DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza), di Pierluigi Fagan

I migliori, i più furbi. Non è detto i più intelligenti_Giuseppe Germinario

DER ELEFANT IM RAUM (L’elefante nella stanza). Un fantasma si aggira nelle statistiche mondiali sul fenomeno pandemico. Un solo Paese al mondo, mostra statistiche del tutto fuori logica tra i dichiarati contagiati ed i morti: la Germania.

E sì che la Germania è il Paese europeo più grande (demograficamente circa un terzo circa più grande dell’Italia, della Francia e dell’UK), ha un peso di popolazione anziana praticamente pari all’Italia ed in più, è il primo Paese europeo in cui si è accertata la precoce presenza del virus il che è ovvio visto che è anche il Paese con i maggiori contatti ed interscambi economici coi cinesi. Il virus è lì da più tempo che altrove, in un Paese pieno di anziani, un terzo almeno di più che in Italia, ma i tedeschi non muoiono. Lo “spread dei morti” tra ogni Paese del mondo e la Germania è ovunque alto ma si sa, quando si tratta di spread, ai tedeschi piace ben figurare.

Il mistero ha attratto i giornalisti anglosassoni, vi hanno scritto articoli a vario titolo il FT, the Guardian, the Indipendent, WSJ, ma molto meno la stampa europea. L’Espresso, l’altro giorno, vi ha posto ritardata attenzione confezionando un “the best of” di ragioni a spiegazione, copiato dagli articoli anglosassoni che avevano doverosamente riportato le risposte tedesche alle domande poste:

1) Il loro facente funzione di ISS, il Robert Koch Institute (RKI) afferma che i morti tedeschi sono più giovani quindi la popolazione anziana è stata misteriosamente per il momento evitata dal virus (a parte il medico della Merkel). Qualcuno sostiene che gli anziani tedeschi vivono più “isolati” dai giovani che non in Italia o Cina, ma francamente a me pare una stupidaggine insostenibile, anche perché andranno pur in giro a far la spesa come tutti, no? ma le spiegazioni arzigogolate hanno anche varianti;

2) i tedeschi sostengono che l’epidemia, da loro, si sarebbe sviluppata più tardi. Ma come? esistono studi pubblicati su the Lancet che confermano la precocità del paziente 0 in Germania come è ovvio che sia. Portano loro l’infezione in Lombardia ma non in Germania? Tutta Europa ha più morti percentuali di loro perché loro sono “in ritardo” nella diffusione del contagio? Incredibile … anche perché la stampa tedesca se ne uscì a gennaio e primi febbraio con notizie di una incredibilmente contagiosa e virulenta epidemia di influenza polmonare, rigorosamente diagnosticata come tale e non corona virus come probabilmente era. Alla domanda se RKI dispone di test Covid-19 post mortem, gli interessati hanno risposto sì ma i giornalisti inglesi hanno verificato che la strana struttura sanitaria tedesca che è iper-federale, crea notevoli asimmetrie tra centro e periferia, ognuno fa un po’ come gli pare. In più perché fare i tamponi ex post e non ex ante visto che dichiarano di farne in ognidove? Questa strana struttura della sanità tedesca darebbe anche conto del perché i tedeschi danno le cifre in ritardo mentre John Hopkins University che segue la pandemia dall’inizio, dà cifre diverse perché attinge direttamente ai Lander. Insomma, a voler pensar male si potrebbe notare una certa cortina fumogena di grande confusione fatta apposta per render difficile la comprensione reale degli eventi e sopratutto per darsi la libertà di sparare cifre ad estro;

3) poi c’è la versione secondo la quale i tedeschi farebbero molti più tamponi di chiunque altro, dichiarazione del RKI riportata anche dalla stampa inglese (in effetti RKI dichiara che “possono” far tamponi, non che li fanno). Non so, a me secondo altri dati non risulterebbe, o sono sbagliati i miei dati o la stampa inglese riporta dichiarazioni tedesche senza verificarle e chissà perché tutti fanno finta di crederci;

4) si arriva così alle note enormi capacità di ricovero ospedaliero e letti di terapia intensiva tedesche. Ma dati alla mano, è vero che la Germania sta messa meglio dell’Italia ma l’Italia starebbe comunque messa meglio di (in ordine) Francia, Svizzera, UK ed Olanda oltre a molti altri. Ma più che altro, questa spiegazione se sembra logica di primo acchito non lo è in approfondimento. In Italia il SSN ha retto botta per un bel po’ prima di andare in affanno ed è andato in affanno solo nell’area più colpita. I morti a casa perché gli ospedali son pieni, in Italia non compaiono nelle statistiche. In più i morti italiani censiti, passano dai letti di terapia intensiva e finiscono nella bara comunque, come per altro in tutto il mondo visto che non sembra esserci una cura effettiva ma solo un supporto terapeutico che è lo stesso in tutto il mondo. Cos’hanno i tedeschi di diverso? Letti più comodi? Respiratori fabbricati dalla Mercedes? Dottor House in ogni stanza? Non si sa …

Ma una rasoiata di Occkam comincia qui e lì a comparire a mezza bocca. Un portavoce del direttivo del’ISS che ogni sera affianca Borrelli in conferenza stampa, a precisa domanda, qualche giorno fa ha risposto qualcosa tipo “io so che noi contiamo sia “morti di” che i “morti con”, come contano gli altri, non lo so”. Da qualche giorno questo insistere sul fatto che noi contiamo -tutti- i morti è stata ripetuta da Borrelli, Brusaferro e altri membri dell’ISS che si alternano giornalmente anche fuori dal contesto della “questione tedesca”. Ieri hanno avanzato dubbi su questa differenza che è logicamente l’unica e per giunta auto-evidente statisticamente e logicamente parlando, un biologo su la Stampa ed uno sul Corriere.

Nessuno può ufficialmente accusare i tedeschi di contare i morti in modo scorretto è evidente, sarebbe guerra diplomatica ed anche improprio perché non lo si può dimostrare, ovviamente. E’ inoltre una questione più politica che non virologica o biologica, non sta a gli scienziati fare ipotesi di tal fatta anche se ogni biologo o virologo o statistico sa che quella sproporzione è talmente esagerata che non c’è altro modo per spiegarla. E così si spiega anche il silenzio pudico in Europa, chi va a fare una accusa così grave ed indimostrabile e pure antipatica perché politicizzare i morti è davvero brutto?

Abbiamo visto tutti come ogni cancelleria ha negato sin dall’inizio l’esistenza del problema del virus pur nota a tutti come ora viene fuori nei rapporti dati con grande anticipo tanto negli USA che in Francia, UK e non c’è motivo di non ritenere, anche Germania. E tutti abbiamo visto come i Paesi più ostinatamente difensori del mercato come ordinatore sociale abbiamo ritardato gli interventi a costo di mentire, inventare idiozie come “l’immunità di gregge”, modulare interventi ma salvaguardando l’operatività economica come plaudono anche molti insospettabili difensori del “market first”, forse involontari, qui da noi. Magari avanzando cautele costituzionali o biopolitiche o libertarie o sdilinquendosi davanti ai miracoli del “modello coreano” o solo perché ormai il far polemica su tutto gli parte di riflesso facebook-esistenziale. E vediamo tutti la reazione furibonda al decreto del Governo pur in ritardo, pur mal comunicato, pur pieno di difetti, quando tocchi la fabbrica ed il denaro scoppiano scintille, è ovvio.

Il governo tedesco non conta i morti reali per non spaventare la propria popolazione che lo costringerebbe a misure che vogliono ritardare il più a lungo possibile, come hanno provato a fare tutti, e questo avviene nel cuore dell’Europa, dell’Occidente democratico e trasparente che s’indigna per i ritardi cinesi e le nebbie russe. Il virus in Germania colpisce solo giovani alti, biondi e sanissimi, per questo le Merkel va in quarantena stanziando miliardi di miliardi per far fronte ai 90 morti dichiarati (cioè come gli svizzeri che sono otto volte di meno!) in un mese e mezzo su 82 milioni di individui. “Buying time”, comprare tempo pagandolo con morti non censiti. Berlino manipolando la sua opinione pubblica ed iniettando al contempo denaro nell’economia, si vuole garantire il suo rimaner al centro del sistema europeo anche nel “dopo”, perché è quella la sua “potenza”. Ed alla potenza si sacrifica tutto.

[Il post è della serie libere opinioni. Naturalmente seguo la faccenda da giorni ed ne ho letto e studiato il più possibile, per quanto mi è stato possibile. Se qualcuno ha da postare dati (le opinioni di articoli che si arrampicano sugli specchi per favore no), che facciano ulteriore luce, è il benvenuto. Vediamo chi mi fa cambiare opinione …]

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EPPUR SI MUOVE, a cura di Giuseppe Germinario

Pian piano comincia a farsi strada la necessità di un cambiamento di paradigma nell’affrontare la crisi epidemica del coronavirus. Una crisi destinata a dare una grande spinta allo sconvolgimento degli assetti politici, geopolitici e delle formazioni sociali. Il Governo Conte, i suoi principali attori politici, sembrano gli esponenti meno adatti a comprendere ed affrontare la situazione. Più che tamponare, tanto meno cercare di risolvere le fragilità di un apparato istituzionale ed amministrativo paralizzato da una situazione di emergenza, si sta rivelando un moltiplicatore delle conseguenze di tali debolezze. Gerarchie di comando a dir poco traballanti, sovrapposizioni di incarichi indizio di prevalenza di competizioni di potere fine a se stesse, manifesta inidoneità di gran parte dei responsabili, ministri giocherelloni (vedi il duetto Boccia/Borrelli) o fantasma, reiterata sottomissione, ormai anche psicologica, verso una leadership della UE che non fa che assecondare le decisioni degli stati e dei governi più posizionati pur di non apparire spiazzata, governi che decidono di sfondare bellamente i propri bilanci fregandosene della benevolenza della Commissione Europea. Un mix esplosivo. Segno di una classe dirigente nostrana sempre più spinta a chiudersi nelle proprie cittadelle fortificate piuttosto che ad acquisire e spendere la propria autorevolezza. Qui sotto l’incipit di tre importanti interviste in controtendenza_Giuseppe Germinario:

  • “Giuseppe Imbalzano è stato direttore sanitario di Asl lombarde per 17 anni. Melegnano, Lodi, Bergamo e Milano sono state delle seconde case, e mai in vita sua, spiega a Linkiesta, si sarebbe immaginato di vederle in queste condizioni. L’emergenza coronavirus ha messo sotto stress le strutture ospedaliere della Lombardia con un numero sempre maggiore di malati. Una situazione straordinaria, alla quale però «si fondono i problemi non risolti in principio perché mancava un piano di intervento e di programmazione adatto al contrasto di questa nuova infezione».

    Dottor Imbalzano, la Cina focolaio dell’epidemia ha quasi debellato del tutto il virus, mentre in Italia ogni giorno la situazione si aggrava in modo inquietante. Cosa è andato storto nel nostro Paese?
    La malattia, una infezione aero-trasmessa, è di per sé molto pericolosa per facilità di trasmissione e per la natura stessa del virus, nuovo per la nostra popolazione. Colpisce tutti coloro che ne vengono a contatto. Era già presente a gennaio, come è stato scoperto, prima che ci fossero gli allarmi dell’Organizzazione mondiale della Sanità e i relativi interventi di sospensione dei viaggi provenienti dalla Cina…qui il seguito https://www.linkiesta.it/2020/03/lex-direttore-sanitario-spiega-che-cosa-e-successo-a-bergamo-e-a-codogno/

  • Incontro Ilaria Capua inevitabilmente online, da dove mi accoglie sorridente e combattiva. Forse un po’ stanca di dover parlare solo di virus (“io mi occupo anche d’altro”), ma sarebbe strano il contrario. Anche perché le sue opinioni, che sembrano eruttare da un vulcano, generano una girandola di ipotesi apparentemente fertili, talvolta controcorrente. Come l’immagine del virus “opportunista e scippatore”, che ha preso l’aereo per diffondersi nel mondo e attacca dove il sistema, e le persone, sono più fragili. Sentiamo cosa ha da dirci.Cosa vedi nella inarrestabile progressione di questo nuovo coronavirus?Vedo che per la prima volta nella nostra storia stiamo osservando in diretta l’endemizzazione di un virus animale nella popolazione umana. È successo altre vote che un virus animale si sia trasferito nell’uomo, pensa al virus della peste bovina che in noi è diventato noto come morbillo. Come sai, l’uomo ha i suoi coronavirus, tipici del comune del raffreddore, i quali arrivano da animali. Ma questi passaggi risalgono a molti anni fa e sono rari….per il seguito https://www.scienzainrete.it/articolo/ilaria-capua-ritratto-di-virus-scippatore/luca-carra/2020-03-23?fbclid=IwAR31c_358HCp9NIIDEPB1uGiEFWa0EzUKwIZL05619AgtHgNsxgFY1Uwkcg
  • Non possiamo più aspettare che la situazione peggiori e, quindi, è necessario rimodulare gli attuali modelli di gestione dell’emergenza, assolutamente inefficaci, uniformandoli a tutto il territorio nazionale, comprese le isole Sicilia e Sardegna, garantendo soluzioni rapide ed efficaci che scongiurino ulteriori rischi di focolai in modo particolare nelle strutture sanitarie. Inoltre, non basta l’adozione degli attuali provvedimenti. Le criticità sono molto elevate e le conseguenze sanitarie, sociali ed economiche di continue inadeguatezze, non tarderanno a manifestarsi con una gravità molto maggiore di quella fino adesso percepita”.È quanto afferma l’europarlamentare Francesca Donato (Lega) che lancia un appello al Ministro della Sanità, ai vertici della Protezione civile e a tutti i responsabili regionali e locali, “affinché effettuino senza indugi tutti gli interventi necessari indicati dal medico Giuseppe Imbalzano”. Il seguito… https://www.ilsicilia.it/coronavirus-donato-inadeguata-la-gestione-dei-presidi-ospedalieri-in-sicilia/?fbclid=IwAR00L9GWmVUeD8mQ_aGWfF87chQg_aNHs8tkDOI4peWRYX2-yJYrq4PoD58
  • riproponiamo http://italiaeilmondo.com/2020/03/22/lettera-alla-professoressa-capua-di-giuseppe-imbalzano/

Strategie politiche contro il Coronavirus Numeri, analisi e ROI delle strategie dei governi nazionali, di Francesco Esposito


Crescita percentuale di nuovi casi in Italia al 15 marzo 2020

Questa analisi vuole partire dall’articolo di Roberto Buffagni su italiaeilmondo.com e dei commenti seguiti sul sito stesso.

Premessa: siamo in guerra. Se non per l’entità totale del rischio, lo siamo per almeno tre ragioni:

· Per la velocità con cui ci siamo trovati davanti agli occhi il fatto compiuto,

· Per le limitazioni alle libertà personali che dalla fine della seconda guerra mondiale non erano mai state messe in discussione, né durante gli anni di piombo né durante le stragi di mafia

· Per l’impatto sull’economia del Paese.

Eppure il rischio (i soldati e le bombe) non si vede, quindi siamo in guerra pur senza averne contezza.

Economicamente (e sui mercati finanziari) il propagarsi del corona virus è un misto fra l’attacco alle torri gemelle per violenza e imprevedibilità e la crisi del 2008 (o forse del ’29) per profondità. Anzi, probabilmente peggio: infatti i dati del Sole24Ore hanno evidenziato come i mercati americani ci abbiano messo solo 16 giorni per perdere più del 20% dai massimi raggiunti. Per fare un paragone calzante non si può guardare tanto al 2008 (poiché i massimi erano stati raggiunti nel 2007 e la situazione non era già delle più rosee), bensì al ’29. E nel ’29 ci vollero 42 giorni per perdere più del 20% del valore.

Rispetto alle reazioni politiche all’epidemia messe in atto dai vari paesi, in estrema sintesi Buffagni propone di dividerle sulla base di due differenti stili strategici:

· Approccio 1 (economico, breve termine): ci si rassegna al contagio, non contrastandolo, se non con misure estremamente blande, tali da non compromettere la tenuta dell’intero sistema economico e produttivo. Ci si libera, come in guerra, del peso economico (in termini di pensioni e di welfare nel complesso) degli anziani. Ci si rassegna ad un numero di morti che potrebbe essere alto;

· Approccio 2 (sociale, lungo termine): si contrasta il contagio con misure estremamente più limitanti delle libertà personali, con conseguente paralisi, almeno momentanea, del sistema economico. Si punta su una accresciuta unità sociale. Ci si rassegna ad un numero di imprese fallite che potrebbe essere alto.

Come Buffagni indica, Cina, Corea del Sud e Italia seguono il modello 2, pur con strumenti non omogenei. Gran Bretagna, (Germania, Francia) e Stati Uniti seguono (o vorrebbero seguire) il modello 1.

Le ragioni per la scelta strategica di un modello o dell’altro sono più e meno profonde.

Per la Cina si è trattato insieme di:

· Questione culturale di rispetto verso gli anziani, che sono le vittime sacrificali dell’approccio 1;

· Prove di militarizzazione di intere aree urbane;

· Tattica di lungo periodo, infatti la rinnovata e rafforzata unità nazionale potrebbe sostenere una crescita ancora più spiccata nel prossimissimo futuro;

· Asimmetria informativa: sono stati i primi a dover affrontare il virus e hanno dovuto costruire modelli predittivi e risposte adeguate senza sapere esattamente quanto e come fosse contagioso e letale il virus.

Per noi, citando letteralmente Buffagni, “la scelta [italiana] del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili, e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché”.

Infatti, abbiamo optato per il modello 2, pur con qualche ritardo, deroga e limite intrinseco (per esempio nella capacità di produrre procedure di controllo adeguate mettendo d’accordo Stato centrale e regioni varie), perché incapaci politicamente delle decisioni fortissime necessarie per attuare il modello 1, e perché fondamentalmente inconcepibili per la nostra cultura tendenzialmente cattolica e pacifista.

La cosa interessante, sempre riprendendo Buffagni, è nell’implementazione di tali modelli operativi: infatti la scelta 1 richiede forza e decisione politiche enormi (si immagini Conte a dire “moriranno centinaia di migliaia di persone”), eppure nessun cambio nella vita dei cittadini; al contrario la scelta 2 è politicamente più mite e naturale, eppure impone restrizioni pesantissime.

Di seguito una serie di domande sorgono spontanee, pur con la premessa che non esistono certezze scientifiche sull’evoluzione della curva epidemiologica e quindi non ci sono basi per previsioni che vadano molto oltre il “secondo me” sullo stato sociale ed economico di lungo periodo, ovvero si è nel raggio d’azione della Politica con la P maiuscola, quella che prende decisioni strategiche e non si limita all’esecuzione mera (pur lodevole) di pareri scientifici e tecnici.

· Quale dei due modelli produce sul breve-medio-lungo periodo più morti?
Una prima risposta naturale potrebbe essere l’opzione 1, poiché ci si rassegna in partenza ai morti. Eppure il periodo di isolamento imposto dall’opzione 2 porterà ad una crisi economica profonda con due probabilissime conseguenze: migliaia di aziende fallite che si trascinano dietro molti più disoccupati, welfare potenzialmente ridimensionato per far fronte alla crisi. Dunque sul medio periodo, magari anche in assenza di vaccini e con un ritorno del virus (cosa che la Gran Bretagna ha preventivato fino ad aprile 2021) non è affatto ovvio quale opzione provochi più morti.
La differenza politica tra le due possibilità è tutta nella scelta che si compie: privilegiando la continuità economica si sta sacrificando parte del paese (pur con tutti i se ed i ma della questione, come il tentativo del governo inglese di confinare in casa per 4 mesi gli anziani e far contagiare solo i giovani), nell’altro caso si sta scegliendo di provare a salvarli tutti, almeno in prima istanza.

· Quale dei due modelli è più sostenibile per l’equilibrio socio-economico dei paesi?
Francia e Germania hanno inizialmente provato ad attuare la strategia 1, salvo poi virare sempre di più verso il contenimento coatto del virus.
Questo perché c’è un numero di morti oltre il quale avviene il collasso sociale dello Stato, ovvero cominciano le rivolte. Inoltre, quanto tempo si può resistere continuando a produrre come se niente fosse quando gran parte degli altri paesi del mondo chiude le frontiere e le fabbriche? L’economia di un singolo stato può resistere al fermo di tutti gli altri? Nel mosaico che è la globalizzazione, la risposta è probabilmente no. Nei termini della teoria dei giochi, qual è l’equilibrio più conveniente?
Un peso enorme verrà poi giocato dagli Stati Uniti e dall’evoluzione della loro strategia e della loro situazione sanitaria che, per le elezioni imminenti e per la struttura della sanità (privata), potrebbe trasformarsi in un disastro epocale.
Se gli USA cambiassero verso la strategia di contenimento, naturalmente in ritardo rispetto a Cina ed Europa, per quanto rimarrà fermo il mondo? Alla ripresa completa della Cina non ci sarebbe praticamente mercato estero, il loro mercato interno basterà per evitare un profondo ridimensionamento delle loro ambizioni di crescita?

· L’equilibrio socio-economico da rispettare per evitare una catastrofe è unico per tutti i paesi?
Ovviamente no, e questo è chiaro analizzando la percentuale di morti sui casi totali di corona virus. Uno studio interessante è stato pubblicato su Medium.
Infatti in Corea del Sud la percentuale di morti è molto più bassa che da noi (circa l’1%), ergo lì l’opzione 1 sarebbe stata molto più praticabile che da noi (che abbiamo una percentuale di morti di circa il 7% al 16 marzo), pur consapevoli che un collasso degli ospedali avrebbe alzato il numero totale dei morti per l’impossibilità di curare anche chi avesse problemi diversi dal corona virus.
Queste differenze nel tasso di mortalità dipendono fondamentalmente da tre fattori: come si conteggiano i morti (per corona virus vs con corona virus), come è distribuita l’età della popolazione, quali fasce d’età vengono inizialmente colpite da un contagio. La Corea del Sud è stata fortunata perché, oltre ad avere meno anziani di noi europei, ha avuto la maggior parte dei contagi fra i giovani. Questa è, appunto, fortuna. Per la Germania si sta verificando la stessa cosa, in Francia sono a metà strada.
In linea totalmente teorica l’idea di Boris Johnson di far ammalare solo i giovani isolando gli anziani (come spiegato su NextQuotidiano), se realmente attuabile (e non lo è) produrrebbe probabilmente un impatto accettabile sia economicamente, poiché si tenterebbe di far lavorare tutti come se niente fosse, sia in termini di vite umane, perché sui giovani la mortalità è quasi nulla. Tutto ciò anche indipendentemente dalla presunta immunità di gregge, da dimostrare per questo nuovo virus in assenza di vaccino.

· Potevamo permetterci l’approccio 1? Potremmo dover cambiare in corso d’opera e sacrificare anche noi le vite delle fasce più a rischio?
Dipende dai dati effettivi sulla letalità del virus, sulla sua eventuale ricomparsa in autunno e scomparsa in estate, dai risultati dell’approccio 2 attuale. Di certo, per quanto animati anche da ottime intenzioni, non potremmo permetterci un fermo totale come quello attuale per un anno (seguendo le stime del governo inglese sulla primavera 2021). D’altro canto esiste la possibilità che le misure di contenimento non bastino e che allentandole il virus ricominci l’espansione. Dunque cosa si farebbe in quel caso?
Potremmo dover essere noi a cambiare e scegliere l’approccio 1, cioè il sacrificio e il lavoro come se niente fosse. A quel punto ci troveremmo potenzialmente punto e a capo. Considerando uno studio effettuato su Vo’, citato sul Corriere, il 50% degli infetti non ha sintomi. In extremis, potremmo dover essere pronti ad un sacrificio importante, consolati solo dal fatto che gli asintomatici abbasserebbero la percentuale di morti, pur senza mitigare il dolore (ed il peso, anche politico) dei morti veri. Altrimenti, se lo studio non si dimostrasse veritiero uniformemente su tutto il paese… Meglio non pensarci.

Riferimenti bibliografici

· https://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

· https://24plus.ilsole24ore.com/art/come-siamo-arrivati-ribasso-piu-violento-storia-mercati-peggio-crollo-29-ADtP5uC?cmpid=nl_best24

· https://medium.com/@andreasbackhausab/coronavirus-why-its-so-deadly-in-italy-c4200a15a7bf

· https://www.nextquotidiano.it/coronavirus-azzardo-di-boris-johnson/

· https://www.independent.co.uk/voices/coronavirus-deaths-trump-stock-market-pandemic-economy-bankrupt-italy-a9394891.html

· https://www.corriere.it/cronache/20_marzo_13/coronavirus-piano-marshall-veneto-moltiplichiamo-tamponi-938c48a8-6552-11ea-86da-7c7313c791fe.shtml

Per altre informazioni: youbiquitous.net oppure instagram.com/fesposi

tratto da https://medium.com/@fesposi.ybq/strategie-politiche-contro-il-coronavirus-6a46b5aa60b7

Lettera alla professoressa Capua, del dr. Giuseppe Imbalzano

 

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

 

Ill.ma professoressa Capua;

A seguito delle Sue domande, quale fosse il motivo delle criticità in Lombardia, mi permetto di scriverLe e descriverLe quanto accade per comprendere come e perché, in Lombardia, nonostante tutti gli interventi messi in atto, non ci sia una attenuazione della pressione infettiva.

Il motivo è un elemento che rende difficile la gestione di questa epidemia, che sta crescendo oltre le attese e in un tempo brevissimo, una epidemia con uno sviluppo lampo e in modo tumultuoso.

In Lombardia la gestione dei pazienti infettivi ha condotto ad attivare ospedali misti, con la presenza di pazienti acuti a cronici e pazienti infettivi, con diverse condizioni di criticità, mentre in area critica, in considerazione della gravità delle condizioni individuali, molte risorse sono state assorbite da questi pazienti.

Questa situazione ha comportato, purtroppo, che la infezione sia stata poi diffusa negli ospedali e un numero elevato di personale sanitario (l’assessore aveva indicato nel 12% la percentuali degli infetti) ne sia stato contagiato.

E sappiamo che gli stessi, per lavoro, hanno numerosi e significativi contatti con il resto del personale e i malati che si rivolgono a loro. Oltre ai familiari, che risultano anche loro contagiati, creando piccoli cluster familiari.

E dopo appena 30 giorni, i pochi casi sono diventati una vera epidemia.

Una infezione, certamente seria ma non impossibile da limitare, è diventato un grave problema di sanità pubblica nazionale.

Oltre una diagnosi, certamente presunta, credo che sia utile una proposta di terapia di questa situazione, che ha avuto linee ondivaghe e incerte di soluzione.

Dopo appena 30 giorni più comportamenti, distinti e differenziati, abbiamo un numero di decessi che nelle prossime ore sarà doppio rispetto alla Cina per non parlare della progressione infettiva che appare poco propensa a frenare la propria marcia.

E siamo in una situazione che mai mi sarei aspettato, certo del lavoro e delle qualità dei nostri servizi di sanità pubblica, che si è attivata, ma forse con mezzi e risorse insufficienti.

Le indicazioni che seguono sono, naturalmente generali:

  • Ricoveri distinti in ospedali e strutture di assistenza e di ricovero per anziani dedicati unicamente a pazienti infettivi con rapida eliminazione di situazioni di ambiguità nella gestione clinica, con livelli massimi di sicurezza biologica per il personale operante.
  • Il blocco delle attività per 30 giorni senza particolari deroghe, se non per necessità industriali e di continuità lavorativa, con una gestione attiva di tutte le condizioni a rischio e delle situazioni che necessitano di supporto sociale sanitario e di servizi operativi con un’organizzazione di alto profilo sociale e funzionale.
  • Definizione di aree territoriali limitate per valutare azioni relative alle specifiche necessità locali.
  • Particolare attenzione alle esigenze sociali e cliniche dei pazienti fragili a domicilio per garantire una assistenza che non conduca alla necessità di ricoveri ospedalieri.
  • Attivazione di èquipes mediche ed infermieristiche ambulatoriali e domiciliari in sostituzione della medicina generale classica per pazienti affetti da patologie infettive trasmissibili. La riduzione dei contatti consentirà di operare in piena sicurezza su entrambi i settori. Naturalmente garantiti per sicurezza e continuità. Questo è certamente un problema di sanità pubblica e non di medicina di famiglia.
  • Monitoraggio stretto delle situazioni a rischio e garanzia di continuità e intervento tempestivo per pazienti affetti dalla patologia infettiva. La scelta di trattare questa infezione come le altre che conosciamo non è accettabile. L’obiettivo dell’Oms è l’eradicazione e non il mero controllo (che comunque l’attuale modello di intervento non garantisce)
  • Va modificato il protocollo della valutazione dei positivi e non solo dei malati, la quarantena e la separazione dei positivi anche dalle loro famiglie che certo rischiano di non restare indenni dalla malattia per la presenza dei propri congiunti.
  • Va modificato il modello di gestione del personale sanitario perché non possono lavorare nel dubbio di essere infetti, per se stessi e per i cittadini che si rivolgono a loro
  • Utilizzo della diagnostica con correttezza e non in forma di screening poiché certamente oggi possono creare false sicurezze

Con questa nuova organizzazione appare meno complesso intervenire in situazioni di criticità operativa con meno rischi considerato che il personale sarà ben protetto e il malato perfettamente assistito nelle diverse strutture in cui si trova.

Si riducono le esigenze di garanzia ambientale negli ospedali temporanei solo per pazienti Covid 19 poiché tutti i malati hanno la medesima malattia infettiva

Per ridurre l’impatto della malattia in ambito comunitario vanno conosciuti i casi e fatta un’analisi dei contatti, che ormai sono impossibili da individuare, nella situazione in cui siamo, sia per quantità che per il rischio di infezione che corre il personale sanitario nel dover fare le relative interviste e valutazioni.

Le soluzioni non sono numerose.

Considerato che appare impossibile che siano fatte le necessarie indagini epidemiologiche (analisi dei contatti etc.) sui singoli casi e che vengano determinati solo i nuovi casi patologici, deve essere modificato il modello di individuazione dei positivi e che, in assenza di diverse possibilità di gestione, si ritiene necessario che venga tolto il divieto di individuazione nominativo dei malati in modo da consentire ai contatti di afferire in centri idonei per le verifiche del caso.

Comprendiamo che si tratti di un problema grave di Privacy, ma ne va della vita dei singoli e delle loro famiglie e per esteso dell’intera Nazione. Tale indicazione va attuata per un periodo limitato a 60 giorni, e solo per questa condizione patologica.

E i servizi di identificazione e supporto ai pazienti andranno rafforzati in modo del tutto eccezionale in questo momento.

In questa chiave i medici di famiglia dovranno seguire solo i pazienti non affetti da questa patologia e dalle patologie non infettive gli ospedali temporaneamente adibiti a servizio per infettivi saranno in grado di assorbire pazienti infettivi sino ad esaurimento di tutti i posti disponibili o attivabili e senza limitazioni ambientali o fisiche per i diversi motivi che abbiamo citato, condizione che è possibile attuare se effettuata con immediatezza.

La maggior parte degli ospedali dovranno operare solo per gli acuti e i cronici. Gli interventi programmati non urgenti, naturalmente rinviati, così come tutto non espressamente necessario.

Pochi, chiari e netti interventi, date le caratteristiche dell’infezione, possono portare ad una soluzione rapida, gestendo poi diversamente le code di questa infezione.

Scelte macchinose e prive di obiettivi di sanità pubblica porteranno problemi e difficoltà per lunghi periodi e rischi di ripresa infettiva con piccoli focolai locali che necessiteranno di interventi continui e comunque del tutto inadeguati.

La valutazione delle aree indenni e la relativa dichiarazione di aree virus free porterà ad una rapida ripresa delle attività lavorative e a pieno regime, senza compromessi.

Le aree in cui permarrà la presenza del virus sarà liberata da vincoli non appena avverrà la garanzia di non avere assolutamente più rischi nel proprio territorio. La definizione delle aree deve essere di moderata superficie e per aree limitate.

Aree vaste per essere gestite e bonificate rapidamente saranno il risultato delle mini aree bonificate, e gli interventi saranno selezionati per le diverse esigenze.

Una scelta radicale e con tempi di gestione brevi ma decisi, senza ambiguità, darà anche segno della capacità del nostro sistema sociale e sanitario di uscire rapidamente da un problema che certo non era così grave all’inizio, e difficile da immaginare per lo sviluppo più che tumultuoso che ha avuto in quattro settimane.

La debolezza economica che appare dai dati economici è più legata alla evidente incapacità di uscire da una situazione complessa che dalla situazione stessa, pure aggravata da parole e narrazioni che non sempre hanno riscontro con i fatti.

Per ultimo, una informazione corretta ed esaustiva è l’elemento principale della lotta alla infezione ed è certamente più utile per educare le persone in tempo di crisi, aiutando tutti ad affrontare con più coerenza i problemi a cui andrà incontro in futuro. Lavarsi le mani va sempre bene, ma dobbiamo proteggerci dalla infezione aero trasmessa, e certamente non è sufficiente.

Purtroppo in un quadro complesso e troppo rapidamente sempre più compromesso.

E non siamo lontani, in qualche Regione, ad un momento di criticità grave per un eccesso di pazienti infettivi in tutti i settori e non solo per le terapie intensive.

 

Con la più viva cordialità

 

Giuseppe Imbalzano

NB_CVBreveImbalzano

ADVERSUS L’ARTE DEL MICHELACCIO, di Massimo Morigi

ADVERSUS    L’ARTE DEL MICHELACCIO: MANGIARE, BERE E ANDARE A… SPASSO  OVVERO  STORIA  DELLA  COLONNA INFAME    OVVERO CONTRO IL CORONAVIRUS NON C’ E’ PIANO B  OVVERO NECESSITA  PIANO B   PER  CURARE IL VUOTO DI RAPPRESENTANZA IN ITALIA

 Di Massimo Morigi

 Mentre sto scrivendo, sera del 19 marzo, dopo l’ennesima mostruosa esplosione di contagi, nessuno può dire come andrà finire per l’Italia la tragedia del Coronavirus ma una cosa può essere già affermata con cristallina certezza. In Italia una democrazia rappresentativa totalmente malata sta riproducendo i meccanismi di creazione di capi espiatori che non hanno nulla da invidiare a quelli a suo tempo messi in atto dal nazifascismo e dal regime comunista staliniano.  Le misure più o meno draconiane messo in atto (con grande ritardo e quindi anche con conseguente ineludibile ma anche inutile  rigore poi) dal governo non stanno funzionando ma di chi è la colpa dell’insuccesso? Non certo di un governo totalmente non pervenuto all’inizio della crisi e mal pervenuto in questa fase ma, udite, udite, dei runner (nella inelegante e brutta lingua italiana dicesi podisti ma si sa, oltre a raccontare invereconde balle sesquipedali, la nostra classe dirigente, politici e mezzi di informazione indistintamente, hanno deciso che l’italiano è una lingua da bandire) i quali non rispettando le illuminate misure del governo in fatto di quarantena ed isolamento sociale hanno fatto sì che il contagio continuasse a diffondersi più o meno indisturbato. Insomma la nostra rovina non è più  l’ebreo ma il povero Michelaccio, che da simpatica macchietta dell’antico italico immaginario che mangia, beve e va a… spasso si è tramutato nel manzoniano untore della colonna infame. Quello che insomma sta succedendo è che una democrazia rappresentativa priva ormai del tutto di efficaci e reali meccanismi di rappresentanza ha come conseguenza inevitabile un vuoto di rappresentazione non solo politico ma anche  della realtà fisica, biologica e culturale tout court. E a dare una ulteriore pennellata  di macabra e, al tempo stesso, cenciosa coloritura a questa grandguignolesca atmosfera è l’esaltazione da parte dei mezzi di informazione dei flash mob sul balcone, dove con italica noncuranza, proprio mentre migliaia di persone muoiono in maniera schifosa, si urlano sguaiatamente allegre canzonette tipo Volare o il Cielo è sempre più blu (intanto a Bergamo lavorano i formi crematori per quelli che non ce l’hanno fatta. Piccola digressione: evidente segno della scristianizzazione della nostra società che, comunque si giudichi  la secolarizzazione in opera nelle moderne società occidentali, si traduce inevitabilmente in una evidente perdita di strategicità culturale da parte del popolo, essendo di tutta evidenza che gran parte dei cremati in tutta furia avrebbe preferito altro tipo di rito funebre e che una momentanea fossa comune con tanto  di nome e cognome di riconoscimento sulle bare avrebbe permesso poi, in un futuro più o meno lontano, un servizio funebre conforme alla sensibilità cristiana della maggior parte dei defunti e dei loro parenti). Concludo con l’intervista che il virologo Giorgio Palù ha rilasciato alla CNN nella quale l’esimio professore comincia a dubitare  che le misure del governo, proprio perché prese in ritardo, siano in grado di fermare l’epidemia  e nella quale sembra trapelare il desiderio di una sorta di piano B per uscire dalla situazione, piano B che, sembra di capire, per Palù non consisterebbe altro che nell’irrigidire ulteriormente le misure già prese ma se anche questo irrigidimento non dovesse servire …. . Qui di seguito l’URL attraverso il quale si possono leggere le dichiarazioni di Palù rese alla CNN, https://edition.cnn.com/2020/03/18/europe/italy-coronavirus-lockdown-intl/index.html  e il suo congelamento tramite la Wayback Machine, http://web.archive.org/web/20200319211048/https://edition.cnn.com/2020/03/18/europe/italy-coronavirus-lockdown-intl/index.html, insieme ad un video, all’URL https://video.ilsecoloxix.it/italia/coronavirus-quando-finira-la-quarantena-le-opinioni-di-un-matematico-e-di-un-virologo-a-confronto/58987/58967,  dove il prof. Palù intervistato avanza l’ipotesi che la velocissima progressione della pandemia in Lombardia ed anche l’altissimo tasso di mortalità che per l’infezione si registra in quella regione sia dovuta, udite, udite, alle altissime  percentuali di ospedalizzazioni effettuate per trattare i colpiti dall’infezione.  Noi non abbiamo certezze tranne una: ancor prima di un piano B per uscire dalla pandemia necessita un piano B per curare in Italia una democrazia rappresentativa in cui è saltato qualsiasi decente meccanismo di rappresentanza. Il vero dibattito   –  ed azione – che si dovrebbe mettere in atto è come dare realistica ed efficace rappresentazione politica e culturale di massa a questa consapevolezza (sulla qual cosa, Gramsci e il suo moderno principe avrebbero qualcosa da dire).

 

 

 

L’energia del virus Tra catastrofisti e futurologi, di Giulio de Martino

L’energia del virus

Tra catastrofisti e futurologi

di Giulio de Martino

 

A un secolo dall’ultima pandemia – provocata nel 1918 dal virus H1N1, conosciuta dagli storici come «influenza spagnola»[1] – il mondo affronta una nuova patogenesi: diffuso a livello planetario è il virus SARS-CoV-2. La trasformazione microbiologica sempre in atto trova condizioni decisive di facilitazione pandemica in ambienti e ecosistemi specifici, ma anche nei processi di mondializzazione. Nel 1918 fu la Grande guerra con gli spostamenti di uomini e mezzi connessi, oggi sono l’intensa geolocalizzazione produttiva e l’interconnessione economica globale.

Osservata in forma cronachistica, la pandemia da coronavirus appare connotata da elementi specifici. Non mi riferisco soltanto al substrato microbiologico da cui ha avuto origine, o al suo terreno di coltura antropico, ma al correlato psicosociale che la sta accompagnando. La velocità e la refrattarietà del virus al controllo da parte degli organismi ha messo a dura prova sia le strutture sanitarie che quelle sociali circostanti, abituate a trend calcolabili e modellizzati.

Sul versante microbiologico emergono due caratteristiche: la rapidità della replicazione e circolazione del virus (non mesi, ma giorni) e la velocità dello sviluppo della malattia (non settimane, ma giorni). Potremmo aggiungere il virus si comporta come una «variabile indipendente» e si «sceglie» sia i contesti di diffusione che quelli di estinzione. Sono caratteristiche che confliggono con la planning e la clinica del mondo industrializzato basate su malattie di tipo degenerativo e cronicizzate, quindi non contagiose né acute e con l’assunto che la medicina costituisca un business che si avvale di una scienza e di una tecnologia sempre in grado, se non di curare, almeno di diagnosticare e prognosticare[2].

In eguale difficoltà si trovano gli economisti familiarizzati con concetti come quelli di crisi e di ciclo che consentono previsioni, calcoli e soprattutto interventi di gestione delle emergenze micro e macro economiche. La situazione effettiva di fronte alla quale si trovano i decisori politici è che si possa entrare in un territorio di distruzione irreparabile delle risorse che vada anche oltre le più avanzate strategie keynesiane di recupero sistemico.

L’aspetto che appare connotare, al di sopra di altri, l’ultima pandemia è il suo essere focalizzata sul rischio piuttosto che sul pericolo. Senza giungere a parlare di una infodemia, diciamo che si tratta di una pandemia anticipata, osservata e monitorata, alla quale si può partecipare come spettatori o come astanti anche senza esserne direttamente coinvolti[3]. I numeri – tolti dalla loro assolutezza e relativizzati rispetto alle dimensioni delle popolazioni coinvolte – mostrano che la società non è omogeneamente esposta al contagio, ma soltanto ad un rischio non precisamente calcolabile. Certamente, in alcuni settori – reparti di pneumologia infettiva – i sistemi socio-sanitari si sono rivelati sottodimensionati rispetto alla domanda di assistenza, ma il numero delle vittime è globalmente marginale. Tuttavia, poiché la società si è consegnata alla rete delle comunicazioni di massa – sviluppatasi enormemente negli ultimi venti anni[4] –  il rischio virtuale si è trasformato in un pericolo poiché ogni spettatore potrebbe diventare – se si verificassero specifiche condizioni – un protagonista dell’evento.

Il carattere probabilistico della scienza e il carattere statistico dei modelli previsionali è proprio dei saperi maturi: gli epistemologi del secondo ‘900 hanno evidenziato l’impianto definitivamente stocastico delle conoscenze[5]. Nel caso del coronavirus pandemico, a causa delle modalità di circolazione delle informazioni e delle opinioni lungo le reti massmediali, l’aleatorietà delle conoscenze si è trasformata in una forma di cogenza delle ipotesi. Per questo l’olismo della risposta politica al rischio di contagio – macrodecreti e macrodirettive – è diventato preponderante rispetto alle decisioni locali e differenziate per settori e ambiti. Un’unica priorità è subentrata alle molte, variegate e complesse, criticità precedenti: «evitare il contagio e la trasmissione del virus».

Sul versante sociale, si è velocemente passati dall’Homo oeconomicus – che si orientava sulla base di una valutazione ponderata dei rischi e dei benefici e con il «Watch and Wait» – all’Homo stocasticus che trasforma ogni rischio in una minaccia e che dà sfogo a quello che viene definito come «panico sociale» o, più precisamente come «crollo della fiducia reciproca». Non ci basa su di un processo di generalizzazione del dato specifico – che la matematica sconsiglierebbe – ma su di una universalizzazione del fatto singolare che assurge a simbolo della totalità[6].

Baudrillard aveva diagnosticato la «morte del sociale» nella civiltà postmoderna come una forma di entropia e di massificazione indecifrabili che avrebbero reso equiprobabile l’evoluzione del sistema[7]. In realtà, negli sviluppi attuali, il sociale sembra piuttosto patire una «morte simulata»: indotta dai sistemi politici che si difendono dai contraccolpi della pandemia provocando – sotto forma di prevenzione e contenimento del rischio – una «entropia di stato», pianificata e controllata attraverso i dispositivi dell’informazione e dell’ordine pubblico. E’ giusto non dare connotazioni «distopiche» al «coma sociale» prescritto alle popolazioni, come pure va evitato di demonizzare – quasi costituissero una sorta di «laisser faire» epidemico – scelte differenti. Si tratta sempre e comunque – sia nella ipotesi dell’attesa del Climax che in quella della provocazione del Plateau – di strategie deliberate in vista della conservazione delle condizioni di esercizio del potere politico, condizioni che, in regime democratico e liberale, includono anche il mantenimento del consenso – anche soltanto passivo – dei cittadini[8].

Al di là degli interventi specifici sul sistema sanitario, le misure di tipo precauzionale, pur comprimendo i diritti  di libertà dei cittadini (a cominciare da quelli di opinione, di riunione e di libera impresa), utilizzano formulazioni legislative compatibili con lo stato di diritto. Si vedano il reato di dichiarazione mendace, la raccomandazione dell’autoisolamento, la quarantena fiduciaria, l’autosospensione dal lavoro: sono prescrizioni che evocano altrettante assunzioni di responsabilità da parte dei cittadini. Certamente, in un contesto di rischio virtuale, la «responsabilità» del cittadino diventa anche un dispositivo di autotutela da parte del potere politico. Se la involontarietà e la colposità diventano identiche alla dolosità, il reato non deriva dalla contestazione di una «responsabilità penale personale», ma dal non aver ottemperato alle misure precauzionali imposte, dall’aver divulgato «notizie false e tendenziose», dall’aver provocato ad altri un danno biologico che poteva essere evitato. Ciò che viene imputato, in buona sostanza, è di aver impedito che l’«allarme virtuale» lanciato dalle istituzioni si diffondesse adeguatamente nel corpo sociale. Tutto ciò conferma il carattere democratico e perversamente liberale delle misure di contenimento del rischio di contagio.

Gli stati democratici più che disciplinare le forme della libertà – come sosteneva Foucault – hanno comandato l’autosegregazione come «servitù volontaria»[9]. Nei fatti la società si è rispecchiata profondamente nelle scelte dei decisori pubblici. Lo ha fatto anche quando ha mostrato di non voler aderire ai divieti e alle proibizioni. Ciò ha evidenziato, piuttosto, una sorta di compiaciuto «masochismo» che ha attivato inconsciamente anche il gioco della trasgressione. È la logica di ogni proibizionismo che è, insieme, ragionevole cautela e adescante divieto[10].

Davanti alla «morte terapeutica» del sociale indotta dalle politiche antiepidemia, il mondo dei mass-media si è diviso. Quelli maggiori – ad esempio le trasmissioni televisive – hanno scelto di tenere un profilo basso e di condividere gli obiettivi del sistema politico. Quando si parla del SARS-CoV-19, accolgono volentieri il viso severo, ma sereno, di virologi e medici che propongono una teleologia della lotta al male. Invece, sui quotidiani e sulla rete, dove c’è un più contenuto e diluito impatto di massa, vi è spazio per gli influencer catastrofisti e per i ribelli che fanno sentire il gusto del proibito.

I catastrofisti parlano di trame internazionali, di ecatombe biologica, qualcuno di nemesi ecosistemica. Da quando si sono eclissati gli oppositori politici – oscurati dal virus e dai suoi rimbalzi che hanno disinnescato il populismo – c’è più ascolto per le profezie di catastrofe perché rendono disponibile un fattore di salvazione e un «capro espiatorio» su cui riversare il proprio disprezzo.

All’interno dei catastrofisti si colloca il gruppo degli altermondisti: quelli di «un altro mondo è possibile», anzi imminente. Ad essi si aggiungono gli ecoambientalisti che intonano, con nuovo vigore, il salmo della «decrescita felice»[11]. Tra gli apocalittici vi è anche il gruppo dei biopolitici. Questi ultimi, memori delle arditezze del marxismo, argomentano che il «regime al potere» utilizza lo «stato di eccezione»  per rivelare il vero volto dei sistemi democratici e liberali: quello di essere dei regimi totalitari. L’errore grossolano di costoro è di mescolare la biologia (e quindi l’ecologia) con la politica e di pensare che l’utilizzo delle problematiche biomediche nelle attuali strategie pubbliche avvenga in maniera strumentale e truffaldina, come appunto accadde al tempo di Hitler e Mussolini[12]. Sfugge loro che nei regimi democratici e liberali non vi è alcun nesso diretto fra le questioni biomediche e le decisioni politiche: sempre l’ultima parola viene data agli «esperti». Da parte loro, le disposizioni di legge osservano la schietta coerenza ordinamentale: il divieto di un diritto come tutela di un altro diritto. il sistema politico – come quello economico e finanziario – si stanno certamente riposizionando, ma lo fanno al solo scopo di tutelare e potenziare i propri mezzi di esercizio modulandoli sulla base delle reazioni della società agli avvenimenti naturali. Tra le reazioni sociali – oltre alle più evidenti forme di obbedienza e di ribellione – vanno incluse anche la volontà di approfittare dell’emergenza per assicurarsi vantaggi attraverso contrattazioni di tipo non competitivo, ma piuttosto assistenziale e beneficiale.

E’ sensato spostare l’attenzione dai rischi sanitari ai pericoli per le attività economiche e relazionali, sia per quelle novecentesche (industria, trasporti, commercio), sia per quelle di sentiment postindustriale (turismo, fitness, cultura e gruppalità). In quest’ultimo ambito i cambiamenti portati dall’epidemia e dalle politiche pubbliche di neutralizzazione del sistema sociale sono massicci e di segno fortemente negativo. Molti si illudono che, passata la bufera, ognuno tornerà alle abitudini e alle attività precedenti. Più plausibilmente, la società imparerà a modificare i suoi stili di vita e di sviluppo. In buona sostanza: attraverso le procedure di sospensione giusta legge dei diritti, quarantena fiduciaria, distanziamento interpersonale, isolamento ecc. si è indotta una trasformazione del legame sociale. E’ proprio in campo psicosociale che vi sarà il cambiamento più evidente, quello che lascerà il segno. Non sarà, però, un cambiamento di tipo totalitario, bensì di tipo individuale e, insieme, reticolare. Vi si riferiscono già – oltre alle grandi aziende del WEB e alle centrali della finanza – i numerosi sviluppatori, psicologi e influencer che forniscono indicazioni e consigli, ovviamente via internet o schermo, alle persone disorientate dalla crisi e dall’emergenza.

Si può ipotizzare che quelle che oggi sono considerate come modalità secondarie e occasionali di lavoro, di formazione, di scambio di merci e relazioni potrebbero diventare modalità primarie. Quella che si definisce «economia digitale» – il sistema di produzione e scambio basato sulle tecnologie informatiche – potrebbe potenziarsi sia nell’hardware che nel software, sia online che offline, influendo sulla circolazione monetaria e su quella dei beni. Il profilo etico che prevarrà sarà quello del player, che nella letteratura è noto come Il giocatore[13]. Il player incarna il principio economico marginalistico: la ricerca del miglioramento in un contesto di scarsità e di maggior costo dei fattori di esistenza. Un soggetto decide di compiere una data azione soltanto se il sacrificio che questa comporta gli appare minore della soddisfazione che essa procura. Per questo persiste nell’azione intrapresa solo fino a quando l’incremento di sacrificio non supera l’incremento di soddisfazione. In buona sostanza, il player frammenta in segmenti uguali e piccoli il sacrificio di fronte alla decrescita degli elementi di soddisfazione, allo scopo di garantirsi una crescita meno rapida dell’insoddisfazione. Nelle relazioni di dipendenza ha convenienza ad accrescere la richiesta solo fino al punto in cui l’incremento di soddisfazione, che ricava da una nuova dose del bene, eguaglia l’incremento del sacrificio che ha dovuto compiere per ottenerlo. Cercando di massimizzare il vantaggio e di minimizzare il costo, il player cercherà allora di vendere meglio i propri prodotti e di dipendere in misura minore da quelli che deve acquistare.

Con i dispositivi blockchain, cloud e mobile si potrebbe passare dal mondo dell’«Internet of Things» (IoT) e dei social network al riassestamento dell’intero sistema di mercato e di produzione. Questo implicherà che le persone dovranno trascorrere più tempo di fronte al pc o consultando il proprio smartphone, oppure che saranno abolite le relazioni frontali («Face to Face») per sostituirle con quelle mediate dalle reti[14]? Probabilmente no. Ciò che cambierà sarà il rapporto fra l’offline e l’online: il primo diventerà più intenso e cercherà nuove modalità di riferimento al secondo. Il cambiamento avverrà, prima di tutto, all’interno della nostra mente: continuerà a essere offline, ma cercherà la connessione con le altre menti e le altre esistenze, sempre più spesso, attraverso i sistemi audiovisuali e scritturali online.

[1] Johnson Niall, Britain and the 1918-19 Influenza Pandemic. A Dark Epilogue, London and New York, Routledge, 2006.

[2]  Van Rensselaer Potter II,  Bioethics: Bridge to the Future, Prentice-Hall, 1971.

[3] Massimo Conte, Reti ed epidemie: quando il gioco si fa serio, “Complexity Education Project”, Università di Perugia, febbraio 7, 2020.

[4] Luciano Floridi, The Fourth Revolution. How the infosphere is reshaping human reality; Oxford University Press, 2014; tr. it. La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

[5] Richard Feynman, Il senso delle cose (The Meaning of It All, 1998), Milano, Adelphi, 1999,

[6] Andrew Salmon, Democracies’ Covid-19 cures could be worse than the disease, in: “Asia Times”, march 18, 2020.

[7] Jean Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la fine del sociale, 1978, n. ed. a cura di Dario Altobelli, Mimesis, Milano 2019.

[8] Roberto Buffagni, Epidemia coronavirus. Due strategie a confronto, L’Italia e il Mondo, 14 marzo 2020.

[9] Michel Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, Medusa Edizioni, 2001.

[10]  Bateson, G., Jackson, DD, Haley, J. & Weakland, J., Toward a Theory of Schizophrenia, “Behavioral Science”, 1956, 1, 251-264.

[11] Luigi Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, su: “il Manifesto” del 17.03.2020.

[12]  Giulio de Martino, Eutanasia del marxismo, Mimesis, 2020.

[13]  Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, 1ª ed. originale, 1866.

[14]  Giulio de Martino, La mente virtuale, Iacobelli 2015.

FAQ CORONAVIRUS 1 del dr. Giuseppe Imbalzano

AI LETTORI_ RIFLETTETE E CHIEDETE_GIUSEPPE IMBALZANO VI RISPONDERA’

FAQ CORONAVIRUS 1

del dr. Giuseppe Imbalzano[1]

 Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

Cosa è accaduto?

Un nuovo virus animale ha fatto il salto di specie ed ha infettato l’uomo.

È la prima volta?

No. Da sempre accade questo fenomeno tra specie che convivono insieme.

Una situazione come questa era inattesa?

No, da molti anni si preparano “piani pandemici” per evitare di farsi trovare impreparati. Non sappiamo chi sarà, ma qualcosa potrebbe succedere (e a volte succede).

E naturalmente questi piani di sicurezza e di emergenza servono per agire tempestivamente quando la situazione può essere necessaria.

Non sappiamo quando ci sarà un terremoto, ma se non siamo pronti non potremo intervenire con tempi di risposta brevissimi e utili a risolvere il problema per il bene di tutti, chiunque esso sia.

Se non si è pronti, l’intervento sarà tardivo e persino pericoloso ed inefficace.

Le ricette sono tante e se ne sceglie una per cucinare il problema.

La situazione era ignota?

Assolutamente no

Era stato attivato un sistema di allarme internazionale?

Si.

Errori e contraddizioni iniziali dalle informazioni (molto molto contraddittorie) provenienti dalla Cina?

Tanti e a lungo

E allora è indispensabile agire in modo più strutturato, organico e complessivo perché molti interventi vengono ritardati dalla assenza di informazioni tempestive e adeguate

Aerei dalla Cina che vengono fatti atterrare solo a Malpensa e a Fiumicino

Può essere sfuggito qualcuno dei nuovi arrivi? Certamente non tutto era ben determinato.

Anche prima dell’inizio della nostra riorganizzazione (infezioni che risalgono a dicembre dello scorso anno e forse prima, pipistrelli o meno)

Facile prendere il cittadino cinese chiuso in albergo già malato.

Difficile scegliere tra migliaia.

La scelta– la identificazione, secondo protocolli, per tutti i passeggeri, della ‘passenger locator card’ oltre allo scanning termometrico per i passeggeri atterrati.

La misura è efficace? Relativamente. Chi non ha febbre non è identificabile. Pare riesca a ritardare, per un periodo non lungo, lo sbarco dell’infezione nella nuova realtà territoriale.

Abbiamo più tempo per prepararci.

Sospensione dei voli dalla Cina dal 27 gennaio

La misura è efficace? Ormai l’infezione è presente in altre Nazioni e chi deve arrivare in Italia, anche dalla Cina, cerca soluzioni alternative.

E non sa neanche di essere infetto e poi malato. E gli arrivi da altre Nazioni non sono evidenti.

E se non è cinese meno ancora. E possono giungere da altre Nazioni che non abbiamo considerato. Magari italiano di ritorno.

Colpe delle scelte italiane?

Pare comunque difficile gestire un flusso tanto importante con certezze, malattia e con persone che non sono neanche identificabili.

Dare colpe? Polemiche?

Per spirito di autoflagellazione o altro?

Io l’avevo detto? Con quale spirito ed obiettivo?

Non risolve certo il problema di oggi.

Dopo numerose e lunghe informazioni non sempre chiare, con azioni locali che sospendono la circolazione interna ed esterna di 60 milioni di cittadini cinesi.

Dare colpa significa farlo nella piena gratuità di informazione. Siamo tra le Nazioni che hanno il maggiore interscambio economico con quella Nazione a livello mondiale.

I test e i tamponi, oltre ad essere stati predisposti da pochissimi giorni (gennaio), non sono infiniti e vanno testati, valutati e le raccolte di materiale devono essere idonee. Gli esami e i controlli eseguiti adeguatamente. Possono essere negativi ieri e positivi oggi. Possono essere negativi ma l’infezione può insorgere successivamente.

Solo chi ignora può pretendere o fare cose del tutto inefficaci.

Siamo in piena epidemia influenzale.

 

La sintomatologia delle due infezioni, influenza e coronavirus, è differente?

Non certo all’inizio

Come avviene l’infezione?

Semplificando, per contatto diretto (tosse, per via aerea, o contatto con le nostre mucose del materiale virale)

A che distanza? Breve – diciamo 2 metri. Questo materiale quanto resta vitale sulle superfici? Sembra alcune ore.

Si ammalano tutti?

No.

Quelli che si ammalano hanno tutti una patologia grave?

Assolutamente no.

Questo non è certo elemento che favorisca la individuazione dei casi e la soluzione dei problemi

Allora cosa è necessario fare?

Se non è arrivato nessun infetto, nulla.

Se la persona ha superato le barriere doganali nostro malgrado, sicuramente, in caso di malattia, raggiungerà il servizio sanitario in qualsiasi sede o forma, non appena ne avrà esigenza.

Perché la malattia, che per molti è del tutto insignificante, per alcuni vira in modo pericoloso in polmonite virale, non distinguibile dalle altre ma certamente neanche diagnosticabile e risolvibile senza le necessarie azioni di diagnosi e relativa cura.

E se sta male e va in pronto soccorso cosa accade?

Se il pronto soccorso è unico, se la sala d’attesa è unica, se l’ambiente è piccolo, se le persone non sono preparate, la diffusione è certa. Tutti i presenti ne verranno coinvolti.

Se l’ambiente è separato, ha tutti i sistemi di mitigazione del rischio attivati, se i test sono a disposizione e il personale ha idea che ci possa essere un problema reale e un rischio effettivo, la condizione, come nel 1770, colpisce con le pallottole i primi soldati che non sono ben protetti, ma impedisce la diffusione di un virus che non deve, perché nuovo e per il quale non abbiamo armi efficaci di contrasto, entrare nella circolarità quotidiana del nostro sistema sociale.

Ma una buona formazione, la disponibilità di strumenti di sicurezza idonei ne fanno non più dei fantaccini ma dei Signori Professionisti quali sono e di cui dobbiamo solo vantarci per competenza e professionalità di fronte al Mondo intero e dare loro rispetto.

Se non siamo preparati che accade?

Accade ciò che è accaduto.

E’ accaduto per caso o poteva essere evitato?

Chi ha portato il virus? Ormai non ci interessa se non per storia. E per polemica.

Ma non possiamo dire come sia avvenuto certamente e la polemica non risolve il problema.

Ma è possibile che sia arrivato anche prima di quando potessimo fare qualcosa.

 

[1] Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

 

COMUNITÁ E CRISI DA CORONAVIRUS, di Teodoro Klitsche de la Grange

COMUNITÁ E CRISI DA CORONAVIRUS

L’emergenza sanitaria ha fatto riscoprire a gran parte dei media il senso della comunità. Elzeviristi, attori, cantanti, politici, pensatori (veri e presunti), prelati constatano – e spesso auspicano – che la crisi ha ricostituito il senso e i rapporti di appartenenza collettiva. Secondo la maggior parte sarebbe stato distrutto da trent’anni di neo-liberismo; secondo altri da una globalizzazione che tende – neppure occultandolo – a demolire tutte le appartenenze particolari; altri  vi aggiungono diverse cause. La stragrande maggioranza mostra così sorpresa di questo collegamento tra crisi e crescita del senso (e dei vincoli) comunitari; ma di questo stupore la cosa più stupefacente è proprio che si sorprendano.  Perché il collegamento tra crisi e comunità è uno dei più noti da (almeno) venticinque secoli; tenendo conto che Tönnies nel “definire” la comunità ricorre alla “perfetta unità delle volontà umane come stato originario o naturale” nonostante la separazione empirica. A tale riguardo occorre che i vincoli comunitari prevalgano sulle differenze individuali, le quali non possono estendersi oltre un certo limite “perché al di là di esso viene soppressa l’essenza della comunità in quanto unità del differente”.

E dato che gli uomini sono tutti dotati di intelletto e volontà, oltre che di diverse attitudini, tendenze ed opinioni, di passare quel limite c’è sempre il rischio, come ci sono situazioni che lo facilitano ed altre che, di converso, rinsaldano i vincoli comunitari, tra cui le crisi. La più considerata delle quali da sempre è la guerra, e l’antagonista necessario, ossia il nemico, come già diceva Eschilo nelle Eumenidi: “E scambio ci sia di gioie nella comune concordia; e unanime odio ai nemici: delle molte calamità unica medicina è questa ai mortali”; e anche nel secolo scorso ne abbiamo avuti tanti esempi dall’Union Sacrée ai “gabinetti di guerra” composti da tutti i partiti (o quasi tutti), riflesso istituzionale dell’unità della nazione e della volontà di vittoria.

Meno compulsato è il rapporto tra crisi (non belliche) e vincoli comunitari; quello che l’Italia sta correndo in questi mesi, aggredita da un nemico che non è un gruppo umano, ma, come spesso nelle situazioni d’emergenza, un fatto naturale, come il terremoto (cui purtroppo siamo abituati) o le inondazioni.

In tutti questi casi il potere pubblico governa con misure eccezionali in deroga alla normativa ordinaria, la quale presuppone, come scrive Schmitt, una situazione normale, e pertanto diventa inadatta in una eccezionale. I giuristi lo hanno evidenziato, spiegato e ricondotto a principi: dalla necessità come fonte di diritto di Santi Romano, alla “forza che sacrifica il diritto per salvare la vita” di Jhering, tra gli altri.

Tutte riconducibili alle funzione di salvaguardia dell’esistenza ordinata della comunità da parte dell’istituzione politica (Hauriou).

Una spiegazione più “stretta” del rapporto tra crisi e comunità l’ha dato René Girard con la sua concezione del rapporto tra violenza e sacro. Secondo lo studioso francese, la crisi dissolve l’ordine sociale, ma dato che una comunità non può esistere senza ordine, attraverso il meccanismo vittimario (il capro espiatorio che viene sacrificato e dopo sacralizzato) lo si ricostituisce. L’esempio che (tra i tanti) Girard indica è l’ “Edipo re”, con la pestilenza che affligge Tebe, la scoperta della “colpa” di Edipo, la punizione che il re si auto infligge, prima di andare in esilio.

A prescindere dalla spiegazione del sacro, è chiara in Girard la relazione tra crisi e ordine comunitario, vincoli sociali, concordia (che in effetti significa cum cordia, ossia unione dei cuori id est pace e unità sociale, con relativizzazione dei conflitti intra-comunitari tra cives e relativa violenza). La concezione di Girard poggia tutta sul fond teologico dell’ordinamento, mentre quelle dei giuristi tengono conto prevalentemente sulla couche giuridico-istituzionale (Hauriou). La crisi così si configura come un indebolimento dei rapporti comunitari, ma anche come il passaggio a un ordine “altro” basato su elementi (totalmente e più spesso parzialmente diversi): dalla più semplice sostituzione del vertice (un re succede a un altro, come a Tebe dopo l’auto-esilio di Edipo) a quella del regime politico (da monarchico a aristocratico o democratico); a quella della “tavola dei valori” (come, quasi sempre, nelle rivoluzioni e nei mutamenti costituzionali moderni).

Tutti connotati da un rafforzamento/ricostruzione del senso (e dei vincoli) comunitari. I quali, senza voler annichilire il contrapposto (da Tönnies) idealtipo della società, sono quelli necessari all’esistenza di  una comunità, politica in primo luogo, Onde le crisi sono la transizione tra (diversi) ordini. È solo il quantum (dei vincoli e caratteri) del tipo ideale comunità (rispetto al contrapposto società) a connotarle rispetto alle situazioni normali. Contrariamente a quello che si pensa (o pensava) nei paraggi del politicamente corretto, per il quale la società globale d’individui commercianti e consumatori, è il destino.

Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS! UN’ANALISI SEMPLICE, MA NON TROPPO SEMPLICISTICA di Francesco Esposito

Riflessioni numeriche sulla diffusione del Coronavirus

Un’analisi rudimentale, sicuramente semplice, ma (si spera) non troppo semplicistica

La situazione globale

I dati sono raccolti da fonti diverse e riorganizzati paese per paese.

Siccome i vari focolai nazionali (e anche quelli più locali) sono comparsi in periodi diversi, se considerassimo la data avremmo grafici molto spostati l’uno rispetto all’altro e ci perderemmo le somiglianze. Considereremo quindi i dati a partire dal giorno in cui siano stati trovati più di 500 casi. Il giorno 1 in Cina corrisponde al 22 gennaio ed erano presenti 554 casi. In Italia invece il giorno 1 è il 27 febbraio ed i casi 588. L’intervallo temporale massimo è, per ora, di 60 giorni. Ovviamente la maggior parte dei paesi non ha dati completi ma si fermano attorno 15esimo giorno, poichè lo scoppio europeo è molto più recente.

 

Il primo passo è visualizzare il grafico con l’andamento dell’epidemia (ormai pandemia) nei vari paesi.

Le curve sembrano avere delle somiglianze marcate. Tali somiglianze sono più evidenti nei primi giorni, in cui ci sono i dati di tutte le nazioni.

Qualche osservazione:

  • La Spagna (in verde) sembra procedere addirittura “peggio” della Cina;
  • La Germania (in rosa) nell’ultimo giorno disponibile (ovvero il 13, corrispondente per loro al 17 marzo) ha più casi di quanti ne avessimo noi, ovvero ne ha 9367. Per noi il 13-esimo giorno era il 10 marzo e avevamo 9114 casi;

 

Chiaramente per capire quanto il Coronavirus sia duro per una nazione non basta considerare il numero di positivi, ma si devono considerare morti e posti in terapia intensiva. Purtroppo però i numeri sono talmente sbilanciati da risultare sospetti. Infatti in Germania risultano 2 ricoverati in terapia intensiva al giorno 13, in Italia ne risultavano 877. Verosimilmente il modo di contare i pazienti in terapia intensiva è significamente diverso. Francia e Spagna hanno ricoverati in terapia intensiva compatibili con quelli italiani. Invece gi USA sono allineati alla Germania, infatti ne hanno ad oggi 12 su oltre 7mila positivi.

Discorso simile per i morti ed il tasso di mortalità. Una differenza significativa si può attribuire a come il virus colpisca la popolazione: infatti colpendo la fascia più anziani ci saranno ovviamente più morti, al contrario colpendo la fascia più giovane i decessi scenderanno. Quali siano le fasce colpite inizialmente è fondamentalmente questione di fortuna. Nel tempo, in condizioni di espansione libera del virus, la differenza si azzererebbe, poichè sarebbero colpite egualmente tutte le fasce d’età. In Germania e Korea del Sud, per inciso, la popolazione colpita è molto giovane, mentre in Italia è molto più anziana. Inoltre anche la distribuzione complessiva della popolazione incide sul numero di morti (e quindi sul tasso di mortalità). Ciò non toglie che numeri così diversi fra l’Italia e la Germania producano il sospetto che ci siano diversi criteri per il conteggio dei decessi per Coronavirus.

 

Un’ulteriore questione da approfondire è quella dei positivi, infatti non tutti i paesi hanno la stessa strategia di controllo dei positivi. Per esempio in Korea del Sud sono stati effettuati tamponi a tappeto per trovare i positivi, così come da noi è stato fatto in alcune zone del Veneto. Al contrario gli Stati Uniti ne hanno fatti molti meno in rapporto alla popolazione, per ragioni legate alla struttura della sanità e probabilmente per l’iniziale sottovalutazione del rischio.

 

Mettendo in scala logaritmica l’asse y per “zoomare”, si vede ancora meglio quanto le curve si somiglino, con l’eccezione della Korea del Sud, che ha un andamento apparentemente diverso, con crescita praticamente (e fortunatamente, per loro) nulla.

La situazione italiana

Scendendo nel dettaglio italiano, la Lombardia al giorno 20 (cioè 17 marzo per noi) rappresentava il 46,41% dei positivi.

C’è una differenza notevole fra i morti in Lombardia (al giorno 20 erano 1640) e quelli nel resto d’Italia (che IN TOTALE erano 863). Dunque in Lombardia c’era il 65,55% dei morti totali.

Questo giustifica un’analisi che separi la Lombardia dal resto d’Italia.

Ad onor del vero la distribuzione della mortalità è molto disomogenea: per esempio l’Emilia Romagna ha il 16% dei morti totali, che rappresenta il 40% del totale dei morti in tutta Italia meno la Lombardia; in Piemonte il 5% del totale (133 in valore assoluto).

In Veneto invece, rispetto al numero di contagiati, ci sono meno morti.

 

Un punto da tenere a mente, come detto e ridetto in TV, è che le misure di contenimento mostrano effetti dopo il periodo di incubazione del virus, quindi gli effetti si vedono dopo un periodo che va dai 5 ai 14 giorni.

Se oggi qualcuno infettasse 10mila persone, non potremmo farci nulla anche se lo sapessimo e ne vedremmo gli effetti sulla curva dopo l’incubazione. Quindi se anche scoprissimo che in Puglia siano arrivati centinaia di infetti a generare nuovi focolai, l’esplosione avverrebbe in ritardo di vari giorni.

Inoltre, difficilmente il famoso picco sarà uno solo. Ne seguiranno probabilmente altri, così come seguiranno in Cina alla ripresa delle normali attività.

Fermo restando che fare previsioni precise è impossibile, le misure di allontanamento sociale (cioè simil-coprifuochi, distanze minime e simili) potrebbero dover essere mantenute a lungo.

Si nota bene che nei primi giorni l’espansione del virus in Lombardia è stata più forte che nel resto d’Italia, ma da qualche giorno la tendenza è invertita. Questo è probabilmente dovuto a due fattori:

  • in primo luogo l’isolamento forzato (e la chiusura delle scuole) è cominciato prima,
  • in secondo luogo ci sono stati massicci spostamenti verso il sud.

L’effetto complessivo degli spostamenti verso il sud potrebbe non essere ancora visibile in toto, visto che il tempo di incubazione può arrivare circa a due settimane e gli spostamenti sono continuati fino a due giorni fa (cioè 16 marzo). Comunque gli spostamenti dell’8 marzo sono probabilmente già incorporati nel grafico (che arriva al 17 e copre il tempo di incubazione medio di 7 giorni).

Gli spostamenti comportano da un lato lo sgravio degli ospedali del Nord, alleggeriti di nuovi potenziali casi, dall’altro l’apertura di nuovi focolai al Sud. Ciò non è comunque positivo, giacchè un conto è spostare i malati dagli ospedali del Nord a quelli del Sud via SSN, un altro conto aprire “volutamente” focolai altrove, senza certezze sulla loro evoluzione.

 

Un altro punto interessante è che la curva lombarda abbia la stessa “forma” di quella italiana (e delle altre nazioni). Ciò significa di fatto che i singoli focolai (anche se in realtà in Lombardia non c’è un singolo focolaio, ma molti insieme) si comportano come la curva globale. Questo a sua volta ci può aiutare nel formulare ipotesi successive: una volta raggiunto il (primo) picco in Lombardia è probabile che seguirà anche altrove. Allo stesso modo, se allentando le misure di controllo in Lombardia si dovesse notare una forte ripresa, sarebbe molto probabile che seguirebbero altri picchi anche nel resto d’Italia. In questo senso la Lombardia potrebbe essere la cartina al tornasole dell’efficacia della lotta al virus, per via dell’anticipo con cui sembra procedere.

 

La domanda (da cui dipenderà la tenuta del SSN) dei prossimi giorni sarà: le altre regioni arriveranno ai numeri della Lombardia?

Dividendo i dati regione per regione si nota che i candidati primari potrebbero essere Emilia Romagna e Veneto. Per le altre regioni l’isolamento dovrebbe aver bloccato la crescita della curva, e lì la domanda critica sarà: cosa succederà quando la vita riprenderà più-o-meno normalmente?

 

Guardando questi grafici si nota, in modo molto rozzo, che almeno per quanto riguarda le prime regioni per numero di contagi la distribuzione rimane fondamentalmente la stessa nonostante la scala dei contagi aumenti.

Sempre con enorme approssimazione potremmo dire che il rapporto Lombardia vs Emilia Romagna sia circa 4 a 1. Dunque si potrebbe forse sperare che lì i numeri non raggiungano quelli della Lombardia.

Quest’ultimo grafico sembra confermare che i contagi in Emilia Romagna e Lombardia crescano nello stesso modo, mantentendo quasi fisso il rapporto di circa 4 a 1 osservato prima.

 

Seguiranno articoli analoghi sulla mortalità e l’ospitalizzazione, la situazione internazionale e qualche previsione.

Referenze e link utili

 

 

Per altre informazioni: youbiquitous.net oppure instagram.com/fesposi

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