Gli stupidi, gli impostori e gli agit-prop, di Roberto Buffagni

Gli stupidi, gli impostori e gli agit-prop.

Con manuale d’istruzioni per gli stupidi

 

Gli impostori

Di recente, quasi 200 amministratori delegati USA hanno diffuso un manifesto contro le leggi che limitano il diritto di abortire, intitolato “Don’t Ban Equality[1], “Non vietare l’eguaglianza”.

Succo: “L’eguaglianza sul posto di lavoro è uno dei temi più importanti per l’impresa di oggi. Quando ciascuno viene messo in condizione di avere successo, le nostre imprese, le nostre comunità, la nostra economia ne traggono beneficio. Restringere l’accesso alle cure riproduttive, aborto compreso, mette a rischio la salute, l’indipendenza e la stabilità economica dei nostri dipendenti e consumatori.

Sintesi: gli imprenditori preferiscono l’aborto al congedo di maternità. Diciamo che sono femministi.

Schifo? Sì, schifo, malvagio schifo; ma perlomeno c’è un barlume di razionalità – strumentale, d’accordo – in questa Neolingua fornita a caro prezzo da qualche ditta di PR: gli impostori che hanno pagato la fattura all’infame prezzolato ci guadagnano più soldi. A medio-lunga scadenza la civiltà, con gli esseri umani che volenti o nolenti ci stanno dentro, si frantuma nella barbarie e dell’anomia, ma nel caratteristico kantismo degli amministratori delegati la forma a priori della sensibilità “tempo” è tarata sulla trimestrale di cassa, quindi che gli frega della medio-lunga scadenza? Come del latte a lunga conservazione: riguarda gli altri, i poveracci che non hanno i soldi per comprarlo fresco.

Resterebbe da prendere in considerazione il fatto, indubbio, che alcuni o anche molti di questi impostori “ci credono”, nel malvagio schifo che propagandano, e sinceramente ritengono che sia giusto e buono. Nella percentuale in cui sono “sinceri” essi dunque rientrano nelle categorie “stupidi” e “agit-prop”. Va comunque tenuto presente, per il calcolo di detta percentuale, che è molto più facile convincersi che qualcosa è buono e giusto, se ti conviene.

Gli stupidi e gli agit-prop

Eccoli qua gli stupidi e gli agit-prop, che sventolano la bandiera della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), fondata a Roma il 3 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani, Emilio Canevari per i socialisti (in sostituzione di Bruno Buozzi ucciso dai nazisti); in continuità con la Confederazione Generale del Lavoro (CGdL)  fondata a Milano, tra il 29 settembre e il 1º ottobre del 1906 per iniziativa delle Camere del Lavoro e delle Leghe di Resistenza.

Oggi la CGIL ha aperto l’ufficio “Nuovi diritti[2] che con lo slogan “non ti lasciamo solo” promuove eutanasia, aborto libero, utero in affitto, leggi contro i delitti d’opinione – “omofobia”, “transfobia” e sgg.  + altro schifo politically correct uguale identico a quello che mobilita  i CEO americani di cui sopra. Meglio solo che male accompagnato, cari, meglio solo che male accompagnato.

Schifo? Certo, schifo, malvagio schifo. Cosa c’entri questo schifo nella mission di qualsivoglia sindacalismo, non è facile determinare. O meglio: non è facile determinarlo se per mission del sindacalismo si intende, con Di Vittorio, Grandi, Canevari e Buozzi, perseguire la piena occupazione e il progressivo miglioramento delle condizioni salariali e normative dei lavoratori. Se invece per mission del sindacalismo si intende: perseguire l’integrazione subalterna delle dirigenze sindacali nella classe dirigente italiana + l’incremento dei posti di lavoro, retribuiti dalle quote dei lavoratori, per i quadri sindacali intermedi + garantirsi buona stampa sui media di proprietà dell’industria e della finanza + la benedizione delle più alte cariche dello Stato, allora la mossa della CGIL è una mossa vincente e razionale.

Oddio: anche qui, quando parliamo di razionalità intendiamo “razionalità strumentale” nel senso weberiano, ma non si può aver tutto.  Da trent’anni i lavoratori italiani hanno sempre meno lavoro e sempre più precario, salari sempre più bassi, condizioni normative sempre meno decenti, e quindi a medio-lunga scadenza la CGIL avrà sempre meno iscritti, fino ad arrivare al punto zero (ne ha persi circa 450.000 negli ultimi due anni[3]). Essa però ha un paio d’assi nella manica: nessun obbligo di presentare bilanci, e i CAF con il relativo contributo pubblico. Quindi, con un po’ di creatività contabile e il benestare dei powers that be, i dirigenti CGIL possono contare su un dorato tramonto per sé e (forse) per i loro immediati successori. Se poi l’incontentabile popolo dei lavoratori s’innervosisce, strappa la tessera, li fischia, etc., i sindacalisti, che hanno letto Brecht, cambiano popolo e ai lavoratori sostituiscono le famiglie arcobaleno e i fans dell’eutanasia e del suicidio assistito: gli iscritti ideali, questi ultimi, che pagano e poi si levano civilmente di torno.

Qui naturalmente gli stupidi sono i lavoratori sindacalizzati che “ci credono”, nei “nuovi diritti”, masochisti che pagano la quota sindacale per farsi prendere sfacciatamente in giro. Impostori e agit-prop sono i dirigenti sindacali di tutti i livelli che s’inventano questa indecente mascherata per garantirsi la pensione, e imbrogliano gli stupidi con gli ultimi barlumi di fiducia garantiti da vita e opere dei fondatori.

Adesso dovrei fare un’analisi della scellerata Neolingua che impostori, stupidi e agit-prop impiegano per promuovere il male e lo schifo spacciandolo per progresso e bene. Non ne ho nessuna voglia, perché dieci righe di questo idioletto  totalitario bastano a darmi la nausea.

Allora sapete che facciamo? Ci leggiamo insieme un paio di brani che cascano a puntino, come il proverbiale cacio sui maccheroni, e sono scritti da persone umane in lingua umana.

Avanti col primo, di Sir Roger Scruton[4]:

Si dà Neolingua ogni volta che il compito primario del linguaggio – descrivere la realtà – viene sostituito dallo compito antagonista e incompatibile di asserire potere sulla realtà. Nella retorica assertiva, l’atto linguistico fondamentale viene integrato solo superficialmente. Le frasi in Neolingua suonano come asserzioni, ma la logica che vi è implicata è quella del sortilegio. Esse evocano, come per magia, il trionfo delle parole sulle cose, la futilità dell’argomentazione razionale, e anche il pericolo di resistervi. Ne consegue che la Neolingua ha sviluppato la sua peculiare sintassi, che – pur strettamente imparentata  alla sintassi  dispiegantesi nelle normali descrizioni – evita con la massima cautela ogni incontro con la realtà, e ogni esposizione ai rigori dell’argomentazione razionale. Lo ha sostenuto Françoise Thom nel suo brillante studio La langue de bois[5]. Nella formulazione ironica della Thom, scopo della Neolingua comunista fu “proteggere l’ideologia dagli sleali attacchi delle realtà”.

Tra queste “realtà”, la più importante sono le persone umane, gli ostacoli che ogni sistema rivoluzionario deve sormontare, e che tutte le ideologie devono distruggere.  Il loro attaccamento alle particolarità e alle contingenze; la loro imbarazzante tendenza a respingere quanto è stato escogitato per il loro miglioramento; la loro libertà di scelta, i diritti e doveri per mezzo dei quali la esercitano: tutti ostacoli, per il rivoluzionario coscienzioso, mentre si sforza di portare a termine il suo piano quinquennale. Di qui, il bisogno di formulare le scelte politiche in modo che le persone, le persone reali, non vi trovino posto alcuno.

E per la Neolingua degli impostori e degli agit-prop direi che basti.

Ma restano gli stupidi, gli stupidi che sinceramente credono che questo schifo, questo malvagio e farlocco schifo sia il progresso, il bene, la bontà; gli stupidi persuasi che bevendosi la sciacquatura di piatti di questo linguaggio “resteranno umani”, quando purtroppo è certo che con questa dieta, umani non lo diventeranno mai: è il lavoro di una vita, ragazzi, mica basta nascere…magari…

Gli stupidi mi sono cari, perché noi tutti lo siamo o lo siamo stati o lo saremo, stupidi così. Magari non abbiamo creduto e non crediamo a questa roba, ma abbiamo creduto, crediamo o crederemo a roba altrettanto falsa, stupida e malvagia.

E allora, come manuale d’istruzioni per gli stupidi passati presenti e futuri, riporto un brano dall’Atto V del  Secondo Faust di Goethe. Siamo quasi alla fine del lunghissimo viaggio di Faust in compagnia di Mefistofele. Faust ne ha fatte di tutti i colori: vecchio, ha ritrovato la giovinezza, sedotto Margherita e ucciso suo fratello, è diventato ricco, è andato alla Corte dell’Imperatore e a un Sabba infernale frequentato anche dai Numi pagani, ha creato l’Homunculus ed evocato Elena di Troia, etc. Dopo questa vita spericolata come e più di Steve McQueen, si annoia e si cruccia: non è ancora felice, la soddisfazione e la pace lo sfuggono. Decide di dedicarsi al progresso dell’umanità: prosciugamento dello Zuiderzee, felicità, abbondanza e progresso sociale e morale per tutti gli abitanti di quelle lande, per tutta l’umanità. L’imperatore gli assegna il compito, e via con l’ingegneria idraulica e sociale.

Però c’è un però. Su un pezzo di terra che gli serve (ci deve scavare un canale di deflusso) abita una coppia di anziani coniugi, Filemone e Bauci. Faust gli offre una casa molto più moderna e confortevole, un terreno più grande e fertile, ma i vecchi testoni non ne vogliono sapere: “Non aver fiducia nel suolo rubato alle acque: conserva la tua casetta sull’altura,” dice la retrograda Bauci. Si ammetterà che è una bella seccatura, un caso evidentissimo di NIMBY. A dare sui nervi a Faust c’è inoltre il fatto, se si vuole marginale, che accanto alla casetta di Filemone e Bauci sorge una cappella dedicata “al vecchio Dio”; e alle ore canoniche, i due vecchietti suonano la campanella. Ora, per il suono delle campane Faust ha un’antica idiosincrasia, non le sopporta: “Maledetto scampanio, che mi ferisce vergognosamente nel cuore come un colpo di fucile nei cespugli! Il mio regno si stende dinanzi a me senza confini, e consentirò io che il nemico mi derida alle spalle, e mi rammenti con questa invidiosa campana che il mio territorio è illegittimo!” esclama Faust “furibondo”.

Insomma, non se ne può più. Faust si consulta con Mefistofele: “Bisognerebbe che quei due vecchi laggiù si allontanassero; vorrei quei tigli per la mia residenza; quei pochi alberi che non mi appartengono mi guastano il possesso del mondo. Vorrei, perché nulla all’ingiro m’impedisse la vista, appiccare il fuoco laggiù a quegli arbusti, e schiudermi così un vasto orizzonte per poter contemplare tutto quanto ho fatto, e con un solo sguardo abbracciare il capolavoro dello spirito umano, popolando col pensiero tutti quest’immensi dominii. Non è forse la più aspra tortura, sentire nella ricchezza  ciò che ci manca? Il tintinnio della campanella, l’odore di quei tigli, mi stringono il cuore come se io fossi in chiesa, oppure già nella tomba. Il volere dell’Onnipotente si fa strada anche su questi sabbioni: ho un bel farmi animo, la campanella manda un suono ed io sono subito in preda ad una forte rabbia.”

Niente da fare: se i due vecchi barbogi e superstiziosi non si lasciano persuadere dagli argomenti razionali, dai vantaggi concreti di una nuova casa, di una nuova vita, bisogna toglierli di mezzo. Ma senza fargli alcun male, per carità! Restiamo umani! Una piccola inevitabile forzatura, una spintarella, ecco: e poi saranno loro stessi a ringraziare per il benefico sopruso.

FAUST: “Va’, dunque, e procura di farli sgombrare! Tu sai qual bel poderetto io abbia destinato a quella vecchia coppia.

MEFISTOFELE. “Si levano via di qui, si posano laggiù; e prima che abbiano potuto voltarsi indietro, essi sono al loro posto. La violenza che sarà loro fatta sarà dimenticata, di fronte alla bellezza della loro nuova abitazione.”

Ma qualcosa va storto (nota per gli stupidi: qualcosa va sempre storto).

Dalla sua torre Linceo il torriere, “nato a vedere, eletto a guardare” ci fa la telecronaca dei fatti.

LINCEO IL TORRIERE: “Quale orribile spavento mi minaccia, dal seno di questo mondo di tenebre! Vedo lampi fiammeggianti attraverso la doppia oscurità dei tigli; l’incendio si ravviva e divampa, sempre più attizzato dal vento. Ah! la capanna brucia all’interno, essa che sorgeva umida e coperta di muschio. Si sente chiamare soccorso, ma invano! Ah buoni vecchi, che un tempo vegliavano vicino al fuoco con tanta cura alimentato e custodito, diventano ora preda dell’incendio! Qual orribile caso! la fiamma divampa, il cupo mucchio di muschio non è più che un braciere di porpora. Possa almeno quella brava gente salvarsi da quell’inferno incandescente e furioso! Vivi lampi s’accendono, fra i cespugli, fra il fogliame; i rami secchi che ardono scintillando, si accendono in un batter di ciglio e vanno in cenere. Toccava dunque a voi, o miei occhi, di fare una simile scoperta! Perché mi fu dato di spingere lo sguardo così lontano? La piccola cappella crolla sotto la caduta ed il peso dei rami; acute fiamme serpeggiano già intorno alla cima degli alberi. I ceppi vuoti e scavati s’infiammano fino alla radice, mostrando una tinta rossastra.

(Lunga pausa. Canto.)

Quel che fu caro allo sguardo, coi suoi secoli sparì.

E’ poi stata colpa dei vecchi e di un loro ospite, un Viandante, che hanno resistito e provocato il patatrac.

MEFISTOFELE E I TRE SCHERANI. “Noi ritorniamo di gran corsa. Perdonate! le cose non riuscirono troppo bene. Abbiamo bussato a quell’uscio, ma non venivano mai ad aprire: allora abbiamo atterrato l’uscio, il quale tutto rosicchiato dai tarli cadde sul pavimento. Abbiamo avuto un bel chiamare, minacciare, ma o non ci udivano o facevano mostra di non sentire; noi allora senza perder tempo te ne abbiamo liberato. La coppia non ha opposto una gran resistenza; essi caddero estinti e ciò fu cagionato dallo spavento. Un forestiere che si trovava colà e che cercò di resisterci, fu da noi freddato, e durante il breve intervallo scorso nel furioso combattimento, i carboni accesero la paglia sparsa intorno. Ora tutto ciò brucia liberamente, come un rogo preparato per tutti e tre.”

A Faust dispiace parecchio: “Ho io dunque parlato a sordi? Volevo una permuta e non già uno sperpero ed un devastamento. Quest’atto sciagurato e brutale, io lo disapprovo e lo maledico!

Ma così va il mondo. Il Coro lo sa e lo dice. Fate attenzione, stupidi: parla per voi.

CORO. “L’antica parola dice: obbedisci spontaneamente alla forza! e se tu sei deciso, se vuoi sostenere l’assalto, metti a repentaglio la tua casa, il tuo focolare — e te stesso.[6]

[1] https://dontbanequality.com/

[2] http://www.cgil.it/tag/nuovi-diritti/

[3] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/09/04/sindacati-450mila-iscritti-in-meno-negli-ultimi-2-anni-male-la-cgil-che-contesta-lo-studio-in-controtendenza-la-uil/4603490/

[4] Roger Scruton, Fools, Frauds and Firebrands: Thinkers of the New Left, Bloomsbury 2015, trad. it. mia.

[5] Françoise Thom, La langue de bois, 1985, disponibile gratuitamente in rete https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k48012170.texteImage

[6] Goethe, Faust, traduzione di G. Scalvini (per la I parte) e di G. Gazzino (per la II parte). Ho introdotto alcune modifiche alla traduzione. Il testo è reperibile in rete, qui: http://www.intratext.com/IXT/ITA3301/_INDEX.HTM#II.5.4

TRE EQUIVOCI SU VERONA E ALTRE CONSIDERAZIONI, di Elio Paoloni

A proposito del Congresso sulla famiglia a Verona. Dopo Antonio de Martini http://italiaeilmondo.com/2019/04/03/il-processo-di-verona-di-antonio-de-martini/ prosegue Elio Paoloni

Primo equivoco

 

Molti dei miei amici hanno bevuto distrattamente le false narrazioni sul congresso di Verona e si sono rintanati sussiegosamente nel ‘giusto mezzo’, disdegnando gli ‘opposti estremismi’, ovvero lerciume vario contro bigottismo. Ora, in attesa degli atti, possiamo solo attenerci al programma della manifestazione: La bellezza del matrimonio – I diritti dei bambini – Ecologia umana integrale – La donna nella storia – Crescita e crisi demografica – Salute e dignità della donna – Tutela giuridica della Vita e della Famiglia – Politiche aziendali per la famiglia e la natalità.

Dove sarebbe l’estremismo, esattamente? I miei amici sono troppo colti per tirar fuori lo spauracchio del Medioevo, luminosissima epoca, ma lanciano accuse di lesa modernità, di donne incatenate, di visioni oscurantiste. Ma a cosa si appoggiano, veleno dei soliti media a parte? Ogni insulto è lecito verso i congressisti e minacce pesanti sono state rivolte alle personalità che desideravano intervenire dagli stessi personaggi e dagli stessi media che si affannano a diffamare le politiche che i miei amici sostengono. Di colpo, però, lor signori paiono divenuti gli esclusivi, scrupolosi, attendibili cronisti di Verona.

 

Paginoni indignati sono stati dedicati a un gadget di dubbio gusto, un piccolo feto.

Si parla spesso del “dovere della memoria”: non bisogna dimenticare, perciò beccatevi queste tremende immagini del cadavere scheletrico bruciato in un forno crematorio. Perché quest’ultima – si chiede Franco Cardini – viene di continuo ostentata in film, reportage e fiction mentre la seconda è proibita e nascosta? Certo, sulla shoah si è tutti d’accordo mentre sul fatto che l’aborto sia o meno una pratica delittuosa esiste una radicale divergenza che attraversa e spacca la nostra società. Proprio per questo, però, dovremmo mostrare come si trucidano i bambini.

Nulla di così eclatante, a Verona: semplicemente qualcuno ha voluto rappresentare un bambino non nato. Senza clamori, in contemporanea, all’Osservatorio Prada la mostra “Surrogati: Un amore ideale” documentava le opere dei reborner, che realizzano bambole realistiche su ordinazione per darle poi “in adozione” alle loro mamme “eterne”, donne infertili o, più spesso, “avverse” alla gravidanza. Le fotografe di Surrogati ritraggono in modo vivido e “senza pregiudizi” le interazioni tra gli uomini e i loro compagni inanimati, obbligando l’osservatore a “riconsiderare la propria visione di amore e riflettere sul valore di un oggetto in grado di sostituire un essere umano”. Questi bambolotti non hanno destato scalpore. La nostra civiltà si estingue, ben rappresentata dal suicidio-omicidio delle due lesbiche californiane alla quale era stato concesso da illuminate istituzioni scevre da bigottismo di adottare ben sei bambini, abusati, poi drogati e trascinati alla morte. Ma in tv passa solo il gadget “estremista” di Verona.

 

Se comprare bambini e privarli di un’infanzia sana è un diritto, allora sì, il Congresso era zeppo di estremisti. Del resto, da quando i capricci di una minuscola parte degli omosessuali sono diventati diritti inalienabili, ogni persona di buon senso può essere incriminata. “Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate” scriveva Chesterton. Chi sguaina oggi queste spade – le spade del buon senso, delle semplicissime, evidenti verità – viene accusato di estremismo anche da menti che non si sono mai piegate – politicamente –  alle idee dominanti.

 

Io accuso i congressisti, invece, di eccessiva moderazione: sono state lanciate esortazioni per la piena applicazione della legge 194. Piena applicazione? Da vero estremista io mi auguravo appelli per l’abolizione. Ma a Verona, forse giustamente, lo si è ritenuto non proponibile in queste circostanze e ci si è accontentati – sobriamente – di ottenere il massimo da una legge che è stata applicata come se si trattasse di uno sbrigativo quanto tardivo mezzo anticoncezionale.

 

 

 

Secondo equivoco

 

Qualsiasi posizione a favore della famiglia, della natalità, della possibilità di scelta della donna (tra il lavoro domestico e l’umiliante quanto ineluttabile – grazie alle magnifiche sorti capitaliste – lavoro ‘emancipato’) così come ogni argomentazione contraria al divorzio e all’aborto, viene immediatamente etichettata come confessionale, bigotta, cattolica. Cascame vaticano. Ma sfugge ai più che in Vaticano si sono sbracciati per prendere le distanze dai ‘veronesi’. Gli accoglienti sono terrorizzati dalle scomode verità che i congressisti possono spiattellare. Non sia mai il mondo gender se ne avesse a male. Leggetevi Avvenire, ascoltate le dichiarazioni dei prelati ben allineati con Santa Marta. I principali avversari dei congressisti sono proprio loro. Ma quale natalità! Bergoglio la aborre più dei maltusiani.

Chi ha deciso che la morale, il pudore, il buon senso, l’unità della famiglia, l’amore per la tradizione, la volontà di perpetuazione, il rispetto della vita non possano essere laici, civili, universali? Eppure li abbiamo visti ben presenti anche nelle società pagane. George Orwell, che viene dato per ateo, si riferiva costantemente alla common decency, naturale predisposizione morale delle classi popolari, “un sentimento intuitivo delle ‘cose che non si devono fare’ se si vuol restare degni della propria umanità”.

 

 

Terzo equivoco

 

Buona parte dei commentatori ha affrontato la faccenda come se si trattasse di un fenomeno di costume, di una questione di buon gusto, di etichetta; nel migliore dei casi, di un dibattito etico – o scientifico – del tutto svincolato dai temi politici che tanto premono loro. La cosa mi lascia allibito. Davvero non sanno chi finanzia e organizza le Femen? Hanno potuto dimenticare che tutte le ‘conquiste’ contestate a Verona sono parte imprescindibile dell’agenda Dem? Che non vi è nulla di casuale nell’insistenza sui diritti individuali contrapposti a quelli sociali? L’annientamento dell’ultima cellula solidale, dopo i sindacati e i partiti politici, quella che ha resistito a tutti gli indottrinamenti e i totalitarismi, è un obiettivo irrinunciabile per i potentati economici. Non si tratta di folklore ma di riduzione dei cittadini a monadi. Due, tre, quattro divorzi. Non è rispetto delle scelte, è deliberata frantumazione, lotta tra i sessi, lotta tra i genitori, lotta tra i figli; una variante della lotta tra poveri sobillata con l’immigrazione selvaggia. Senza la dissoluzione della famiglia la sospirata società liquida non potrà pienamente realizzarsi.

Costanzo Preve, come Alain De Benoist, aveva capito da tempo che lo smantellamento delle forme di vita tradizionali borghesi e proletarie, fatto in nome della modernizzazione nichilisticamente permanente, era funzionale ad un allargamento globale del mercato e del connesso potere del denaro che questo comporta.

 

 

Nel merito

 

Sul congresso di Verona è apparso da poco in questo sito un post di Antonio de Martini. Dopo aver premesso che ‘la questione è complessa’ l’ha affrontata in poche righe, con qualche esempio.

 

Esaminiamo qualche punto.

 

1 – Unioni omosessuali. Sono sempre esistite e non vedo perché proibirle. Hanno certamente alcuni dei diritti e doveri tipici di una unione familiare. Possono ottenere ogni cosa, ma non l’equiparazione alla famiglia perché non sono la strada maestra per la perpetuazione della società. Sono una strada privata.

 

Sono sempre esistite. Falso. Neanche nell’Impero romano in decadenza, al vertice della depravazione compulsiva è stata contemplata alcuna unione, intesa come stabile e parificata al matrimonio. Alcuni matrimoni burla sono stati messi in scena da qualche imperatore folle con lo stesso spirito con il quale Caligola si proponeva di nominare senatore (o forse console) il suo cavallo. L’imperatore intendeva solo esprimere il suo disprezzo per le istituzioni romane. Proprio come i fans delle nozze omo, che costituiscono uno sberleffo intenzionale all’istituzione più sacra (in senso del tutto laico, mazziniano, come sacra è la Patria). La cosa che più si avvicinava a un riconoscimento pubblico era il concubinato maschile, mai giunto allo status legale della concubina, perché i concubini erano sempre schiavi, sottomessi e disprezzati come chiunque assumesse un ruolo passivo (exoletus, spintria, debilis, discintus e morbosus). Le relazioni, di solito temporanee, si svolgevano tra adulti bisessuali, già sposati e padri, e ragazzi, così come avveniva in Grecia. Quando sarebbero esistite, dunque, queste unioni? Nel Medioevo?

 

Sono una strada privata. Mi permetto di dissentire: quando i municipi mettono nero su bianco siamo in autostrada. E i diritti che si andrebbero affermando in questa unione possono essere tranquillamente acquisiti tramite le norme del codice civile vigente. Non ero contrario alle ‘unioni’ in linea di principio ma tutti abbiamo visto che si trattava di un cavallo di Troia. Il grimaldello, un primo passo.

 

 

2 – Divorzio. Ogni essere umano ha diritto a sbagliare e avere un’altra opportunità, ma non indefinitamente. Dopo un secondo matrimonio/unione la terza volta dovrebbe essere preceduta da un test psicologico che assista chi ha evidentemente difficoltà a non ripetere scelte che lui/lei stesso considera poi errate.

 

Sono d’accordo sulla valutazione psicologica da somministrare al convolante seriale ma resto oppositore anche del divorzio unico. Serenamente e laicamente. Non mi dilungo, però: la questione è tanto complessa che mi è servito un libro – di prossima pubblicazione – per trattarla. Mi limito a citare Bauman:

“Nel mondo liquido-moderno la solidità delle cose, così come la solidità dei rapporti umani, tende a essere considerata male, come una minaccia: dopotutto, qualsiasi giuramento di fedeltà e ogni impegno a lungo termine (per non parlare di quelli a tempo indeterminato) sembrano annunciare un futuro gravato da obblighi che limitano la libertà di movimento e riducono la capacità di accettare le opportunità nuove e ancora sconosciute che (inevitabilmente) si presenteranno. La prospettiva di trovarsi invischiati per l’intera durata della vita in qualcosa o in un rapporto non rinegoziabile ci appare decisamente ripugnante e spaventosa”.

Chi – e perché – ha tanto lavorato per renderci avulsi dalla responsabilità?

Laddove De Martini – insieme a tanti altri – vede un’altra opportunità, è in atto, pervicacemente (che sia breve, sempre più breve, l’autostrada del divorzio) la precarizzazione dei legami familiari, speculare a quella lavorativa.

 

3 – Aborto. È certamente un diritto dei concepitori abortire, ma, se non si è psicolabili capricciosi e non vi sono inderogabili esigenze terapeutiche, cinque mesi sono un lasso di tempo sufficiente per prendere una decisione tanto drammatica e abortire ripetutamente non può essere consentito, salvo serie ragioni mediche.
Abortire è un diritto, ma – non illudiamoci- specie se fatto dopo il quinto mese, resta un omicidio. In Francia, un deputato ottenne la bocciatura delle legge facendo sentire in aula il battito del cuore del nascituro
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Come molti dei miei amici De Martini si sforza di adottare un approccio equilibrato, finendo per assommare asserzioni contraddittorie. Avversa l’aborto solo se ripetuto. Ma se è un banale intervento chirurgico, perché limitarne l’uso? Puoi rimuovere due nei dalle natiche ma al terzo, eh no, suvvia, non esageriamo! Subito dopo l’apodittico “E’ certamente un diritto” ci scontriamo col “non illudiamoci, è un omicidio”. Dopo il quinto mese, però. Cosa gli faccia indicare questa precisa scadenza non è dato sapere: in quasi tutti i paesi il termine, tranne che per l’aborto terapeutico, è di tre mesi.

Termine, arbitrario, grottescamente simile al termine – anch’esso ‘scientifico’ – del 3 per cento del rapporto debito/PIL. Convenzioni, pezze a colore, ipocrisia pura ammantata di scientificità. Medici, biologi e giuristi hanno discettato scioccamente su dettagli insignificanti per decidere un termine. E’ un bambino quando gli crescono le orecchie, no, quando si ingrossa il pistolino, no, quando tira calci. Follia pura. Oggi, dopo le acquisizioni scientifiche vere, quelle sul DNA, tutti questo cianciare si è rivelato per quello che era. Ora siamo costretti ad accettare che nell’embrione c’è tutto l’uomo, chiaro e delineato, malattie comprese. Forse all’atto del concepimento non nascerà un’anima, ma di sicuro c’è tutto un destino. Come si passa dal ‘certo diritto’ all’omicidio, da una settimana all’altra? Se è un’escrescenza del corpo della madre lo è anche al nono mese, se è un essere umano lo è l’istante dopo il concepimento.

Gli ingenui danno per scontato che la determinazione della presenza o dell’assenza di vita o meglio di diritti – tot settimane, tot mesi – preceda e determini la formulazione della legge. Ma è sempre il contrario: avendo deciso di avallare l’omicidio si è cercata la giustificazione “scientifica”.

La inaffidabilità dei compromessi bioetici appare chiara leggendo la nuova legge dello Stato di New York. Apparentemente simile ad altre leggi che consentono l’aborto anche dopo la ventiquattresima settimana nel caso di grave pericolo per la vita della madre, ne differisce perché parla genericamente di ‘salute’ della madre (anche psichica, e ormai sappiamo che pure la melanconia è diventata una malattia secondo il DSM, la Bibbia della psichiatria) e perché depenalizza l’aborto in toto, autorizzando all’effettuazione anche figure non mediche.

 

L’embrione non è un’appendice del corpo della madre: è una creatura distinta legata alla sua ospite da un rapporto di simbiosi di tipo parassitico. Potenzialmente l’embrione potrebbe svilupparsi separatamente dal corpo materno, purché messo in un substrato nutritizio adeguato. E’ un’ospite. E’ più indifeso che mai. E’ sacro. Non appartiene alla madre. Appartiene a se stesso, all’umanità, alla comunità. E se proprio dovesse appartenere a una persona, allora appartiene anche al padre, al quale non si chiede neppure il parere “consultivo”, formula ipocrita che sta in tanti atti amministrativi, anche se, qualche mese dopo, si vedrebbe investito fino alla morte, in qualità di padre, da responsabilità giuridiche, economiche, morali. Negli Stati Uniti le esecuzioni capitali vengono affidate a più “operatori”: una centralina rende anonimo il pulsante letale e spartisce la responsabilità; nell’aborto le donne assumono invece contente il ruolo di boia unico.

 

Si tende a pensare che le parole cambino dopo che la realtà è cambiata. Non è così: non può cambiare nulla nella società, non c’è rivoluzione possibile, se prima una élite non impone un nuovo lessico. Quando si intende imporre una nuova legislazione, si cambiano i termini della questione: il resto segue. Se si decide di rinominare mamma e papà Genitore A e Genitore B, c’è un motivo preciso: si ha chiaro in mente un percorso distruttivo per la famiglia che non può prescindere da uno stravolgimento lessicale.

Interruzione volontaria di gravidanza, che si contrae in IVG. Un acrostico, una sigla. Neutra, deodorata, devitalizzata. L’eufemismo è un delitto. Uccide la verità, poi ci permette di sopprimere la vita. Ascoltate una donna incinta che parla della gravidanza che intende portare a termine: si rivolge al contenuto del suo grembo come a un bambino, da subito. Già nei primi giorni ne parla designandolo con un nome proprio, quello che gli darà al battesimo. Nell’altro caso, invece, si parla di embrione, feto, o, meglio ancora, non si nomina in alcun modo quel grumo di cellule. Si tenta di considerarlo un’escrescenza, una cisti. Così un omicidio diventa faccenda di donne, confuso tra perdite, mestruazioni e ritardi, quelle robe lì. Se usi il termine appropriato permetti anche alla ragazzina incinta di essere consapevole. Consapevole davvero, non intronata dalla speciosa terminologia adottata dalle riviste femminili e dai quotidiani progressisti.

 

Ascolto di continuo i belati degli osservatori comprensivi: ma cosa credi, è una scelta tanto difficile, le donne ne soffrono, abbi rispetto. Diamo per scontato che sia vero, anche se non sempre lo è (molti consultori fanno di tutto per renderla facile; non che ve sia bisogno: l’ideologia dominante, l’isteria femministoide, l’assuefazione, fanno sì che le ragazzine vi ricorrano come se si trattasse di prendere un’aspirina). Dopo anni, magari decenni, alla nascita di un figlio, alla morte di un congiunto o per la caduta della negazione, forse realizzeranno e si troveranno a far ricorso allo psicologo. Intanto molte la vedono facile. Ma la mia risposta, in tutti i casi, è: chi se ne frega. E’ abominevole sorvolare sul delitto perché l’assassino ci ha pensato su e, poer nano, è pure dispiaciuto. Ha fatto a pezzi la nonna, però, sai, è stata una decisione difficile. Ah, beh, allora…

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