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NOTTE FONDA, MA SOLO IN OCCIDENTE_di FF
senza né Capua, né coda, di Pierluigi Fagan
SENZA NE’ CAPUA, NE’ CODA. (Un’avvelenata) Il post è sull’uso improprio degli “esperti” nel dibattito pubblico, un problema già noto che è passato dalla sovraesposizione di economisti che non saprebbero gestire neanche il bilancio della rosticceria sottocasa, ai biologi che passano dalle piastre di Petri al crisis management con altrettanta nonchalance.
Nulla in particolare contro la signora in questione, già parlamentare della lista Monti (Scelta civica), che tutti i giorni ci spiega come si dovrebbe gestire l’emergenza da coronavirus in Italia stando a Miami, senza far i conti con il fastidioso attrito della realtà concreta. Senz’altro una “eccellenza” (mammamia questo uso smodato del vocabolario retorico mi fa venire l’orticaria), in più “donna e scienziata”, quindi mille punti, per carità. Ma “mille punti” a che gioco? in che contesto? mille punti ad un idraulico valgono anche per risolvere problemi dell’impianto elettrico? Il problema è che se aprite un qualsiasi quotidiano nazionale spagnolo, francese o inglese, scoprirete che con ritardo di una settimana, le stesse questioni che dibattiamo qua, vengono improvvisamente “scoperte” anche là. E così scopriamo tutti la stesse cose che -in breve- sono quattro:
1) mentre diventavamo tutti Paesi con concentrati di vecchi anziani che si camuffano con botulino e jeans, i nostri Paesi hanno continuato a ragionare come fossimo ai primi del Novecento quando cinque rivoluzioni tecno-scientifiche (energia, meccanica, chimica, elettrica e sanitaria) dettero lo start all’incredibile sviluppo economico del Novecento. I nostri Paesi cioè, non sono “paesi per vecchi” eppure siamo sempre più vecchi;
2) abbiamo creduto … alla favola bella che ieri ci illuse ed oggi ci delude … di un rampollo di famiglia portoghese sefardita trapiantata a Londra e proprietario di una banca (tal David Ricardo) che, due secoli fa, sosteneva che ogni Paese deve concentrarsi a produrre sempre meglio una specifica cosa e poi la scambia con altri Paesi per avere tutte le altre che non produce eppure servono per vivere. Così in ogni Paese mancano mascherine, camici, ventilatori, tamponi, reagenti chimici, farmaci ed ogni altro strumento necessario improvvisamente ed in quantità inimmaginabili per far fronte all’emergenza sanitaria. Quindi il primo che dice “facciamo a tutti i tamponi”, è pregato di tirar fuori anche i reagenti, i biologi, i laboratori e le attrezzature, altrimenti taccia.
3) come ben espresso da una studiosa politica britannica ieri sul Guardian, la nostra immagine di mondo è settata sul modo “aspettiamo di non avere scelta e poi ci adattiamo”, quando il mondo complesso funziona in modo che se non prevedi per tempo e ti attrezzi ex ante, quando ti svegli è tardi e il locomotore sulla rotaia su cui ti eri appisolato pensando di esser nel migliore dei mondi possibili, di trancia la gola;
4) pensavamo di vivere in un “mondo globale”, un grande villaggio comune mentre invece eravamo solo in un Risiko di giocatori egoisti competitivi che rubano le mascherine e la clorochina gli uni a gli altri. Pensavamo di esser in una commovente comunità degli europei ed invece stiamo in un tavolo da poker in cui si gioca a “mors tua vita mea”. Pensavamo di esser nell’era dell’informazione e della conoscenza ed invece tutti quanti non sappiamo e forse mai sapremo quanta gente ha preso davvero il virus, quanta ha l’influenza, quanta ne muore a casa, quanti tamponi davvero si fanno, quanti i ricoverati, gli ossigenati, gli intubati e soprattutto i morti. Dai cinesi ai russi, dai tedeschi a gli inglesi ed americani è gara a non dirla tutta e non turbare troppo il bambino che è in noi. Sulla “democrazia” non spendo parole, di questi tempi sparare sulla croce rossa è inelegante.
Ecco allora che quando il problema è complesso, l’esperto della frazione infinitesimale, apporta solo entropia, confusione falsa conoscenza. E giù col solito tormentone: gli economisti non sanno di biologia, i biologi di logistica, i logistici di geopolitica, i geopolitici di economia, in circoli vari sempre più larghi e senza chiusura, cioè senza né capo né coda. In questo triste momento di clamoroso fallimento cognitivo ed adattivo, ci illumina solo il terso pensiero dell’intramontabile di Ponte a Ema, il quale scuotendo sconfortato la testa diceva: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Aggrappiamoci alla sua saggezza, quando i sopravvissuti avranno acquisito tutti l’immunità di gregge, finito di contare i morti, forse sarà il caso di ripartire rimettendo proprio in discussione la nozione di “gregge” e cominciar col rivedere molte cose, se non tutte visto che son tra loro interconnesse.
IMMUNITA’ DI GREGGE MA NON GREGGI, di Massimo Morigi
IMMUNITA’ DI GREGGE MA NON GREGGI. BREVE CONSIDERAZIONE GEOPOLITICA SU REGNO UNITO ED ITALIA A CONFRONTO DI FRONTE AL CORONAVIRUS
Di Massimo Morigi
Nella conferenza stampa di martedì 12 marzo, Sir Patrick Vallace, UK Government Chief Scientific Adviser, vale a dire il consigliere scientifico particolare del Primo Ministro, carica inesistente nel Bel Paese ma di estremo e strategica importanza nel Regno Unito, in relazione all’epidemia di Cronavirus ha affermato, testuali parole: «It’s not possible to stop everybody getting it and it’s also not desiderable because you want some immunity in the population». Fornendo qui l’URL attraverso il quale si può prendere diretta contezza di quella parte della conferenza stampa dove è stato pronunciato questo giudizio, https://twitter.com/BBCNews/status/1238151926379880449, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200313223603/https://twitter.com/BBCNews/status/1238151926379880449, osserviamo solo che il falso umanitarismo è sempre foriero di disastri materiali e morali mentre una vera democrazia – se per democrazia non s’intendono le “pappe del cuore” ma un preciso comune sentire, che travalica la destra e la sinistra e sempre diretto a fare appello e leva sulle capacità di consapevolezza ed orgoglio di un popolo – è sempre collegata con una volontà imperiale che, nel caso inglese di come buona parte dell’opinione pubblica intende reagire a questa grave crisi epidemiologica, non significa certo ricostruire passati domini su terre lontane ma, molto semplicemente, accettare le sfide che ci presenta la storia non in maniera passiva ma affrontarle a viso aperto ed attrezzandosi perché queste sfide procurino meno danni possibili (infatti il corollario di accettare che l’epidemia si diffonda e così sviluppare un’immunità di gregge che porti alla fine alla sua estinzione è, ovviamente, potenziare le strutture ospedaliere che possano consentire ai casi più gravi di essere salvati con le maggiori probabilità di successo). Certo, si tratta di una volontà imperiale molto “sui generis” che è, in primo luogo e principalmente, una volontà di comando sul proprio destino e non su qullo altrui ma, non nascondiamolo, siamo in presenza di propositi che se portati fino in fondo, infatti Sir Patrick Vallace parla anche per conto e per voce del nuovo primo ministro Boris Johnson (il quale churchillianamente tuona: «abituatevi a perdere i vostri cari»), intendono portare il Regno Unito sullo scenario internazionale come una potenza la quale, anche se ha perduto dopo la seconda guerra mondiale il primato economico e militare, non accetterà mai alcun tipo di ricatto, né economico né militare. Il coronavirus, quindi, come un’occasione per riproporsi come un imprescindibile attore in uno scenario geopolitico in tempi, non di coronavirus come piagnucolando e scimmiottando titoli di opere letterarie ripetono ad ogni piè sospinto i nostri prezzolati e servi media nazionali, ma in tempi odierni e futuri di un sempre più tumultuoso e violento policentrismo. In una trasmissione di una importante emittente italiana, abbiamo potuto assistere alla piagnucolosa intervista a studenti italiani ospiti della “Perfida Albione” (questo era il senso del servizio) che di fronte al comportamento del governo di Sua Maestà Britannica si erano isolati in casa (comportamento legittimo, evitare di cadere vittima di un’epidemia è una più che legittima aspirazione) ma che a questo comportamento, oltre aggiungere pesanti e gratuite querimonie contro il governo inglese, univano sentiti ed accorati elogi su quanto stava facendo il governo italiano. Piccole domande: se sono tanto impauriti perché non se ne tornano nella «Bella Italia, amate sponde» visto che nessuno li trattiene? e se apprezzano tanto l’operato del nostro governo perché una volta tornati in Patria (campa cavallo…) non si mettono a fare politica attiva nel nostro paese piuttosto che rompere i … degli altri? (altrettanto campa cavallo, perché questi soggetti, oltre ad essere immediatamete spendibili per basse ricette di cucina politica nostrana, una volta tornati sul nostro artistico ed umanitario suolo potrebbero facilmente trovare lavoro, trovarlo sì ma come raccoglitori di pomodori). Per ora in Italia la crisi epidemiologica del coronavirus non sembra portare alcunchè di buono. Come sempre confidiamo sulla nottola di Minerva che spicca il suo volo solo all’imbrunire (cioè, tradotto nel linguaggio di una rinnovata dialettica, sulle Epifanie strategiche di cui anche il nostro Paese ha fornito begli esempi nella sua storia).
Ivan Krastev – Gli ultimi giorni dell’Unione, di Teodoro Klitsche de la Grange
Ivan Krastev – Gli ultimi giorni dell’Unione. Luiss University Press, Roma 2019, pp. 133 € 16,00
L’autore ha vissuto da giovane il crollo del comunismo, la cui “ragione sociale) era l’emancipazione definitiva dell’umanità e la durata – nel caso più longevo, come l’URSS – è stata poco più di settant’anni. In questo saggio Krastev ritiene assai probabile anche il collasso dell’Unione europea.
Causa principale è l’esaurirsi dello “spirito” originale. Scrive Saraceno nella prefazione “A partire dagli anni Ottanta del Ventesimo secolo, le sfide della globalizzazione hanno messo in crisi questo modello e il suo motore principale, quelle classi medie ormai impoverite, strette fra un élite globale di plutocrati sempre più ricchi che di fatto si sono sottratti al patto sociale, e le classi medie dei Paesi emergenti, che reclamano il posto che compete loro sulla scena globale. A questo si aggiunge in economia un “Nuovo consenso”, anch’esso sviluppatosi negli anni Ottanta e che, in nome di una supposta supremazia dei mercati, rifiuta un ruolo proprio a quello Stato regolatore e al patto sociale che avevano costituito due dei pilastri del modello sociale ed economico europeo. A questo si aggiunge che nel nuovo quadro della globalizzazione “è diventato impossibile effettuare scelte democratiche a livello di Stati nazionali; … essendo la cessione di sovranità all’Unione Europea una chimera, i popoli europei maltrattati dalla globalizzazione hanno cercato spazi di democrazia nel sovranismo e nella protezione dell’interesse nazionale”.
La profezia di “fine dell’Europa” non è auspicata: è anche (e soprattutto) un monito; “è un pugno in faccia alle élite compiaciute che soffrono di “disturbo autistico”.
Tuttavia che il recupero di una piena sovranità nazionale porti alla risoluzione dei problemi pare non meno utopico all’autore del progetto federale in via di decomposizione. Certo occorre cambiare (politiche ed élite dirigenti). Il saggio è pieno di intuizioni originali o poco frequentate: ad esempio il “peso” della concezione di Fukuyama nell’ideologia della globalizzazione. O l’emergere di nuovi conflitti. “I conflitti tra esponenti di visioni Da Ovunque e Da qualche Posto, tra globalisti e nativisti, tra società aperte e società chiuse influenzano l’identità politica degli elettori più di quanto facessero le precedenti identità basate sulle classi”; il tutto mette in crisi, con riduzioni a percentuali sempre più modeste, il consenso ai partiti di sinistra (e non solo) che sulla scriminante di classe avevano investito.
È costante poi la stigmatizzazione di Krastev sull’inadeguatezza delle elite politiche ed economiche europee ad affrontare la crisi; onde hanno in effetti lavorato per i loro avversari sovranisti e populisti. Chi abbia visto (e sopportato) l’opera del governo Monti, principale ostetrico del sovran-populismo italiano, non può che concordare.
Chiudendo tale recensione (breve per definizione di genere) il crescere del populismo ha prodotto anche una copiosa produzione di saggi sul medesimo, che ne attribuiscono l’emergere impetuoso alle cause più varie: dalla decadenza delle élite alla globalizzazione, da uno stile di propaganda alla crisi economica, dalla difesa dell’identità nazionale a quella della democrazia. Verosimilmente tutte (o quasi) compresenti. Se si vuole ascrivere a uno di tali “filoni interpretativi” il saggio di Krastev, questo è a quello – forse il più antico – che risale al saggio di C. Lasch sulla “Ribellione delle élite” di oltre vent’anni orsono.
La tesi di Lasch era che le nuove élite globalizzate, erano separate dalle masse per cultura, aspirazione, modi di vita. Èlite e masse non condividevano non solo l’idem sentire de republica ma molto di più. Se quindi basta la non condivisione dell’idem sentire per generare una crisi di legittimità, ancora più facile e determinante che si produca se quella distinzione è a “tutto tondo”: coinvolge pubblico e privato, lavoro, tempo libero, famiglia e svago, morale e scelte religiose. E da una crisi siffatta si esce in un solo modo: ricostruendo quell’almeno “idem sentire” e, meglio, anche qualcosa di più.
Teodoro Klitsche de la Grange