà persino di coltivare il tuo giardino”. Hyppolite si alzò sulla sedia: “In questo caso”, disse, “non mi resta che uccidermi”.

Questa storia, autentica fino all’ultimo dettaglio, è significativa per la vita di Julien Freund. È un uomo che viene ostracizzato per idee alle quali i suoi avversari finiranno per arrendersi, ma dopo la sua morte.

La descrizione del rapporto amico-nemico come base irriducibile della politica dell’epoca sembra una provocazione, indigna l’establishment clericale regnante e pone Freund ai margini della società in un modo che sembra definitivo. Sostenendo che non c’è politica senza riconoscimento del nemico, Freund vuole forse la guerra? Questo è sufficiente per definirlo un fascista.

 

Freund è vissuto nell’epoca del trionfo del pensiero marxista. Ma è un figlio di Aristotele. Non crede che gli intellettuali e i politici possano rigenerare l’umanità. Cerca ciò che è: cos’è l’uomo? Che cos’è una società umana? È interessato alla realtà e se ne stupisce, un atteggiamento filosofico. Come è fatto il mondo umano? È una diversità in movimento. Una pluralità di culture. Non potremmo ridurre questa pluralità generatrice di conflitti, sradicarla? Questo è ciò che spera il marxismo. Freund crede in questa possibilità, ma al prezzo della peggiore schiavitù. Allora perché dovremmo accettare la diversità che porta la guerra in mezzo a noi? Perché l’umanità è incapace di rispondere una volta per tutte, e con una sola parola finita, alle domande che la tormentano. Pluralità significa pluralità di interpretazioni. Solo un oppressore può ridurla.

Il conflitto è il correlato della diversità di pensiero e della particolarità di ogni cultura. La politica, nel senso ampio di governo, è l’organizzazione di una società particolare che, attraverso la sua cultura, fornisce risposte specifiche alle domande che tutti gli uomini si pongono, e quindi si scontra con altre risposte diverse e altrettanto specifiche. La politica in senso stretto del governo europeo, inventato dai greci, significa quell’organizzazione che accetta i dibattiti di interpretazione all’interno di una società e di una cultura.

A metà del XX secolo, in un’epoca in cui le ideologie danno per scontato che “tutto è possibile” per quanto riguarda l’uomo, Freund sviluppa una riflessione antropologica e ripercorre le storture della condizione umana, da cui emerge chiaramente che non tutto è possibile impunemente. E impedisce il volo di Icaro verso regioni eteree popolate da angeli e sature di azzurro.

Non ha mai accettato critiche sulla sua ammirazione per il pensiero di Carl Schmitt. I suoi detrattori erano, secondo un’espressione ormai consolidata, antifascisti ma non antitotalitari, e inoltre ritenevano naturale ammirare Heidegger. Queste ipocrisie lo facevano scoppiare in una risata squillante e in una rabbia fulminante. Aveva un innegabile talento pedagogico, una passione per la trasmissione disinteressata: lo studente meno accademico, che portava avanti la sua tesi di laurea al di fuori del percorso ufficiale, lo consigliava con la stessa cura con cui si portava dietro grandi aspettative. Questo talento per l’insegnamento lo portava al pubblico più semplice, e le organizzazioni contadine sapevano che non avrebbe rifiutato alcuna lezione.

 

Come altri, ammiravo in lui un modo di pensare capace di accettare coraggiosamente la realtà umana in un momento in cui tante grandi menti la stavano fuggendo nella folle speranza di diventare dei. La vita di alcune persone sarebbe stata più tranquilla se non lo avessero incontrato, perché questo era ciò che traspariva dal suo modo di affrontare l’ostile mondo delle idee: costi quel che costi, uno spirito libero non si arrende.

Chantal Delsol, Le Figaro (19 febbraio 2004).

(1) Le Edizioni Dalloz stanno ripubblicando questo capolavoro, con una postfazione di P.-A. Taguieff (L’Essence du politique, 867 p. 45 €).

 

***

Morale e politica

In effetti, la morale e la politica non hanno affatto lo stesso obiettivo. La prima risponde a un’esigenza interiore e riguarda la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, con l’assunzione da parte di ciascuno della piena responsabilità della propria condotta. La politica, invece, risponde a un’esigenza della vita sociale e chi si impegna su questa strada intende partecipare alla gestione del destino globale di una comunità. Già Aristotele distingueva tra la virtù morale dell’uomo buono, che mira alla perfezione individuale, cioè alla realizzazione di sé, e la virtù civica del cittadino, che riguarda la capacità di comandare e obbedire e la salvezza della comunità. (…) In altre parole, la politica si occupa della comunità in quanto tale, indipendentemente dalla qualità morale e dalla vocazione personale dei suoi membri (…) Questa distinzione classica è ancora valida, nonostante le ideologie che cercano di asservire gli individui all’epifania della giustizia e dell’uguaglianza sociale o all’ordine morale che promettono per un futuro indeterminato. L’identificazione tra morale e politica è addirittura una delle fonti del dispotismo e delle dittature.

Julien Freund, Qu’est-ce que la politique? 1965, Points Seuil, prefazione, p. 6.

 

Legge e forza:

In generale, la vita politica è posta sotto il segno della costrizione, che è la manifestazione specifica della forza pubblica senza la quale non solo non esisterebbe l’ordine, ma nemmeno lo Stato. Poiché tutto lo Stato è coercizione, poiché si basa sul presupposto del comando e dell’obbedienza, la forza è inevitabilmente il mezzo essenziale della politica e appartiene alla sua essenza. Ciò non significa, tuttavia, che essa costituisca l’intera unità politica, né che sia l’unico mezzo della sua autorità, perché lo Stato è anche un’organizzazione giuridica, soprattutto oggi che, sotto l’influenza della crescente razionalizzazione della vita in generale, la legalità tende a moderare gli interventi diretti della forza. Tuttavia, per quanto capitalistica possa essere la razionalizzazione legalistica nelle società moderne, quando un conflitto sorge all’interno di un sistema di legalità e gli oppositori rifiutano di scendere a compromessi, non resta che la forza come ultima risorsa. Non che la forza sia fine a se stessa o che lo Stato esista solo per applicare la forza fine a se stessa; essa è al servizio dell’ordine e del rispetto della morale, dei costumi, delle istituzioni, delle norme e delle altre strutture giuridiche. Certamente, non può esserci concordia senza regole, convenzioni o leggi comuni e valide per tutti i membri, e quindi non c’è ordine senza legge (di qualsiasi natura essa sia: consuetudinaria o scritta). Lo Stato appare quindi come lo strumento per la manifestazione del diritto, sia sancendo le consuetudini esistenti sia promulgando nuove leggi. Tuttavia, senza la coercizione e la possibilità di applicare sanzioni a coloro che violano le prescrizioni e le leggi, l’ordine non potrebbe essere mantenuto a lungo.

Julien Freund, Che cos’è la politica, 1965, Points Seuil, pp. 128-129.

 

Il significato della patria

Va bene ironizzare sul concetto di patria e concepire l’umanità in modo anarchico e astratto come composta unicamente da individui isolati che aspirano a un’unica libertà personale, ma la patria è una realtà sociale concreta, che introduce l’omogeneità e il senso di collaborazione tra gli uomini. È addirittura una delle fonti essenziali del dinamismo collettivo, della stabilità e della continuità di un’unità politica nel tempo. Senza di essa, non c’è né potere né grandezza né gloria, ma nemmeno solidarietà tra coloro che vivono sullo stesso territorio. Non possiamo quindi dire con Voltaire, nell’articolo Patrie del suo Dictionnaire philosophique, che “desiderare la grandezza del proprio Paese è augurare il male ai propri vicini”. In effetti, se il patriottismo è un sentimento umano normale come la pietà familiare, qualsiasi uomo ragionevole può facilmente capire che uno straniero può provare lo stesso sentimento. Così come non si può dedurre dalla persistenza dei crimini passionali che l’amore sia inutile, non si possono usare certi abusi di sciovinismo come pretesto per denigrare il patriottismo. È addirittura una forma di giustizia morale. A. Comte vedeva giustamente nella patria la mediazione tra la forma più immediata di raggruppamento, la famiglia, e la forma più universale di comunità, l’umanità. La ragione di ciò è il particolarismo insito nella politica. Nella misura in cui la patria cessa di essere una realtà viva, la società decade, non come alcuni credono a favore della libertà dell’individuo, né come altri credono a favore dell’umanità; una comunità politica che non è più una patria per i suoi membri cessa di essere difesa e cade più o meno rapidamente sotto la dipendenza di un’altra unità politica. Dove non c’è una patria, i mercenari o gli stranieri diventano i padroni. Senza dubbio dobbiamo la nostra patria al caso della nascita, ma è un caso che ci libera da altri.

Julien Freund, L’essenza della politica

http://vouloir.hautetfort.com/archive/2007/05/26/eajf.html?fbclid=IwAR1sMHW_22wUDgESqp8RkTTL7FKRHndgfFYw4Kuea3GIEUE79yavKNQ_TK4

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Capire cosa sta succedendo in Francia, di Aurelien

Articolo interessante, ma con una breve chiosa. Il movimento dei “Gilet Gialli” non era promosso e organizzato da organizzazioni politiche o politico-sindacali, ma aveva agganci importanti con centri di apparati statali, specie militari. L’attuale movimento è diretto, al momento, dalle tradizionali organizzazioni sindacali; le sue dimensioni e il livello di insoddisfazione potranno spingerlo facilmente fuori dai recinti canonici della protesta, senza intravedere offerte alternative visibili di organizzazione politica. Giuseppe Germinario

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Capire cosa sta succedendo in Francia.

In seguito potrebbe venire la fase cinetica

di Aurelien 23 marzo 2023

Quasi sicuramente avrete letto o visto qualcosa sul caos politico che regna attualmente in Francia. Non è solo importante in sé, ma anche come potenziale indicatore di ciò che potrebbe accadere in altri Paesi. Ecco come capire cosa sta succedendo: la situazione non è semplice, ma questa spiegazione include le cose che di solito vengono tralasciate.

 

Per cominciare, qual è il problema più grande che la Francia deve affrontare in questo momento? Si potrebbe pensare all’inflazione, al forte aumento del costo dei generi alimentari e al vertiginoso aumento del prezzo del carburante che costringe alcuni ristoranti e negozi a chiudere e rende sempre più difficile per le persone stare al caldo. Si potrebbe pensare alla disoccupazione, alla povertà, alle fabbriche che chiudono, ai posti di lavoro inviati all’estero, alla corruzione nella vita politica a tutti i livelli, agli effetti dell’immigrazione incontrollata, al declino catastrofico del sistema educativo e al collasso del servizio sanitario. Oh, e si potrebbero includere il riscaldamento globale, i continui effetti del Covid e le conseguenze della guerra in Ucraina.

 

Naturalmente non è un elenco completo, ma per ora è sufficiente. Quindi, tra tutti questi, qual è l’argomento o gli argomenti principali del Presidente francese Emmanuel Macron? Cosa lo tiene sveglio di notte e su quale argomento è pronto a giocarsi la reputazione e persino la sopravvivenza politica?

 

Se siete stati attenti, saprete che la risposta corretta è “nessuno dei precedenti”. L’ossessione di Macron, da ben prima della sua seconda incoronazione nel 2022, è stata quella di far aspettare i francesi più poveri diversi anni in più prima di poter riscuotere la pensione.

 

Data l’acrimonia, il conflitto e persino la violenza che questa proposta ha già provocato, nonché la crisi politica che si sta sviluppando anche mentre scrivo questo articolo, vale la pena cercare di spiegare non solo quali sono le questioni a breve termine, non solo come siamo arrivati a questo punto, ma anche quali potrebbero essere le conseguenze: perché ciò che sta accadendo oggi in Francia potrebbe accadere domani dalle vostre parti.

 

Cominciamo quindi con un po’ di storia. La crisi politica della Francia di oggi è il prodotto di un sistema politico che è ormai in disfunzione terminale, e probabilmente è vero che se la causa immediata non fossero state le pensioni, ci sarebbe stata un’altra causa.

La politica in Francia dalla Rivoluzione in poi è stata tradizionalmente binaria e dualistica. Prima repubblicani contro monarchici; poi, all’interno della confraternita repubblicana, liberali contro socialisti; all’interno del socialismo, marxisti contro non marxisti. E dal trionfo dei principi repubblicani dopo la Seconda Guerra Mondiale, la divisione fondamentale è stata “Sinistra” contro “Destra”. C’erano famiglie con una lunga tradizione di voto per il Partito Comunista, per esempio, e altre per i socialisti, e c’erano organizzazioni intermedie come i sindacati, esplicitamente legate a un partito o all’altro. La Chiesa aveva legami con alcuni partiti di destra. Ma i partiti politici francesi cambiano, declinano, muoiono, rinascono altrove, si dividono e a volte si uniscono, cambiando continuamente nome, ed è per questo che qui parlo di gruppi piuttosto che di nomi. Un francese anziano di oggi, se glielo chiedessimo, probabilmente direbbe semplicemente “sono di sinistra” o “sono di destra”. L’esatto partito per cui ha votato dipenderebbe dalle circostanze del momento.

 

La politica francese è altamente personalizzata e la maggior parte dei “partiti” sono in pratica raccolte di fazioni. Ad esempio, il “partito” di Macron all’Assemblea nazionale è in realtà una coalizione di diversi gruppi, noti collettivamente (almeno questa settimana) come “Ensemble”. Il partito di Macron, “Renaissance”, inizialmente battezzato “En Marche” dalle sue iniziali, poi successivamente “La République en Marche”, si è unito a “Horizons”, un partito guidato da Eduard Philippe, un rifugiato dalla destra che è stato il suo primo Primo Ministro, e a un paio di altri partiti del centro-destra. Non c’è nulla di strano in questo: la consistente maggioranza che i socialisti avevano nel 2012 derivava da un raggruppamento di tutta una serie di partiti, alcuni grandi, altri piccoli.

 

Ciò ha due conseguenze che potrebbero non essere ovvie per l’osservatore casuale. In primo luogo, se i partiti della stessa parte dello spettro politico si oppongono l’uno all’altro al primo turno di un’elezione, possono effettivamente impedirsi a vicenda di qualificarsi per il secondo. È quello che è successo nel 2002, quando la disunione del Centro e della Sinistra ha fatto sì che Jean-Marie Le Pen del Fronte Nazionale arrivasse al secondo turno, precedendo di poco il candidato socialista Lionel Jospin. In secondo luogo, poiché i partiti sono, in ultima istanza, coalizioni, possono essere fragili e i loro membri possono cambiare affiliazione. (Jean-Yves Le Drian, ministro della Difesa nel governo di Hollande del 2012, è stato eletto come socialista nel 2017, ma è passato rapidamente a Macron, diventando il suo ministro degli Esteri).

 

Fino a circa una generazione fa, il sistema funzionava comunque abbastanza bene. Il primo turno vedeva una profusione di partiti ampiamente di sinistra o di destra, il secondo turno vedeva il partito che aveva fatto meglio in ogni raggruppamento portare avanti da solo lo stendardo. Questo non sempre funzionava – ad esempio nelle elezioni locali, notoriamente complicate – ma nel complesso, un sistema politico binario in una cultura binaria, di solito produceva un risultato chiaro. Più di recente, il sistema ha iniziato a rompersi e Macron è sia il risultato che l’agente del suo ulteriore declino.

 

Il caso della sinistra è quello più noto e meglio compreso. Il potente Partito Comunista Francese, che era una sorta di governo parallelo in alcune parti del Paese e che poteva contare fino al 20% dei voti nelle elezioni presidenziali e legislative degli anni Cinquanta, si è ridotto quasi a nulla (meno di 50.000 membri secondo l’ultimo conteggio). I socialisti, che avrebbero potuto raccogliere questo voto, hanno invece voltato le spalle e si sono trasformati in un partito vagamente socialmente progressista della classe media urbana. Tuttavia, fino a un decennio fa, mantenevano un sostegno istintivo tradizionale e, quando nel 2012 Nicolas Sarkozy, in preda agli scandali, cercò di farsi rieleggere, il poco carismatico François Hollande, di fronte a una campagna di allarme rosso di dimensioni e cattiveria mai viste dagli anni Ottanta, riuscì a strappare una vittoria. A quel punto, i socialisti controllavano la presidenza, avevano preso il controllo dell’Assemblea nazionale e dominavano la scena del governo locale. La loro vittoria era completa e avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. Non hanno fatto nulla. La maggior parte del tempo di Hollande è stata impiegata per gestire faticosamente la sua fragile alleanza e per lanciare ossi a vari gruppi di interesse sotto forma di legislazione sociale. La nemesi è arrivata nel 2017, quando il candidato socialista alla presidenza è stato eliminato al primo turno con il 5% dei voti, e la nemesi ha riservato un secondo calcio nelle palle per le elezioni del 2022, quando il candidato non è riuscito a raggiungere nemmeno il 2%. La “sinistra” nell’Assemblea Nazionale è ora un gruppo instabile di partiti con circa il 20% dei seggi, e con poca identità comune.

Questo per quanto riguarda la sinistra. La storia della destra è semmai ancora più complicata (qui una versione semplificata, che non sembra avere una traduzione in inglese) e i “Droites”, come gli studiosi francesi preferiscono chiamarli, hanno incluso tutto, dai neo-monarchici ai cristiano-democratici ai liberali di stile anglosassone, passando per decine di altre tendenze. Dopo lo shock dell’ingresso di Le Pen al secondo turno nel 2002, ci sono stati tentativi di unificare la destra in Francia, per evitare che accadesse lo stesso a loro. Questo tentativo è riuscito in parte con la creazione dell’UMP nel 2002, ma le differenze politiche e le velenose animosità personali che hanno sempre caratterizzato la destra hanno reso il tutto difficile da sostenere, e anche la destra tradizionale ha subito un declino, solo non così pubblico.

 

Nel 2017, la corruzione e il cinismo degli anni di Sarkozy e l’abissale fallimento della presidenza Hollande avevano prodotto uno stato d’animo di impazienza e rabbia nei confronti della classe politica che non si era mai visto prima durante la Quinta Repubblica. Ora, la tendenza normale della politica francese potrebbe essere descritta come una dialettica incompiuta: dalla tesi all’antitesi, di nuovo alla tesi, con poca sintesi. Di conseguenza, i cambiamenti nella vita politica francese tendono a essere bruschi e discontinui quando si verificano. Quindi, in circostanze normali, la destra si sarebbe aspettata di tornare al potere nel 2017, e in effetti è quasi successo. Le ragioni per cui non è successo hanno molto a che fare con le origini della crisi attuale.

 

Gran parte dell’elettorato francese si è sentita esclusa. L’implosione dei socialisti ha fatto sì che gran parte del sostegno della classe operaia andasse a Marine Le Pen, il cui partito, il Fronte Nazionale (ora Assemblea Nazionale), è meglio inteso semplicemente come l’unico partito in Francia che parla di cose importanti per la gente comune, a prescindere da ciò che si pensa delle sue politiche in merito. Ciò significa anche che il suo sostegno alla classe media ha disertato verso i Verdi o verso l’irregolare Jean-Luc Mélenchon, e spesso ha vacillato tra i due. A destra, alcuni elettori sono stati tentati dalla Le Pen, altri hanno deciso di non votare affatto. È in questo panorama politico confuso e diviso che è entrato Emmanuel Macron.

 

Retrospettivamente, i commentatori più pigri hanno parlato di Macron che ha “conquistato” il potere. La realtà è stata ben diversa. Con enormi quantità di denaro e la maggioranza dei media alle sue spalle, era il candidato di protesta delle classi medie, come Le Pen era il candidato di protesta delle classi popolari. Con la sinistra per lo più fuori dai giochi e con la Le Pen di fatto ineleggibile, il vero obiettivo di Macron era quello di arrivare al secondo turno davanti al candidato della destra, François Fillon, dopo di che si sarebbe assicurato la vittoria contro la Le Pen. Normalmente, Fillon avrebbe battuto la sfida di Macron e sarebbe diventato Presidente, ma è rimasto invischiato in una sordida indagine per corruzione, nella quale è stato infine condannato. Questo gli è costato quei pochi punti percentuali che hanno permesso a Macron di spuntarla e di ottenere una vittoria scontata contro Le Pen, anche se l’affluenza alle urne è stata bassa per gli standard francesi e l’entusiasmo per lui è stato scarso.

 

C’erano molti francesi disposti a dare una possibilità a Macron. Certo, era un puro prodotto dell’establishment francese, ma d’altra parte non era una figura affermata della classe politica, ampiamente disprezzata. Ma la gente si è disillusa molto rapidamente di fronte a un giovane tecnocrate inesperto, che ha annaspato e sembrava avere poca idea della vita e dei problemi della gente comune. L’esplosione di protesta che è diventata nota come l’episodio dei Gilets jaunes nel 2018/19 era diretta non solo contro Macron personalmente, ma contro un intero establishment globalizzato, anglicizzato, liberale e benpensante, che distrugge posti di lavoro e di cui Macron, nonostante le sue proteste, era un rappresentante quasi caricaturale.

 

Al potere, e con un partito creato a sua immagine e somiglianza, Macron ha cercato di distruggere qualsiasi opposizione offrendo posti di lavoro a politici di destra e di sinistra per staccarli dai loro partiti e indebolirli. Lentamente, come un buco nero, ha iniziato ad attirare verso di sé gran parte della politica francese.

 

Macron è sopravvissuto ai Gilets jaunes, come è sopravvissuto al Covid. L’anno scorso, in corsa per la rielezione, la sua piattaforma consisteva nel non essere la Le Pen e la sua strategia consisteva nell’assicurarsi di combattere il secondo turno contro di lei. La sinistra tradizionale era ancora a pezzi e la destra tradizionale era stata gravemente indebolita. Le elezioni presidenziali del 2022 furono quindi una lotta tra tre candidati (Le Pen, Macron e Mélenchon) che sostenevano di essere “fuori” dal sistema. Macron ha vinto contro Le Pen (anche se non di tanto come nel 2017): avrebbe battuto anche Mélenchon se quest’ultimo fosse riuscito a recuperare i pochi punti percentuali di distacco da Le Pen. Il confronto al secondo turno tra Le Pen e Macron è stato un confronto che la grande maggioranza degli elettori francesi ha detto di non volere. L’hanno ottenuto comunque, a causa della debolezza del sistema politico francese e del vertiginoso declino dei partiti tradizionali.

 

L’ultimo tassello del puzzle è stato rappresentato dalle elezioni dell’Assemblea Nazionale del 2022, che hanno prodotto un risultato confuso in cui il partito di Macron era il più grande, ma non aveva la maggioranza. L’opposizione proveniva da contingenti ampiamente paritari della destra, dal partito della Le Pen e da un’alleanza elettorale di sinistra, ma non c’era un’unica opposizione unita.

 

Spero che questa carrellata (molto semplificata) della storia recente mostri l’estrema fragilità e disorganizzazione del sistema politico francese in questo momento. Il disgusto nei confronti dei partiti tradizionali non è necessariamente più forte in Francia che, ad esempio, negli Stati Uniti o nel Regno Unito, ma la mancanza di un forte sistema bipartitico lo rende molto più evidente. È un dato di fatto che, anche se si includono i Verdi, i partiti politici “tradizionali” in Francia riescono a raccogliere a malapena un quarto dei voti. Tra gli altri, Le Pen rimarrà per sempre fuori dal potere, l’instabile coalizione (più che partito) presieduta da Mélenchon non sopravviverà a lungo alla sua partenza e lo stesso partito di Macron non avrà futuro dopo la sua uscita dal potere nel 2027. Non c’è alcun segno di rinascita della sinistra, e la destra è divisa e sempre più debole, stretta tra il sostegno ideologico a molte delle idee più brutte di Macron da un lato, e la paura di essere data per scontata come una semplice appendice di Macron dall’altro.

 

C’è quindi un vuoto incolmabile dove dovrebbe esserci il sistema politico francese. Macron ha ereditato una pessima situazione politica e la lascerà in un campo di rovine. Un sistema politico e i suoi parassiti mediatici che per vent’anni hanno predicato la necessità di creare un “fuoco di sbarramento” contro la Le Pen hanno ora escogitato una situazione in cui nel 2027 lei guiderà l’unico partito unito e disciplinato del Paese con la possibilità di prendere il potere. Un’astuzia, questa. E in effetti, mentre la destra ha litigato pubblicamente e le tattiche parlamentari del partito di Mélenchon hanno alienato molti elettori, il partito della Le Pen è stato un modello di discrezione e di buona condotta negli ultimi mesi.

 

Quindi il sistema politico francese rischia di crollare da qui al 2027, anche senza la “riforma” delle pensioni.  I parlamentari di Macron cominceranno presto a farsi prendere dal panico, perché si renderanno conto che nel 2027 potrebbero rimanere senza lavoro. Nessuno ha idea di cosa faranno a quel punto. La destra andrà incontro a un declino terminale, a meno che non riesca a differenziarsi da Macron, ma questo significa votare contro cose come la “riforma” delle pensioni, che in realtà sostengono. Se il sistema attuale sopravvive fino al 2027, il risultato più probabile è una nuova Assemblea nazionale in cui il partito di Le Pen è il gruppo più numeroso, ma non ha la maggioranza, e si trova di fronte a un numero di gruppi che va da cinque a dieci e che non hanno nulla che li unisca. In una parola, il caos. Chi vincerà le elezioni presidenziali è semplicemente impossibile da dire.

 

Con i problemi strutturali che ho brevemente delineato e tutte le altre difficoltà sociali, economiche e internazionali che ho menzionato all’inizio, il sistema francese è in grave difficoltà e non ha bisogno di iniziative molto controverse e impopolari che peggiorano solo le cose. Ma è esattamente quello che è successo. Vediamo ora brevemente il fiasco delle pensioni e il suo significato.

In primo luogo, però, non si può negare che il sistema pensionistico francese sia un po’ un pasticcio. Come molte altre cose nel Paese, è cresciuto gradualmente nel corso delle generazioni ed è confuso sia da usare che da gestire. Tutto dipende dai settori in cui si è lavorato e da chi ci paga e quando. La maggior parte dei francesi ha almeno due pensioni, e quattro sono abbastanza comuni. Se avete lavorato per alcuni anni nel settore privato prima di diventare insegnanti e, parallelamente, avete lavorato come tutor privati per alcuni anni, potreste averne sei. Per certi versi (come nel caso della gradita introduzione della tassazione del reddito alla fonte un paio di anni fa) si sarebbe potuta realizzare un’iniziativa ragionevole e di basso profilo, che avrebbe riscosso un certo successo e che avrebbe potuto essere gestita da un ministro junior un po’ sfigato.

 

Invece, fin dall’inizio della sua carriera, Macron è ossessionato dall’idea di far aspettare di più le persone per ricevere la pensione: l’età attuale è di 62 anni (da 60 prima del 2010) e la sua intenzione originaria era di portarla a 65 anni. Ma poiché il gruppo parlamentare di Macron non ha la maggioranza, è stato costretto a cedere alla destra e a ridurre l’età a 64 anni. E da allora, ci sono state una serie di altre concessioni su punti di dettaglio che possiamo tralasciare in questa sede. Ma nonostante ciò, con ostinazione donnesca, contro l’opposizione di tre quarti della nazione e nonostante le preoccupazioni dei suoi stessi sostenitori, nonostante otto giorni di scioperi e manifestazioni, Macron è andato avanti, ricorrendo infine a una misura costituzionale per approvare le leggi necessarie senza un voto, che avrebbe molto probabilmente perso. Al momento in cui scriviamo, in tutta la Francia sono in corso manifestazioni spontanee, occupazioni, blocchi e scioperi. Sorgono quindi due ovvie domande. Perché la gente è così preoccupata per questa misura e perché Macron si ostina a rispettarla? Vediamo di affrontarle una dopo l’altra.

 

In primo luogo, il governo non si è quasi mai degnato di difendere l’iniziativa. Si è parlato di persone che vivono più a lungo, di un numero inferiore di contribuenti ai regimi pensionistici e che comunque tutti gli altri lo fanno. Ma questo è tutto. Il governo sembra credere che la gente comune sia troppo stupida per capire la necessità della “riforma”, che per loro e i loro sostenitori è evidente.  Le pensioni sono solo un’altra voce di spesa pubblica, e un governo che sta elargendo soldi a pioggia all’Ucraina e che ha dichiarato che avrebbe speso “tutto il necessario” per sconfiggere il Covid non è certo nella posizione di negare una pensione dignitosa a chi ha lavorato tutta la vita.

 

Inoltre, le “riforme” prendono essenzialmente di mira i poveri. Avvocati, politici, amministratori delegati, medici, giornalisti, banchieri… queste persone non hanno fretta di andare in pensione. Ma infermieri, autisti di mezzi pesanti, assistenti, braccianti agricoli, operai edili, raccoglitori di rifiuti… queste persone sono logorate dal lavoro manuale come non mai e non vedono l’ora di andare in pensione. In effetti, una delle ironie della situazione è che la misura non farà risparmiare molto denaro, perché molte persone della classe operaia di circa 60-62 anni sono disoccupate (poiché i giovani sono meno costosi da assumere) o percepiscono un sussidio di invalidità a lungo termine, logorati da una vita di lavoro. Proprio oggi un rapporto ha evidenziato il significativo aumento dei decessi precoci e delle invalidità di lunga durata nell’ultimo decennio, quando l’età pensionabile è stata portata a 62 anni. E poiché nessuno ha ancora capito come la misura possa effettivamente aumentare il numero totale di posti di lavoro disponibili, il risultato sarà un aumento della disoccupazione giovanile. Ma i giovani non votano.

 

È per questo motivo che l’iniziativa non riguarda e non è intesa a far “lavorare più a lungo” le persone. Si tratta piuttosto di farle aspettare più a lungo per riscuotere la pensione nella speranza, brutale, che muoiano. Cosa fare con una popolazione sempre più anziana e sempre più confinata in istituti è un problema che nessun governo francese ha ancora affrontato, quindi perché non aiutarli a morire prima, riducendo così le dimensioni del problema?

L’arroganza e la brutalità di questa misura, infine, sono solo l’ultima di una lunga serie di aggressioni al popolo francese, da parte di un Presidente che disprezza apertamente i francesi, il loro Paese, la loro storia e la loro cultura, e che considera l’essere Presidente della Francia solo un’altra casella da spuntare nel suo percorso per diventare Presidente dell’Europa, o altro. Come l’aumento delle tasse sul carburante nel 2018 è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, scatenando la rabbia che ha dato il via ai Gilets jaunes, così questa iniziativa inutile e provocatoria, unita all’atteggiamento sprezzante del governo nei confronti dell’opinione pubblica e all’uso spudorato di espedienti procedurali per far passare la legge necessaria in Parlamento, ha fatto precipitare la Francia in una protesta furiosa e sempre più casuale e disorganizzata – un punto su cui tornerò. Dopotutto, la legittimità di un governo in Francia si basa storicamente su molto di più di un semplice risultato elettorale.

 

Ora, qualsiasi governo normale, razionale e politicamente accorto, di fronte a questo livello di resistenza da parte degli elettori, e ai dubbi persino dei suoi stessi sostenitori, e su una questione francamente marginale, avrebbe detto: “Va bene, facciamo qualcos’altro”. Ma Macron (ed è lui in persona) ha fatto passare la misura, sfidando persino il Parlamento. Che cosa sta succedendo?

 

Innanzitutto, Macron è un individuo debole, con uno scarso senso della politica e molto distaccato dalla vita comune. È un rappresentante di una nuova generazione di politici, con una mentalità tecnocratica ma con pochissime conoscenze tecniche, per i quali le cariche politiche di alto livello sono solo un altro lavoro sul proprio curriculum, che porta denaro e status, e le possibilità di trarne profitto in seguito. In Macron c’è poco o nulla del tradizionale Presidente francese: fa i rumori obbligatori, ma il suo disprezzo per i suoi concittadini non è nemmeno molto mascherato. Come la maggior parte dei suoi simili, non si aspettava di dover affrontare problemi politici autentici e tradizionali, e non ha la minima idea di come farlo. La sua performance personale durante il Covid, ad esempio, è stata pietosa, ma anche il suo tocco nelle crisi politiche in generale è stato scarso. Quindi ha deciso che questa questione, per quanto banale, è una di quelle su cui vincerà e dimostrerà chi è il capo. È un esercizio per apparire determinato e statista, e le cose sono arrivate a un punto tale che non può tirarsi indietro senza essere gravemente danneggiato politicamente. Avrebbe potuto ritirare la proposta di legge quando è apparso chiaro che probabilmente non sarebbe stata approvata dall’Assemblea Nazionale, il che sarebbe stata la cosa più sensata e professionale da fare. Invece ha usato i poteri speciali per far passare il provvedimento, peggiorando così la situazione.

 

D’altra parte, questo è un problema che Macron, in un certo senso, capisce: il tipo di scenario che gli hanno insegnato quando era all’ENA vent’anni fa, il tipo di cose che i consulenti di gestione pensano di saper gestire. Tagliare, risparmiare, far soffrire e morire inutilmente, aiutare i ricchi e danneggiare i poveri, obbedire ad astruse superstizioni economiche: è tutto lì. Non richiede alcuna conoscenza o comprensione specialistica e non presenta la complessità intellettuale e le sfide della maggior parte degli altri problemi che il Paese deve affrontare.

 

E a differenza di molti altri problemi, questo è interamente francese. Non c’è una dimensione internazionale, non ci sono sviluppi improvvisi che sfuggono al controllo francese, non ci sono trattati e accordi internazionali, non ci sono alleati di cui preoccuparsi, non ci sono questioni veramente difficili e complesse, non ci sono posizioni di altri Paesi che devono essere prese in considerazione, ma solo alcuni modi intelligenti di presentare i numeri per far sembrare che ci sia un problema. Come sempre in politica, è più facile e attraente affrontare problemi piccoli e facili che grandi e complessi. Dopotutto, si tratta di una questione su cui la “vittoria” è effettivamente possibile.

 

Quindi, a che punto siamo? I media hanno fatto un po’ di confusione e la situazione cambia ogni giorno, ma facciamo un passo indietro e guardiamo al quadro generale. In primo luogo, Macron (nella persona del suo Primo Ministro) si è avvalso di una disposizione della Costituzione francese per imporre leggi senza dibattito. Si tratta dell’articolo 49,3 della Costituzione, il famoso Quarante-neuf-trois. In pratica, consente a un Primo Ministro di forzare l’approvazione di una legge, con la riserva che i partiti dell’opposizione possono presentare una mozione di censura; se questa mozione ha successo, il governo deve dimettersi e, naturalmente, la legge decade. Ma ci sono alcune sfumature qui, quindi rimanete con me.

In primo luogo, l’articolo stesso è stato redatto, come gran parte della Costituzione della Quinta Repubblica, come reazione alla Quarta. Quella Repubblica (1946-58) era ultraparlamentare e molto divisa, e i governi avevano spesso enormi problemi a far approvare le leggi. Un governo che non riusciva a far approvare la legge di bilancio, ad esempio, non aveva altra scelta che dimettersi. Questo portò a un’instabilità senza fine e i redattori della Costituzione della Quinta Repubblica erano determinati a evitare che si ripetesse. In realtà, il Quarante-neuf-trois è stato utilizzato solo occasionalmente sotto la Quinta Repubblica, perché la maggior parte dei governi aveva comunque una maggioranza stabile. Ma nell’attuale stato caotico dell’Assemblea Nazionale, il Primo Ministro vi ha già fatto ricorso quasi una dozzina di volte, anche pochi giorni fa. E come spesso accade in Francia, la soluzione è diventata più impopolare del problema iniziale, con comprensibili proteste per il comportamento autoritario di un governo senza maggioranza. Il governo ha vinto questo recente voto di sfiducia, ma solo per un pelo, ed è difficile credere che possa ripetere lo stesso trucco per molte altre volte.

 

Detto questo, i risultati della perdita di un voto di fiducia non sono così drammatici. Per cominciare, non ha alcun effetto sulla posizione di Macron, poiché il bersaglio è il governo, non il Presidente. È possibile (appena) sbarazzarsi di un Presidente sotto la Quinta Repubblica, ma non con questo metodo.  Salvo terremoti politici (ma vedi sotto), Macron è al sicuro fino al 2027. E non è nemmeno detto che ci siano necessariamente le elezioni. L’attuale Primo Ministro deve dimettersi e Macron dovrà trovarne uno nuovo per formare un nuovo governo. Si tratterà di una sconfitta, ma in gran parte simbolica, poiché qualsiasi futuro primo ministro sarà un altro burattino dell’Eliseo. Una singola sconfitta come questa sarebbe un grande imbarazzo politico. Se ci fossero più sconfitte di questo tipo, ci sarebbero pressioni per nuove elezioni, ma non è chiaro se qualcuno le voglia necessariamente: la maggior parte dei partiti ha più da perdere che da guadagnare.

 

C’è quindi una buona probabilità che le cose vadano avanti così ancora per qualche anno e che l’Assemblea Nazionale diventi sempre più caotica e meno rilevante. Ma questa è la Francia, dove c’è una venerabile tradizione di esprimere il malcontento nei confronti del governo nelle strade. Fino a poco tempo fa, l’umore nazionale, per quanto si potesse giudicare, era di rabbiosa rassegnazione. Settimane di manifestazioni e scioperi di massa non erano riuscite a smuovere il governo e sembrava che alla fine avrebbero fatto passare il provvedimento. Questo è in gran parte accaduto (anche se ci sono ancora alcuni trucchi procedurali da provare), ma la rabbia è ancora presente. Finora le cose sono state organizzate e pacifiche. I sindacati, per una volta, hanno lavorato insieme e ci sono stati solo pochi incidenti violenti. Ma i sindacati hanno ormai esaurito le armi: le manifestazioni di massa sono l’unica cosa che sanno fare e ci sono segnali di perdita di controllo a livello locale.

 

Negli ultimi giorni, sono aumentate le segnalazioni di scioperi improvvisati, assembramenti rabbiosi davanti agli edifici ufficiali, blocchi e persino sabotaggi. In diverse città tradizionalmente militanti, i sindacati locali hanno organizzato interruzioni dei trasporti. La spazzatura continua ad accumularsi nelle strade di Parigi. Le raffinerie di petrolio hanno smesso di funzionare per un po’ e gli autotrasportatori stanno parlando di usare tattiche di blocco: un paio di dozzine di camion, posizionati strategicamente nelle ore di punta, farebbero fermare la maggior parte delle città francesi. I tentativi del governo di rimuovere i blocchi hanno ulteriormente infiammato le tensioni.  È interessante il fatto che si cominci a muovere contro l’infrastruttura dello Stato stesso e dei suoi politici eletti.

 

Finora, i sindacati sembrano avere il controllo a livello locale; ma tutti vedono la possibilità di un ritorno della protesta in stile Gilets jaunes: organizzata localmente, senza una gerarchia fissa, in gran parte senza controllo o direzione e aperta alle infiltrazioni. Come in passato, la causa apparente sarà solo una tra le tante: stiamo assistendo all’inizio di un’esplosione di rabbia contro un sistema arrogante che si comporta in modo sempre più dittatoriale. E si può contare sul fatto che Macron peggiorerà la situazione, con una risposta affrettata e probabilmente sproporzionata.

 

La realtà è che lo Stato non è in grado di affrontare efficacemente una ripetizione del 2018/19. Anche in quel caso, la polizia si è ridotta in gran parte a stare a guardare la distruzione di proprietà, intervenendo solo quando la vita era minacciata. Non ce ne sono abbastanza e non possono essere ovunque. Questa volta l’atmosfera è più pesante, la rabbia probabilmente maggiore e la scelta degli obiettivi quasi infinita. Abbiamo già subito attacchi alle infrastrutture elettriche. Non si può proteggere tutto, e anche se si potesse, non si potrebbe proteggere nient’altro.

 

Le cose potrebbero quindi diventare decisamente cinetiche, in un Paese che ha la reputazione di avere una forma vigorosa e vivace di politica di strada. Sebbene il caso francese presenti delle specificità, la maggior parte delle ragioni di malcontento è anche internazionale. È interessante ipotizzare chi potrebbe essere il prossimo.

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Osservatorio sulla diplomazia: Crescono le tensioni in Occidente mentre si trascina la guerra brutale, di Connor Echols a cura di Roberto Buffagni

https://responsiblestatecraft.org/2023/03/10/diplomacy-watch-tensions-grow-in-west-as-brutal-war-drags-on/?mc_cid=0fd4e74627&mc_eid=f4f4f0ee08

Osservatorio sulla diplomazia: Crescono le tensioni in Occidente mentre si trascina la guerra brutale

La solidarietà dell’Occidente sembra incrinarsi mentre il conflitto in Ucraina entra nel suo secondo anno.

di Connor Echols

 

10 MARZO 2023

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Occidente si è unito in una straordinaria dimostrazione di solidarietà. Decine di Paesi hanno inviato aiuti all’Ucraina nella speranza di rallentare almeno la marcia del Cremlino, aiutando Kiev a ribaltare le sorti del conflitto e a respingere Mosca nell’Ucraina orientale. Da allora si è arrivati a una situazione di stallo.

 

Mentre i leader occidentali si impegnano ancora ad aiutare Kiev “fino a quando sarà necessario“, il sostegno pubblico agli aiuti all’Ucraina ha iniziato a dividersi. In Europa, l’entusiasmo per le sanzioni forti è diminuito costantemente in molti Paesi chiave, tra cui Germania, Gran Bretagna e Francia.

 

Negli Stati Uniti, il sostegno dei repubblicani all’invio di qualsiasi tipo di aiuto finanziario all’Ucraina è crollato da quasi il 70% dello scorso aprile a meno del 40% di oggi, e “anche i democratici stanno mostrando un sostegno leggermente inferiore per alcuni tipi di aiuti rispetto all’anno scorso“, secondo l’Economist. (Si noti che Washington ha fornito più della metà degli aiuti totali all’Ucraina dall’anno scorso, molto più di qualsiasi altro Paese).

 

Queste tensioni sono esplose nella sfera pubblica all’inizio di questa settimana, quando l’ambasciatore della Germania negli Stati Uniti ha avuto un battibecco non proprio diplomatico su Twitter con il senatore J.D. Vance (R-Ohio), un politico emergente con un talento per il populismo.

 

Il comportamento della Germania in questa guerra è vergognoso, ed è un insulto ai nostri elettori il fatto che troppi repubblicani la assecondino“, ha twittato Vance, riferendosi alle preoccupazioni diffuse sul fatto che Berlino abbia promesso troppo e mantenuto poco rispetto all’impegno di modernizzare le proprie forze armate per affrontare meglio la Russia. “Tutte le loro promesse si sono trasformate in letame“.

L’ambasciatore tedesco Emily Haber ha risposto a Vance qualche giorno dopo. “Letame? Siamo il più grande fornitore di armi dell’#Ucraina nell’UE“, ha twittato Haber. “Le nostre importazioni di energia russa sono ridotte a zero. Un cambiamento strategico irreversibile, avvenuto quasi da un giorno all’altro“.

 

Abbiamo stanziato 100 miliardi di dollari in più per la difesa“, ha continuato. “Li spenderemo. Ma non si possono comprare carri armati da Costco“.

 

Vance non ha perso tempo a rispondere. “Se la vostra politica non fosse stata quella di dipendere dalla Russia per l’energia e di sottrarvi alle quote della NATO per due decenni, non avreste comprato carri armati da Aldi“, ha scritto. (Sebbene la NATO non abbia una “quota” ufficiale, i politici statunitensi da tempo spingono gli alleati a spendere almeno il 2% del PIL per la difesa). Con una mossa probabilmente ben consigliata, Haber ha scelto di lasciare la conversazione lì.

 

Nel frattempo, il mese scorso, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, si è consumata un’altra spaccatura occidentale, secondo Stephen Walt, professore di Harvard e borsista non residente del Quincy Institute. In “Foreign Policy”, Walt ha notato “un abisso tra l’ottimismo espresso in pubblico dagli alti funzionari e le valutazioni più pessimistiche ascoltate in privato“.

 

Nonostante la retorica impetuosa dei discorsi pubblici, nessun funzionario che ha parlato con Walt si aspettava che l’Ucraina sarebbe stata in grado di riprendere tutto il suo territorio, e nessuno prevedeva che la guerra sarebbe finita presto. “La maggior parte delle persone con cui ho parlato si aspetta un continuo stallo, che forse porterà a un cessate il fuoco tra qualche mese“, ha scritto Walt.

 

La conclusione di Walt? “Gli aiuti occidentali all’Ucraina non mirano alla vittoria; pertanto, il vero obiettivo è mettere Kyiv in condizione di concludere un accordo favorevole quando sarà il momento“.

 

Ma, osserva, questo approccio comporta rischi significativi. “Se nel febbraio 2024 la guerra è ancora in una fase di stallo brutale e l’Ucraina viene distrutta, Biden dovrà affrontare pressioni per fare di più o per cercare un piano B“, ha scritto Walt. “Considerando ciò che ha promesso, qualsiasi cosa che non sia una vittoria completa sembrerà un fallimento“.

 

Altre notizie relative alla diplomazia:

 

– Il Dipartimento della Difesa sta impedendo agli Stati Uniti di condividere le prove delle atrocità russe con la Corte penale internazionale “perché teme di creare un precedente che potrebbe contribuire a spianare la strada per perseguire gli americani“, secondo il New York Times. La mossa mette il Pentagono in contrasto con il resto dell’amministrazione Biden e con molti membri del Congresso, che hanno dato il permesso speciale di condividere l’intelligence americana con la Corte nonostante Washington ne rifiuti la giurisdizione. Nell’ultima proposta di pace dell’Ucraina, il presidente Volodymyr Zelensky ha chiesto un tribunale speciale per processare i leader russi per numerosi presunti crimini di guerra. “Stiamo facendo tutto il possibile per garantire che la Corte penale internazionale riesca a punire i criminali di guerra russi“, ha dichiarato venerdì scorso Zelensky.

 

– Mercoledì scorso, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha incontrato Zelensky a Kiev, dove i due hanno espresso il loro sostegno alla proroga dell’accordo sul grano del Mar Nero prima della scadenza del 18 marzo, secondo quanto riportato da Politico. “Oggi siamo interessati a garantire che non ci sia fame nel mondo”, ha detto Guterres dopo l’incontro. La nostra politica comune è quella di continuare a gestire il “corridoio del grano”“. Almeno 23 milioni di tonnellate di cereali ucraini e altri prodotti agricoli sono passati attraverso questo corridoio da quando la Russia e l’Ucraina hanno concordato l’accordo lo scorso agosto, secondo il Dipartimento di Stato.

 

– Funzionari statunitensi anonimi hanno dichiarato martedì al New York Times che, secondo “nuove informazioni“, un “gruppo filo-ucraino” senza legami apparenti con i vertici di Kiev, potrebbe aver compiuto l’attacco dello scorso anno ai gasdotti Nord Stream. Questa nuova teoria arriva dopo che il giornalista investigativo veterano Seymour Hersh ha attribuito la colpa agli Stati Uniti in un articolo dettagliato, scatenando un vortice di discussioni su chi fosse dietro l’attacco. Anche se il vero colpevole rimane poco chiaro, la prima teoria occidentale – che sosteneva che fosse stata la Russia a compiere l’attentato – sembra essere stata screditata.

 

– In una notevole inversione di tendenza, l’Ungheria intende sostenere la candidatura della Svezia all’adesione alla NATO dopo un incontro tra funzionari dei due Paesi, secondo quanto riportato da AP News. Una delegazione ungherese visiterà presto anche la Finlandia per colloqui su una potenziale adesione all’alleanza. Se l’Ungheria approverà entrambe le candidature, la Turchia diventerà l’unico Stato che impedirà ai Paesi scandinavi di entrare nella NATO, che può ammettere nuovi membri solo per consenso unanime.

– Martedì, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha dichiarato che “il conflitto, le sanzioni e le pressioni non risolveranno il problema” in Ucraina e ha rinnovato l’appello del suo Paese ai colloqui di pace, secondo quanto riportato dalla Reuters. Qin si è anche scagliato contro i funzionari statunitensi per la promessa di “conseguenze” nel caso in cui Pechino scelga di inviare armi per sostenere lo sforzo bellico di Mosca. “La Cina non è parte della crisi e non ha fornito armi a nessuna delle parti in conflitto“, ha dichiarato. “Quindi su che base si parla di colpe, sanzioni e minacce contro la Cina?”.

 

Notizie dal Dipartimento di Stato americano:

 

In una conferenza stampa di martedì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price si è impegnato a ritenere la Russia responsabile di crimini di guerra. “La comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, farà tutto il possibile per assicurarsi che i responsabili, dal livello locale a quello politico, siano ritenuti responsabili di questi crimini di guerra e delle atrocità che abbiamo visto commettere“, ha dichiarato Price.

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IL POPOLO DEI LUPI. (3-4), di Daniele Lanza

IL POPOLO DEI LUPI. (3)
(note storiche sparse tra Moldova, Valacchia e Transilvania, dagli albori alla contemporaneità, ripubb. 2018*)
Torniamo a noi……dove ci ha portati la corsa dei lupi ? Attraverso una selva che pare inghiottirli più volte, eppure non lo fa, solo ogni volta che ne escono sono differenti da come ne sono entrati : sono solo gli snodi dell’etnogenesi.
Gli orgogliosi e combattivi DACI, affini ai traci, che invocano ATTIS e non credono alla morte, precipitano nel mare della latinità e quando ne riemergono 3 centinaia di anni più tardi, si esprimono in un latino volgare che ha iniziato ad evolversi a modo suo….e la sera pregano Cristo.
Senza coscienza alcuna di unità territoriale, in un mondo successivo a Roma che muta forma e senso, scivolano e si perdono nuovamente nella macchia……è il momento della grande Bulgaria altomedievale, e quando i nostri lupi riemergono dal lungo abbraccio bulgaro/bizantino 400 anni più tardi, sono ormai orientati alla fede ortodossa.
A questo punto abbiamo varcato ormai di molto l’anno 1000 e questi discendenti intrepidi dei daci, vengono adesso chiamati VLACS da gran parte delle fonti che li menzionano. Si tratta di un curioso essere….un’umanità sprofondata tra Carpazi e Balcani che parla una stravagante variante del cosmo romanzo seppur circondata da parlate comparativamente indecifrabili (dal magiaro alle slave), ma a differenza dei cugini latini (sudditi di pontefici e monarchi francesi o spagnoli) sono saldamente ortodossi. Consolidato questo fascinoso equilibrio di romanità e grecità, ma PRIVI di qualsiasi unità politica (nemmeno la cercano) si avventurano tra le spire del tardo medioevo…….
I monarchi magiari e la loro progressiva conquista porta alla creazione di TRE aree abitate dai nostri Vlacs, nel corso del cruciale XIV secolo : Valacchia e Moldavia, costituite come territori cuscinetto (materialmente messi assieme da condottieri Vlacs in nome del re d’Ungheria, ma che quasi subito diverranno principati vassalli di fatto indipendenti) la terza invece, incamerata integralmente allo spazio ungherese col nome di Transilvania.
Il quadro, considerato con la sensibilità politica di un nostro contemporaneo parrebbe sconsolante : un popolo suddiviso in due potentati minori perennemente a rischio di essere assorbiti da qualche potenza, più un terzo che invece non vanta neppure una propria forma di stato, ma è regione di un altro regno il cui nucleo è magiaro. La coscienza del suddito premoderno tuttavia NON è la nostra……e non se ne facevano gran cruccio. A maggior ragione considerando che qualsiasi eventuale diatriba sta per risultare declassata per valore, del tutto miniaturizzata a paragone di quanto si prepara : la lunga notte ottomana si stende su tutti costoro, dalle più sperdute isole dell’Egeo fino (un giorno) alla Pannonia.
Il macro evento che si sviluppa tra il XIV° e il XV° secolo cambia gli equilibri di forza nel vecchio continente, sebbene non modifichi sensibilmente le organizzazioni territoriali preesistenti (come accade con tutti gli imperi : se già esiste una suddivisione organizzativa locale, più comodo servirsi di QUELLA sostituendone l’amministrazione anziché riformare tutto dal principio).
Pertanto per quanto riguarda la nostra storia : i principati di Moldavia e Valacchia continuano a esistere, come stati vassalli soggetti a tributo: il padrone non è più il sovrano d’Ungheria, ma il sultano ottomano.
Il 15° secolo scorre così in uno stato di tensione che vede la Valacchia, ancora libera ma sempre più soggetta alle volontà del sultano (che cerca di influenzarne la successione), in pratica tra due contendenti che tentano di tirarla dalla propria parte (l’altro contendente, ancora i sovrani d’Ungheria avversari dei turchi). In questo contesto, che più caotico non potrebbe essere per numero di intrighi e contendenti, deve governare Vlad l’impalatore che tutti conosciamo……….
Il controllo ottomano si rafforza dopo la vittoria storica sugli ungheresi (battaglia di Mohac 1526) che determina relativa stabilità dell’influenza ottomana nei Balcani ed oltre : con Solimano il magnifico si inaugura quasi un secolo di dominio saldo (ed in realtà anche oltre).
Saltando arbitrariamente un susseguirsi intrigante di fatti, passaggi e spargimenti di sangue si può dire che solo verso la fine del XVII° secolo la cristianità torna ad incombere sull’areale balcano/carpatico : a partire dalla vittoria del 1689, tanto la potenza asburgica dall’Europa centrale quanto quella zarista da oriente iniziano a far sentire tutto il proprio peso.
Siamo ormai nella tarda età moderna….è il tempo di Luigi XIV di Francia a Versailles come di Pietro il grande (suo emulo) a San Pietroburgo o della nascita del regno di Prussia. Secolo di guerre di successioni della prima guerra planetaria (dei 7 anni ossia) e di Diderot e la sua Enciclopedia.
Non molto è mutato per i vlacs sottoposti al potere ottomano : dopo 300 anni di tributi ai sultani l’esistenza scorre ancora come sempre. Qualcosa tuttavia sta per cambiare…..la riscossa (mitica) della fede cristiana ortodossa riprende vigore col sempre maggiore esaurimento turco e con un nuovo attore che si affaccia sull’intricato teatro balcanico……l’impero di RUSSIA.
Il popolo dei lupi incontra lo zar alla fine, sul termine dell’età moderna.
(prosegue)
[Liber Chronicarum di Norimberga, 1493. Ill. di Transilvania]
 
IL POPOLO DEI LUPI. (4)
(nell’immagine si vede la Tuhgra, sigillo personale dei sultani
,esempio ricco dell’arte calligrafica araba anche se in lingua turca. Per la precisione sarebbe quella di Suleiman il il magnifico, Solimano).
Il lasso di tempo che gli schemi storiografici odierni chiamano “storia moderna” (1500-1800) è pertanto definito : gli antichi daci figli dei lupi, trasfigurati dal flusso della storia e rinati come VLACS “romanzofoni” ed ortodossi, vivono pacificamente (più o meno) come sudditi dei principi valacchi e moldavi, i quali a loro volta sono divenuti vassalli dei sultani osmanidi. Una parte di loro è invece suddita del re d’Ungheria e poi in seguito dell’imperatore d’Austria.
Lo schema (assai grossolano) è questo, per le centinaia di anni che vanno dalla caduta di Costantinopoli fino alla rivoluzione francese, su per giù (immaginiamola così, per dire).
In linea con lo stadio di coscienza socio-politica dell’era in questione, NON si fa sentire alcun eco di irredentismi o ricerca di un’unità nazionale più vasta : alla gente non fa differenza se il proprio regnante non parli la loro stessa lingua o se i vicini della provincia accanto abbiano un altro costume. Non si ricerca la fratellanza con chicchessia solo perché si esprime nel medesimo idioma e di conseguenza i vlacs rimangono sudditi di potentati differenti : in oltre 400 anni di influenza ottomana si registra un solo episodio (una meteora durata un battito di ciglia) in cui un pricipe vlac riesca a raccogliere sotto di sé in contemporanea Valacchia, Moldavia e Transilvania….si tratta di Mihai Viteazu nel 1600, che la effettua tra l’altro come unione personale dinastica, come norma dell’epoca (nella migliore tradizione di interpretazione romantica della storiografia patriottica ottocentesca, sarà retroattivamente eletto a campione dell’unità romena e precursore del risorgimento di questo stato).
Non è ancora il tempo e le masse sono ancora prigioniere dello schema di classe (legati ai loro “naturali superiori”, principi e granduchi) piuttosto che sviluppare un’identità etnica militante.
Se qualcosa si muove è grazie alla spinta di eventi assai più grandi che non le vicende interne di questi principati romeni e sarebbe a dire la pressione ormai congiunta di due grandi potenze (Austria e Russia) sui confini ottomani.
Nella totale impossibilità di riportare la catena innumerevole di avvenimenti che compongono la storia politico-militare del 700 nel sud-est Europa cerco di condensare per il lettore a digiuno focalizzandomi sui pochi punti cruciali (seguitemi).
Lo schema geopolitico GENERALE è il seguente : a patire dalla fine del 600 (ossia dalla fine della minaccia turca in Europa col conflitto conclusosi nel 1699 contro Russia ed Austria) per tutto il lungo corso del 18° secolo e ancora i primi decenni del secolo successivo, l’impero ottomano si ritrova ormai costantemente in una posizione DIFENSIVA. Gli equilibri tradizionali dell’età moderna sono radicalmente mutati ed ora la potenza turca anziché avanzare si ritrova in lenta, ma costante ritirata. Davanti a sé DUE grossi problemi : 1) il traballante regno d’Ungheria, suo tradizionale opponente dell’Europa centrale, si è unito dinasticamente all’Austria ed ora è un IMPERO (asburgico) con tutta la sua forza, il nuovo avversario. 2) In secundis, un nuovo rivale, di stazza sconfinata, si affaccia su tutto il perimetro che va dal Caucaso ai Carpazi, lungo la linea del mar Nero……..finalmente gli zar di Russia entrano nel gioco.
Morale della favola : gli ottomani si trovano contro due potenti concorrenti, con forti interessi nei Balcani e determinati a non retrocedere, il cui attacco sarà spesso quasi concomitante (congiunto oppure in successione).
Nello spazio di circa 150 anni menzionato sopra (1700-1850), si verificano una decina di conflitti militari tra zar e sultani (cosiddette “guerre russo-turche” tra 18°/19° sec. , come le cataloga la storiografia) e PARALLELAMENTE un’altra mezza dozzina contro gli imperatori d’Asburgo (“guerre austro-turche”) : quasi 20 confronti bellici di varia scala in un secolo e mezzo, contro antagonisti di notevole spessore. La collisione con l’occidente (austro/russo) dalla tarda modernità alla prima età contemporanea è decisamente più di quanto le risorse militari ed economiche ottomane possano oggettivamente sostenere…..gran parte di questi conflitti finiscono con sconfitte e con armistizi non memorabili : nessun insuccesso di per sé è determinante, ma messi tutti assieme determinano il lento declino della potenza ottomana.
Questo come riguarda i vlacs ? I nostri piccoli (a paragone delle forze in gioco) e coraggiosi autoctoni, sudditi di Moldavia e Valacchia si ritrovano quasi esattamente sulla linea di fuoco della contesa ! A guardare uno scacchiere bellico sono una striscia di terra che separa tutti i contendenti citati (letteralmente).
Gli effetti non si fanno attendere : GIA’ al tempo di Pietro il grande si registrano svariate defezioni da parte dei principi valacchi e moldavi (sostenute dalla Russia principalmente) il che costringe gli ottomani non soltanto a giustiziarli, ma a metter mano direttamente nel sistema di governo e successione, estromettendo i regnanti locali (ritenuti non abbastanza leali) per sostituirli con altri scelti direttamente a Istanbul. A partire dal 1715, Valacchia e Moldova non avranno più a governarli principi nativi, bensì inviati speciali dell’impero : si tratta dei “fanarioti”, ovvero nobili di origine GRECA appartenenti alle famiglie di più illustri natali residenti in una zona della capitale ottomana (l’argomento prende un capitolo a sé per interesse. Diciamo solo che ciò che simboleggiano è molto importante).
Questi greci di antichissima estrazione, discendenti di antichi clan greci o ellenizzati (in generale bizantini) da lungo tempo incorporati dall’impero ottomano (senza nulla perdere delle proprie tradizioni), sono la scelta ideale in quanto ortodossi come i popoli che dovranno governare, ma al tempo stesso distaccati da essi e ritenuti (ancora) fedeli alle istituzioni turche per il momento. Uno principe fanariota decreterà la fine del servaggio della gleba nel 1743, anche per limitare il flusso sempre maggiore di fuggitivi verso la più illuminata Transilvania asburgica.
Il trend tuttavia è ormai determinato e a partire dall’ultimo 1/3 del 18° secolo la situazione precipita per gli ottomani : nel 1768 inizia una dura guerra contro l’imperatrice Caterina II, che oltre a determinare la perdita definitiva della CRIMEA anni dopo (nonché una prima penetrazione nel Caucaso), indebolisce la posizione turca in Moldova e Valacchia. Quest’ultima è per la PRIMA VOLTA occupata dai russi che giungono fino a Bucharest e tutto si conclude quando 6 anni più tardi si firma la pace di Küçük Kaynarca : questo esotico nome è sorgente di tante cose a venire…….
[continua]

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destra, sinistra e il nuovo già vecchio_ Con Roberto Buffagni e Vincenzo Costa

Governo di centrodestra con Giorgia Meloni, congresso costituente del PD con a capo Elly Schlein. Grandi novità che tendono a riprendere e riproporre vecchi schemi interpretativi del tutto inadeguati ad affrontare il nuovo contesto politico-sociale e geopolitico. Una contrapposizione artificiosa, probabilmente artefatta, che con sussulti e forzature non fa che riproporre temi e rivendicazioni in una cornice già fallita. Non è una fase costituente; è il compimento di un processo gia delineato quaranta anni fa. Il risultato è una classe dirigente inadeguata e un ceto politico autoreferenziale. Un guscio che si sta trasformando in una pesante cappa soffocante il paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 3 e 4 di 7]_di Daniele Lanza

IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 3 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco e non solo. Da leggere senza impegno)
Un aquilotto spennato e imbarazzante – simboleggiante lo stato di Weimar – che impallidisce, sfigura dinnanzi alla VERA aquila tedesca (kaiseriana). L’immagine in basso (manifesto per le elezioni legislative al reichstag del 1924) rappresenterebbe il sentire del partito nazionalista Dnvp, ma in fondo proietta un’immagine diffusa nell’animo tedesco di quell’era, assai aldilà del sostegno o meno a partiti nazionalisti coevi.
Tempo addietro, un conoscente di estrazione comunista (di accademico livello) paragonò distrattamente – quasi propose un parallelo – tra lo stato sovietico e la repubblica di Weimar.
Nel senso che erano entrambe entità nuove, entrambe entità che rovesciavano ognuna a suo modo un precedente sistema reazionario e antiquato, detto a grandi linee (…).
Come tanti altri miei amici e conoscenti della medesima provenienza – mi dispiace dirlo – la sua ferrea impostazione tradizionale fatta di insuperabile (psicologicamente), inalterabile dicotomia destra/sinistra – gli inibisce, oscura, confonde la percezione di elementi che trascendono tale demarcazione dogmatica. Accettando un prisma simile si può tracciare un parallelo tra le due realtà : elemento moderno di rottura che “rottama” il ciarpame oscurantista ed elitario del passato….questa sarebbe la logica.
La verità tuttavia è che anche solo accostare casualmente due casi del genere è pura cecità intellettuale. Perché la logica (binaria) in questione sorvola sul fattore PATRIA, lo sottovaluta, lo mette in secondo piano in quanto non rilevante per essa : nega il potere profondo dell’autoidentificazione e la sua capacità insondabile di sfuggire alla categorizzazione vista sopra, aldilà (protesterebbe il sincero comunista) di qualsiasi razionalità.
Il fattore PATRIA decretò per molti versi la sopravvivenza della Russia sovietica, come all’opposto, l’implosione della Germania weimariana. Perché ? Come ? Le verità più basilari ed ineludibili dell’animo umano stanno in formule strabiliantemente semplici e quindi non sciorinerò elucubrazioni storico-politologiche, vado al punto : perché lo stato rivoluzionario sovietico pur sbarazzandosi del sistema ad esso anteriore, vi si sostituì efficacemente in tutto…..anche in quella necessità patriottica della società nel suo insieme. La rivoluzione d’ottobre (anche nonostante l’inenarrabile guerra civile che ne seguirà) si fa sistema, sulle ceneri di quello precedente, ed anche più forte di esso : diventa punto di riferimento per il multiforme sentire della parcellizzata umanità che deve governare, cooptando anche e soprattutto le fasce conservatrici/nazionaliste della “russità” , a partire da coloro che sin dal principio decidono di militare tra i rossi (bolscevichi di stampo “patriottico”, per intendersi), quanto, dopo la fine della guerra, gli sconfitti bianchi che vorranno rientrare, infondendo l’idea che l’evento cataclismatico è stato una VITTORIA nazionale (si presti attenzione doppia da questo punto in avanti perché è il perno di tutto).
Gli eventi che vanno dall’ascesa al potere di Lenin sino alla fondazione ufficiale del nuovo stato, passando traverso 4 anni di conflitto interno, sono subito storia ed entrano in brevissimo tempo a costituire il fulcro di un colossale processo di “nation-building” in seno alla società, malgrado ciò possa essere controintuitivo vista la cesura traumatica col sistema zarista e il successivo sviluppo di una divisiva e devastante guerra civile : questo perché in fondo…….tali eventi sono percepiti come un successo, in un contorto meccanismo psicologico che vede tutti, incluse le fasce conservatrici/nazionaliste – e tra queste anche gli sconfitti veri e propri – entrare a far parte di un’entità vincente.
Ma come è possibile un capovolgimento percettivo in quest’ordine di grandezza ?! Abbozzo una ragione (non è certo l’unica, nè quella scientificamente più dimostrabile, ma forse la più viscerale) : perché in fondo quanto accadde dal 1917 al 1921 era…LORO (a prescindere dalle parti). La rivoluzione era…LORO (a prescindere dalle parti).
Si intende che la consecutio di fatti che si snoda da ottobre in poi è un fenomeno INTERNO, pertinente cioè ad uno spazio profondo del paese (in senso fisico quanto morale) irraggiungibile ed inconoscibile all’”alieno”, allo straniero : una “sacra” arena che non cessa di esistere malgrado il collasso del secolare zarismo e quindi trascende il cromatismo (rosso/bianco) delle parti in causa e laddove i destini di un popolo – ed altri ad esso annessi – vengono stabiliti a prescindere da cosa avvenga al di fuori del proprio “umland” : in parole più chiare, alla storica/oggettiva polarizzazione “Rivoluzione – Reazione”, si fa concomitante su un piano inafferrabile della psiche, la polarizzazione “Russia – mondo esterno” (che sta per “occidente” in realtà, quest’ultimo effettivamente coinvolto nella lotta dai bianchi).
Se pure è vero che una parte in lotta nella guerra civile è stata sconfitta sul piano storico/oggettivo, altresì vero che su un piano più metastorico offerto dalla psiche, l’evento rivoluzionario in sé non viola un canone assai più remoto della civiltà russa (o “rossiskaya” concetto più ampio) : la propria autoctonia, la propria indipendenza dall’occidente o altre forze (queste in effetti sconfitte nel loro tentativo di penetrazione approfittando del confronto rosso/bianco), la sicurezza che dà il proprio impermeabile spazio interno (…). Questo schema delle cose permette l’innesco di una valvola di salvataggio nei meccanismi delicati dell’autoidentificazione : alla psiche del russo (anche se di parte sconfitta) viene offerta come una scialuppa che consente lui di rivedere, in linea di principio, ancora lineamenti familiari, una continuità metapolitica in quel contenitore di popoli che prima si chiamava impero ed ora si chiamava CCCP (la quale tra l’altro nonostante la cesura col passato rivendicava anzi ancor più di prima – in vesti mutate – un ruolo geopoliticamente attivo, influente, sotto il vessillo assai più messianico e patriottico di quanto potesse esserlo la corona dei Romanov).
I “bianchi” avevano perso sì, ma in fondo era anche vero che la RUSSIA, la sua dimensione peculiare contrapposta allo spazio esterno (occidente) aveva vinto a prescindere dai cromatismi delle parti in causa, riaffermando la sua potenza che anzi prima sotto gli zar era in declino….quindi alla fine (col tempo che fosse occorso per abituarsi), tutti – anche i bianchi “volenterosi” o altre fasce conservatrici potevano chiamarla degnamente patria. In definitiva sia bianchi che rossi erano ugualmente nazionalisti (si può a buona ragione discutere su chi lo fosse di più tra loro)…..esisteva un comune fondo di attaccamento a una “potente patria” : che questa non fosse più una cosmopolita aristocrazia dall’aquila a due teste, ma una coesa unione multinazionale sotto bandiera rossa forse non era poi un male, no ? Anzi….chi dice che non fosse quest’ultima la VERA patria (e l’altra un abbaglio) ?? A questo punto i colori finora menzionati cessano di esistere : i rossi bolscevichi sono patrioti che da subito hanno capito questo fatto, mentre i bianchi (quelli pentiti) sono ugualmente patrioti con l’unico peccato di aver capito più in ritardo lo stesso fatto (…)
Interrompo d’autorità questa caotica e estesa digressione (che agli occhi di molti – professionisti in primis – apparirà cervellotica, sconclusionata o peggio – agli occhi del comunista ortodosso – una litania dozzinale nel novero eretico dell’interpretazione in chiave nazionalista e slavofila della rivoluzione socialista, la quale invece “esce fuori della storia” (..)….tuttavia io replico a costoro (nel caso ci fossero) che la mia riflessione presuppone che sia proprio QUESTO il problema : un limite di comprensione di molti studiosi del passato (non essendo “national-konservativ” stentano ad entrarne nella dimensione e quindi a valutarne percorsi e forza reale).
E da qui quindi torniamo – ma con una serie di punti in mente che ci consente di intenderci e quindi di accorciare il discorso (il tempo perso in Russia ce ne fa risparmiare qui)– sul vero tema del ciclo che è il caso tedesco : tutto era iniziato con un vago accostamento tra Weimar e la CCCP giusto ? Bene, la domanda è : perché WEIMAR in fondo non fu mai considerata una vera patria ?
Risposta essenziale : perché era figlia di una sconfitta. Fattore banale, ma insuperabile.
A scanso di quali ideali sinceri potessero esservi alle spalle, a scanso della costituzione democratica (mi si ricorderà) che finalmente aveva, a scanso di tutto…..era il risultato di un’umiliazione sul campo di battaglia. La prima democrazia tedesca, per quanto democrazia, violava lo stesso principio eonico che vuole gli stati (o qualsiasi aggregazione umana, contratto sociale di qualsiasi dimensione) fondati sui SUCCESSI, sulle vittorie. Non – come in questo caso – su un “infamante” (percepito come tale sia a destra che a sinistra in fondo) trattato di pace a Versailles.
Weimar nasce dal collasso della patria kaiseriana “legittima”…senza riuscire in alcun modo a sostituirla con qualcosa che nell’immaginario possa tenervi testa. Ne occupa semplicemente lo spazio vacante in attesa che QUALCOSA di maggiormente degno e supremo la rimpiazzi (e questo qualcosa disgraziatamente arriverà). Oserei affermare che il percorso di autoidentificazione per i neo-cittadini di Weimar e quelli sovietici sia esattamente opposto : mentre quelli sovietici, come visto, trovano una dimensione comune aldilà delle parti (anche belligeranti), nella società tedesca weimariana questo è infattibile. Se la Russia zarista passa il testimone alla CCCP sul piano ideale della “patria potenza” (in fondo condivisa tanto da progressisti che da conservatori), la nuova repubblica tedesca NON riceve alcun testimone dal prestigioso predecessore ! La “patria potenza” è sostituita da un’imbarazzante “ex patria” (tanto nella percezione dei conservatori quanto in quella – non espressa apertamente – di molti progressisti).
Insomma : lo stato sovietico UNISCE nel rispetto delle sue solide istituzioni – nella sua dimensione patriottica – tanto sinistra quanto in fondo anche una buona parte di destra (anche se non ufficialmente). Lo stato weimariano UNISCE, ma nel disprezzo delle istituzioni, sia la destra quanto in fondo anche la sinistra (anche se non ufficialmente).
Eccovi l’antitesi dei casi. Sintetizzo all’estremo :
La Cccp è un EREDE di qualcosa
Weimar è un SURROGATO di qualcosa.
La formula sopra è volutamente esagerata, ma esprime – sempre su un piano psicologico – come vennero percepite le due realtà dalle rispettive società a prescindere (questo è importante) dalla demarcazione classica destra/sinistra.
(CONTINUA…)
IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 4 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco e non solo. Da leggere senza impegno)
L’affermarsi del “SUPER-STATO” nella prima metà del XX° secolo (ovvero sistemi politici che si presentano non come semplici edifici politico-amministrativi regolati da un diritto civile, bensì come energie messianiche che si prefiggono di uscire al di fuori della storia e regolarla anziché esserne regolati) – o anche “totalitarismo” (!) a seconda di come si vuole definire – è una reazione fisiologica al bisogno del cittadino stesso di 100 anni orsono a quest’epoca…della sua profonda incoerenza, scarsa conoscenza di sé.
Da un lato si strillava in piazza per per uno stato più umano, più civile…..dall’altro – una volta ottenuto – questo stato “civile ed umano” era un gradino meno rispettato di quello passato. Si odiavano i preamboli delle vecchie costituzioni liberali (“per grazia di Dio e volontà della nazione”), ne si voleva smorzare il tono un tantino ultraterreno e riportarle coi piedi a terra, a misura d’uomo, umanizzarne forma e contenuto senza tante investiture celesti e giuramenti alla corona………beh, ecco fatto. Anziché una guida speciale, lo stato diventa – per l’appunto, perché ciò si voleva – un semplice contenitore, un’arena civile (de-divinizzata) all’interno della quale muoversi. Ci volle poco perché l’agognata agorà moderna divenisse invece un parco giochi (…)
Tanti abitanti di Weimar erano in realtà nel profondo delle loro menti, più “ex-sudditi” che non “neo-cittadini”. Il parlamentarismo carnevalesco dal 1919 in poi non si poteva prestare allo stesso rispetto che poteva suscitare l’incedere del Kaiser un decennio prima e questo psicologicamente è verosimile. L’illuminismo ingenuo di quella breve repubblica non teneva conto – tanti dei migliori illuministi cadono in questo, ahimè – dei bisogni più primitivi e imponderabili dei governati.
Tanti volevano sinceramente la democrazia…..ma tutti esigevano – e subito – un comandante in capo, una forza unificante che garantisse forza e sicurezza (che sono sinonimi). Per metterla in filosofia occorreva il ripristino di quel perfetto ingranaggio, quel punto di congiunzione tra cielo e terra (o tra regno delle idee e quello materiale) che è lo stato prussiano di hegeliano conio (…). Quanto l’effimera Weimar non era. Lo si vede dai manifesti elettorali dell’era…pittoreschi, teatrali lo erano tutti, ma c’è qualcosa di più : nella maggioranza (a partire naturalmente dai più estremisti, ma arrivando anche a quelli moderati) si nota una ricerca di qualcosa di perduto, un’armonia arcadica irrecuperabile che lascia dinnanzi a sé o la difesa di quel poco che si ha ancora (le “heimat” locali in genere ad appannaggio di partiti centristi) ossia la logica “bastione contro l’orda barbara” oppure soppressione dell’esistente per rifondare una nuova “grande patria”.
Detto fatto, nel giro di 15 anni circa un sostituto lo si trova (anzi si fa avanti lui) : è un po meno aristocratico rispetto alla casta JUNKER in verità, anzi decisamente più proletario e ruspante, senza tanti galloni e mustacchi, quanto in più moderna e sportiva camicia bruna + baffetto, ma questo è anche meglio (“…a pensarci non sono in fondo anche quegli spocchiosi latifondisti della Prussia orientale con la loro flemma ad averci condotto al fallimento sul fronte occidentale e inguaiato la nostra PATRIA ?” p.s. = pensiero possibile dell’elettore popolare, Nsdap).
Siamo ad un punto critico : ho inaugurato questo ciclo di libere riflessioni al primo capitolo sottolineando come la vecchia identità prussiana sia stata distrutta e gettata via arbitrariamente assieme al nazional socialismo. Ebbene si potrebbe controbattere (tanti lo fanno) che in realtà tale retaggio era GIA’ stato distrutto e superato in due fasi : dalla deposizione del kaiser in primo luogo – cui la prussianità era legata per ragioni “memetiche” e dalla successiva affermazione nazista, la cui ascesa vertiginosa a cavallo tra anni 20/30 de facto assimila, inghiotte letteralmente tutto l’elemento vetro-conservatore (chiamiamo così la prussianità junker in politica) strappandolo ai contemporanei partiti nazional-conservatori più convenzionali dell’era Weimar che surclassa quanto a violenza e audacia (…).
Il nazional socialismo nel contesto in cui si trovò ad operare, devo ammettere, costituì un catalizzatore formidabile : da un lato arrivava a quegli strati popolari refrattari ai tradizionali partiti monarchici e vetro-conservatori…..mentre dall’altro riusciva a raccogliere l’elettorato proprio di questi ultimi, fisiologicamente irraggiungibile per socialisti e comunisti. Una creatura chimerica il nazismo, essere mutaforma “capace di assumere l’aspetto che l’osservatore voleva dargli” (se non ricordo male furono più o meno le parole di A.Speer al processo di Norimberga, nel descrivere il nazional socialismo).
(CONTINUA…)

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IL POPOLO DEI LUPI (cap.1 e 2), di Daniele Lanza

IL POPOLO DEI LUPI (cap.1)
(note storiche sparse tra Moldavia, Valacchia e Transilvania, dagli albori alla contemporaneità / ripub. 2018*)
Può avere vent’anni come quaranta…forse non ha mai avuto un’età. Inebetito, steso contro un tronco che stancamente si specchia nei flutti del grande fiume. Al suo passaggio gli elementi si tingono di rosso : terra e acqua sono uniformate in flusso scarlatto…..persino l’aria attorno a lui sembra percorsa da chiazze del medesimo riflesso. Prima che il sole cali la vita se ne sarà andata.
Si chiama Sudogvast ? o Vädusan ? altro ancora ? Cerca di dirmelo, ma in un idioma incomprensibile che in ogni caso non è più in grado di articolare. Una manciata di ore avanti, durante una sortita, qualcosa è andato storto ed un giorno qualsiasi si è trasformato nell’ultimo che potrà vedere. Lui non ha rimpianti in realtà : il suo concetto di morte non è analogo alla coscienza secolarizzata di chi legge…….ritiene che sia solo il passaggio verso un’altra esistenza, non meno piena o eroica.
Oltre il “grande fiume” non possiamo seguirlo, solo osservare ciò che si è lasciato dietro nella dimensione mortale : una sagoma compatta e slanciata che affiora dalla vegetazione, coperta unicamente da brache ridotte a brandelli, gli occhi ancora spalancati e una cascata di un castano lucido sulle spalle.
Eh…..si da il caso che la nostra sgangherata navicella spazio-temporale (con cui faccio viaggiare nel tempo chi mi legge) è riemersa presso l’uncino sud-orientale del nostro continente, 500 giri della Terra attorno al sole prima che Cristo iniziasse a predicare : da qualche parte, lungo il ricco bacino idrogeografico del Danubio.
L’uomo che ci guardava poco fa prima di transitare alla nuova vita, un suo remoto abitante……la cui fisionomia incute terrore tra i piccolo uomini bruni più a sud verso il mare Egeo.
Il popolo di Sudogvast è quello dei LUPI : così lo chiama chi vi confina e così loro appellano se stessi…fondamento mitico/fantastico che trova una parte di accordo anche nell’archeologia odierna. Esso si articola in un interminabile susseguirsi di clan e tribù che si spalma su un territorio che va dai Balcani fino alla pianura sarmatica (dalla Serbia fino all’Ucraina meridionale e occidentale) : la massa aborigena della protostoria è stata indoeuropeizzata sino a dar vita a uno strato di civiltà che chiameremo (paleo) Trace.
L’elemento TRACE non ha certo bisogno di presentazioni o precisazioni dal sottoscritto o da altri…….combattivo e acerrimo, in sinergia con l’ecosistema balcano/carpatico le cui immense foreste di conifere incutono timore nelle civiltà mediterranee, a partire da quella ellenica, che la associano a quello spazio di tenebra (quel “nord” mitico) dal quale di tanto in tanto sprizzano come scintille demoni dalle barbe che brillano rossicce tra la fiamme del saccheggio.
La percezione immaginifica del greco antico chiaramente dilatava inverosimilmente la frequenza di codeste fisionomie aliene ed oggi l’archeologia (supportata dalla genetica) ritiene più plausibilmente che i barbari a nord e sud del bacino danubiano fossero assai più simili ad un qualsiasi abitante dell’Europa meridionale per aspetto (solo disseminati di elementi più chiari che generano leggenda). I traci, come norma nella struttura organizzativa umana più elementare di allora NON sono uno stato unitario, che anzi sono anni luce dal conoscere : la parcellizzazione fino al livello di clan regna sovrana. Dal brodo sopramenzionato prende forma un sottoinsieme che assume il nome di DACI…..o Geto-daci (per la precisione i geti si trovavano in Valacchia, come si chiamerà in seguito, mentre i daci veri e propri in Transilvania odierna).
Il significato dell’etnonimo (usato dagli stessi) è questione di dibattito tuttora, ma parte dell’opinione scientifica li chiama “LUPI” o loro fratelli o discendenti…..il popolo dei lupi. Questi autoctoni subiscono variegate influenze celtiche e periodicamente praticano incursioni verso sud guadagnandosi fama sinistra presso i più meridionali vicini che negli stessi anni edificano il Partenone (…).
La struttura politica è estremamente semplice, adeguata al loro stadio di evoluzione umana : un grappolo di regni, grandi quanto un francobollo, che vanno e vengono assieme alle loro rudimentali dinastie sostenute da reti di clientele e relazioni di clan. Con tale status quo si mantengono relativamente indipendenti dal turbinio della collisione greco-persiana dei secoli cruciali e, sempre in queste condizioni vanno a incontrare con l’elemento romano (o meglio quest’ultimo va a cozzargli contro) : il II° secolo dopo Cristo vede assorbire questo mondo nell’assai più caotica voragine della latinità…….alle vittorie di TRAIANO segue un afflusso (non comune) di coloni di diversa provenienza fino a creare sul posto la provincia romana di cui tutti i manuali ci informano. La Dacia romana equivale solo a metà dell’attuale Romania e arriverà a contare 1 milione e mezzo di sudditi dell’imperatore : tutti gli appartenenti a tribù non comprese nel dominio romano vengono denominati “daci liberi” e tra di essi spicca la tribù dei “carpi”. Nel giro di un secolo sorgono ben 10 città ed oltre 100 forti, impiantandosi così il seme della civiltà latina, strettamente legato all’ambiente urbano, in contrasto col vasto entroterra rurale dei nativi.
L’area nonostante gli sforzi rimarrà instabile, assorbendo circa il 10% della forza militare dell’impero e resistendo non più di 175 anni complessivamente (ovvero da Traiano fino ad Aureliano, quando l’impero ordinatamente si ritira da una regione ritenuta indifendibile : siamo nel 275 dopo Cristo).
Il disimpegno militare romano lascia tuttavia sul campo dietro di sè qualcosa di inestimabile : gli abitanti del luogo nei 2 millenni a seguire, continueranno ad esprimersi in un idioma a noi familiare classificato come componente orientale della neo-latinità.
Occorre qui fermarsi un momento poiché la questione si fa cruciale : il processo di latinizzazione possa apparire scontato o banale, nel discorso scientifico esso NON lo è.
In parole altre, la dinamica di tale latinizzazione è tutt’altro che scontata e tuttora si confrontano due opposte opinioni : secondo alcuni la romanizzazione linguistica sarebbe avvenuta secondo un linearissimo ed intuibile moto di aggregazione dell’elemento indigeno ai nuclei romani già insediati sul territorio, finchè alla fine sono TUTTI “romani”. Secondo la tesi avversa (più macchinosa, ma non impossibile) l’elemento di lingua latina sarebbe emigrato sul posto da aree romanizzate da più lungo tempo (tutto l’illirico), fuggite al momento del collasso imperiale in cerca di riparo in zone più inaccessibili, giusto nel mentre della calata dei barbari da nord.
A questo, si aggiungono svariati punti di vista intermedi……ma il punto che accomuna tutti, il grado di ideologizzazione che il tema presenta, già alla vigilia dell’età delle idee (tarda modernità), come vedremo.
(continua) 
IL POPOLO DEI LUPI. (cap. 2)
(note storiche sparse tra Moldova, Valacchia e Transilvania, dagli albori alla contemporaneità, ripub. 2018*)
Abbiamo lasciato Sudovgast morente sulle rive di un fiume, 500 anni prima di Cristo : come sono divenuti i suoi discendenti 500 anni DOPO Cristo ?
Un millennio di evoluzione non può non sentirsi e i suoi posteri riconoscerebbero molti tratti culturali in lui, tranne uno vitale : ora sarebbe complicato comunicare verbalmente con lui. Malgrado il disimpegno imperiale nella provincia di DACIA (già nel 275 d.C.), il disfacimento dell’impero stesso 200 anni ancora dopo ed il conseguente gioco imprevedibile di maree demografiche che si innesca, niente riesce a cancellare la numerosa componente daco-romana nel cuore di quella che oggi chiamiamo Romania : è come se i più numerosi e aggressivi flussi slavi (e magiari) provenienti da settentrione non riuscissero a penetrare il nucleo geografico valacco/transilvano né passarvi traverso, risultandone deviati e costretti a costeggiarlo, passarvi tutto attorno.
Un residuo vivente della remota romanità (adattata al contesto particolare) trincerato attorno ai Carpazi, mentre lo spazio immediatamente limitrofo è sommerso dal suono di parlate aliene : la sopravvivenza, su così larga scala, di un ceppo smarrito della famiglia filologica romanza, a migliaia di km dal blocco italo-franco-porto-spagnolo del Mediterraneo occidentale è un miracolo (o anomalia) geoculturale dell’intera Europa sud-orientale.
I secoli post-imperiali passano senza che alcuna organizzazione politica di rilievo venga prodotta : questi nativi “romanzofoni” costituiscono sostrato aborigeno utile del quale il governante o dominatore di turno si serve all’occorrenza. Vista l’oggettiva infattibilità di riportare fedelmente gli innumerevoli e tortuosi sentieri della storia balcano/carpatica medievale (anche per non irritare i valenti medievisti che per caso leggono) effettuo una macro-sintesi culturologica………il lettore immagini questo (grossomodo) : sui nostri amici di lingua latina gravano DUE forze acculturanti principali, una da SUD e l’altra da NORD.
1) L’”energia” che viene dal sud è l’elemento BULGARO (che da sud supera la linea del Danubio ed estende la propria influenza fino a tutto l’areale dell’odierna Romania tra il 7° ed il 10° secolo dopo Cristo : si tratta della fase storica del cosiddetto impero bulgaro, potenza dominante nei Balcani dell’era altomedievale (di tale impero vi saranno due fasi, oggi chiamate dalla storiografia 1° e 2° impero : quest’ultimo si spegne definitivamente alla fine del 14° secolo quando la Bulgaria è incamerata dagli ottomani…1396 circa).
2) L’”energia che viene da nord è l’elemento MAGIARO (che si presenta successivamente rispetto ai bulgari : inizia a comparire nel 12° secolo, penetrando dal bassopiano pannonico e nelle stesse generazioni in cui si combattono le prime crociate in Terrasanta, si fa strada sempre più a sud strappando all’influenza bulgara e bizantina le provincie più settentrionali dell’attuale Romania.
Orbene, se si tiene a mente questo basilare schema di movimenti e forze, si ha una prima chiave d’accesso alla storia dell’identità romena e moldava e i suoi asimmetrici sviluppi a seconda delle regioni che oggi troviamo viaggiando in questo paese : diciamo sinteticamente che si parte da un’originaria dominanza bulgara, che ottiene la fondamentale conversione della cristianità dell’area in questione all’ortodossia, per poi subire un processo di erosione nella frangia più settentrionale dei territori balcano/carpatici, ad opera dei monarchi d’Ungheria che nel corso del XIII° secolo riescono ad espandere durevolmente il loro confini fino a ricomprendere quella che oggi chiamiamo “Transilvania”. Quest’ultima a partire dai primi anni del 1300 è parte del regno di Ungheria di cui costituisce l’estensione più orientale. Sempre i sovrani d’Ungheria nella loro avanzata verso meridione determinano la nascita di due ulteriori principati a parte la Transilvania……….la MOLDAVIA (ad ovest) e la VALACCHIA (a sud), inizialmente pensati come cuscinetto della frontiera sempre più balcanica d’Ungheria.
Ricapitoliamo : a partire dai primi decenni del 300 nell’area di lingua romanza (non chiamiamolo ancora “romena”) vengono a costituirsi TRE principati sotto l’impulso del regno medievale d’Ungheria.
1) Transilvania (direttamente inglobata)
2) Valacchia (1330)
3) Moldavia (1359)
Codeste entità chiaramente NON costituiscono alcuno stato unitario, né ci pensano : si tratta di potentati indipendenti l’uno dall’altro che semplicemente sorgono su popoli della medesima base linguistica culturale (elemento che tuttavia in età premoderna non è fondamentale).
Teniamo a mente un punto CHIAVE : mentre Valacchia e Moldavia si rendono presto autonome dai sovrani magiari (pur rimanendo formalmente vassalli), la Transilvania invece è oggetto di una vera e propria annessione territoriale all’Ungheria medievale che ne farà una regione della mitteluropa ungherese (poi austro-ungarica) per gli oltre 600 anni a venire (!). Questo fatto apre le porte della Transilvania al torrente della cultura centro-europea e dei relativi flussi migratori, ovvero popolandosi di minoranze germaniche, ebraiche e slave per il mezzo millennio che traghetta tutta la zona fino ai primi del XX° secolo.
Questo particolare assetto geoculturale è quindi un carattere di lunghissimo periodo che persisterà nonostante il successivo “ombrello ottomano” dal tardo medioevo : Valacchia e Moldavia stati autonomi di confine, mentre la Transilvania (a dispetto della maggioranza di lingua neolatina che la abita) è parte dell’Ungheria vera e propria. I sultani osmanidi erediteranno QUESTA suddivisione, più o meno.
(continua)

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