Impossibile uscire dalla gabbia se seguiamo le regole del padrone, di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Impossibile uscire dalla gabbia se seguiamo le regole del padrone. Perché dobbiamo costruire una Nuova Economia ed una Nuova Società.

di Davide Gionco
01.08.2022

Diceva Sunt-Tzu, antico generale cinese, che scrisse “L’arte della guerra”:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”

 

La premessa fondamentale: dove risiede il vero potere politico

La premessa fondamentale è identificare chiaramente il nemico.
Una volta si sapeva che il nemico del popolo era il re di Francia o Benito Mussolini. Ma oggi chi è il nemico del popolo?
Per quale ragione continuano a cambiare i partiti, i deputati, i governi eppure le cose vanno (male) sempre allo stesso modo?

Nel 2013 a Berlino Mario Draghi, allora presidente della Banca Centrale Europea, disse la famosa frase: «L’Italia andrà avanti con le riforme indipendentemente dall’esito del voto. C’è il pilota automatico».

Il nemico del popolo, colui che detiene il vero politico ed ha la forza di imporre le proprie decisioni (il pilota automatico), sta altrove. Non sta a Palazzo Chigi e meno che mai a Montecitorio o Palazzo Madama.
Per questo motivo nessun esito elettorale può, da solo, determinare un reale cambiamento delle politiche di governo del Paese.

Perché le votazioni non cambiano la situazione

Se il reale potere politico non è così evidente dove si trovi, è evidente a tutti che le decisioni vengono ratificate ed eseguite dagli organismi istituzionali che derivano dal voto popolare. A metterci la faccia sono il presidente del consiglio, i vari ministri ed i parlamentari che in più occasioni sono chiamati a votare la fiducia su quanto deciso dal governo, assumendosene tutta la responsabilità davanti ai cittadini.

Per questa ragione moltissimi italiani sono convinti che sia possibile cambiare la politica in Italia cambiando quelle persone e utilizzando le “regole per il cambiamento” previste dal nostro sistema legislativo.
Queste regole, scritte nella Costituzione, nelle leggi, nei manuali di diritto, dicono che le decisioni su come funziona la nostra società le prendono il potere legislativo ed esecutivo. Quindi per cambiare le cose la via da seguire è presentarsi alle elezioni con un partito, avere la maggioranza nel parlamento, andare al governo e votare diverse regole del gioco.
Questo lo pensano quasi tutti, in quanto non ci vengono prospettate altre vie per cambiare la società. Ma poi si constata che, chiunque venga votato, alla fine dei conti dimostra di non voler realmente cambiare le cose o di non essere in grado di farlo (il luogo comune “i politici sono tutti uguali”). L’ultima grande delusione è stata quella del Movimento 5 Stelle, che aveva suscitato molte speranze, ma che ha dimostrato nei fatti di “essere come tutti gli altri”.
Per questo motivo molta gente smette di andare a votare, ritenendola un’azione irrilevante, di fatto rinunciando a far valere i propri diritti. Potremmo definirli, come faceva Dante, gli ignavi politici, che rinunciano ad impegnarsi e a prendere posizione. E’ una situazione analoga al periodo delle monarchie assolute, quando la gente non votava e poteva solo sperare nella benevolenza del re, limitandosi a curare i propri affari privati, senza attendersi un cambiamento del potere politico.
C’è anche chi non va a votare per protesta, pensando che chi detiene il potere potrebbe cambiare a causa dello scarso consenso popolare. L’errore di questo ragionamento è pensare che il potere abbia bisogno di una vasta legittimazione popolare, mentre in realtà il potere, come stabilito nella premessa, esiste al di sopra della politica e usa i meccanismi istituzionali (elezioni, nomina del governo, ecc.) unicamente come occasioni per piazzare i propri uomini (o donne, che fa più politicamente corretto) nei luoghi decisionali che contano. Chi detiene il potere al massimo temerà che venga nominato un ministro non allineato (si veda il caso di Paolo Savona, impedito dal presidente Mattarella, poi sostituito dall’allineato Giovanni Tria) o un primo ministro non totalmente controllabile (Silvio Berlusconi Conte sostituito da Mario Monti), ma di certo non teme l’astensione dal voto.

La maggior parte delle persone che si impegnano in politica pensano che l’unica via di uscita dalla gabbia sia quella scritta nelle regole: presentarsi alle elezioni con un partito, prendere la maggioranza nel parlamento, andare al governo e cambiare le regole del gioco.
Dal punto di vista teorico questo metodo potrebbe funzionare, ma all’atto pratico la storia, non solo italiana, ci dimostra che è estremamente difficile, quasi impossibile.

La prima ragione, evidente, è che le regole del gioco sono truccate
Chi detiene il potere politico dispone di cospicui finanziamenti, dell’appoggio delle istituzioni e dei servizi segreti, dei principali mezzi di informazione (che non si fanno problemi a diffondere falsità di ogni genere). Chi detiene il potere politico decide le regole elettorali, le date, gli ostacoli da porre a chi vorrebbe cambiare. E può usare questi mezzi non solo per favorire i partiti già presenti in parlamento, ma anche per creare nuovi partiti da loro controllati che si propongono fintamente come “alternativi”; può seminare divisioni, tramite infiltrati, nelle forze politiche realmente alternative. Possono decidere di concedere spazi mediatici a persone incapaci come Luigi Di Maio, per farle emergere all’interno del loro partito alternativo, e di non concedere spazi a persone capaci, per non farle emergere. Ovviamente possono corrompere i politici eletti. Oppure li possono ricattare o minacciare. O uccidere.
E se anche le elezioni non andassero come il potere voleva, potranno orchestrare campagne mediatiche contro il nuovo potere politico (vedasi il trattamento subito da Trump negli USA), potranno organizzare attentati destabilizzanti (vedasi strategia della tensione in Italia intorno agli anni 1970). Potranno organizzare un colpo di stato o una invasione armata da parte di una “coalizione internazionale” che libererà l’Italia dal potere antidemocratico”.

Insomma, questa via è teoricamente percorribile, ma c’è da sapere che le regole sono truccate e gli ostacoli da superare sono moltissimi.
E’ ovvio che se una forza politica riuscisse a conquistare e a mantenere per molti anni la fiducia del 40-50% degli elettori, senza dividersi e senza cedere ai fortissimi condizionamenti esterni ed interni, esisterebbe la fattiva possibilità di cambiare le cose in meglio e di limitare l’invadenza dei poteri che stanno al di sopra della politica. Ma rileggiamo cosa diceva il saggio Sun-Tzu:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”
Pensare di risolvere i problemi usando le regole che l’attuale sistema di potere ci ha imposto significa mettersi in condizioni estremamente favorevoli per chi detiene il potere ed estremamente sfavorevoli per chi intende contrastarlo.

In realtà il fondamento dell’attuale sistema di potere è il farci credere che non vi siano altre vie da percorrere diverse dalle regole che ci mettono a disposizione.

E’ come quando il gatto gioca con il topo che ha catturato. Il topo può scappare solo quando lo decide il gatto, nella direzione che decide il gatto, fino alla distanza decisa dal gatto.
Dopo di che il topo viene ricatturato e ritorna alla mercé del gatto.
Siamo come i polli nella gabbia, a cui viene concesso spazio di libertà fino ai limiti della rete. E se anche le porte della gabbia sono aperte, ci hanno convinti che la spazio in cui muoverci, che fuor di metafora è il sistema di regole vigenti, sia quello all’interno della gabbia.

In realtà esistono altre strade da seguire per sottrarci gradualmente dal potere che ci opprime, ma è necessario fare lo sforzo di uscire dagli schemi che ci vengono proposti.
A volte se ne parla in articoli, in convegni , ma ad ogni tornata elettorale si presentano i soliti “leader politici” che si propongono come risolutori dei problemi, per i quali l’unica urgenza è presentarsi alle elezioni. E le persone li seguono, perché il “richiamo delle elezioni” è fortissimo, al punto che le persone trovano energie per estenuanti riunioni, banchetti in strada, incontri pubblici, con la speranza di essere essi stessi i protagonisti del cambiamento politico tanto atteso.
Dopo di che, passate le elezioni, con conseguente – ovvia – delusione, i più determinati si preparano per la successiva competizione elettorale, mentre i meno determinati si scoraggiano e si ritirano da ogni forma di impegno politico, accrescendo le fila delle persone appartenenti alla categoria degli ignavi politici.

Sarebbe stato possibile impegnarsi per percorrere delle soluzioni alternative (ne parliamo a seguire), ma si è preferito combattere con gli strumenti proposti da chi detiene il potere (nel caso specifico: lo strumento delle elezioni), adeguandosi al pensiero unico dominante. Alla fine il risultato è stata una forte delusione e nessun cambiamento politico e sociale.

 

Il vero potere sta nell’economia

Ci chiedevamo all’inizio dell’articolo dove sta il potere politico.
Il potere politico nei paesi occidentali sta prima di tutto nell’economia, nelle grandi multinazionali, nella finanza internazionale.
Oggi l’economia è costituita per lo più da società per azioni quotate in borsa. Chi controlla le quote azionarie controlla queste società e determina le loro decisioni.
Le quote azionarie sono detenute da chi possiede molto denaro ovvero dalle grandi società finanziarie, come BlackRock, Vanguard, State Street, le quali da sole ogni anno investono capitali per oltre 20 mila miliardi di dollari, pari a 11 volte il PIL italiano e 5 volte il PIL tedesco.
Sono quindi in grado di “investire” per comperare qualsiasi impresa, qualsiasi giornale e qualsiasi persona per indirizzare le loro decisioni al fine di garantire le rendite degli investitori.

Siccome l’Italia ha aderito al WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) che prevede la libera circolazione dei capitali, questi capitali possono liberamente entrare in Italia per comprare, aprire o chiudere imprese, creando o distruggendo posti di lavoro. Possono decidere di fare aumentare i prezzi dell’energia e del cibo. Possono decidere di boicottare un intero Paese, se non risponde alle loro richieste. Possono comperare le testate giornalistiche e le televisioni, imponendo loro di raccontare una falsa narrativa su cosa accade nel mondo. Ovviamente possono mettere in piedi un partito politico, trovando dei prestanome per guidarlo. Ovviamente possono fare pressioni per far nominare un proprio uomo all’interno della BCE, dell’OMS, della Commissione Europea e imporre regole a loro vantaggio.
Ma non dobbiamo fissarci sui nomi di queste società, perché dietro di loro ci sono migliaia di società più piccole, ci sono milioni di investitori in tutto il mondo i quali richiedono solo una cosa: far rendere i propri investimenti finanziari, senza preoccuparsi di come questo avverrà.
In nome del “dio rendimento finanziario” ogni azione che garantisca una rendita è lecita, che si tratti di far scoppiare una guerra o di imporre all’Italia una riforma fiscale che colpisca le proprietà degli immobili o che riduca le pensioni.

Il potere del denaro: questo è il potere che domina la politica, anche in Italia, a cui difficilmente il potere politico istituzionale, votato dal popolo, è in grado di opporsi.

 

Il punto debole del sistema di potere e come fare la vera rivoluzione

Tuttavia esiste un punto debole del sistema di potere.
Chi detiene il potere oggi detiene molto denaro, tuttavia il denaro assume valore solo nella misura in cui noi lo accettiamo in cambio del nostro lavoro. Di per sé sono solo pezzi di carta, numeri scritti sui computer.
La quasi totalità della ricchezza reale, costituita dalla produzione di beni e servizi, è prodotta da noi stessi. Chi possiede molto denaro in realtà non produce nulla. Se chi detiene il denaro (euro, dollari, ecc.) non lo potesse usare per comperare il nostro lavoro e se noi non utilizzassimo quel denaro per acquistare ciò che ci serve per vivere, quel denaro cesserebbe di avere valore.
E cesserebbe il potere di chi possiede quel denaro, compreso il potere di determinare le decisioni politiche.

La regola del gioco che ci fa perdere tutte le battaglie (Sun-Tzu) è che siamo noi stessi a dare valore, usandolo, allo strumento che il nemico utilizza per sconfiggerci in ogni nostra battaglia politica.

La vera rivoluzione, quindi, sta nel prendere atto che l’attuale denaro che utilizziamo è uno strumento utilizzato per estrarre ricchezza reale da noi che lavoriamo, concentrandola nelle mani di pochi e rendendoci sempre più poveri. Noi non sappiamo fare a meno di esso, dato che lo usiamo per vivere e questo gli conferisce valore nell’economia e anche nella competizione politica, il tutto a nostro svantaggio.
Ci sarà la vera rivoluzione, rivoluzione politica, solo quando ci saremo organizzati per vivere senza dipendere dal “loro” denaro.
Dobbiamo organizzare una Nuova Economia, una Nuova Società, con una nostra moneta, dove produciamo beni e servizi e ce li scambiamo fra di noi usando quella moneta per pagare gli scambi.
E già quello che facciamo oggi, ma lo dobbiamo fare rifiutandoci di usare, per quanto possibile, le monete della finanza internazionale, che sono lo strumento fondamentale dell’esercizio del potere che ci opprime.

Ovviamente il passaggio sarà graduale. All’inizio la rivoluzione riguarderà magari solo il 10% degli scambi economici. Ma poco alla volta, man mano che più persone e più competenze professionali saranno state coinvolte nell’organizzazione, potremo  via procurarci all’interno della Nuova Economia una quantità maggiore di beni e servizi.
Parallelamente alla comunità economica, fatta di persone che hanno capito come disinnescare il meccanismo del potere, crescerà la comunità sociale, formata dalle persone che sono determinate a realizzare un reale cambiamento politico nel Paese.

A quel punto, quando ci si presenterà alle elezioni, non si presenterà solo un partito, ma si presenterà una comunità economica e sociale, che dispone dei propri mezzi di informazione, di una vasta presenza sul territorio, già presente negli enti locali.
Il cambiamento politico, anche nelle istituzioni, sarà quindi una conseguenza del cambiamento sociale ed economico e non viceversa, come pensano coloro che oggi vorrebbero risolvere tutti i problemi presentandosi alle elezioni.

 

Le emergenze come metodo

Chi detiene il potere non solo ha il potere di determinare le decisioni politiche, ma anche il potere di determinare l’agenda di coloro che intendono opporsi al sistema.
Se si limitassero a governare male il Paese, la gente potrebbe, poco alla volta, organizzare una vera alternativa politica, che rappresenterebbe un potenziale pericolo per il potere costituito.

Per evitare questo problema da qualche decennio utilizzano il metodo dell’emergenza.
Oramai la nostra vita è fatta di emergenze che ci vengono presentate dai mezzi di informazione al fine di spaventarci.
Non si tratta solo di emergenze inventate, ma anche di emergenze reali, causate dalle decisioni del potere politico che conta. La gente non ha tempo da investire per organizzare il cambiamento politico generale, per liberare il popolo dall’oppressione dei poteri finanziari, in quanto è spinta a concentrare la propria azione per difendersi da singole emergenze.

Chi determina le emergenze sa benissimo come la gente reagirà. Sanno che se verrà imposto l’obbligo vaccinale, pena la perdita del posto di lavoro, la gente spenderà energie per andare in piazza a protestare.
Ma loro non temono le proteste in piazza, perché le proteste da sole non organizzano alcun cambiamento.
Sanno che se la gente è più povera dovrà dedicare più tempo a lavorare, per mantenere la propria famiglia, senza trovare il tempo da dedicare al cambiamento politico.
Sanno che la gente penserà di organizzarsi per le prossime elezioni, ma non lo temono, per i motivi che abbiamo spiegato sopra.

E’ il principio di azione e reazione. Mettono in atto le azioni che comporteranno, istintivamente, certe reazioni nel popolo, reazioni da cui non hanno nulla da temere.
Sono loro che determinano la nostra agenda, in modo che nessuno si organizzi veramente per cambiare il sistema di potere.
Rileggiamo di nuovo a Sun-Tzu:
Quando il nemico ti porta a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo.”
Se ci lasciamo imporre l’agenda da loro, ci porteranno a combattere dove sanno già che saranno loro a vincere.

Non dobbiamo cadere nel loro gioco. Dobbiamo certamente difenderci dai soprusi, ma senza dimenticare che è con “altri metodi” che vinceremo le battaglie. Dobbiamo determinare la nostra agenda dei cambiamenti e portarla avanti, nonostante le emergenze che ci scaglieranno addosso.

 

Conclusioni

Con quanto scritto non intendo sostenere che sia totalmente inutile presentarsi alle elezioni ed andare a votare, ma intendo sostenere che se limitiamo la nostra reazione alle regole “classiche” della politica non abbiamo la minima possibilità di successo.

E’ invece necessario mettere in atto delle azioni che incidano quotidianamente sul sistema di potere finanziario, aumentando la presenza di una nostra “Nuova Economia” in grado di esistere facendo a meno della “loro moneta”.
Diceva Padre Alex Zanotelli che “noi votiamo ogni volta che facciamo la spesa“. Aggiungo io che “noi votiamo ogni volta che vendiamo il nostro lavoro“.
Ogni volta che usiamo lo stesso denaro che usano le multinazionali per governare l’economia mondiale e per imporre decisioni politiche ai vari popoli, noi conferiamo valore a quel denaro e conferiamo potere alle multinazionali.

Eppure il cambiamento dipende solo da noi, perché siamo noi a decidere a chi vendere il nostro lavoro e da chi comperare i beni e servizi che ci servono per vivere. E noi non abbiamo bisogno del loro denaro per vivere, ma dei beni e servizi che ci sono necessari, che possiamo ottenere anche in cambio della nostra moneta, senza usare la loro.
Sono queste nostre decisioni quotidiane che possono, poco alla volta, ridurre il potere della finanza internazionale e aumentare il potere della nostra comunità economica, sociale e (quindi) politica.

Ora si tratta di organizzarci in modo da sapere chi è disposto a cambiare il proprio modo di fare acquisto e il proprio modo di vendere il proprio lavoro.
Non possiamo scrivere i dettagli di un progetto del genere in un articolo, ma abbiamo già delle idee.
Chi vuole partecipare alla costruzione della Nuova Società e della Nuova Economia, ci contatti.

Davide Gionco
davide.gionco@gmail.com

 

Bene comune e diritti umani liberali_a cura di Roberto Buffagni

 

E’ di grande interesse e attualità questo articolo della “Beijng Review” del 27 luglio, che riporta stralci di un colloquio tra gli accademici Adrian Vermeule e John Pang[1].

Adrian Vermeule è uno dei protagonisti dell’odierna corrente di pensiero cattolica conservatrice statunitense, critica del liberalismo, dei suoi presupposti filosofici, giuridici e politici; una corrente di pensiero che nelle sue analisi si rifà alla tradizione classica europea, greco-romana e cristiana (un altro nome tra tutti, Patrick J. Deneen[2] con il suo fortunato e recente Why Liberalism Failed[3] ).

Qui Vermeule e Pang toccano uno dei temi politico-giuridici più importanti della critica al liberalismo, la concezione classica del bene comune raffrontata con la concezione individualistico-liberale dei “diritti umani”; e delineano le corrispondenze tra la concezione del bene comune propria alla cultura classica europea, e l’analoga concezione cinese di xiaokang (società di moderata prosperità), antica di millenni, e che sta tuttora al centro della cultura politica cinese.

Alla luce della concezione classica di bene comune, viene criticato il concetto di democrazia come sinonimo di liberalismo, l’identificazione tra buon governo e specifiche forme istituzionali, e in sintesi l’universalismo astratto e intrinsecamente imperialistico del pensiero dominante in Occidente.

La critica cattolico conservatrice che elabora questa vivace e fruttuosa corrente di pensiero americana si ricollega alle riflessioni di Rémi Brague[4] e alla pastorale di papa Ratzinger, incentrata sul tentativo di ricostruire il dialogo tra la Chiesa e la società contemporanea sulla base dei preambula fidei[5], le premesse razionali della fede, in una rilettura anche politica della filosofia classica, soprattutto aristotelica.

Difficile sopravvalutare l’importanza e l’attualità di questa corrente critica. Che cosa sono le” democrazie”? Che cosa sono gli “autoritarismi”? Che cosa significa “lotta delle democrazie contro gli autoritarismi”, l’odierna giustificazione occidentale del conflitto tra Stati Uniti, Russia e Cina? Che cosa significa “buon governo”? L’unico buon governo è il governo democratico-liberale, o anche altre forme istituzionali possono governare bene?

Nel dialogo che qui traduciamo, di questo si parla. Se ne parlerà sempre di più negli anni a venire. Buona lettura. Roberto Buffagni

 

Il diritto costituzionale americano ha perso di vista la concezione classica secondo cui la legge è maestra di virtù, e deve essere ordinata a beneficio dell’intera comunità“. —Adrian Vermeule, Ralph S. Tyler Jr. Professor di diritto costituzionale presso la Harvard Law School[6]

 

Tra le concezioni classiche del bene comune di Oriente e Occidente la differenza è piccola, ma le interpretazioni moderne del concetto si stanno allontanando.

Preferiresti essere povero in una nazione ricca o ricco in una nazione povera? Questa domanda ha ispirato un dibattito senza fine dal I secolo d.C., quando lo storico e moralista romano Valerio Massimo disse per la prima volta degli antichi romani che “preferirebbero essere poveri in un impero ricco che ricchi in un impero povero“. Oggi, il sentimento della popolazione negli Stati Uniti è diverso da quello degli antichi romani, secondo il professore della Harvard Law School, Adrian Vermeule, che afferma che l’attuale posizione americana su questo punto è “apparentemente intelligente” ma finisce per “sconfiggersi da sé“.

Via via che un sistema politico diventa sempre più disordinato, sempre più lontano da una prospera comunità che promuove pace, giustizia e abbondanza, le esigenze del bene comune e della stessa legge naturale diventano più visibili, più incalzanti e meno discutibili. Questo è un paradosso suggerito da Vermeule in una recente conferenza tenuta in occasione del lancio del suo nuovo libro Common Good Constitutionalism[7]. “Il diritto costituzionale americano ha perso di vista la sua eredità giuridica classica“, afferma Vermeule.

Il bene comune, come lo definisce la tradizione giuridica occidentale classica, corrisponde al concetto cinese di xiaokang, una società di moderata prosperità. “La centralità del bene comune nelle nozioni cinesi di buon governo è trasmessa dalla sua cultura politica“, ha affermato John Pang, Senior Fellow, Bard College, New York[8]. Si ritiene che la frase sia stata usata per la prima volta per descrivere una vita prospera nel Libro dei Cantici[9], la prima antologia di poesie della Cina, risalente a più di 2000 anni fa.

 

Per esplorare questa intersezione di concetti che hanno influenzato i sistemi giuridici sia dell’Oriente che dell’Occidente, il senior editor della “Beijing Review”[10] Li Fangfang ha videointervistato il professor Vermeule e il dottor Pang. Ecco alcuni estratti dal colloquio:

 

Beijing Review: Una diversa comprensione di determinati termini, ad esempio “diritti umani”, ha provocato molte conseguenze politiche ed economiche tra i paesi. Credete che esista una definizione universale del bene comune per la comunità internazionale, che tenga conto delle preoccupazioni dell’Occidente, dell’Est, del Nord e del Sud?

 

Adrian Vermeule: Sì e no. L’ordinamento classico del diritto occidentale postula che, in linea di principio, il fine proprio al governo temporale è lo stesso in tutte le società: promuovere la prosperità della comunità politica in quanto tale, uno stato di pace, giustizia e abbondanza, e promuovere le precondizioni materiali e sociali di questa prosperità. La prosperità della comunità politica è anche il più elevato bene temporale degli individui che la compongono, nel senso che non è possibile godere pienamente dei beni privati ​​della vita familiare e individuale in una comunità politica impoverita, decadente e violenta, come stiamo sempre più scoprendo negli Stati Uniti.

Tuttavia, il pensiero classico sostiene anche che questo obiettivo generale del governo deve essere attuato in modo diverso nelle diverse comunità politiche, a seconda delle loro circostanze particolari, delle tradizioni, cultura e istituzioni di governo della società in questione. Ciò che importa è che il giudizio prudenziale delle autorità pubbliche sia rivolto al bene comune come sopra definito, piuttosto che al beneficio privato o egoistico. Il governo diretto al beneficio privato, il governo corrotto, è la definizione classica di tirannia; si noti che ciò differisce dalle moderne definizioni di tirannia, incentrate sulla violazione dei diritti liberali, basati sull’autonomia individuale. In contrasto con la democrazia liberale, che mira a imporre un modello istituzionale molto specifico a ogni società in tutto il mondo, rifacendo ogni società a propria immagine, la tradizione classica sostiene che non esiste un tipo di per sé migliore di specifiche forme istituzionali. Ciò che importa sono i fini o gli scopi a cui è dedicato il governo, fatti salvi i vincoli del diritto civile e consuetudinario specifici del sistema politico, del diritto delle genti, della giustizia naturale e del dovere di praticare la virtù pubblica, propria dei governanti. Di nuovo, parlo qui della visione classica, che rispetta le differenze culturali, a differenza della visione liberal-democratica, che è istituzionalmente imperialista.

 

 

John Pang: La centralità del bene comune nelle nozioni cinesi di buon governo è trasmessa dalla sua cultura politica. Oggi il governo ha descritto come il suo principale progetto il raggiungimento dello xiaokang per il popolo cinese. Questa è una frase che si rifà al Libro dei Cantici.

 

Il popolo invero porta un pesante giogo

Ma forse un po’ di conforto (xiaokang) gli potrebbe esser concesso.

Abbiamo a cuore questo centro del regno,

Per assicurare la quiete ai quattro quarti di esso.

Nessuna indulgenza per gli scaltri e gli adulatori

Per ammonire così gli irresponsabili

E per reprimere briganti e oppressori,

Che non temono la luminosa volontà [del Cielo].

E dunque mostriamoci benevoli ai lontani, e prestiamo aiuto ai vicini; —

Instaurando così [il trono del] nostro re.

—Min Lao, poesia tradotta dal sinologo scozzese James Legge[11]

 

Nella sua conferenza lei ha usato la citazione “Nessun uomo è un’isola“. Essa coincide con l’osservazione del presidente cinese Xi Jinping al vertice di Pechino del Forum sulla cooperazione Cina-Africa 2018, secondo il quale “Nessuno che si isoli su una singola isola avrà un futuro condiviso“. Il vantaggio di dare la priorità all’intera comunità quando si affrontano i problemi è un concetto ampiamente compreso in Cina. Secondo lei, cosa dovrebbero fare le persone per bilanciare il beneficio individuale e quello collettivo, quando devono decidere tra di essi? E quale ruolo ha il sistema giuridico, nel facilitare questo equilibrio?

 

Adrian Vermeule: La citazione completa è di John Donne[12], un poeta inglese dell’inizio del 17° secolo, e dice: ” Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto“. Quali che fossero le intenzioni originali di Donne, se leggiamo il suo aforisma come un commento sociale, mi colpisce il parallelismo con la citazione del presidente Xi. Per dirla in altro modo, Robinson Crusoe, abbandonato da solo su un’isola, è in un certo senso perfettamente libero, ma in un senso più profondo non è libero, perché non può godere dei benefici di una civiltà comune.

Dagli anni ’60, la malattia dell’individualismo aggressivo ha invaso la vita intellettuale, la cultura e la politica americane. Nella visione classica, invece, il bene comune della comunità è il più elevato bene temporale anche per gli individui. In questa concezione, se posso disquisire un po’, non si tratta di bilanciare beni individuali e collettivi, o di far calpestare i beni individuali dalle volontà della maggioranza. Piuttosto, nel contesto classico gli stessi diritti degli individui sono sempre, fin dall’inizio, ordinati al bene comune, e la loro portata e il loro peso sono definiti di conseguenza. La tradizione classica quindi riconosce eccome i diritti, ma li giustifica in un modo molto diverso da quello dell’individualismo liberale. Classicamente, i diritti non sono giustificati sul terreno liberale dell’autonomia individuale, ma nella misura in cui il riconoscimento di tali diritti avvantaggia la comunità.

John Pang Per quale ragione molti americani preferirebbero essere ricchi in una nazione povera piuttosto che essere poveri in una nazione ricca, un’idea che a suo parere “si sconfigge da sé”? Che ruolo giocano la legge e la moralità in una società del genere?

Adrian Vermeule: È difficile districare tutte le influenze, materiali e culturali, che hanno prodotto questo stato di cose. Basti rilevare che tra tutti, spiccano due dinamiche. Una è che le élites americane sono sempre più distaccate dalle opinioni e dagli interessi delle persone che governano – distaccate economicamente, culturalmente, persino geograficamente. Vedono il popolo non come concittadini del cui benessere sono responsabili, ma come masse aliene che rappresentano una minaccia per la “democrazia”, ​​la parola con cui le élites intendono il liberalismo. Un’altra dinamica nel campo del diritto, e per certi versi tema del mio Common Good Constitutionalism, è che il diritto costituzionale americano ha perso di vista la concezione classica secondo cui la legge è maestra di virtù, e deve essere ordinata a beneficio dell’intera comunità. Invece, la nostra legge è sempre più una carta dei diritti individuali basati sull’autonomia liberale – una visione che serve gli interessi delle élites benestanti molto meglio di quanto non serva il benessere del popolo nel suo insieme, che generalmente soffre di più per il divorzio facile, il dissolversi delle strutture familiari e il dominio delle grandi corporations sull’economia.

Le élites liberali americane si immaginano per così dire di fluttuare al di sopra della società. Eppure, penso che sia diventato chiaro anche a loro che alla fine dei conti si trovano in uno spazio concreto, in una comunità politica geografica, e che nel bene o nel male, non possono separarsi completamente da quella comunità, anche se vivono in compound recintati e in genere tentano di isolarsi dalla società sempre più decadente, conflittuale e disordinata che li circonda. Piaccia o no, in una società comune tutti finiscono per condividere un comune destino.

John Pang Negli anni ’30 Lin Yutang, un famoso scrittore cinese, paragonò il senso giuridico occidentale con quello cinese con il criterio della sua osservanza. ‘Una costituzione presuppone che i nostri governanti possano essere criminali che abuseranno del loro potere e violeranno i nostri diritti, caso in cui useremmo contro di loro la costituzione come un’arma per difenderci’, ha scritto. Proseguendo il confronto, ha detto che la concezione cinese del governo è quella di un governo di genitori o di un governo di gentiluomini, che dovrebbero prendersi cura degli interessi del popolo come genitori nelle cui mani il popolo ripone piena fiducia. Potrebbe condividere con noi le sue intuizioni sulle principali differenze tra il sistema politico statunitense e quello cinese? In quali aspetti pensa che i due paesi possano imparare l’uno dall’altro?

Adrian Vermeule: Uno dei punti principali del libro è che gli studiosi di diritto americani, dalla seconda guerra mondiale, hanno costruito una “tradizione inventata” che ha falsificato e riscritto la storia e i principi dell’ordine costituzionale americano. Abbandonando la classica focalizzazione sul bene comune come fine appropriato del governo, i teorici legali americani, sia di sinistra che di destra, hanno adottato un approccio che è sia più positivista (o, più precisamente, finge di essere più positivista) e più individualista rispetto alla tradizione classica. In questo approccio, il diritto costituzionale è visto principalmente come un modo per garantire i diritti individuali, giustificati dal riferimento all’autonomia liberale, contro uno Stato minaccioso. Il costituzionalismo è, come nella diagnosi di Lin Yutang, principalmente un’arma di autodifesa per una popolazione sospettosa dei suoi governanti.

Ma faccio notare che questa non è la concezione classica del costituzionalismo, e sta diventando chiaro che questa concezione ha prodotto almeno tanti mali di quanti ne ha evitati. Quindi, non sottoscriverei alcuna posizione per la quale l’unica versione del costituzionalismo sarebbe la versione liberale. Le dinastie cinesi classiche avevano certamente costituzioni con la “c” minuscola, nel senso di principi normativi fondamentali del diritto politico che guidavano la concezione di quali dovrebbero essere i fini propri alle autorità pubbliche, anche se non avevano costituzioni scritte, o costituzioni fondate sui diritti liberali. Avevano anche lo stato di diritto, come attestano (ad esempio) gli elaborati codici legali e i sistemi giudiziari della dinastia Qing; ci sono molti esempi di giudici cinesi che hanno deciso che le autorità di livello inferiore avevano emesso ordini amministrativi o decretato pene erronee o troppo severe. Più in generale, come sosteneva un famoso libro di Charles Howard McIlwain[13], bisogna distinguere tra costituzionalismo antico e moderno. Non tutte le costituzioni sono moderne costituzioni scritte e non tutte le costituzioni scritte sono costituzioni liberali. In effetti, come sostengo, credo che nemmeno la costituzione scritta americana sia meglio intesa se la si pensa come costituzione liberale, ossia come è stata interpretata dalla seconda guerra mondiale in poi.

 

John Pang: Come caratterizzare quindi la base filosofica soggiacente al sistema giuridico cinese? Dove si trova la continuità tra il suo passato e il suo presente, tra Oriente e Occidente? Suggerirei che la si ritrova nella persistenza delle nozioni fondamentali di ordine e armonia, viste non solo nelle sue tradizioni legali e filosofie politiche, ma in una durevole teologia politica che sta alla base delle scuole contrastanti di pensiero politico, siano esse taoiste, buddiste, confuciane o legiste [14]  .

La continuità della pratica giuridica cinese, data la sua turbolenta storia recente, va ricercata nella continuità della sua cultura politica, piuttosto che nella continuità istituzionale formale. L’orientamento di questa cultura verso il bene comune non è trasparente per la prospettiva liberale moderna, ma è anche quello della tradizione classica dell’Occidente, e quello di ogni cultura storica che abbia mai abitato la terra.

Possiamo fare molto meglio che tentar di tradurre le concezioni cinesi di ordine cosmico, naturale e umano in termini occidentali contemporanei, vale a dire liberali, che sono versioni impoverite di concetti un tempo ricchi, e corrodono la comunità politica e sociale. Se anche in Occidente il “diritto” non significa più quel che significava un tempo, facili paragoni che inevitabilmente finiscono per giudicare la prassi cinese in questi termini, mentre il Paese si sta riprendendo da un secolo di violento incontro con il modernismo e il liberalismo giuridico, sono doppiamente depauperanti. Non è una ritirata nel relativismo culturale, o un tentativo di instaurare un contro-eccezionalismo cinese [speculare all’eccezionalismo americano NdT]. La necessità di costruire ponti per il dialogo non è mai stata così urgente. La solida sponda dall’altra parte del fiume è la tradizione occidentale classica, articolata brillantemente per il nostro tempo dal professor Vermeule in Common Good Constitutionalism.

[1] https://www.bjreview.com/Opinion/Governance/202207/t20220715_800300955.html?fbclid=IwAR2ZvHuKfMCu8uvuloQgIBjd3hmv2GLEMohBaxivIoA-fs4H5zFd70n8r-w

 

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/Patrick_Deneen_(author)

[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Why_Liberalism_Failed

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9mi_Brague

[5] https://cristianesimocattolico.wordpress.com/tag/preambula-fidei/

[6] https://blogs.harvard.edu/adrianvermeule/

[7] https://www.wiley.com/en-ie/Common+Good+Constitutionalism-p-9781509548873

[8] Qui una interessantissima intervista a John Pang: http://www.china.org.cn/world/Off_the_Wire/2022-04/10/content_78157638.htmInterview: West’s unipolar behaviors bound to fail, disastrous for itself, says scholar”

[9] https://www.scaffalecinese.it/il-libro-delle-odi-lo-shijing-antica-raccolta-poetica-cina/

[10] https://www.bjreview.com/

[11] Mia traduzione dalla versione inglese di James Legge.

[12] https://it.wikipedia.org/wiki/John_Donne

[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Howard_McIlwain . Il libro a cui allude Vermeule è  Constitutionalism Ancient & Modern, 1940

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Legismo

 

Perché ci serve il concetto di comunità, di Gennaro Scala

Perché ci serve il concetto di comunità. Riflessioni a partire da un testo di Fabio Rontini su Costanzo Preve

Recentemente è stato pubblicato dal sito “intellettualecollettivo.it” un articolo, dal titolo un po’ internettiano-sensazionalistico La tesi di Costanzo Preve che spaventa i marxisti italiani di Fabio Rontini, che merita di essere discusso. Mi sia permessa un po’ di non malevole ironia, si direbbe che in Italia ci siano ancora schiere di marxisti, anche se facilmente prede dal panico, un po’ come le mandrie di mucche, ma ahimè secondo la mia esperienza ormai si contano sulle dita delle mani, se poi al sostantivo “marxista” aggiungiamo l’aggettivo “raziocinante” forse può bastare una mano sola. Rontini si chiede perché Costanzo Preve, uno dei migliori filosofi marxisti italiani, e che tale si è dichiarato fino all’ultimo anche se “non ortodosso e indipendente”, fosse stato ostracizzato, o posto in quarantena, se vogliamo utilizzare un termine più attuale, dalla sinistra marxista. Una prima risposta egli la trova in Carlo Formenti, notevole studioso delle trasformazioni sociali e politiche, anch’esso di formazione marxista, proveniente dall’operaismo, ma ha preso da tempo le distanze delle in-voluzioni negriane, restando invece estimatore del ben più profondo Mario Tronti. Formenti ha preso atto dell’irrimediabile deriva politica, e finanche antropologica, della sinistra dalla quale intende sottrarsi, e da questa via è giunto alla conclusione che è necessario un nuovo inizio, come sintetizza il titolo del libro Il socialismo è morto, viva il socialismo. Era conseguente quindi un ripensamento, espresso in un paragrafo del libro succitato, o per meglio dire un avvicinamento verso la figura di Preve, visto che afferma di aver “infine letto Preve”.

Veniamo alla tesi di Rontini, il quale sostiene giustamente che l’appartenenza dei marxisti al contenitore denominato sinistra perde di senso dal momento che è scomparsa ogni vestigia di borghesia progressista, desiderosa di rapportarsi con la classe operaia. Questa è la tesi di Preve, sintetizzata all’osso, che secondo Rontini spaventa i marxisti. Ciò è anche vero, ma non è questa sola tesi, ma la sua intera filosofia a costituire scandalo per il marxista benpensante e timorato … di Marx. Rontini utilizza il dibattito fra Preve e Losurdo che si svolse nel 2009, pubblicato in rete, come episodio esemplare dell’incomprensione della sinistra marxista nei confronti di Preve. Personalmente, direi di non focalizzare troppo su questo dibattito, i due si conoscevano bene tanto sul piano intellettuale, quanto su quello personale (conservo il ricordo di loro due discutere fittamente a distanza ravvicinata seduti ad un tavolino fuori da un convegno dalle parti di Assisi, adesso non ricordo quale, sono passati quasi vent’anni), per cui si tratta di un dibattito pieno di presupposti non esplicitati. Preve avrebbe voluto portare Losurdo dalla sua parte, quindi non va mai fino in fondo, esplicitando una rottura che poi era nei fatti. Il compianto Losurdo non avrebbe mai abbandonato una sinistra, nella quale la sua area, quella “antimperialista” dell’Ernesto e dintorni, non erano “ascoltati”. Erano isolati quanto lo stesso Preve ma continuavano e continuano fino alla fine a stare in essa, fino all’estinzione. Con Azzarà, che continua e continuerà fino alla fine a sbraitare contro la sinistra sul suo profilo facebook, ma a restare sempre al suo interno (immagino, perché mi ha bannato). Difendere la “distinzione destra-sinistra” voleva dire questo per loro, e che qualsiasi cosa faccia “la sinistra è sempre preferibile” ecc. ecc.

Se vogliamo capire perché Preve è stato ostracizzato dalla sinistra, marxista e non, bisogna guardare alla sua intera filosofia che mira ad una sua riforma teorica complessiva, ma essendo questa “irriformabile” (Preve) la conclusione logica è quella della necessità di un nuovo inizio.

Come racconta egli stesso, Preve iniziò un percorso di rottura dopo lo spettacolo del “baffetto bombardatore” che con il suo “sorrisetto cinico” mostrava soddisfazione della grande arguzia politica che l’aveva portato ad una completa acquiescenza nei confronti del “bombardamento etico” (titolo di un suo libro) della Yugoslavia. Mentre il “circo Barnum” della sinistra saltava sul carro del vincitore, e appoggiava la guerra contro una nazione che non ci aveva fatto nessun torto, e con la quale anzi avevamo proficui rapporti economici, con incoerenti prese di posizione di Rifondazione e del “filo-sovietico” Cossutta che fece una scissione per sostenere il governo D’Alema. Mentre invece esponenti della “nuova destra” come Alain de Benoist erano nettamente contrari a questa guerra. C’era qualcosa che non andava nelle categorie di Destra e Sinistra. Da qui inizia un ripensamento delle categorie di destra e sinistra, e anche questa è solo una parte del discorso di Preve, indirizzato alle categorie filosofiche di fondo che poi generano il discorso politico. Riporto qui un passo che è, a mio parere, il nucleo della sua analisi:

La sua critica al giacobinismo robespierrista, sia pure ogni tanto un po’ ingenerosa e unilaterale (personalmente, sono un ammiratore di Robespierre), resta però nell’essenziale è giusta, ed a mio avviso è la critica anticipata del comunismo storico novecentesco migliore che conosca. Se non condividessi profondamente questa critica, che è “comunitaria” e quindi né individualista né tradizionalistica, non avrei scritto un elogio del comunitarismo, ma l’ennesimo elogio del comunismo tout court. Se invece ho fatto questa scelta relativamente innovativa rispetto alla tradizione comunista da cui provengo, e proprio perché la critica di Hegel ai “comunitarismi frettolosi” che infine si rovesciano nel loro contrario e si autodistruggono mi pare convincente. Per me, questa non è in alcun modo una rottura con il comunismo, ma, al contrario, una maniera (che considero matura) di essere ancora fedele a questa scelta giovanile assolutamente non rinnegata che tempo fa definii una “passione durevole”.

[…] Hegel stima Rousseau e gli riconosce volentieri la sincera intenzione di superare l’individualismo atomistico astratto (per Hegel, l’individuo isolato è sempre astratto, mentre la comunità tenuta insieme dai costumi è sempre concreta), ma ritiene che su basi russoviane si possa avere soltanto una “comunità illusoria”, ossia un’addìzione di individualità presupposte come originariamente solitarie che si lanciano insieme nel progetto ugualitario di un nuovo contratto sociale equo, che possa sostituire quello precedente iniquo. Hegel chiama questo progetto russoviano una “furia del dileguare”. E che cosa è che propriamente “dilegua” , cioè scappa in .. avanti, si affretta senza essersi prima consolidato? È una comunità illusoria, tenuta insieme fittiziamente da una virtù politica soggettivamente sincera, che salta i momentìi essenziali della comunità familiare, della comunità elettiva di amici, della comunità fondata sul mestiere e sulla competenza professionale riconosciuta, e su tutte le comunità “intermedie” senza le quali non può neppure esistere la comunità delle comunità, il contratto sociale virtuoso fra cittadini uguagliati dalla legge.

Personalmente, trovo questa critica hegeliana non solo intelligente e pertinente, ma addirittura risolutiva. Non si può volere la “comunità ideale” se si comincia a disprezzare e ignorare le comunità intermedie precedenti. Il comunismo è, tra l’altro, morto proprio di questa specifica patologia. Ha messo la comunità astratta del comunismo davanti a tutto il resto, ha creduto di potersi costituire saltando la famiglia e la società civile (spacciate frettolosamente come “borghesi”), e così ha costruito sulla sabbia. Quando ha cominciato a entrare in crisi sul piano economico e produttivo, si era bruciato i ponti alle spalle, e non aveva più trincee di difesa su cui attestarsi. Franturnato l’apparato burocratico del partito, tutto si è dissolto in pochi mesi (l’esperienza della Russia nel 1991 è stata in proposito esemplare). (Elogio del comunitarismo, pp. 151-153)

In questo passo geniale viene esposta sinteticamente la tara storica della sinistra, comunista e non (notare che si parte dalla rivoluzione francese). In altre occasioni occasioni ho sintetizzato con il termine individualismo-universalismo, ovvero il salto dall’individuo al genere, il paradigma su cui si è costituita la sinistra comunista e non,. Ricostruire le categorie del movimento comunista superando questo paradigma fu il programma filosofico di enorme portata in cui Preve si impegnò. Un faticoso quanto necessario lavoro di ricostruzione su nuove basi, nel quale i “compagni” non hanno saputo e non hanno voluto impegnarsi, perché costava la dolorosa ridefinizioni delle convinzioni di una vita e dei rapporti politici, che sono poi anche rapporti personali.

Come ho sostenuto in occasione di un convegno in onore di Preve tenutosi a Bologna il 6 dicembre del 2013, il comunitarismo di Preve mira a correggere quell’impostazione di fondo per cui i comunisti e la sinistra in generale, hanno avuto una concezione errata dello Stato. È senso comune tra i “marxologi” che la concezione dello Stato fosse la tara principale della teoria marxiana, ma un “comunista antimperialista”, che in genere è, inconsapevolmente, più leninista che marxista, mi risponderebbe: i comunisti non hanno affatto ignorato la questione nazionale, i movimenti di liberazione nazionale del secolo scorso hanno visto un ruolo fondamentale dei comunisti! Per un’adeguata trattazione della questione non posso che rimandare al mio libro Per un nuovo socialismo, qui posso solo accennare al fatto che l’antimperialismo riportava nel movimento comunista “la questione nazionale” ma aveva dei difetti di fondo per cui non potè essere un’effettiva correzione del movimento comunista su tale questione. L’antimperialismo ha svolto una funzione importante durante il periodo dell’ascesa delle principali potenze che si oppongono allo strapotere americano, Russia e Cina, ma dal momento che queste potenze si sono affermate questa categoria va abbondonata e sostuita con il concetto di “mondo multipolare”. Inoltre, la categoria dell’antimperialismo si applica solo alle nazioni che hanno subito l’oppressione coloniale, ma delle autentiche questioni nazionali si sono poste e si pongono anche nella nazioni occidentali, ad es. l’errata teoria del movimento comunista sulla “questione nazionale” portò i comunisti a commettere dei gravi errori che favorirono l’affermazione del nazismo (in merito rimando al mio suddetto libro), come ho cercato di dimostrare anche basandomi su un testo del borioso Stefano G. Azzarà, allievo di Losurdo e punto di riferimento per Rontini.

Preve era un uomo della “vecchia guardia”, aveva trascorso gran parte della sua vita all’interno del fu movimento comunista, del quale si rese conto che aveva chiuso il suo ciclo, e cominciò un immane lavoro di ripensamento, ma su alcune questioni, tra cui l’antimperialimo e lo Stato, non giunse a delle soluzioni. Non credo di essere ingeneroso verso quello che considero uno dei miei principali maestri, è normale che sia così, gli siamo grati per l’enorme lavoro fatto, ma onoriamo i maestri proseguendo il loro lavoro, e a costo di apparire presentuoso, credo che almeno sulla questione dell’antimperialismo di aver fatto dei passi avanti.

Anche se il problema della subordinazione agli Usa non scompare, il problema più prossimo e più immediato, e che rischia di sfasciare lo Stato e la società italiana, è la subordinazione alla Ue (come ha già da tempo capito chi non era oberato da un bagaglio culturale marxista, ma magari in una prospettiva più limitata). Certo Preve sapeva che l’Unione Europea non poteva funzionare, e aveva previsto anche una divisione tra Europa del Nord e una del Sud, ma non costituiva per lui questo il principale problema. E in questo si dimostrava ancora uno della “vecchia guardia” che considerava il problema principale l’“imperialismo statunintense”. Io stesso ho fatto fatica a comprendere la priorità di questo problema, che ora è sotto gli occhi di tutti. Ripeto il problema del dominio statunitense non è certo scomparso, ma per l’immediato è assolutamente necessario risolvere il problema europeo.

Però Preve aveva posto correttamente il problema della sovranità e per questo è considerato un filosofo di riferimento dai “sovranisti”:

Immaginare che ci potesse essere una demokratia ad Atene con una guarnigione spartana stabilmente insediata sull’acropoli sarebbe stata un’assurdità per gli antichi. Eppure questa assurdità è oggi la normalità (una normalità anormale, in cui Kafka e Borges hanno sostituito Erodoto e Tucidide) per i popoli europei” (La saggezza dei Greci)

In breve tutte le divisioni politiche tra destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini perdono di senso in assenza di sovranità, poiché qualsiasi decisione scaturisca da questa dialettica politica questa si risolve in nulla, non serve a niente, poiché la decisione sulle questioni decisive spetta ad altri. Per questo è meglio A. de Benoist che si oppone all’imperialismo americano piuttosto che Luxuria che è culturalmente e politicamente allineato ad esso. La fine del mondo bipolare che aveva garantito uno spazio di sovranità (limitata) all’Italia e la degenerazione della sinistra avevano posto in secondo piano la divisione destra/sinistra, poiché è necessario convergere sull’obiettivo del ripristino di un adeguato livello di sovranità (una sovranità assoluta non potrà mai esistere). Quando in un ipotetico futuro la sovranità sarà ripristinata, le divisioni in base alle classi sociali e ai valori ritorneranno in primo piano, potremo anche tornare a definirle destra-sinistra, anche se a me non piace tale definizione che non sfugge al gioco di specchi, esiste una destra perché esiste una sinistra e viceversa, senza poi che si sappia “cos’è la destra e cos’è la sinistra” (per dirla con Gaber), preferisco le divisioni tra socialisti, (neo)liberisti, repubblicani, nazionalisti o in base all’identità religiosa ecc, insomma in base ad una definizioni dei valori politici, culturali, ideologici di riferimento, non delle generiche destra e sinistra che di per sé non vogliono dire nulla.

Destra e sinistra, o come si voglia definire le differenze politiche, hanno senso solo in uno Stato sovrano. Lo Stato è una delle comunità che si interpongono tra l’individuo e il genere. Il concetto di comunità avanzato da Preve è cruciale oggi. La crisi sociale, economica, politica innescata dal Coronavirus ha portato alla luce l’inconsistenza della costruzione sottostante alla “Comunità Europea”, mai nome fu più inadeguato. È fondamentale analizzare tutte le misure economiche e di carattere legislativo emanate dalla Commissione Europea e dalla Bce da valutare con la massima attenzione, ed è benemerito il lavoro di chi si sobbarca questo ingrato compito, ma ciò che più conta è stabilire se noi e i tedeschi (o anche i francesi) apparteniamo alla stessa comunità, se loro ci considerano o noi consideriamo loro come appartenenti alla stessa comunità. È questo che alla fine determina le misure economiche che vengono prese. Come sosteneva Preve appartienamo al genere umano, ma vi apparteniamo attraverso comunità determinate a partire dalla famiglia, passando per le classi sociali a finire con lo Stato. Tali comunità non hanno una base naturalistica, sono costruzioni sociali, ma sono nondimeno reali, e hanno effetti concretissimi. Alla luce dei fatti non possiamo che concludere che no, non apparteniamo alla stessa comunità, che non basta il nome, non abbiamo costruito con gli altri popoli europei una comunità, ogni nazione europea sta agendo per proprio conto e in funzione esclusiva dei propri interessi, e ci conviene ripristinare gli strumenti economici della sovranità che avevamo prima di entrare nell’Unione Europea altrimenti saranno c…. e qui evito di terminare con una locuzione volgare.

La solitudine di Papa Francesco, di Angelo Perrone

La solitudine di Papa Francesco

 

Le immagini di papa Francesco da solo nelle piazze e nelle strade di Roma, deserte per il coronavirus, sono il simbolo di un’epoca impaurita dal pericolo che il contagio passi attraverso la vicinanza umana. Se il contatto fisico è demonizzato, tutte le abitudini sociali sono sconvolte. Eppure la presenza solitaria del papa nella città vuota ricorda che ci sono molti modi per essere vicini agli altri, e che c’è una distanza dalle persone che è segno di solidarietà e partecipazione

 

di Angelo Perrone *

 

Papa Francesco, solo nella grande piazza di San Pietro a Roma, svuotata dal virus. Un’immagine piena di suggestione, che racchiude i significati più sconvolgenti di questa epidemia. Il pericolo del contagio, la necessità della lontananza fisica per sfuggire alla contaminazione, e provare così a venirne a capo. Un colpo d’occhio sorprendente, che il 27 marzo arriva nelle nostre case, attraverso lo schermo, e che rimane a lungo nella mente.

 

Lui era lì, in piedi sul palco a impartire la benedizione, a invocare il Signore che non ci lasci soli nella tempesta. Come se fosse davvero presente la gente, come se stesse rivolgendosi proprio a persone fisiche a poca distanza, guardandole negli occhi. Ma c’era solo un operatore della tv a riprendere la scena, a renderla persino struggente e malinconica in un’epoca di continua mescolanza di popoli.

 

Più lontano, oltre il margine del colonnato di San Pietro, che segna i confini del piccolo Stato e ora il divieto di avvicinamento a causa del virus, i lampeggianti della polizia. Tutti erano a casa, nessuno poteva avvicinarsi. Ancora più inquietante, nel buio silenzioso, la notte romana di inizio primavera. Nessuno è potuto entrare, ascoltare da vicino quelle parole di incoraggiamento e conforto.

 

Scena surreale, un uomo che parla accoratamente e però si rivolge al vuoto, al niente, perché la piazza che siamo abituati a vedere ricolma di gente attenta e festante, ora è desolata e silenziosa. Nessun rumore: vociare delle persone, traffico. Solo le gocce di una leggera pioggerellina di marzo, il crepitio di qualche braciere acceso a fare compagnia all’uomo anziano al centro della scena.

 

La prima volta nella storia della chiesa doveva accadere per questa epidemia da Covid, non per una guerra, un bombardamento, un assalto armato. Né per difetto di persone interessate, desiderose di ascoltare quelle parole: una mancanza di fedeli.

 

Si è concretizzato in quello spazio il paradosso di un uomo che sa dire parole di speranza, e di gente che vorrebbe venire a ascoltarle, per trovarvi conforto, ma è impedita a farlo. Un cortocircuito che rispecchia l’abnormità del coronavirus, lo sconvolgimento delle abitudini di vita. Nessun contatto tra le persone, nessun dialogo diretto e personale, tutti alla larga, lontani, la distanza è ciò che ci salverà. Forse.

 

Un messaggio di separazione umana che si replica ovunque nelle città, nei luoghi di lavoro, in quelli di divertimento; dunque anche e soprattutto in quella piazza, che diventa così simbolo tragico e allarmante di questa epoca, dei pericoli che stiamo attraversando.

 

Il papa che viene dalla strada, “pastore con l’odore delle pecore”, immagine di una Chiesa rivolta verso l’esterno, non poteva mancare di essere presente proprio nei luoghi dove si svolge la vita. Sono qui, tra voi, tra chi ha paura e chi continua a sperare. Lo aveva già fatto, in modo emblematico, il 15 marzo scorso sempre a Roma: il papa percorse un tratto di via del Corso a piedi e da solo.

 

Era un pellegrinaggio tra le chiese che custodiscono l’icona bizantina della Madonna e il crocifisso che aveva accanto a San Pietro, per manifestare il suo essere vicino alla città e a tutti coloro che patiscono in questo momento. Un gesto emblematico di solidarietà, in totale solitudine. Senza la folla a stringersi intorno, a implorare una stretta di mano.

 

Eppure, quella di papa Francesco è insieme una sfida ed un messaggio. Un segno, nel frastuono della vita. Avevamo bisogno del coronavirus per dirci che dovremmo spenderci nella solidarietà, specie davanti al dolore e alla sofferenza? Che è importante selezionare le cose dell’esistenza, scoprire il confine sottile tra l’inutile e il necessario? Dare una risposta collettiva ai problemi? La solitudine della parola sta lì, nella piazza vuota e nelle strade deserte, a rammentarci che si può essere vicini in tanti modi, e di alcuni può riuscire difficile percepire l’utilità.

 

Infatti, sembra privo di senso parlare nel buio della notte e nel silenzio dei luoghi deserti. Specie in quest’epoca che misura continuamente il consenso, che è in cerca di plauso, che mira a suscitare abbagli. Ma sarebbe sbagliato pensare che la gente non ci fosse per nulla a San Pietro o in via del Corso. Che quell’uomo predicasse davvero al vento, in angosciante e inutile solitudine.

 

Era chiusa nelle proprie case, per convinzione, oltre che per ordine delle autorità, per difendere sé stessa ma anche gli altri. Mossa non da intenti asociali, ma al contrario dalla riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità. Dunque affatto lontana dai luoghi, piazze o strade, in cui il papa era presente. C’è una lontananza, che è segno di amore e di partecipazione.

 

* Di formazione giuridica, si occupa di diritto e politica giudiziaria. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

Tutto finisce a questo mondo, anche gli imperi_ di Roberto Buffagni

 

Italiaeilmondo ha appena pubblicato, qui: http://italiaeilmondo.com/2018/01/08/il-piano-a-il-piano-b-il-piano-c_-le-attenzioni-su-trump-a-cura-di-giuseppe-germinario/  un’ interessante e preoccupante intervista a Roger Stone, che ci permette di sbirciare dal buco della serratura uno scorcio della violenta lotta di potere in corso a Washington. Alla radice di questo scontro c’è un nodo di importanza storica: l’Impero americano ha superato il culmine della sua parabola ascendente, è overextended, incerta la sua egemonia mondiale, in crisi il suo sistema di alleanze e la sua coesione interna; e la sua potenza militare, per quanto tuttora insuperata, colleziona da decenni vittorie operative e sconfitte strategiche. Le risposte possibili alla sfida sono due: un rilancio di potenza espansiva, o un ripiegamento strategico. La prima risposta può rivelarsi una fuga in avanti dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente rovinose, la seconda un consolidamento in apparenza saggio, ma in realtà più pericoloso della fuga in avanti, perché di fatto irrealizzabile.

I due campi non coincidono al millimetro con i due grandi partiti americani, anche se nel Partito Democratico la vocazione mondialista è maggioritaria e consolidata, e la tradizione nazional-conservatrice, per quanto minoritaria, non è del tutto spenta nel Partito Repubblicano. Gli interpreti più autentici della risposta “rilancio di potenza” sono i neoconservatori, un gruppo di potere “mondialista” ideologicamente coeso ma politicamente bipartisan. I sostenitori della risposta “ripiegamento strategico” sono un gruppo di potere grosso modo “nazionalista”, ideologicamente frammentato, politicamente radicato nell’ala dissenziente del Partito Repubblicano e nella galassia apartititica della Alt-Right.

L’urgenza di dare una risposta al problema storico dell’Impero si è manifestata nell’ascesa alla Presidenza di Trump, un uomo estraneo all’establishment imperiale; la violenta reazione dell’establishment illustra quanto alta sia la posta in gioco, e gareggiando in avventatezza con la sconclusionata direzione politica di Trump, rischia di scassare e delegittimare le istituzioni statunitensi.

Che una decisa sterzata alle strategie imperiali americane sia necessaria, sembra chiaro. Il problema è che la politica, come in generale la vita umana, è tragica perché non si fa con il senno di poi, ma nell’angoscia dell’ignoranza e dell’incertezza, e sotto il gravame delle scelte, degli errori e delle colpe del passato. Ad esempio: è possibile cambiare non solo direzione, ma natura dell’Impero americano? Perché un consolidamento difensivo imperiale, come quello proposto da E. Luttwak nel suo recente libro La grande strategia dell’impero bizantino[1], sembra sì una scelta prudente e quasi obbligata: ma non è affatto detto che sia una scelta possibile. Sin dalla loro nascita, gli Stati Uniti d’America si trovano di fronte due vie possibili: repubblica (confederale, aristocratica, centripeta) o impero (federale, democratico, centrifugo). Il bivio è così profondamente inciso nell’immaginazione americana che lo ritroviamo, tale e quale tolto il nodo della schiavitù, nella saga di maggior successo di tutta la storia del cinema, Guerre stellari. Per ottant’anni gli USA sono riusciti a rinviare la scelta della via da imboccare, ma il 12 aprile 1861 il momento della scelta è arrivato, ed è costato circa 750.000 caduti sul campo, più la morte di un numero imprecisato di civili e uno strascico di divisioni e rancori non ancora riconciliati. Stime recenti valutano le sole perdite sul campo in un 10% di tutti i maschi in età militare  (20-45 anni) al Nord, 30% al Sud.

La vittoria dell’opzione federale ha deciso anche la natura sui generis dell’Impero americano: un impero democratico e ideocratico (vi si appartiene per adesione ideologica, non per radicamento territoriale, etnico, storico), e dunque costantemente espansivo, non ecumenico (centro di un mondo) ma tendenzialmente universale: il simbolo immaginale più profondamente impresso nella psiche americana, da allora in poi, sarà la Frontiera, che sempre va inseguita e sempre si allontana, come l’orizzonte dominato dallo sguardo dell’animale totemico degli USA, l’aquila marina incisa sul Grande Sigillo del Governo Federale americano[2].

In estrema sintesi e sul piano strettamente politico, il dubbio è questo: è possibile all’Impero sui generis americano rinunciare all’espansione illimitata, riconvertirsi e consolidarsi in una repubblica nazionale che si limita a dominare il Continente e a intervenire nel mondo solo quando sono in gioco i suoi interessi vitali? Perché dalla fine della Guerra di Secessione in poi, le molteplici e profonde linee di frattura politica interne alla madrepatria imperiale – fra Stati e governo federale, fra Stati del Nord e del Sud, fra etnie, lingue e razze, fra centri e periferie, fra confessioni religiose, fra confessioni religiose e laicismo politically correct, etc.  –  non hanno innescato conflitti incomponibili perché tutte le mille frizioni latenti sono state deviate e risolte nell’espansione imperiale: ideologica, militare, economica, e last but not least psichica; perché gli USA sono un impero euforico e geneticamente ottimista: il tono del suo umore è maniaco-depressivo, e la fine della fase maniacale lo precipita in una depressione psichica che innesca una crisi politica profonda, come dimostra l’altra crisi che, dopo la Guerra di Secessione, ha messo a rischio l’esistenza simbolica degli USA: la Grande Crisi del 1929.

L’Impero statunitense può essere distrutto soltanto dall’interno, come sapeva bene il suo fondatore Abraham Lincoln: “Dovremmo temere che qualche gigantesca potenza militare d’oltreoceano lo attraversi e ci schiacci in un colpo? Mai! Tutti gli eserciti di Europa, Asia e Africa congiunti, con tutti i tesori della terra (escluso il nostro) a finanziarli, con un Bonaparte a comandarli, mai riuscirebbero con la forza a bere un sorso del fiume Ohio o a tracciare un sentiero sul Blue Ridge, neanche se ci provassero per mille anni. Da dove dobbiamo temere che venga, allora, il pericolo? Rispondo. Se mai il pericolo ci raggiungerà, esso dovrà scaturire in mezzo a noi; non può venirci da fuori. Se la distruzione è il nostro destino, dovremo noi stessi esserne autori e responsabili. Dovremo per sempre vivere come nazione di uomini liberi, o morire suicidi.”[3]

La situazione odierna degli USA di Trump, insomma, richiama alla mente per analogia la situazione dell’URSS di Gorbacev, un altro impero sui generis perché (in parte) ideocratico, scosso da una crisi profonda. Per ricordare quanto grave fosse la crisi dell’URSS, ecco alcune testimonianze in diretta di membri della sua classe dirigente dell’epoca:

L’ottusità del paese ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto.” N.I. Ryzkov, segretario e capo del Dipartimento economico del Comitato centrale con Ju. I. Andropov, e K.U. Cernenko, poi primo ministro con M.S. Gorbacev.

Sono anni che tradisco me stesso, dubito e mi indigno tacitamente, cerco ogni tipo di scuse per addormentare la mia coscienza. Tutti noi, soprattutto la classe dirigente, conduciamo una vita doppia se non tripla: pensiamo una cosa, ne esprimiamo un’altra e ne realizziamo un’altra ancora.” E. V. Jakovlev, giornalista, ambasciatore dell’URSS in Canada, collaboratore di M.S. Gorbacev.

Nessun nemico avrebbe potuto conseguire quello che abbiamo conseguito noi con la nostra incompetenza, ignoranza e autoincensamento, con il nostro separarci dai pensieri e dai sentimenti della gente comune.” Generale Markus Wolff (“Mischa”), capo dei servizi segreti della D.D.R.[4]

E’ a questa crisi caotica e dissolutiva che Gorbacev tentò di rispondere. Ora sappiamo com’è andata, cioè molto male: ma non tentare una risposta, continuare come prima era impossibile. Era possibile rispondere alla crisi consolidando anziché dissolvendo? Quanta parte di responsabilità hanno avuto i limiti personali di Gorbacev e della sua cerchia nell’esito infausto della riforma imperiale? Sarebbe bastato che al timone dello Stato ci fosse un uomo migliore? Per concludere l’analogia: Trump è forse il Gorbacev americano?

Altri imperi, prima del sovietico e dell’americano, hanno tentato di rispondere alle crisi storiche che li hanno colpiti, di solito all’inizio della parabola discendente, dopo aver superato il culmine della potenza e dell’espansione. All’Impero romano riuscì, con Adriano, il consolidamento difensivo, che garantì secoli di equilibrio; ma la crisi interna, economica e politica, non si arrestò, e con i Severi giunse al punto di non ritorno: il segno fatale fu l’emigrazione di percentuali significative di cittadini romani dalle zone amministrate dai funzionari imperiali alle zone amministrate dai barbari, le cui pretese fiscali erano assai più miti di quelle degli esattori romani:[5] se ne angosciava sul letto di morte l’imperatore Settimio Severo. L’impero spagnolo entrò nella sua crisi storica, economica e politica, pochi decenni dopo aver raggiunto la sua massima espansione con le conquiste americane. E’ un monito istruttivo rileggere le proposte di riforma economica e politica degli gli arbitristas della Scuola di Salamanca[6], diverse delle quali, esaminate con il senno di poi, sembrano diagnosticare con precisione i problemi di fondo e proporre soluzioni brillanti: eppure, sempre col senno di poi, sappiamo come andò.

Oggi, come allora i sudditi dell’Impero romano o spagnolo, non sappiamo come andrà. Vedremo, e per la verità non vedremo soltanto, perché purtroppo non siamo seduti nelle poltrone di un cinema per assistere all’emozionante kolossal La crisi dell’Impero americano, ma ci troviamo in una periferia non troppo lontana dal centro imperiale e per nulla esente dalle conseguenze delle sue scelte, giuste o sbagliate che siano.

L’unica cosa che sappiamo, come già allora sapevano i romani e gli spagnoli, è che tutto finisce, a questo mondo: anche gli imperi, e anche noi.

[1] V. qui una buona recensione: http://www.imperobizantino.it/la-grande-strategia-dellimpero-bizantino-di-edward-n-luttwak/

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Stemma_degli_Stati_Uniti_d%27America

[3] Abraham Lincoln, 27 gennaio 1838, discorso agli studenti dello Young Men’s Lyceum di Springfield, Illinois:  “The Perpetuation of Our Political Institutions”. Qui il testo originale: “Shall we expect some transatlantic military giant to step the ocean and crush us at a blow? Never! All the armies of Europe, Asia, and Africa combined, with all the treasure of the earth (our own excepted) in their military chest, with a Bonaparte for a commander, could not by force take a drink from the Ohio or make a track on the Blue Ridge in a trial of a thousand years. At what point then is the approach of danger to be expected? I answer. If it ever reach us it must spring up amongst us; it cannot come from abroad. If destruction be our lot we must ourselves be its author and finisher. As a nation of freemen we must live through all time or die by suicide.”.

[4] Citazioni tratte da Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado, Il Mulino, Bologna 2008.

[5] . Salviano di Marsiglia, De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[6]  V. qui un riassunto ben fatto: http://spainillustrated.blogspot.it/2012/01/arbitrismo-politico-economico.html