LA PRIMAVERA EUROPEA, di pierluigi fagan

LA PRIMAVERA EUROPEA.

Sembrerebbe che lo schema delle “primavere di popolo” con cui gli americani hanno cercato di pilotare eventi politici nel mondo arabo, poi Ucraina ai tempi di piazza Maidan, Hong Kong, abbia oggi messo nel mirino un obiettivo davvero impegnativo: l’Europa. Codice colore: giallo e blu.

Nel breve di una giornata all’inizio del conflitto russo-ucraino, tedeschi, francesi, italiani sono passati da un certo sconcerto di contro-piede per quanto stava facendo la Russia, stato di sconcerto che però non prevedeva affatto di rinunciare ai propri interessi, all’allineamento unanime sanzionatorio. Non discuto la logica sanzionatoria, quello che mi ha colpito è la velocità e totalità dell’improvvisa polarizzazione. Può darsi io sia viziato dalla logica realista che si basa su analisi degli interessi razionalmente perseguiti e non capisca come l’enormità di ciò che hanno fatto i russi possa sollevare animi e coscienze. Può darsi. Però da quanto a mia conoscenza è difficile spiegare come il ministro Franco esca dall’Ecofin dicendo che non se ne parlava proprio di escludere la Russia dal SWIFT o Scholz diceva che certo non si poteva toccare il Nord Stream 2 e poche ore dopo la Russia veniva esclusa dallo SWIFT e il Nord Stream diventava “un pezzo di metallo in fondo al mare” come trionfante celebrava la Nuland.

Già, la Nuland, quella di “fuck the UE” ai tempi della rivolta di piazza Maidan nel 2014, la rivoluzione arancione ucraina. La moglie di Robert Kagan, lo storico e politologo neo-con che si definisce “liberale interventista”, lascia il partito repubblicano e diventa un sostenitore della Clinton, scrive nel 2017 che la Terza guerra mondiale avverrà per contrastare l’espansionismo russo e cinese. Ci si potrebbe scrivere un intero post su Kagan, andatevi a fare una ricerchina su Google.

Ad ogni modo, ripeto, non discuto le posizioni politiche improvvisamente prese dall’UE, mi lascia perplesso quel “improvvisamente”. Gente notoriamente indecisa su tutto ed il contrario di tutto, trova magicamente l’allineamento in un pomeriggio. Curioso.

Su Zelensky abbiamo già scritto anche troppo. Rilevo solo come il suo ufficio propaganda abbia l’invidiabile capacità di muoversi come una struttura di levatura globale. Lancia messaggi ai parlamenti europei, va in diretta nelle piazze europee che manifestano contro la Russia, sono impegnati ora in una contrastata trattativa con gli israeliani che gli vogliono negare il discorso al proprio parlamento, chissà perché. Ieri Repubblica ha pubblicato in video inquietante della propaganda che ci dicono ucraina pensando noi si sia scemi. Con effetti speciali hollywoodiani che nessuna post produzione di Kiev sarebbe in grado di produrre, le scene mostrano Parigi sotto bombardamento. Molto realistico e “catastrophic-movie” con alla fine la domanda del perché i francesi non consentono alla NATO di imporre la no-fly-zone sull’Ucraina. Ieri Repubblica dava notizia della prima manifestazione europea in favore della no-fly-zone a Londra, convocata da una sedicente neonata organizzazione “London Euromaidan”, sembra un format, no?

Sono diciassette giorni che Zelensky, tutti i giorni, più volte al giorno, come un disco rotto, reclama la no-fly-zone, finora negata ma quanto a lungo resisteremo all’indignazione? Il tutto in un crescendo di insopportabilità: bambini straziati, centrali atomiche con perdite, crimini di guerra, inumanità, armi chimiche e batteriologiche, sindaci torturati, fosse comuni poi arriveranno i campi di concentramento in Siberia, mentre l’Armata Rossa minaccia di invadere casa vostra. E quando ci sarà l’incidente nucleare per colpa russa, che sono giorni che viene annunciato? O quello biochimico? Sarete ancora contro la no-fly-zone allora?

Impressionante anche il perfetto allineamento dei giornalisti. Anche qui, in men che non si dica, gente anche posata e non incline all’estremismo per quanto di note simpatie politiche chiaramente atlantiste, simpatie ed interessi, è diventato un campo magnetico orientato alla perfezione, quasi coordinato, improvvisamente. In tutta Europa, ora vige la logica del 1914 che Canfora ieri ricordava con un certo sconcerto. Superato poi dallo sconcerto di vedere Rampini evidentemente alterato che gli intimava di non dire sciocchezze perché Canfora era solo un “provinciale” (!).

Nella primavera del 1914, tutta Europa era sulle tiepide e fiorite ali della Belle Epoque, in pochi mesi precipitò nell’incubo. Persone che si stimavano e forse anche si volevano bene, si ritrovarono improvvisamente ostili l’un vero l’altra, l’uno improvvisamente preso dal virus bellico, l’altra perplessa e sconcertata. Paralizzati ad argomentare contro la potenza chiarificatrice dello slogan urlato. Lo sconcerto durò poco anche perché s’imposero forme di ostracismo sociale per via culturale a tutti coloro che non vibravano all’irresistibile richiamo della giusta guerra. In questi giorni, avrete notato le liste di proscrizione per i “filo-Putin”, l’aggressività bavosa dei pitbull mediatici, il bombardamento h24 che rilancia i comunicati delle Zelensky&Partners, il totale oscuramento della “voce del nemico”. Tutto ciò è già percolato nella mentalità di massa.

C’è un potere assoluto del discorso unico e Lord Acton ricordava che se il potere corrompe, il potere assoluto corrompeva assolutamente. Per questo Montesquieu promosse la suddivisione e pluralità dei poteri perché ogni tesi deve esser mitigata dalla sua antitesi, altrimenti diventa dogma. Ma i liberali reali sono spariti di colpo, ora ci sono solo liberali interventisti, aggressivi, mono-maniaci, i liberali idealisti. Ogni disastro storico è stato fatto sulle ali di un idealismo non temperato dal realismo. Tipo convincersi di essere una civiltà superiore. Son quelli del “c’è un aggredito ed un aggressore”, come se fossimo stupidi e non ce ne fossimo accorti o fossimo deviati dalla propaganda russa che semplicemente è stata silenziata su ogni possibile canale, a meno di non leggersi la TASS su twitter in cirillico. Il motore che portò quella primavera nel buco nero dell’estate e successivi anni del 1914 fu proprio l’imposizione di questa logica, la logica dicotomica che prende un frame del processo della realtà che è storica, lo schiaccia sull’attualità e ti chiede di scegliere tra A o B e non ti azzardare a fare sofistica da terza posizione. Il campo semantico è tracciato se non sei dentro sei ostracizzato e non hai voce, non sai neanche quanti sono indisponibili a finire in quel campo, sei un isolato e quindi è meglio rinchiudersi nel tuo disagiato silenzio privato. Noi qui diamo voce a quel disagio affinché non rimanga privato.

Come ho avuto modi di dirvi i primi giorni, io mi occupo per lo più di mondo e complessità, il mio interesse per la geopolitica deriva da ciò ma non copre tutto l’argomento che è più vasto e complesso. Tuttavia, negli anni, mi sono più volte interessato a questioni geopolitiche. Prima che razionalmente, già dal secondo giorno dopo il 24 febbraio ho “sentito” che qualcosa non era normale. Era una sensazione data proprio da questa reazione pubblica che sembrava troppo pronta, troppo unanime, troppo svelta, troppo organizzata lì dove le complessità della politica e del pubblico dibattito normale ha sempre reso i processi di reazione lenti, contradditori, complicati. Le cose in quei campi non hanno mai funzionato così e sebbene l’eccezionalità degli eventi porti a dover considerare l’accelerazione, ciò non giustifica del tutto ciò che è successo, come è successo, perché è successo. Per questo ho smesso i miei panni naturali di studioso distaccato e ho sentito necessità di scendere in strada a combattere con l’uso della ragione in pubblico.

Poco fa ho letto un articolo dello stimato sito di analisi politica americana “Politico”. Era un articolo inusuale, un vero e proprio killeraggio contro Macron e questo sua “ostinazione” a continuare a telefonare a Putin. Ho anche letto sul JPost israeliano la Nuland “che ha messo in guardia Gerusalemme dall’essere un rifugio per “denaro sporco” mentre si dice di un nervoso Biden che impone a Tel Aviv di unirsi alle “democrazie combattenti” elevando più serie sanzioni a Mosca, sbrigandosi ad inviare armi letali in Ucraina assieme a tutti gli altri. Il tutto mentre ministri e funzionari ucraini attaccano questa incertezza o diverso punto di vista israeliano neanche fossero diventati i padroni del mondo politico occidentale. Attaccare gli israeliani non è cosa facile, chi segue queste cose sa di cosa parlo.

Orami siamo circondati da gente aggressiva che ci tiene a farti sapere quanto fai umanamente schifo perché non ti unisci al coro del Grande Sdegno Morale o meglio, preso atto che ovviamente anche tu ritieni inaccettabile la violazione del principio di inviolabilità dei confini con forze armate, fai schifo perché non ti fermi lì. Perché ti fai domande su come siamo finiti in questo pasticcio, come finirà, quali saranno le conseguenze, cosa significa dopo ottanta anni vedere in televisione gente che parla di bombe atomiche come fossero bombe alla crema, con la stessa acquolina nella mente. La Bomba è d’improvviso il “new normal”. London Maidan, non si fanno manifestazioni per chiedere al Governo britannico perché ha preso solo decine di rifugiati quando noi ne abbiamo preso 35.000, no! si va in piazza a chiedere la no-fly-zone per l’Ucraina.

Sudeti, valori delle Resistenza, Guerra civile spagnola, fioccano le analogie a sproposito per eccitare gli animi e sguinzagliare i mastini del nuovo movimento giallo-blu per la guerra al novello Hitler. Ve l’ho detto, tutto ciò m’inquieta, tutto ciò è molto meno normale di quanto comincia a sembrarci.

L’obiettivo non è solo l’Europa, l’obiettivo è rifare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, cacciare Russia e Cina, imporre l’ordine economico e finanziario americano, affinché il 4,5% della popolazione mondiale o meglio una sua élite, possa tramite la sua egemonia benevolente, prorogare il dominio che i neo-con americani della “rivoluzione permanente” hanno già intitolato nel 1997 come il loro condensato strategico: The New American Century.

Con le buone o con le cattive. A qualsiasi prezzo. Anche quello che fino a due settimane fa e per ottanta anni è stato l’impensabile.

https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/03/13/la-primavera-europea/

SULL’ALBA DI TUTTO, di Pierluigi Fagan

ALL’ALBA DEGLI STUDI SULL’ALBA DI TUTTO.

Discorso ampio sul “problema dell’Origine” stimolato dalla lettura di: D. Graeber, Di. Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, 2022.

La storia umana sembra si sia svolta in un modo per il 99,8% del suo tempo per poi dar vita a tutt’altro modo per il solo 0,2% del suo tempo, che è poi quello che arriva fino a noi. Queste percentuali si basano sulla lunga storia dell’umano che parte dalla comparsa della nostra specie da una parte e sul limitato tempo che chiamiamo Storia ovvero nascita e sviluppo delle civiltà, dall’altro, tre milioni di anni da una parte, cinque-sei migliaia di anni dall’altra. Poiché noi siamo figli tanto della biologia che della storia, è interessante domandarsi cosa provocò questo Big Bang delle civiltà. Forse capendo meglio cosa lo provocò, capiremo meglio le cause a fondamento delle nostre attuali forme di vita associata. Così come la ricerca biologica ci sta permettendo di arrivare a manipolare la natura per renderci la vita più facile, la ricerca su questo aspetto della nostra storia potrebbe permetterci di capire come costruire meglio le forme delle nostre società e come fare intenzionalmente la storia, piuttosto che continuarla a subire.

È questo l’ambito in cui si sviluppa il lavoro di un antropologo americano, David Graeber e un archeologo britannico, David Wengrow, nel loro: “L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità” che ha avuto una ricezione importante soprattutto in ambito anglosassone. Useremo il loro testo per pensare con loro intorno a questo tema. Il tema è ad altissima sensibilità politica. A seconda di come leggerete la genetica del fenomeno, darete significati diversi ai concetti di uomo, società e politica, passato-futuro. Graeber è politicamente piuttosto famoso essendo stato dichiaratamente anarchico (si usa il passato perché nel frattempo è morto due anni fa, poco dopo aver finito il libro). Allievo di Marshall Sahlins, tra i promotori del movimento Occupy Wall Street, autore di molti altri testi politici interessanti[1]. Di Wengrow ho meno da dire se non che evidentemente condivide con Graeber molte forme della stessa immagine di mondo tanto da aver condiviso con lui altri studi pubblicati, sebbene si sia dedicato più all’archeologia comparata, con fuoco principale proprio su processi di formazione dei primi Stati. Chi scrive, politicamente, si definirebbe democratico radicale, oltre a non essere di cultura anglosassone, né archeologo, né antropologo, ma studioso delle varie forme di complessità. Chiarite le reciproche posizioni di immagini di mondo, entriamo più nel merito.

Come detto, il tema è quello dell’Origine non dell’uomo ma delle sue più complesse forme di vita associata e per entrare nel merito inquadriamo un po’ lo stato delle conoscenze e delle idee sul tema stesso. Dopo il lungo dominio delle storie versioni Antico Testamento, ha fatto seguito il contrapposto disegno sulle prime forme sociali ipotizzato da Hobbes e Rousseau. I due “ipotizzavano” al netto di ogni reale conoscenza concreta. Nel XIX secolo, subito dopo l’Origine delle specie di Darwin (1859) che tanto eccitò Marx, questa attenzione su quella che chiameremo “il problema dell’Origine”, comincia a rivolgersi di nuovo proprio all’Origine sociale con “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di Friederich Engels in quel del 1884[2]. L’opera di Engels successiva la dipartita di Marx, elaborava loro scambi di idee mossi dall’altrettanto avida curiosità di Marx riguardo questo tema. Si sa di questa ultima divorante passione intellettuale del tedesco dalle note lasciate a seguito delle letture da lui fatte di opere antropologiche di L. H. Morgan e H. S. Maine[3]. C’è chi dà colpa a questa ultima divorante curiosità e passione, per spiegare il perché Marx non terminò mai la revisione per la pubblicazione del secondo e terzo libro del Capitale sebbene sappiamo dalla corrispondenza privata, Engels lo pressò a lungo a riguardo, ma inutilmente. L’opera di Engels declinava il nucleo del “materialismo storico” nella lettura dei fatti antropologici soprattutto sui nativi americani, secondo le conoscenze di allora ovvero circa centoquaranta anni fa. Se la conoscenza antropologica era ai primordi sia per ampiezza (i soli nativi americani, più che altro irochesi), sia per metodi, la conoscenza archeologica era ancora lungi da affiancarsi. L’argomento, quindi, permetteva la totalmente libera proiezione ideologica. Tanto per dirne una, alla data dell’uscita dell’opera di Morgan, Darwin stava ancora litigando con suoi vari detrattori sostenendo che il tempo della storia della vita non era lungo solo seimila anni come previsto dalle Scritture[4], ma molto e molto più esteso. L’idea che l’uomo avesse tre milioni di anni non era proprio pensabile, come ignoto era la Terra ne avesse 4,5 miliardi di anni. Di conseguenza del tutto ignoto che prima di Babilonia vi fosse stata una lunghissima storia. Dato il poco spazio mentale per la variabile “tempo”, va da sé che la complessità della vita potesse aver avuto causa solo in un atto di creazione di tutto in poco tempo e lo svolgimento della storia umana e sociale mostrasse cambiamenti con “teorie interruttore”, dove cioè una sola causa creativa (recente) determina tutto il successivo. Come Dio, si credesse o meno alla sua esistenza, l’uomo creava cose che cambiavano il mondo, a salto. Così, a salto, sembrava fosse da razionalizzare la rivoluzione industriale inglese nel cui contesto temporale pensavano a scrivevano Morgan, Maine, Marx, Engels.

Da allora il registro etno-antropologico è diventato una corposa enciclopedia di casi e conoscenze, espandendosi nello spazio e nel tempo e soprattutto, raffinando progressivamente anche i metodi e le griglie interpretative. Va però segnalato che nel registro etno-antropologico troverete come esistenti le più varie forme di vita associata, da quelle estremamente egalitarie e pacifiche a quelle verticali e belliche, questioni di gusto ed opportunità fanno scegliere agli studiosi questo o quell’esempio come più significativo[5]. Dopo l’antropologia, arriverà l’archeologia e va detto che se il volume del sapere archeologico è meno espressivo ha però il pregio di esser concreto mentre quello antropologico lo è altrettanto se ci riferiamo agli aggregati umani studiati in vivo, ma diventa più problematico se si usano questi casi per retroproiettare le conoscenze come fossero conoscenze su “fossili viventi” nel tentativo di diradare le nebbie su come effettivamente vivevano gli antenati del tempo profondo. Altresì, le nostre conoscenze archeologiche sull’argomento sono comunque molto aumentate e migliorate negli ultimi decenni, sia perché sono aumentate in quantità (scavi), sia perché è molto migliorata la nostra capacità di trarne informazioni. Dalle datazioni alla paleobiologia, dalla paleoclimatologica ed ecologia alla comparazione, all’estensione temporale indietro fino alla paleoantropologia, l’analisi genetica delle popolazioni, la capacità interpretativa si è amplificata. Questo movimento espansivo delle conoscenze è tutt’ora in corso e non è raro leggere opere anche solo di qualche decennio fa, oggi del tutto falsificate da scoperte o interpretazioni successive più recenti. L’intero processo è comunque gravato da condizionamenti ossia chi scava e finanzia gli scavi, come e perché lo fa e perché si sceglie di scavare qua e non là, chi interpreta ed in base a quali conoscenze; quali sistemi di idee, ideologie, paradigmi ed apriori si usano per interpretare, forme delle istituzioni della conoscenza, etc. Come detto, la natura potenzialmente “politica” di questo tema chiama questi condizionamenti anche più che in altri campi. Così come ogni altro argomento, anche questo risente dagli andamenti delle conoscenze del tempo. Nel senso che quanto si dice in merito, deve fare i conti anche con ciò che si ritiene oggi “vero” in molte altre discipline, dalla biologia evolutiva ai vari impianti di analisi storico-sociale.

Tutto ciò ci porta a segnalare due primi problemi nell’approccio dei due studiosi anglosassoni. Sebbene all’inizio segnalino questo problema del rapporto tra conoscenze antropologiche ed archeologiche citando una sorta di invito alla massima cautela proferito a suo tempo da Levy Strauss, le parti di Graeber che è un antropologo, sembrano a volte violentare i fatti archeologici trasferendo modelli della sua disciplina per riempire i vuoti di conoscenza che tutt’ora si hanno, abbondanti rispetto a quanto si mostra in archeologia. S’intenda, queste retroproiezioni sono di principio scorrette ma non sempre o non del tutto improprie, è un confine delicato da valutare e discutere caso per caso. A noi sembra che, in alcuni casi, Graeber sia andato un po’ oltre. I gruppi di cacciatori-raccoglitori studiati dall’Ottocento in poi, mai si trovavano nelle stesse condizioni degli antenati. Spesso assediati dai più o meno moderni, a volte con loro anche in saltuario contatto, limitati territorialmente nello spazio e nelle risorse, alle prese non con le ecologie e climi del tempo profondo, anche il ricercatore spesso turbava i loro comportamenti per il solo fatto di osservarli e studiarli. Erano quindi senz’altro viventi, ma fossili non proprio. Dal punto di vista dell’adattamento, gli antichi cacciatori raccoglitori e quelli recenti, si trovavano in due contesti diversi. Nei casi di queste varie tribù o addirittura popoli citati, c’è raramente una quantificazione demografica, propria e dei vicini, ma a volte queste fanno la differenza. Altresì, l’argomento chiama a conoscenze molto estese che non sempre si rinvengono nel testo, ed i due, a volte, sembrano prendere un po’ troppo alla leggera considerazioni demografiche, ecologico-ambientali, tecnologiche, femministe, apporti di biologia evolutiva ed altro.

Un problema epistemologico simile a quello dei rapporti tra antropologia ed archeologia, c’è nell’utilizzo della primatologia. Poiché discendiamo biologicamente dai primati, osservando questi potremmo dedurre alcune componenti fondamentali del nostro modo di essere? Ciò non è sbagliato in via di principio, però è molto delicato farlo. L’umano mostra, ed anche precocemente, una mente ben diversa in termini di intenzionalità. Dato che ex post possiamo rilevare la profonda diversità di capacità adattiva tra scimmie ed umani, le prime di popolazioni ancora contenute e confinate a precise nicchie ecologiche mentre noi siamo oggi alla soglia degli 8 miliardi ed ambientati dappertutto, capire quanta ancora “scimmia” abbiamo in noi è complicato. In più c’è da vedere anche quale scimmia, se ad esempio scimpanzé o bonobo stante che in realtà noi discendiamo con loro da un’altra specie ancora non individuata. Ma poi c’è anche il problema di capire come questi primati cugini che studiamo, mostrino gli stessi comportamenti di quelle più antiche ambientate nei contesti ecologici dei tempi più profondi. Ed anche quanto valgano le osservazioni dei vari soggetti nell’ambiente artificiale dei laboratori per esprimenti comportamentali o quelle fatte in vivo naturale e con quanta invasività degli osservatori.  G-W, comunque, risolvono il problema alla radice in quanto non si occupano del tutto dell’argomento visto che la parte del loro studio relativa al paleolitico è riservata a poche paginette dedicate al solo paleolitico superiore che inizia, circa, 50.000 anni fa. Peccato però perché alcune scoperte sul nostro essere nel paleolitico sarebbero state più pertinenti da usare nello studio che non convocare questa o quella tribù o popolo di qualche secolo o decennio fa.

Chiariti alcuni aspetti metodologici, entriamo più nel merito segnalando che l’avversario ideologico principale dei due è la modalità del ragionamento teleologico. Questo tipo di ragionamento parte da uno stato di cose, analizza i processi che l’hanno causato, vi trova le inderogabili ragioni per cui così è andata perché non altrimenti poteva andare visto che il tutto aveva una sua finalità intrinseca e prescritta[6]. Tutto ciò urta la loro aspirazione alla libertà umana e sociale, quindi politica. I due intendono combattere questo tipo di ragionamento applicato al problema dell’Origine delle forme di vita associata umana lungo il percorso che portò piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori mobili, a formare società stanziali massive di tipo gerarchico. Lo sviluppo del discorso coinvolge nostre idee su cos’è l’uomo, le sue forme di vita associata, le forme politiche, il potere e le gerarchie sociali, uguaglianze e diseguaglianze, le libertà, la storia stessa che questa ha preso nei suoi svolgimenti, le variabili che hanno concorso ai vari esiti. Va da sé che “un altro mondo è possibile” solo se si rifiuta il ragionamento teleologico. Quindi, in breve, la loro tesi è che le cose non sono veramente andate come ci siamo sin qui raccontati e quindi non è vero che così dovevano andare e quindi il nostro attuale stato di cose si può immaginare trasformabile poiché la storia prima della Storia è stata più varia e libera di quanto l’abbiamo pensata e scritta. Se così si mostra, secondo loro, nel profondo passato, così può esser oggi e per il futuro, quindi “un altro mondo è possibile”.

Ma su questo svolgimento c’è da fare un appunto. Questa forma di determinismo evoluzionista, peggio poi quando è applicato al campo sociale con abuso di analogie precarie, è tipica di certa cultura anglosassone ed i due sono immersi del tutto nell’ambiente culturale anglosassone (oltre esserlo loro stessi). Graeber ha anche avuto anche non pochi problemi accademici per le sue opinioni e metodi e si ricorda che era anglosassone, ma americano. Noi sottovalutiamo in genere questa geo-cultura delle immagini di mondo. Convinti che la pensiamo tutti nello stesso modo in quanto occidentali, non notiamo a sufficienza che la nostra menetalità “continentale” non coincide sempre del tutto con quella anglosassone viepiù quella americana. L’operazione condotta da G-W prende allora di mira i principali singoli punti del tema e compie una revisione critica dicendo che le cose sono andate molto diversamente da come si sostiene nel loro vasto campo di studi. Ma non è che l’impianto teleologico non stia in piedi perché i suoi assunti siano sempre singolarmente infondati, non sta in piedi prima di entrare nell’analisi dei singoli punti, non sta in piedi come logica dell’impianto di ragionamento. Lo segnaliamo perché la furia critica usata dai due nell’operazione, a volte fa forse un po’ troppa confusione buttando via bambini con le acque sporche. Qui, una certa ingenuità filosofica ed anche una limitazione della multidisciplinarietà ha giocato un ruolo negativo alla loro argomentazione. Nel caso della fatidica “origine delle diseguaglianze” non c’è alcuna logica sostenibile che porti obbligatoriamente dalla lettura del perché e come sono nate al conseguirne che così è giusto che sia e debba esser per sempre. Non era necessario arrivare a negare l’egalitarismo tendenziale degli antichi gruppi di caccia e raccolta, idea questa largamente condivisa dalla maggioranza degli studiosi, molti di fede politica anche vicina se non del tutto coincidente proprio con quella di G-W. Ma tutta la faccenda è molto complessa quindi sarà il caso di entrare ancora più nel merito specifico, punto per punto. E come annunciato, su molti di questi punti faremo anche discorsi più ampi.

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Vediamo i punti di teoria generale che i due autori attaccano. Il primo punto che mi sento molto fortemente di condividere è l’insopportabile condimento moralistico alle teorie. Non c’è ragione di pensare che l’uomo antico fosse “buono” e dopo anche “cattivo” (Rousseau) o “cattivo” da sempre ed anzi un po’ “meno cattivo” dopo poiché ingabbiato nelle regole civili (Hobbes). Quelle che ci sembrano bontà e cattiveria sono giudizi variabili su variabili comportamenti umani in entrambi i casi sollecitati dalle situazioni. Giudizi propri di immagini di mondo recenti applicate a forme del tempo profondo, un anacronismo. L’uomo ha una essenza molto varia che tocca punte di modi di essere diametralmente opposti, forse è la sua stessa vincente lunga storia adattativa ad aver modulato così tanta varietà. Soprattutto la base dei fatti va separata dai giudizi che possiamo dare in ambito di filosofia morale che, rispetto a XVII e XVIII secolo, ha oggi anche senso molto più relativo. Dimentichiamo quindi ogni passione morale e concentriamoci sul capire come sono andate le cose prima di darne giudizio.

Il secondo è la critica all’evoluzionismo sociale, a varie scansioni. Qui forse gli Autori risentono dell’effettivamente indigesto evoluzionismo anglosassone (per altro, non tutto) che eccede spesso in determinismo e riduzionismo. È questo un punto in cui potrebbe partire una analisi propria del concetto di “evoluzione” (termine-concetto neanche usato nella prima edizione dell’Origine di Darwin), sviluppato dai suoi primi interpreti (Spencer) così simile all’altro coevo concetto di progresso (sempre Spencer) e poi lungo sviluppato nella nuova Sintesi moderna ancora fino a noi fino al determinismo genetico alla Dawkins e poi fino alla arrogante assertività psicobiologica di Pinker ed altri. È una faccenda che richiederebbe un suo trattato più che una nota. Se ad esempio si prova a dire più o meno quello che viene presentato come “evoluzione” sociale (ed anche biologica), parlando di adattamento invece di evoluzione, gli stessi contenuti perderebbero significato teleologico perché l’adattamento risponde ad un contesto ed i contesti sono variabili. Altresì, è vero che spesso i confini tra i vari stadi di questa presentata “evoluzione” sono incerti ed i processi a volte reversibili e molto meno lineari di quanto narrato. Qui c’è un problema proprio epistemologico ovvero le descrizioni a grana grossa e quelle a grana fine. Alcune asserzioni sulle molecole sono vere fino a che non si scende al livello degli atomi e su questi sembrano vere fino a che non si scende alla scala quantistica, è un problema di grana. Del resto, se scrivessimo sempre descrizioni di fenomeni storici a grana fine, scriveremo metri quadrati di biblioteche per le cose più semplici, dobbiamo generalizzare per ragioni di semplice economia cognitiva anche se sarebbe giusto esser più consapevoli del fatto che ciò che appare da vicino, non è quello che appare da lontano, l’inquadramento stretto è diverso da quello largo, la compressione temporale nelle descrizioni taglia una geografia dei sentieri causali molto arzigogolata fatta a volte di cause ma anche da un po’ di caso. Lo stesso nostro apparato percettivo della corteccia temporale inferiore ha nell’area V4 campi più ampi per le visioni d’insieme e campi più stretti V1 per le messe a fuoco limitate ma più precise, ma alla fine noi andiamo di continuo avanti ed indietro tra le due per la percezione complessiva[7]. Nella conoscenza, questo avanti ed indietro è più problematico da trovare in un singolo autore. Altresì si deve vigilare su queste necessarie riduzioni del discorso che nella gran grossa sintetizza la pluralità ed a volte contraddittorietà della grana fine, ma purtroppo si deve accettare il fatto di farle se vogliamo cogliere nel nostro limitato spazio mentale intere veste porzioni del fenomeno del mondo. Ci eviteremo così lunghe ed inutili discussioni tra la supposta verità macro e quelle micro, stante che sono vere entrambe ma a grana diversa e con diversa utilità cognitiva. “Vere” perché ci sono utili e tra loro coerenti, non perché corrispondano del tutto al fondo noumenico della realtà. Infine, approcciati con una logica fuzzy che sfoca le soglie di significato, molti livelli definitori assumerebbe valori più graduali, come graduale è la varietà dei casi. Quindi “evoluzione”, nel latino ciceroniano dove il termine compare per la prima volta, significa “svolgimento”[8], queste storie dette “evolutive” sono svolgimento di forme più o meno adattive, non c’è alcun chiaro fine e quindi teleologia. La Terra non è il fine della fisica, la vita non è il fine della chimica, l’uomo non è il fine dell’evoluzione vitale, le società gerarchiche centrate sul possesso di capitale non sono il fine intrinseco dell’avventura umana in forme di vita associata. Il “non c’è alternativa” è una asserzione semplicemente ridicola.

Il terzo punto da affrontare è forse il centro del tema centrale. Deriva proprio da quell’incremento di quantità e qualità delle conoscenze archeologiche che abbiamo prima citato. Incremento che arriva però non su un foglio bianco ma su fogli e fogli di idee largamente condivise e sedimentate nelle immagini di mondo, cioè tessute con molte altre provenienti da varie discipline e con destinazione filosofica e politica rilevante. Tutto ciò forma canoni, ideologie e dà cattedre universitarie.  Rimuovere queste conoscenze condivise non è facile poiché l’intero ordito delle immagini di mondo condivise fa attrito. Lo stesso fatto si debba fare i conti con le idee di un inglese di metà XVII secolo ed un franco-svizzero del XVIII che teorizzavano su fogli bianchi, dice di quanto complicata sia la formazione e peso delle immagini di mondo. Ma di cosa si tratta nello specifico? L’intera narrazione nata nel XIX secolo in ambito britannico ed ancora molto influente sull’invenzione dell’agricoltura che avrebbe modificato i modi di produzione e questi i modi sociali, il prototipo delle teorie interruttore applicate all’Origine, non è vera in più punti ed alla fine è falsa del tutto se intesa come causa prima del salto che portò alla civiltà. L’agricoltura non fu affatto una invenzione, oltretutto tarda come prima ci sembrava, pratiche di coltivazione e varia cura del selvatico prima che di domesticazione precedono anche più di 10.000 anni il prima ritenuto, ma la conoscenza sulla seminazione è anche molto precedente[9]. Non fu quindi una rivoluzione ma una lunga transizione adattiva. Tra l’altro, che noi si sappia poco di questi tempi è un fatto, ma che noi si fondi su questa ignoranza palese l’idea che il mondo vada avanti a rivoluzioni quando nel caso abbiamo un tempo che è quattro volte più ampio di quello che mettiamo nei nostri volumi di storia generale, è assai improprio. Mai visto “rivoluzioni” che si compiono in diecimila anni, in diecimila anni si possono notare trasformazioni. Inizialmente, una certa cura del naturale prodotto vegetale aveva funzione di semplice integrazione alimentare, poi di stoccaggio per compensare i variabili risultati della caccia raccolta. Per altro silvicultura ed orticultura (quest’ultima dagli apporti anche molti rilevanti oscurati dalla nostra furia ideologica centrata sui cereali) furono anche più precoci. Quanto ancora sull’idea dell’invenzione, si è proceduto con calma allo sviluppo detto “agricolo” in qualcosa come 14 diversi luoghi del pianeta attestati archeologicamente ed altri 9 dedotti bio-geograficamente, senza poter ipotizzare e per varie ragioni, meccanismi di diffusionismo. Quindi non è stata una invenzione anche perché si è ripetuta per più di venti volte in tempi lunghi e luoghi diversi. I modi di produzione della sussistenza che per lungo tempo non sono stati solo di caccia e raccolta, ma anche pesca (e la cosa fa differenza nelle nostre descrizioni dell’uomo paleolitico, così come la “caccia” non era sempre caccia grossa), si sono progressivamente ampliati a gli apporti della silvicultura, orticultura, agricoltura del selvatico, poi agricoltura basata sulle piogge o sulle inondazioni periodiche e solo dopo nell’agricoltura dipendente dall’irrigazione e questo lungo adattamento che è durato migliaia di anni e solo alla fine arriva a collassare la grande varietà alimentare precedente nella monotonia agricola su vasta scala. E non per convenienza intrinseca della modalità a lungo evitata dagli uomini del tempo come unica fonte di sussistenza, ma per necessità per un complesso di cause come poi meglio vedremo. Infine, abbiamo a registro anche società agricole ma non per questo gerarchiche socialmente, così come società stanziali ma non per questo agricole. Occorre cioè ampliare il modello ad altre variabili se vogliamo capir meglio come ha funzionato la dinamica reale, togliendo ogni determinismo produttivo-economico quale riecheggia in teorie il cui calco è preso dalle c.d. “rivoluzione industriale” britannica del XIX secolo. Modello universalizzato come legge della storia e dell’economia moderna per varie ragioni, tra cui l’idea stessa la storia e l’economia dovessero avere “leggi”, per “invidia scientifica” nei confronti della fisica in tempi in cui furoreggiava il positivismo. Come anticipato ed ormai noto ai più che studiano l’argomento, la stanzializzazione dei gruppi umani, in più casi precede e di molto l’utilizzo dell’agricoltura nelle sue varie forme, il nesso di causa, qui come altrove, andrebbe semplicemente invertito. Fu la precoce stanzializzazione in condizioni di offerta alimentare agevole che, quando tali condizioni non furono più così agevoli, portò a finire nella mono-dimensionalità cerealicola[10]. Diversamente da come altri hanno provato a sostenere, non siamo finiti schiavi delle nostre invenzioni originariamente di belle speranze, siamo finiti in una singolarità di necessità a cui abbiamo dato un esito che ci sembra monotono solo perché adattativamente non siamo stati in grado di far diversamente. Questo nostro primo modo di adattarci, il modo degli ultimi cinquemila anni, un tempo ridicolo in termini evo-adattativi, non è l’unico modo possibile, solo quello che ci è risultato più facile perché non in grado di farlo diversamente visto che siamo finiti al centro di campi di forze causative più forti della nostra capacità di dominarle. Ma non è detto che noi si sia condannati ad esserne dominati per sempre. Capire cosa ha agito in questo fenomeno è appunto propedeutico a capire come manipolarne le variabili diversamente per ottenere altri esiti.

Qui si rivela anche la differenza portata dallo sviluppo delle nuove discipline quali la paleo-geografia, la dendro-cronologia, la paleo-botanica, la paleo-climatologia ed altre. Semplicemente, come per altre accennano i due ma ritraendosi quasi subito dal tema, da 12.000 o poco più anni fa siamo entrati in un nuovo regime climatico, l’Olocene. Già da poco prima cominciarono a sciogliersi i ghiacci, il mondo è letteralmente invaso di acqua dolce, cresce la vegetazione, crescono le popolazioni animali, cresce la biodiversità, gli umani si trovano progressivamente in una sorta di paradiso terrestre fatto di relativamente ricca abbondanza, in pochi con in tanto spazio. Ciò che ai due non piace tanto sottolineare è che, banalmente, cresce progressivamente anche la consistenza demografica delle popolazioni umane e tutto ciò ben prima dell’agricoltura. Sia quella delle dimensioni dei gruppi che anche per questo spesso si stanzializzano, sia quella della densità relativa per singoli areali, evidentemente i più “ricchi” quanto ad offerta di alimenti e condizioni di vita. Fatto quest’ultimo poi rilevante per lo sviluppo delle varie “culture”, dello scambio genetico, delle idee, delle tecniche, dei prodotti (eccedenza vs mancanze), ma alla fine, motivo anche dell’addensarsi improvviso di grandi gruppi in singoli luoghi. Quando ciò è avvenuto in certe aree ad alta densità abitativa, sono poi nati diversi problemi che infine porteranno al ripiegamento verso l’agricoltura irrigua e da qui alle dispute territoriali, quindi poi alla figura del militare ed altre classi o caste. Purtroppo, per avere prove dirette ed inequivocabilmente fondate di questa ipotesi demografica dedotta per gran parte da quella climatica, dovremmo scavare ampie zone (oggi per altro spesso abitate) ed a più strati, un impegno che siamo molti lontani da poter prendere. A noi questa “dipendenza dal contesto” sembra inequivocabile e palesemente logica senza per questo finire nel determinismo demografico o ecologico. Ragionar per complessi di cause è anti-determinista per principio, è chi è già determinista di un tipo che ti accusa di esser determinista del tipo che a lui non piace. Come, ad esempio, fanno gli economisti quando sentendo considerazioni demografiche evocano subito lo scomodo fantasma di Malthus. Infine, un effetto poco considerato di questo fenomeno durato millenni fu portare i gruppi umani ai limiti di possibilità dell’equilibrio adattivo. Quando si manifestarono, come sappiamo proprio dalla paleo-climatologia, anche relativamente leggere fluttuazioni climatiche (in Mesopotamia nel 6500 a.C. e poi nel 4500 a.C.) in direzione inversa con ripresa di temperature poco più fredde ma soprattutto molto più secche, il precario equilibrio tra grandi gruppi umani già stanziali-volumi di sussistenza-natura (ecologie e climi) spinse a ricorrere sempre più all’agricoltura irrigua. Ma ciò fissò in certi territori ed impose quella progressiva strutturazione sociale che poi leggiamo come emersione della civiltà con i suoi pro ed i suoi contro, come ogni adattamento.

Tutto questo si ritrova anche nelle antiche mitologie come perdita del “paradiso” precedente e non ci riferiamo solo a quella vetero-testamentaria che fa eco a quella più antica di Gilgamesh, c’è anche nella mitologia cinese. Ma più di tutto fa fede l’analisi della consistenza ossea e proteica degli scheletri rinvenute nelle sepolture lunga questa transizione. L’uomo perde dimensioni e forza, si manifesta un dismorfismo sessuale prima appena accennato ed aggravato dai diversi regimi dietetici che indicano anche, l’emergere di una gerarchia uomo-donna prima forse non esistente come ogni altra forma di gerarchia sociale di tipo fisso. Perde pare anche in salute generale, anche perché più monotona la dieta, carne e pesce diventano più rari e difforme ne è la distribuzione dentro i gruppi umani che provenendo dall’abbondanza ora scoprono la scarsità e la diseguaglianza delle proteine. Lo stesso vivere in tanti in poco spazio ed a contatto con animali porterà anche le prime zoonosi ed epidemie. Nelle prime città collassano non solo le precedenti reti dei villaggi di più ampi areali, ma spesso anche popolazioni ancora seminomadi e basate su caccia e raccolta di areali vicini le cui ecologie stavano cambiando. Cambiando per ragioni climatiche, ma anche perché le crescenti densità relative dopo aver vissuto per un po’ con una domanda che eccedeva l’offerta naturale, non aveva più equilibrio con il circostante, stava esaurendo le risorse. G-W ricordano correttamente quello che è già noto in questa area di studi ovvero che tutto ciò, a grana fine, non mostra alcuna linearità. Molte prove, molti fallimenti, molte scelte poi reversibili, il censimento dei tentativi cittadini, se avessimo effettivamente tutte le prove archeologiche, mostrerebbe il classico fenomeno di molti tentativi con molti errori di cui pochi o forse pochissimi si stabilizzano e diventano la base di una nuova storia.

Come si vede tra ideologia e conoscenza c’è di mezzo il modello ed il modello dipende dal numero di variabili e loro interrelazione che si adopera per sviluppare conoscenza. Meno variabili mettete più potete strattonare i fatti a seconda di dove la vostra ideologia vuole arrivare a definire la sua agognata “verità”, che invero viene stabilita prima dei fatti stessi. Si capisce che per chi ha dedicato la vita a studiare il mondo solo tramite le lenti economiche o della storia del pensiero simbolico e religioso o tramite qualche vario strutturalismo o biologismo evolutivo o qualche altra selettiva forma di visione ed interpretazione come i tecnologi, scocci prender atto di cose magari poco conosciute come i rapporti tra climi, ecologie e demografia (vegetale, animale, umana) siano state complessi di cause efficienti. Sebbene poi occorra anche qui rifuggire dal determinismo e vedere come queste nuove condizioni hanno avuto a grana fine affetto sulla assai varia e composita complessità umana, a quali modalità hanno dato vita caso per caso. Forse il caso mesopotamico che è poi quello che conosciamo meglio, non è del tutto uguale a quello cinese, che non del tutto uguale a quello vallindo, che non è del tutto uguale da quello mesoamericano. Il significato epistemologico di tutto ciò è dimenticarci la monocausa-effetto e considerare il principio di causa complessa ovvero complessi di cause non lineari.

Infine, per chiudere il punto, anche come accennato dai due in altri contesti del loro lavoro, tutto ciò ovvero il grande improvviso afflusso di acqua prima rappresa nei ghiacci ci ha indicato che le coste del tempo profondo oggi sono sotto metri e metri di acqua, fino a 120 metri o più. Dove però questi effetti si sono sentiti meno come i laghi o i fiumi, ma poi scavando anche sott’acqua di mare[11], emerge con chiarezza che vivere sulle rive e sulle coste era la preferenza, forse la prima, degli uomini antichi. Ma quanti accademici con cattedra in base a volumi e volumi scritti sulla caccia, le armi, le tecniche, l’aggressività primate del maschio paleolitico sopravviverebbero a nuove descrizioni sulla lenta raccolta di cozze e telline di uomini, donne, bambini sugli scogli antichi, cantando e giocando? Così per l’orticultura come se zucchine, fagioli, piselli, e quant’altro non assolvessero funzioni nutritive che per altro non assolvono davvero proprio i cereali. Per non parlare degli avicultori, la pesca, i chiocciolai etc. Insomma, il ricorso all’output agricolo domesticato ed irrigato manipolando i rapporti tra terra ed acqua dolce fluviale è solo la fine di un lungo processo adattivo svolto mentre le condizioni naturali che erano sensibilmente migliorate progressivamente, avevano aumentato la consistenza delle popolazioni per questo motivo, in molti casi già stanzializzate come plasticamente vediamo a Catalhoyuk[12], circa 7000 persone inurbate già 9000 di anni fa e con sussistenza mista. Consistenza interna ai singoli aggregati, ma anche loro densità territoriale. Catalhoyuk, ad esempio, sembra non aver “vicini” di prossimità, quando invece avremo piccole prime cittadine di dimensione simile, per altro in altri contesti ecologici, ma con “vicini” con cui condividere il territorio, sorgeranno altre dinamiche. Un equilibrio al limite delle capienze venne in seguito più volte turbato da oscillazioni climatiche che spinsero gli stanziali sempre più vicino ai fiumi, creando le prime città ma in alcuni casi, anche il nuovo problema degli spazi in competizione. La estrema varietà alimentare dei tempi d’oro si restrinse ai cereali per tutti e prodotti di allevamento, ma non per tutti, compensazioni di scambio tra eccedenze e mancanze con altri gruppi umani di altre ecologie. Già nel mesolitico delle aree in cui si formano le “culture” condivise tra più centri in interrelazione, vediamo spesso il formarsi di specializzazioni che poi partecipavano a reti di scambio ampie. Ma questi scambi sono anche dipendenze che poi, in successive condizioni, portano a fondere i gruppi nelle prime città. Provenendo dall’abbondanza relativa si piombò nella relativa scarsità e necessità di organizzarsi in forme complesse per farvi fronte. Questo primo impatto con la complessità venne risolto nel modo più semplificante ovvero rendendo progressivamente gli aggregati sociali dei sistemi gerarchici fissati con certe rigidità. Così è andata più o meno ovunque ma non c’è alcuna ragione di ritenere così sarà per sempre, nelle cose umane il “per sempre” non esiste, la stessa logica dell’adattamento dice che lo standard dell’essere è il divenire. Ripetiamolo, se sostituite a teoria dell’evoluzione, teoria dell’adattamento, la teleologia scompare magicamente in via logica. E soprattutto vi ricorda che i sistemi in esame (uomo, gruppi, popoli) stanno in un contesto e ne risentono, non producono dinamiche per logica propria astratta, rispondono a sollecitazioni esterne ed influiscono su queste stesse turbando i contesti.

Come vedete, se andate in multidisciplinare ed a grana fine, appare un mondo che non è quello su cui potete scrivere una critica di mezza cartella citando Hobbes, Rousseau, liberalismo e materialismo storico, individualismo o socialismo e quant’altro vi frulla per la testa dandovi il piacere di pensare che il mondo è proprio come l’avevate pensato. Sarebbe ora archiviassimo collettivamente questo complesso di idee proprie del moderno, recepissimo le novità sia sui fatti su sul come connetterli tra loro, sia sul come interpretarli. Questo complesso mentale risale nel migliore dei casi al XIX secolo quando noi europei eravamo in cima alla piramide dello sviluppo storico alimentato dal nostro dominio sul mondo naturale ed umano che contava uno scarso miliardo di umani. Oggi siamo destinati a dominare quasi più nulla ed in alcuni casi siamo dominati come nelle relazioni di potere con gli americani ed anglosassoni in un più ampio cluster detto “occidentale” che è oggi una frazione, sempre più anziana, di 8 miliardi di umani. Ma limitati anche dalla poderosa crescita degli asiatici e degli africani. Se il mondo oggi fosse dotato di una assemblea democratica basata su una testa un voto, noi tutti intesi come occidentali (ed ammesso ma non concesso noi si abbia visioni comuni sui rapporti col resto del mondo) peseremmo per uno scarso 15%. Per non parlare dei limiti ambientali. Enorme la quantità e qualità di nuovi fatti da considerare, metodi da rivedere, modalità di connettere idee ed interpretazioni. L’abuso del prefisso “post” negli ultimi decenni per denotare difformità con questa tradizione moderna che leggeva un mondo che non c’è più, denota in effetti solo quanta fatica stiamo facendo a capire come sviluppare nuove immagini di mondo in cui l’architettonica del pensiero faccia passi avanti significativi rispetto a quella moderna.

Come quarto punto possiamo dire che altre idee dei due Autori sono interessanti, ma da valutare caso per caso. Il fatto che gli umani del tempo profondo, viepiù si va indietro nel paleolitico, mostrino eccezionali linee di mobilità anche a lunghissimo raggio è sempre più attestato. Ma l’aumento progressivo delle dimensioni dei gruppi e loro densità, sembra poi aver frenato questa abitudine al “lontano”. In realtà, il concetto di “spazio vitale” va riducendosi progressivamente. Mano a mano che si passa dalla caccia alla raccolta, dalla cura del selvatico ed orticultura, all’allevamento, all’agricoltura nella sequenza coltivazione – domesticazione, l’areale di riferimento si rimpicciolisce e si fissa parallelamente la stanzialità e la densità relativa.  Anche le ultime forme nomadi o seminomadi, alla fine collassarono nelle forme stanziali con i mongoli e vari tipi di barbari che poi finirono spesso col diventare l’aristocrazia armata dei gruppi già da tempo stanziali come accadde in Europa ed in Cina. Gli anglosassoni hanno mantenuto questa loro nostalgia al libero scorrazzamento barbaro che chiamano “libertà” già ai tempi delle Grandi navigazioni, poi delle colonie, poi dell’Impero britannico, oggi con l’impero -sui generis- americano. Anche la mentalità ebraica, che è poi quella di molti studiosi occidentali, prima del sionismo, si è formata senza il vincolo del territorio ed anzi col problema di esser accettati nel territorio altrui. Alle volte, sembra che questo “elogio del nomadismo”[13] sia esagerato per ragioni ideologiche favorevoli alle migrazioni contemporanee, la globalizzazione, il mondo “sans frontieres”, la “società aperta” con scivolamenti anarco-capitalisti con un mondo (dis-)ordinato dalla sola mano invisibile del mercato. A parte il fatto che gli antichi del tempo profondo forse non erano poi così nomadi come ce li siamo raccontati ma semmai semi-nomadi e che magari ci siamo estesi nel tempo perché i primi nuclei parentali ad un certo punto invitavano i giovani adulti a fondare nuovi gruppi da un’altra parte ed a parte il fatto che i casi più estremi riguardavano individui più che gruppi (quella libertà di andare e venire a cui si riferisce Graeber), rilevare che muoversi liberamente in spazi semi-vuoti è diverso che muoversi liberamente in spazi occupati ci pare una ovvietà. Le migrazioni contemporanee sono un fatto, andrebbero analizzate per cause specifiche e col fenomeno occorrerebbe fare conti seri. Anderebbero anche selezionate tra obbligate o volontarie, fare il loro elogio nel caso di quelle obbligate ci pare improprio viepiù quando noi stessi siamo tra le cause indirette di molte catastrofi belliche o ambientali locali come in Africa. Giustificarle o negarle attingendo a caratteri della presunta natura umana, non si capisce cosa apporti alle nostre facoltà di gestire tali problemi, così negare che oggi siano problematiche sotto certi punti di vista, magari opportunità sotto altri. Questo è un altro di quei fenomeni che eccitano le nostre dichiarazioni morali, ma il fenomeno andrebbe indagato in tutta la sua realistica problematicità obiettiva.

Graeber usa poi più volte il concetto di schismogenesi (G. Bateson) ovvero il costruire una identità di gruppo, spesso come copia inversa dell’identità del gruppo vicino con cui si hanno rapporti che passano dall’amicizia conviviale al sospetto e poi al conflitto. Il meccanismo è interessante e personalmente credo più utile come strumento di interpretazione delle relazioni individuali (come per altro pareva anche a Bateson che inventò il concetto) ed anche di certa logica filosofica (ad esempio nella Scienza della logica di Hegel, la sua versione della “dialettica” con tesi ed antitesi nette ed autorinforzanti nella reciproca “dialettica” basata inizialmente sulle coppie dei contrari “polemici” di Eraclito[14]). Personalmente non lo avrei applicato, per varie ragioni, alle differenze rilevate tra le culture del Levante mesolitico rispetto alle culture degli altipiani anatolici come proposto dai due, mi è sembrata un po’ una forzatura, ma è questione secondaria. Qui come altrove, dal tono dell’argomentare dei due non si capisce sempre molto bene la differenza tra fatti ed ipotesi e quando “ipotesi” quanto fondate o liberamente proposte.

Quanto alla mobilità e varietà di forme sociali in base alle stagioni, trovo l’idea molto concreta ed in molto modi provata, fa sicuramente parte di una concezione adattativa della storia umana. Soprattutto nelle modalità più antiche nel tempo profondo di semi-nomadismo in cui si alternavano siti stanziali più di raccolta ed altri periodi di mobilità di caccia, inversioni estate-inverno o fissazione di donne-anziani-bambini con uomini che partivano per battute di caccia di qualche giorno. O come nei rapporti tra siti ed areali interni e di costa. Più in generale, mi sembra giusta l’idea di smetterla di pensare l’uomo paleolitico come un idealtipo mono dimensionale. Ci furono molti modi e molte forme, variabili nel tempo breve per via delle stagionalità o nel tempo medio e lungo per via del divenire storico e delle complessità relativa, della geografia, del clima e delle ecologie. La già citata forma di foraggieri di costa che doveva esser ben diffusa, è stata a lungo ignorata solo perché s’erano inizialmente trovate le pareti affrescate francesi con le scene di caccia grossa ed i siti di costa non li vedevano perché sommersi dall’acqua di mare il cui volume era cresciuto vistosamente con la deglaciazione. O forse solo perché piaceva trovare negli antenati i caratteri semi-militari dei gruppi di maschi che infilavano lance nel costato dei mammut lanosi urlando per farsi coraggio, segue barbecue, birra e partita in televisione per gruppi di maschi tribalizzati felici di trovare negli antenati i caratteri propri del loro esser contemporaneo. Un “essere” magari sintonico con presupposti infondati che imperano nell’antropologia economica, per lo più di matrice anglosassone.  Tutto ciò ci fu ma non ci fu solo questo, dipende da chi racconta la storia. Se chi la racconta è femmina, ad esempio[15] le tante nuove e vivaci paleo-antropologhe, ecco arrivare i problemi tra ampiezza del foro vaginale e volumi cranici, brodini vegetali dei torvi neandertaliani, amazzoni, nonne che tengono la prole, maschi che dicono di cacciare ma alla fine mangiano sole perché le donne avevano fatto orto e raccolta costante e molto altro. Le abbiamo citate ironicamente ma ognuna di queste tesi è serissima e abbastanza fondata/provata, l’ironia era verso la nostra misconoscenza di come l’identità culturale del narratore illumini solo certi fatti e non altri. Vale tra uomini e donne, tra giovani ed anziani, tra occidentali e non e dentro gli occidentali tra anglosassoni e non, oltreché dalla disciplina specifica da cui proviene chi parla. Per non parlare di quadri etico-politici che hanno a priori in testa i vari studiosi. Studiosi poi di cosa andrebbe specificato, come velenosamente fa (a ragione) Graber quando parla di Diamond o Harari. Siamo appena usciti dal penoso spettacolo di virologi che parlano di epidemiologia (di cui non è detto sappiano cose) o primari generalisti che parlano di virus o epidemiologi che parlano di Cina o della bergamasca senza conoscenze di contesto.

A tale proposito epistemologico, nel testo si accenna appena ad un altro problema che meritava anche più spazio. Noi abbiamo scavato a partire dall’Europa occidentale perché qui si concentrano le università e fondazioni che finanziavano gli scavi. L’uso cultural-politico delle origini continua con gli indiani rispetto alla civiltà della Valle dell’Indo e coi cinesi in vario modo, coi turchi che si riappropriano dei loro siti antichissimi fondando così una antichità che non hanno (i turchi venivano dal centro Asia non sono indigeni dell’Anatolia) e di recente addirittura coi sauditi che si sono iscritti al “grande racconto delle origini” con siti di 7000 anni fa. C’è una intera mitologia simbolica fondata solo sulle sole grotte francesi, poi anche spagnole. Poi però capita, come di recente, di trovare una pittura parietale in Indonesia (Sulawesi) anche più antica di quelle franco-ispaniche, con un più semplice maiale selvatico. Ma pensare a gruppi umani che cacciano mammut lanosi ed alci giganti è diverso che pensare gruppi che cacciano maiali selvatici nel sottobosco con rane, scoiattoli e grassi coniglioni. Oppure scoprire che le pitture parietali con rappresentazioni di umani più antiche sono, al momento, quelle australiane e non quelle francesi[16]. Come si sarebbe sviluppato il lavoro interpretativo alla Leroi-Gourhan se avessimo cominciato a scavare in Australia e non in Francia? O per le pitture parietali o petroglifi “en plein air” trovati in nord Africa o Medio Oriente, un modo di lasciare i segni molto diverso che non infilarsi quasi senza ossigeno di traverso in un buco di una profonda grotta buia. Così, per i resti delle culture dell’Antica Europa teorizzata dalla Gimbutas. Siti per decenni dentro la cortina di ferro dove non si scavava o se si scavava con archeologi non di Oxbridge o oggi bulgari stante che l’archeologo bulgaro certo non è al livello dell’archeologo americano o inglese (lo diciamo con ironia).

Ma il discorso andrebbe ampliato al concetto di “prova scientifica”. Abbiamo a lungo chiamato il paleolitico, età della pietra perché avevamo solo pietre scheggiate, il legno non si conserva nel tempo. Poi però abbiamo miracolosamente trovato dei giavellotti di legno ancora intatti perché affogati in bagni di gesso (lance di Schoningen)[17]. Ricostruiti in copia perfettamente conforme abbiamo provato a lanciarli ed abbiamo scoperto che per bilanciamento ed aereodinamica, potevano arrivare lì dove c’è oggi il record di lancio femminile olimpico di specialità. Poi siamo andati a fare la radio-datazione degli originali ed abbiamo scoperto che sono di 300.000 anni fa! Neanche Sapiens e neanche Neanderthal ovvero Homini heidelbergensis, sapevano creare strumenti di lancio di gittata incredibile, “alta tecnologia” diremo oggi. Le conoscenze a base di questi manufatti come si sono formate, come si sono stratificate e trasmesse per arrivare a quel risultato? E chissà cosa ci siamo persi in lettura dei segni di queste antiche forme di vita associata non ricevendo manufatti di pelle, tendini e piccoli ossi, cuoio, paste vegetali, liane. Basta trovare i blocchetti di ocra con motivi geometrici di Bomblos (Sud Africa) per retrodatare a 70.000 anni fa il pensiero simbolico che prima ci sembrava emerso dal nulla in Europa 30-40.000 anni più tardi. È spesso questo “dal nulla” che chiama teorie interruttore. Ma poi si scopre che non erano affatto dal nulla. Presupporre che questi uomini più antichi avessero menti, capacità artigiane e società in grado di sviluppare e forse tramandare questo tipo di saperi cozza con tutto quanto prima ci eravamo raccontati pensando di esser noi Sapiens europei del tutto “speciali” ed in quanto proto-francesi, ovviamente proto-pittori. Fino a trenta anni fa eravamo convinti che i Neanderthal neanche potessero parlare per “evidenti” problemi all’apparto fonatorio (falso). Qui si potrebbe aprire anche una finestra sullo sviluppo recente degli studi sui Neanderthal che oggi ci appaiono del tutto diversi da quello che credevamo anche solo venti anni fa[18], ma andremo fuori tema. In termini di studio delle immagini di mondo sarebbe però molto interessante farlo.

Quanto i rapporti ludici ed ironici col concetto di “potere” sociale, tema specificatamente antropologico caro a Graeber, c’è poco da aggiungere. Quando le forme sociali del potere erano ancora impermanenti, variabili in base agli adattamenti, reversibili e per altro anche limitate, essendo a quei tempi il “potere” una funzionalità di ordine del gruppo magari ad hoc per certe attività come la caccia o solo per certi periodi dell’anno, va da sé ci fossero inversioni ludiche e giocose. Ma non si capisce cosa questo ci porta in dote per trattare il problema del potere sociale oggi, salvo ricordare che il Carnevale ne discende, così per un certo tipo di “satira”. O forse è utile, come giustamente sostiene Greaber per levarci dalla mente l’idea balzana tipo menti bicamerali di antenati poco meno che automi biologici sballottati dagli eventi[19], privi di auto-coscienza ed intenzionalità. Da segnalare qui come tanta letteratura bizzarra che convoca gli alieni sapienti per spiegare segni di precoce intelligenza umana sofisticata, esista proprio perché il divieto di pensare la nostra storia adattiva molto lunga è in certi paradigmi scientifici. Sappiamo che i monoteisti pensano il tempo su base implicita ristretta, anche gli scienziati a volte sembrano non andare troppo là, ecco che quando spunta qualcosa di complesso in tempi in cui non dovrebbe esserci, arrivano gli Anunnaki segue puntata-mistero su History Channel. O se ti va meglio, l’innovazione genetica che secondo Chomsky avrebbe creato il linguaggio umano solo 70.000 anni fa.

Qui mi piace segnalare una vera e propria costante del progresso recente di questi studi: è sempre tutto più antico di quanto credevamo. È come se la cronologia di Ussher[20] basata sulle verità bibliche continuasse ad agire nella nostra razionalità inconscia. Sono decenni che leggo di queste continue retrodatazioni. Ci dovremmo allora domandare perché vige ancora questo invisibile paradigma recentista e magari scoprire che noi pensiamo che il nuovo sia puntiforme, venga da una causa, mentre quasi sempre sono riorganizzazioni di complessi di cause che generano cambiamento sostanziale in archi tempi ben più lunghi. Noi pensiamo con lo schema dell’evoluzione per errori casuali di replicazione genetica e non con quello dell’adattamento (Sintesi estesa)[21]. Gli elementi c’erano già, a volte è solo la quantità e qualità della loro interrelazione a modificare la realtà osservata. Forse due-nozioni-due di biologia molecolare, avrebbero permesso pure ai due di ritorcere il determinismo biologico contro i suoi stessi adepti. Nei fatti della disciplina, cambiamenti genetici dagli effetti catastrofici quali quelli supposti a causa ad esempio dell’innovazione culturale, si manifesterebbero con tempi incompatibili con la tempistica degli eventi. Non a caso i biologi molecolari stessi confermano che i primi sapiens erano in tutto e per tutto uguali a noi biologicamente. Ma due-trecentomila anni fa non facevano quello che facciamo oggi; quindi, non è innovazione casuale puntiforme nei geni ad aver cambiato la mente che poi ha preso a farci fare cose diverse. Per altro desumere il comportamento umano per eredità genetica, come fa Pinker e la disgraziata prima sociobiologia[22], è un esercizio che si presta a molti abusi. Noi sottovalutiamo il fatto che le novità dell’umano sociale spesso emergono quando tanti umani diversi si incontrano. Quello che vediamo comparire prima nel Levante e poi in Europa occidentale (perché non abbiamo forse ben scavato quella orientale o caucasica) è “cultura” e dove c’è cultura c’è l’identità di gruppi diversi in reciproca interrelazione. Non si dipingono pareti di roccia se non c’è nessuno che può vederle, si emettono segni e significati se c’è qualcuno a riceverli. Quanto al numero di Dunbar[23] contro cui si scaglia con vigore Graeber, quella di Dunbar è la semplice notazione che i nostri cervelli sociali sono stati selezionati in lunghi tempi in cui abbiamo vissuto con un numero limitato di relazioni con conoscenti. Per altro non è che il cervello aveva un numero limitato di caselle “quello lo conosco” perché conosceva poche persone è che aveva uno spazio limitato di suo e per altre ragioni. Magari anche quelle del diametro del foro vaginale da cui uscivamo per tornare a prima (ma non è solo quello). Dire che entro 120-150 contatti riusciamo ad ospitare una immagine tridimensionale e relativamente nitida dei componenti la nostra vita associata ed oltre questa cifra poniamo gli estranei, non comporta di per sé far degli estranei dei nemici. Dice solo che il raggio della nostra conoscenza percettiva è limitato, se poi capita di dover vivere assieme a migliaia o milioni di “altri”, si dovrà prevedere la costruzione di sistemi fatti di sistemi, costruzione che fino ad oggi ha trovato ordine solo gerarchico. Dalla conoscenza percettiva dovremmo passare a quella mediata che purtroppo molti non hanno, scambiando il locale per universale. Ma questo non è colpa di Dunbar.

Ci sarebbe poi da entrare negli aspetti sociali della violenza esclusiva ed organizzata, quando e come compaiono le prime guerre stante che se non vogliamo fare letteratura, pure scadente, e vogliamo attenerci ai fatti, l’unica prova certa di un cimitero seguente un chiaro conflitto armato tra gruppi è solo del 11.700 a.C. (più o meno)[24]. Ma salvo uno o un paio di altre prove, tocca poi entrare in profondità verso il basso mesolitico o primo neolitico per vederne tracce più frequenti e l’inizio della civiltà per vederne la versione sistematizzata. Stante che l’aggressività inter-individuale è indiscutibile proprietà di specie, la guerra “atavica” è un mito o per lo meno non è suffragata da alcuna prova. Anche perché questo è uno di quei chiari casi in cui mancando il movente adattivo (eravamo forse non più di 20-30.000 umani in tutto nell’Europa del cuore del paleolitico superiore), si deve ricorrere al determinismo genetico del comportamento, una evidente sciocchezza. Così per le sepolture ancora paleolitiche che i due chiamano di “rango” ma che si potrebbero o forse dovrebbero chiamare di “prestigio”. Il “rango” sembra anticipare segni di stratificazione sociale e gerarchia, il “prestigio” invece è attribuito dal basso. Ad esempio, antiche madri figlie di discendenti fondatori antichi del gruppo (reali o presunti poco importa), sciamani e sciamane, i tanti scheletri sepolti con riguardo che mostrano vari tipi di infermità che evidentemente non era ritenuta una mancanza nella hobbesiana lotta di tutti contro tutti, ma segno divino o magico o chissà cos’altro che rendeva quegli individui a loro modo “speciali”, ma non per questo certo potenti e dominanti. E che, come nel caso dello scheletro di Shanidar, (Kurdistan iracheno)[25] che dice quanta cura sociale ci fosse intorno agli “svantaggiati”, ancora nei neandertaliani. L’intera per altro ancora discussa vicenda dei “neuroni specchio” scoperti in scienze della cognizione[26], ci dovrebbe riportare ad esaminare il bivio di Adam Smith. Fu proprio Adam Smith a proporre l’idea che il motore dell’interrelazione umana a base delle società fosse l’umano desiderio di reciproca simpatia (Teoria dei sentimenti morali[27], per altro con Smith ancora in vita da tutti e da lui stesso ritenuto il suo magnum opus, ricordando che il tipo era docente di filosofia morale non di economics). Che poi nella Inquiry[28] abbia presentato l’egoismo del lattaio e del macellaio come motore del mercato forse dovrebbe suggerirci l’idea che nella mente dello scozzese la società era qualcosa di più ampio ed importante che non lo specifico del mercato. Per Smith l’economia di mercato era migliore di quella mercantilista e di quella fisiocratica, per quello scrive l’Inquiry, non per sostenere l’idea della società-mercato. Come si vede, pensi la paleoantropologia ma la pensi con o senza conoscenze di scienze cognitive, con o senza conoscenze di storia del pensiero economico e con questo formato da canoni narrativi ormai consolidati e tramandati che però si sono formati sopra i testi, non nel merito dei testi riferiti. Questi sistemi di pensiero che chiamiamo immagini di mondo, li puoi avere solo se ti imbarchi in lunghi e complicati studi multidisciplinari altrimenti ogni sacerdote di credenza settoriale replica solo il suo canone. E così di canone in canone alla fine vince sempre quello dell’élite dominante. Si potrebbe arguirne che il modo geopolitico del “divide et impera” si applica anche alla cognizione e da questa alla politica sociale. L’importante è che ognuno osservi il particolare così il generale lo lasciamo fare a chi ha tutte le conoscenze ed informazioni.  Quando arriva il paleoantropologo anglosassone-liberale che ti ammorba con l’egoismo individualista essenza umana e reitera la lagna del “free lunch”, parlategli dello scheletro di Shanidar.

Al quinto punto mettiamo un’altra questione centrale trattata dai due, che è la più delicata: l’egalitarismo definito “presunto” dei cacciatori raccoglitori. Questo è un punto mainstream, ovvero condiviso praticamente da tutti gli studiosi o dalla maggior parte. Francamente, non ho capito perché gli autori attacchino questo punto anche perché portano avanti la loro critica in modo del tutto insufficiente ed anche un po’ sgangherato.  Per altro, la critica di questo punto mi sembra un po’ annunciata e molto poco effettivamente e seriamente condotta. Da quanto ho capito, il punto è trattato citando le famose sepolture di rango (anzi “principesche”) che per me sono di prestigio e non di rango nel senso che non si può dalla loro particolarità desumere davvero quanto dell’uno o quanto dell’altro e la monumentalità che precede di molto l’agricoltura. Sulle “tombe principesche” mi soffermerei per dare ai lettori idea di quanto contino le parole e le nostre proiezioni interpretative. La più famosa è senz’altro la sepoltura di Sungir in Russia[29], ben 30.000 anni fa circa. Andrò per vie brevi saltando i particolari: abbiamo due sepolture principali con un adulto maschio e due adolescenti in un’altra tomba vicina. Entrambe sono piene zeppe di perline di avorio che hanno richiesto mesi e mesi di lavoro probabilmente di gruppo data l’entità, secondo tecniche non banali. Immediatamente e per lungo tempo è stata definita “sepoltura della famiglia principesca”. Così l’informazione è ripetuta in molti testi. Ma anni dopo, si è fatto l’esame del DNA. Si è così scoperto che i due adolescenti non sono parenti tra loro e nessuno dei due è imparentato con l’adulto. Non sono quindi una famiglia, almeno “naturale” e se non sono una famiglia non si capisce come possano esser definiti principi e principini quasi a volere retrodatare non solo la nozione di rango ma anche quella di ereditarietà. Le sepolture di prestigio non evidenziano alcun rango. Che sciamani e sciamani fossero socialmente prestigiosi era ovvio, ciò però cosa portava nel problema delle diseguaglianze sociali? Che tizia o caio fossero ritenuti da una tribù i lontani discendenti del fondatore e perciò riveriti come simboli viventi dell’identità di gruppo, che reali vantaggi portava in termini di potere sociale? Che un prima “straniero” avesse portato da fuori in un gruppo una tecnica di sopravvivenza prima sconosciuta, fatto questo che certo meritava gratitudine eterna, cosa ci dice in merito del potere generale? Quello che ci dicono le statue cittadine degli atleti che vincevano le antiche Olimpiadi in quel di Grecia: prestigio, simboli, esempi, gratitudine ma zero potere effettivo.

Quanto alla precoce architettura monumentale, in che senso questa dimostrerebbe l’esistenza di stratificazione e gerarchia sociale? Sicuramente questi siti dimostrano capacità di complessità realizzativa prima dell’adozione dello stile agricolo e questo è il più spiazzante significato, ad esempio, di Gobekli Tepe[30]. Il caso turco, per altro, potrebbe esser unito ad altri casi su fino alle Grotte di Chauvet, per fare un altro discorso. Alcune grotte affrescate tra Altamira, Chauvet ed anche Lascaux sono spesso del tutto sproporzionate rispetto all’ipotetico utilizzo che ne poteva fare una singola banda o tribù o clan. Viepiù Gobekli Tepe anche e solo dal punto di vista realizzativo oltreché di utilizzo. Così Stonehenge ed altri siti megalitici. Come suggeriva il capo archeologo dello scavo anatolico ora deceduto[31], K. Schmidt, si potrebbe invece applicare una idea di Lewis Mumford sulle anfizionie che poi conosciamo nella storia dell’Antica Grecia. Gobekli, tra l’altro, sembra distante da ogni altro sito abitato e sembra non fosse abitata in permanenza da alcuno. Così preso, sembrerebbe un vero e proprio punto centrale di un areale con più gruppi separati dal punto di vista sistemico, ma collegati quanto a condivisione di qualche rituale o pratica comune, inclusa la stessa costruzione, un “fare le cose assieme” che cementasse amicizie, scambi e buoni rapporti. Oggi poi in parte confermata dal nuovo scavo di Kaharan Tepe e di altri siti dell’area a costruire una vera e propria rete sistemica territoriale[32]. Questa precoce interrelazione sistemica in cui chissà perché gli studiosi vedono sempre e solo “templi”, interrelazione sistemica quale poi i due nostri Autori citano quando accennano alle più tardi “culture”, sarebbe molto interessante da esplorare, ma in un certo punto del libro proprio dove si parla di Gobekli pare non interessarli, salvo poi riprender l’argomento positivamente nelle Conclusioni. Forse scrivere a quattro mani porta a questa modulazione di diversi accenti e qualche piccola contraddizione. Talvolta anche ciò che qui abbiamo segnalato mancante o sottovalutato in realtà tale non è in alcuni passi, ma lo diventa in altri. Ogni studioso ed ogni individuo ha una “sua” immagine di mondo, anche quando questa ha ampi margini di sovrapposizione con quella di un altro, la coincidenza e le sue forme interne non sono mai perfettamente identiche. L’architettura monumentale pre-agricola mostra quanto le società del tempo possano a pieno titolo definirsi complesse, fatto questo che toglierebbe anche a “complesso” il destino accluso di gerarchico, ammesso quel concetto comporti l’altro come dice Graeber o come invece qualsiasi studiosi di complessità non direbbe affatto, anzi direbbe l’esatto contrario.

Perché in quel lungo antico periodo compaiono cose del genere e più tardi compaiono invece conflitti tra vicini? Convocare a causa la famosa densità crescente e relativa lotta per lo spazio vitale gli sembrava troppo poco originale? Ma siamo a gara di originalità interpretativa o cerchiamo di capire davvero come sono andate le cose nel tempo profondo? L’intero loro argomento mi sembra oscilli tra una sorta di furia ideologica di Graeber ed una più misurata attinenza scientifica di Wengrow, lo si evince (pur rimanendo una pura ipotesi) anche dalla lettura dei capitoli più specificatamente attribuibili all’uno (quelli antropologici) o all’altro (quelli più archeologici). Su questo punto invece, al di là della roboante affermazione contraria all’idea dell’uguaglianza sostanziale dei piccoli gruppi, alla fine sembra che casi del genere servissero solo a dire che il passato mostra diverse forme e che gli uomini del tempo profondo erano tutt’altro che stupidi selvaggi primitivi privi di ogni forma di complessità, punto quest’ultimo su cui, per quanto mi riguarda, sfondano una porta spalancata.

Tra l’altro, si sarebbe potuto fare un discorso diverso tra gerarchie fisse e variabili. Gli esempi degli eschimesi portati da Graeber potrebbero dire che quando usiamo concetti troppo nitidi come “uguaglianza” e “diseguaglianza”, applichiamo gabbie concettuali troppo rigide basate su concetti idealistici. Che ad esempio anche i più antichi gruppi di caccia avessero un capo-caccia è fatto plausibile. Per altro poteva esserci una guida quando si trattava di trovare i branchi, diversa da quella che coordinava l’assalto. Ma quando il gruppo caccia tornava al villaggio, stante che pare nessuno gruppo umano si è cibato mai solo ed esclusivamente di proventi della caccia, quel gruppo ed il loro capocaccia, tornavano semplici individui uguali nella redistribuzione del cibo e quando si doveva decidere “politiche” del gruppo. Se proprio qualcuno aveva più peso nelle decisioni, magari era una anziana, donna perché in genere vivevano più a lungo, anziana perché aveva esperienza adattiva e tramandava conoscenze adattive cumulate. In più, quando vediamo nel Paleolitico superiore manufatti artistici che hanno richiesto indubitabili capacità specialistiche, stiamo vedendo una precoce “divisione del lavoro” fissa ed alienante come poi all’avvio della civiltà su fino ai giorni nostri o queste “specialità” erano appena pronunciate e comunque affiancate anche da altre attività, quindi reversibili? Ma se è stato così, allora anche qui come altrove, certi modi come la fatidica -divisione del lavoro- nacquero molto presto nel processo di ominazione, solo avevano un altro significato da quando si fisseranno in forme sistemiche fisse ed immodificabili, con valore sociale ineguale annesso. Forse assecondavano la semplice umana attitudine ad avere certe preferenze, certe cose in cui si riesce meglio, utile poi a dare varietà interna ai gruppi, varietà utile all’adattamento l’unico vero tribunale “del bene e del male”. La visione adattativa chiama ad idee su possibili adhoc-crazie ovvero forme di potere limitato a fatti specifici. Ma fa una grande differenza quando questo “kràtos” diventa generale, fisso, inamovibile e passa dall’interesse di gruppo all’interesse di una frazione di gruppo che subordina tutto il resto del gruppo.

Il che ci porta al sesto punto che premetto mi trova entusiasta di quanto ho letto, un capitolo di Wengrow sulle forme di democrazia del tempo antico (ma ho segnalato prima che la mia mentalità è fatta in modo da avere ovvia corrispondenza su questo tema), di cui i due giustamente contestano l’etichetta che recita “democrazia primitiva”, quando non siamo in tempi primitivi e le forme che si possono ipotizzare tutto sono meno che primitive. Qui gioca l’immagine di mondo dominante che pensa (o vuole che noi si pensi) Atene esser stata la prima democrazia della storia, quando invece fu forse l’ultima. Mi ha fatto grande piacere leggere la citazione dei lavori di Thorkild Jacobsen che ha dedicato a questo argomento grandi studi, stante che parliamo del più grande assirologo del suo tempo con tanto di cattedra ad Harvard e non di un ideologo di giornata. Oltre ai filtri negazionisti che nel tempo antico e profondo non vogliono vedere tracce di gestione democratica, per quanto il termine si sia declinato probabilmente in molti vari modi, agisce la differenza tra grana grossa e grana fine. La nostra sostanziale ignoranza di tutto ciò che per esser “storia” deve provenire da attestate fonti scritte, unita alla versione interruttore del tipo “invenzione agricoltura-compaiono le monarchie con élite dinastiche”, non tiene conto del concetto di “transizione lunga”. In pratica, se come i più ritengono ed in fondo anche i due alla fine non hanno sostanzialmente contraddetto, la lunga tradizione dei piccoli e medi gruppi era quella di condivisione egalitaria dell’intenzione politica, all’ingrandirsi e densificarsi dei gruppi è corrisposto un lungo passaggio che solo in alcuni casi è poi assurto alle monarchie ereditarie con stratificazione sociale. Stante che è difficile segnalare un limite quantitativo preciso entro il quale funziona la condivisione ed oltre il quale non funziona più o almeno non funziona più con relativa facilità. Da quello che mostra il registro archeologico si può dire che fino a che le prime città erano di dimensioni contenute ma soprattutto fino a che le città erano in pratica “stati”, si nota il probabile perdurare di assemblee ed assemblee di assemblee cittadine che o governavano o facevano da contrappeso al re, all’inizio forse addirittura “eletto” e comunque non originante di dinastia. E questo “re” era tale per il significato che diamo noi al termine o era il grande organizzatore, magari delegato? In questi passaggi andrebbe analizzato il ruolo dei sacerdoti poiché sembrano esser stati loro, all’inizio, a gestire le prime forme di “cosa pubblica” centralizzata ma, inizialmente, su delega dal basso. Ad esempio, a Tell Brak, nel nord della Siria, oggi ritenuta la prima forma città essendo anche se di poco antecedente ad Uruk, il Tempio degli Occhi mostra una evidente centralità non solo culturale ma anche economica mentre gli studiosi ipotizzano la città fosse operativamente governata da una assemblea degli anziani. I due poteri erano ancora bilanciati, poi ad un certo punto non lo furono più. E con loro si dovrebbe anche analizzare il ruolo delle “immagini di mondo” condivise, condivise quando ogni membro del gruppo umano aveva a che fare con l’altro e tutti assieme col tutto della loro vita interna ed esterna al gruppo, poi meno, poi sempre meno fino a quando furono del tutto sintetizzate dall’alto. Un “alto” sociale appunto sacerdotale poi, anche per ragioni logistiche, coadiuvato da civili ovvero le nuove burocrazie, incluse quelle militari, da cui poi provennero i leader carismatici, gli eroi, i capi, i re, le dinastie, le classi e quant’altro. Un probabile passaggio rilevante fu quando il “grande organizzatore” passò dal sacerdote al burocrate civile. In più, forse il passaggio più rilevante, fu quando la singola città volle sottomettere l’altra a partire dai territori circostanti. Lì le antiche culture, poi anfizonie o confederazioni articolate fatte di città o centri autonomi, lasciarono il passo alle prime forme di regno e poi impero, lì il “re” -in genere armato- comincia ad assomigliare al significato a noi noto. Quando poi successivamente vediamo che da civile diventa semi-divino, poi vediamo anche la dinastia.  Passaggio, mosso non altro che dal crescente disequilibrio tra demografie in ascesa e capacità dei territori di sostenerle. Ad un certo punto di questa transizione, l’organizzazione funzionale di società sempre più massive non poteva avere più nulla di facile e naturale in termini di auto-organizzazione (democrazia sostanziale), né si può immaginare essersi manifestata una élite armata che s’impose su tutti per sequestrare il potere, almeno inizialmente. È una tesi che per esser ben spiegata porterebbe via troppo tempo e spazio in questa sede, poiché il modello ha un gran numero di variabili il cui gioco reciproco ha dato vita al processo di semplificazione politica. In cui, tra l’altro, ci dimentichiamo sempre di inserire ipotesi su come hanno lavorato le ipotetiche immagini di mondo del tempo. Gli umani non sono pupazzi acefali mossi dall’innovazione genetica quanto dai modi di produzione, agiscono in base anche a ciò che pensano vero e giusto o meno. Un’occhiatina a Gramsci ogni tanto andrebbe data.  Si può dire che la semplificazione politica, ossia gerarchica, fu il modo in cui in tutto il mondo, gruppi umani sempre più massivi, risposero al costante incremento di complessità delle loro forme e condizioni di vita associata, condizioni interne ed esterne. Ed il fatto così sia andata nell’infanzia dell’umanità “civile”, non dice certo che così andrà anche quando la nostra storia sociale crescerà e diventerà più adulta. Quindi, le teorie interruttore hanno il doppio difetto di collassare migliaia di anni e poi secoli in un passaggio immediato e di attribuire la causa ad un modo economico che fu in realtà un effetto, si ricorse alla monotona agricoltura cerealicola perché non c’era più altro modo di sostenere la sussistenza per nuove masse con la varietà precedente che però presupponeva ecologie e spazi che non c’erano più. Altresì che tutti decidessero tutto divenne logisticamente sempre più difficile. Financo il riservare il diritto di voto democratico ai soli ateniesi figli di ateniesi ha avuto forse più ragioni, ma non ultima quella che tra donne, meteci e schiavi, si era arrivati a pare 140.000 anime. Nei primi decenni della democrazia ateniese, queste restrizioni non c’erano o non c’erano nella stessa forma restrittiva decisa poi ai tempi di Pericle[33]. Ma soprattutto, nei primi passi delle forme civili, la complessità di queste decisioni finì in capo ad una élite della conoscenza logistica (economica, commerciale, di relazioni esterne etc.) che imposero le soluzioni dall’alto in basso, un basso sempre più confinato in nicchie di produzione specifiche, assorbite temporalmente nelle proprie attività minute e non più in grado di imporre il proprio punto di vista decisionale. Ignare di come altrimenti rifornire di legname la comunità del basso Iraq perché non c’erano più boschi a centinaia di metri come a Catalhoyuk, ma a migliaia di chilometri nel Levante (Libano) con il quale andava organizzato uno scambio complesso, con logistica complessa e questo solo per fare un esempio. In metafora, i navigatori delle canoe su acque domestiche divennero comandanti quando le canoe divennero navi ed in acque, spesso, sempre più agitate[34]. Ecco perché diciamo Atene l’ultima democrazia, perché si proveniva da millenni di condivisione della decisione politica e i vari spazi pubblici di grande ampiezza, in città egalitarie quanto a case e sepolture, prive di edifici centrali di potere, dicono che ancora per lungo tempo la cittadinanza ebbe il suo ruolo attivo e decisionale prima di produrre re ed imperatori. Non a caso vediamo prima Pericle e Demostene e poi di colpo Alessandro Magno. Le condizioni di possibilità per l’antichissima e lunga tradizione di democrazia sostanziale terminano esattamente nel 322 a.C..

Per tornare un attimo alla contrapposizione Hobbes – Rousseau, ci starebbe forse bene in mezzo Etienne de la Boétie e la sua “servitù volontaria”[35]. Tra l’altro un testo il cui originale è probabilmente del 1549 e che è molto improbabile fosse sollecitato dal confronto con la critica indigena come sostiene Graeber verso Rousseau e più in generale certi discorsi dell’Illuminismo. I primi contatti tra europei e nativi del New Mexico risalivano ad appena dieci anni prima, quelli con gli “indiani” del nord non erano ancora proprio avvenuti. Ci riferiamo al fatto che questo passaggio dalla democrazia primitiva alle forme oligarchiche o monarchiche, potrebbe esser stato impersonale e progressivo. Si dovette delegare sempre di più per tante e varie ragioni, ma piano piano, la delega anche data dal basso e quindi controllata e revocabile, via piccoli spostamento vissuti o presentati come “cause di forza maggiore”, divenne sempre più incontrollabile e da un certo punto in poi, vestita ideologicamente sul modello dèi – popolo di umani con sacerdoti intermedianti, imposta come giusta ed inderogabile. Plastica di questa dinamica fu la casta sacerdotale ebraica nell’esilio babilonese, dove materialmente si compone l’Antico Testamento e con le sole parole si compone una tradizione che fa “popolo”. Popolo senza terra, indifferente ai vari modi produzione, privo di gerarchia politica, ma che si sente popolo perché tutti credono ad una storia. I sacerdoti hanno a lungo avuto i monòpoli delle storie. Così nacque la “servitù volontaria”. Poi i sacerdoti dovettero condividere l’intermediazione coi re, i re con le burocrazie che li supportavano, i militari, i grandi commercianti e così via. Ricordiamo che per quanto banale, è un fatto che il sistema pienamente agricolo provocò una seconda e più rilevante inflazione demografica e questa chiamò in breve tempo (secoli e non più millenni) maggiore complessità sociale delle funzioni sempre più limitate e specializzate come segnalano le letture materialistico-storiche, e non solo. Fu la necessità di governare queste complessità che comunque andrebbero lette in modelli a più variabili tra cui geografia, clima, densità abitativa, che portò a sequestrare l’intenzionalità politica in capo ad una élite.

In più, forse, questi processi di revisione degli assunti, potrebbe anche allargarsi alla tripartizione classica di filosofia politica fondata da Aristotele. Forse non è vero che la modalità dell’Uno (re, imperatore, tiranno) e dei Pochi (aristocrazia, oligarchia, élite) siano due modalità distinte. Nei fatti è sempre molto difficile immaginare il potere dell’Uno puro senza una banda di Pochi che gli fanno da contorno e sostegno che siano sodali, famigliari larghi, tribù etnica originaria. Ma non solo come sottoposti. Forse, assai spesso, sono proprie queste bande di aspiranti il privilegio a determinare chi di loro farà da vertice pubblico, da uomo-copertina. Il primo re mesopotanico che dichiarò di esser lì in missione per conto di qualche dio è improbabile l’abbia fatto di suo poiché la narrazione religiosa era saldamente nelle mani dei sacerdoti. È molto più probabile siano stati questi ad intravedere il vantaggio o la necessità di definirlo tale, tanto cosa diceva o non diceva il dio rimaneva loro appannaggio, quindi potere. O almeno così pensarono prima di trovarsi un coltello alla gola che suggeriva cosa il re si aspettasse loro riferissero il dio dicesse. E dove il registro storico ci racconta degli accoltellamenti di Giulio Cesare o tradimenti improvvisi, ci sta raccontando proprio di come questi gruppi di potere scelgono di cambiare il loro uomo-copertina che sta andando troppo per conto suo ovvero contro i loro interessi. Forse semplificare la lettura delle forme di potere alla diarchia Pochi vs Molti, sarebbe più idoneo. È quando i Molti diventano troppi che l’intenzionalità distribuita si accentra nei Pochi e da lì si perpetua in vari modi, lì prima del supposto “comunismo originario” si ruppe la “democrazia originaria”, è il “quanti si decide di cosa” che fece la differenza. Anche quando una catastrofe cambia la composizione dei Pochi, re sui sacerdoti, poi militari sui re etnici, poi oligarchi su aristocratici, poi anziani su giovani, maschi su femmine, capitalisti su aristocratici, interessi americani su ogni altra nazione non americana, ciò che leggiamo è sempre una parte che s’impone su un’altra. Farla più complicata del necessario sembra a volte ci sia utile per giustificare la natura delle nostre catene che ci sfugge di continuo. Forse allora dovremmo domandarci perché ci sfugge, cosa non abbiamo pensato, cosa non abbiamo notato perché non l’avevamo prima pensato. In pochi ci sono certe dinamiche su come prender le decisioni, in molti ce ne sono altre.

Il settimo punto è la questione dello Stato. La teoria elaborata da G-W sostiene che si ha pieno potere statale quando si verifica una confluenza di sovranità, burocrazia e politica competitiva. Nella storia profonda di trovano prima un solo di questi elementi, poi due in varie combinazioni ma solo quando si intersecano tutti e tre si ha lo Stato, per cui è improprio parlare di “origine dello Stato” come fosse una cosa del tipo “prima non c’è-dopo c’è”. Non spenderei troppe parole su questo punto. Quanto ai tre punti della statualità individuati dai due ci sarebbe da fare un lungo discorso critico e poi un altro ancora più lungo su un diverso modello di variabili. Quanto invece alla dinamica tra variabili del modello, dire che lo Stato è emerso nel tempo lungo come transizione progressiva ci pare senz’altro condivisibile. Non si capisce però perché questa non sia, a sua volta definibile una teoria sull’origine dello Stato. È una teoria sull’origine complessa e non semplificata dello Stato, ma è pur sempre una teoria sulle origini degli Stati. Financo lo Stato moderno inizia la sua formazione dalla fine della Guerra dei Cent’Anni per arrivare ancor almeno a Westafalia ed oltre, prima che la configurazione si assesti, è almeno un secolo e mezzo o più. Così per tutti gli storici che hanno rivenuto forme capitalistiche fin dal Quattrocento italiano con sfogo delle fiere della Champagne o se si studia Venezia, anche prima. Ma era quello lo stesso capitalismo del XIX secolo inglese? No di certo. Allora forse dovremmo chiarirci meglio di cosa stiamo parlando ed usare etichette diverse per forme diverse altrimenti si finisce come nei dibattiti odierni a discutere se la Cina è o meno pienamente “capitalista” o ancora sostanzialmente “socialista” come pretendono altri, un dibattito senza senso, oltremodo confuso e confondente.

L’ottavo punto si concentra su una critica sul ruolo della tecnologia come motore impersonale dell’evoluzione sociale, critica che condivido. Come detto, l’intera teoria interruttore viene a formarsi come auto-comprensione del “tempo appreso nel pensiero”, in quel del XIX secolo, ovvero durante quella che verrà chiamata “rivoluzione industriale”. Da lì in poi e da lì a prima, improvvisamente spuntano rivoluzioni dappertutto, agricola e poi urbana quanto alla Mesopotamia, scientifica all’inizio del moderno, industriosa secondo lo storico olandese Jack de Vries ancor prima di quella industriale vera e propria, verde quando Borlaug inventa nuove tecniche agrarie nel dopoguerra mentre poi si ripetono quelle industriali e digitali fino alla recente 4.0. Di contro, inizia la critica alla tecnologia da Heidegger in poi. Tutte le teorie di motore tecnologico sono teorie-interruttore. Proprio nel XIX secolo, in piena rivoluzione industriale, si stabilisce la partizione temporale della storia prima della Storia (s’inventa il concetto di “pre”-istoria nel 1858) dividendola secondo le tecniche di lavorazione della pietra (Paleo-Meso-Neo-litico), con dettagli da mal di testa nel paleolitico superiore[36], poi nella lavorazione dei metalli (Età della pietre, del Bronzo, del Ferro), così con le complicate scansioni del neolitico in periodi ceramici. Questo materialismo tecnologico comporta la compressione del cambiamento storico in trasformazioni puntiformi ovvero “rivoluzioni”. Sebbene il concetto di rivoluzione sarà poi adottato all’interno dell’immagine di mondo marxista, esso nasce nell’immagine di mondo liberale quando gli storici whig, ai primi del Settecento, decideranno di nominare “Gloriosa rivoluzione” un colpo di stato ai danni della monarchia Stuart in quel della fine del ‘600. Gli storici whig traevano il concetto di “rivoluzione” dalla prima cosmologia scientifica (Copernico) dove per altro la “rivoluzione” era un andare in tondo da A a di nuovo A, come poi in effetti accadde alla Rivoluzione francese che passò dal re all’imperatore, da un Uno all’altro. Evoluzione e rivoluzione, due casi analoghi e sintonici di progressivo spostamento del significato. Altresì è palese che l’accensione data dall’innovazione tecnica è conforme all’idea che la storia sia mossa dai modi economici e loro trasformazioni, nessuno ha mai parlato di rivoluzione cristiana o musulmana o protestante o anche proprio il passaggio dallo sciamanesimo alle religioni antropomorfe e queste dai pantheon plurali al monoteismo, dalle dee materne ai padri ieratici o quando i Greci cominciarono a ribellarsi al dominio mentale delle mitologie ed inaugurarono lo sguardo razionale nelle colonie ioniche per segnalare “grandi trasformazioni” ad esempio nelle immagini di mondo o la stessa “rivoluzione” statale operata lungo il XVI secolo dai francesi. Quando cioè Muhammad prende disperse tribù arabe sempre assoggettate dai vari sistemi adiacenti più organizzati e gli racconta le storie poi compendiate nel Corano, una ventina d’anni o poco più come tempo storico, per generare l’intero fenomeno dell’islam, questo non merita la categoria delle rivoluzioni? Noi abbiamo spesso concetti sfocati che fanno categoria ma con poi assegnazione dei casi, così, a piacere. Su questo argomento la critica è basata sui dosaggi. Nel senso che nessuno può ignorare l’effettiva incidenza dell’invenzione ed innovazione tecnica ed il doppio esito di fornire nuovi strumenti che poi però ci strumentalizzano, ma dare a ciò il ruolo di motore primo, unico e generatore di trasformazioni istantanee è spesso improprio. Spesso, si possono ricostruire tempi più lunghi in cui si collezionano segmenti o cambiamenti indiretti di contesto che poi prendono forma di singolo strumento, le innovazioni che ci immaginiamo individuali, improvvise ed archimedee (si è accesa la lampadina mentale, da cui le teorie “interruttore”) sono collezioni stratificate di apporti parziali che solo alla fine producono il “fatto nuovo”. Sono cambiamenti sistemici, collettivi e di medio periodo. Ciò vale più in generale anche come teoria del cambiamento storico, quelle “lunghe durate” proposte da F. Braudel e la scuola delle Annales, dopo Darwin e lui dopo i geologi della prima metà dell’Ottocento che avevano dilatato il tempo dell’uomo e della storia o analizzando la storia per transizioni invece che per fatti evenemenziali o come illustra il T. Kuhn nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche nel lento accumulo di incongruenze della scienza nomale da cui poi spunta fuori la scienza rivoluzionaria. Tale temporalità del cambiamento storico vale sia quando leggiamo i fatti accaduti, sia quando teorizziamo fatti che vorremmo far accadere. Molti sono in attesa messianica di qualcosa o qualcuno che trasformi il millenario potere delle élite in qualcos’altro. Son cinquemila anni che quella forma governa le società di tutto il mondo, se aspettiamo che “oplà”, una classe, una idea, una invenzione, un leader carismatico, un partito con avanguardie di buone intenzioni, un nuovo modo di produzione o di intendere la valuta, imposto chissà da chi e come, capovolga il tutto per vedere noi in vita finalmente il nuovo modo di stare al mondo, temo che dovremo aspettare altre migliaia di anni prima che ciò accada. Quanto allo specifico di una teoria dell’innovazione catastrofica, G-W segnalano correttamente che i forni per le ceramiche nascono migliaia di anni prima del ritenuto per fare ninnoli, giocattoli e statuine, l’estrazione mineraria anche per trovare pigmenti, i mesoamericani conoscevano raggi e ruote ma non per questo facevano carri, i greci trovarono la potenza ingegneristica del vapore ma la dedicarono solo a muovere macchine per il teatro ed i cinesi usavano la polvere da sparo, non solo ma per lo più per fare fuochi d’artificio o spaventare i nemici in battaglia, si deve distinguere invenzione e ricezione così come non tutte le eiaculazioni generano concepimenti. Abbiamo già visto queste lunghe anticipazioni quanto ad “invenzione dell’agricoltura” e quanto proprio ai Greci, L. Russo ha dedicato un famoso e documentatissimo studio[37] sulla “rivoluzione scientifica dimenticata”, quando in periodo ellenistico si inventò molto di ciò che poi fu dimenticato per esser inventato di nuovo nel Rinascimento e poi all’inizio del moderno. L’argomento, quindi, meriterebbe una analisi da hoc basata su ricostruzioni plurali, nonché dilatate nel tempo in luogo della teoria dell’interruttore acceso dal genio individuale. Sono cioè trasformazioni sistemiche, se si vuole leggere il cambiamento catastrofico si deve prender in esame sistemi ed i sistemi hanno molte variabili, molte interrelazioni e passano da uno stato all’altro per transizioni di fase più che a salti e rivoluzioni saltellanti proposte da teorie-interruttore o di causazione semplificata. Tali transizioni non sono la lentezza trasformativa dei lunghi periodi standard, ma non sono neanche gli “oplà” che ci piace immaginare parlando di giannette e spolette volanti. Vale per il passato, vale per il futuro ovvero per le teorie del cambiamento sociale. Ed aggiungiamo, vale anche per l’eccesso di critica sulla tecnica modulata sul modello dell’apprendista stregone che risale a Luciano di Samosata[38] ovvero creare strumenti che inevitabilmente ci strumentalizzano. Ci strumentalizzano perché le nostre società attuali son ordinate dal principio economico che genera élite che poi decidono della ricerca, dello sviluppo, delle applicazioni e delle destinazioni concrete su certe forme di organizzazione sociale. Se fossimo società democratiche autocoscienti decideremmo noi a priori su quali ricerche del nuovo concentrarci, quali utilizzi fare delle invenzioni, con quali limiti e destinazioni sociali, come gestirne gli effetti spesso ambigui e potenzialmente bivalenti. Non c’è bisogno di piagnucolare sulla perduta originarietà arcadica o pre-moderna, c’è da capire come dominare l’innovazione invece che esserne dominati. E soprattutto e più a nostra portata, c’è da uscire presto dalla mentalità del XIX secolo coi suoi riduzionismi, determinismi, scientismi, imperialismi, liberalismi, economicismi, positivismi, individualismi, che fanno sistema mentale, immagine di mondo. Il Mondo è nuovo ogni giorno, per parafrasare il saggio, ma le mentalità ci mettono un po’ troppo a registrarlo. Specie quando ti trovi in transizioni epocali come la nostra attuale.

Nelle conclusioni, G-W tornano su qualcuno di questi punti e stupisce che avendo attaccato un modello di teorie vigenti, non riepiloghino tutti i principali punti sia di critica sia di contro-analisi, in modo da costruire un tentativo di modello alternativo. Le conclusioni non concludono nulla se non sottolineare una volta di più che molto di quello che crediamo è sbagliato. Questa conclusione da cantiere aperto ci può anche stare, se questa era l’intenzione dei due va bene anche così. Ma su un punto che evidentemente ritengono decisivo sono molto espliciti e tornano con ampio spazio. Secondo loro la variabile dimensionale ovvero l’idea che società grandi in ambienti densi abbiano portato di conseguenza a società gerarchiche, con una equiparazione tra complessità e gerarchia, è la madre di tutte le false convinzioni. Ma a ben vedere questa ultima frase cambia a seconda di come si declina il verbo “portare”. In descrizione, neanche loro contestano che così si legge nel registro storico anche se in modi che hanno cercato di leggere in forme più complesse di quelle vigenti e che secondo noi sono ancora meno complesse di possibili modelli a grana fine ancorpiù multidisciplinari e realistici. Quello che in realtà contestano è che questa descrizione sia intesa come una prescrizione, così non poteva che andare e così è giusto che vada e per sempre andrà. Abbiamo già segnalato questo punto come dirimente per loro, cioè il determinismo teleologico. Ma credo molti lettori non capiranno come non l’ho capito io ed anche alcuni critici del volume tra quelli reperibili in questo elenco[39], cosa c’entri questa sacrosanta e francamente anche ovvia critica al determinismo teleologico del tutto insostenibile sotto più e più punti di vista, con tutto il resto del lavoro critico sui vari punti del nostro approccio allo studio del tempo profondo. Dopo aver portato avanti per anni ampi studi multidisciplinari su vari aspetti ed applicazioni del concetto di complessità, ci appare chiaro che se i sistemi complessi sono per lo più sistemi autorganizzati mentre i sistemi più elementari e meccanici hanno forme gerarchico-ingegneristiche, la versione politica di un sistema auto-organizzato è un sistema realmente democratico e giammai un sistema dominato da una élite. Bastava questo appunto per demolire le pretese di naturalità ed efficienza dei sistemi gerarchici. La gerarchia è una semplificazione primitiva della complessità. Bastava inquadrare i nostri miseri cinquemila anni di società gerarchiche in un tempo che speriamo ne avrà altri cinquemila o cinquantamila o cinquecentomila o di più ancora di trasformazioni per capire che siamo solo all’infanzia delle forme di vita associata su grande scala. Tutti gli studiosi sul concetto di democrazia, sanno che questo sistema è più facile e diciamo “naturale” in quanto più facile, nei piccoli gruppi e meno facile e quindi più difficile in quelli grandi. Si dovrebbe allora capire meglio cosa agisce a queste diverse scale, dove risiede questa difficoltà. Tanto per farvi un accenno, è innegabile che quando in un gruppo tutti conoscono i problemi del gruppo e i problemi che il gruppo incontra nel suo esterno (naturale o fatto di altri gruppi), nessuno rinuncia alla sua naturale facoltà di farsi una idea ed esprimere una opinione in merito al fine di decidere assieme il “che fare?”. Se in un esperimento mentale paracadutate dieci persone adulte che non si conoscono in una isola deserta in una sorta di “isola dei non famosi” senza però le telecamere e sceneggiatori occulti, è inimmaginabile si formi il capo unico assoluto. Potrete avere uno più bravo a cacciare, una a fare capanne, uno che racconta storie, una a cucinare, uno a coltivare, una a curare, ma non si capisce perché mai dovrebbero in nove sottomettersi ad uno quando si dovrà rispondere alle varie versioni del “che fare?” generale di gruppo, il “che fare?” strategico. Ma se passate da 10 a 100, poi a 1000, 10.000, 100.000 e così via, se mettete condizioni esterne viepiù vincolanti, dallo spazio alle risorse a vicini prima amici e poi competitivi perché anche loro alle prese con lo stesso spazio e le stesse risorse e relative immagini di mondo differenti, allora vedrete sommarsi tante piccole e meno piccole trasformazioni dei modi sociali e relative immagini di mondo. Certo, come s’è notato in archeologia, mai di colpo come se ci fosse un limite numerico dimensionale prima del quale c’è un modo e dopo il quale c’è una trasformazione catastrofica, ed è proprio indagando a grana fine queste transizioni complesse che dobbiamo migliorare le nostre letture del profondo passato, tra l’altro usando modelli in cui non c’è solo il motore tecnologico o ecologico o demografico o geopolitico o delle forme di credenza e di ideologia o di una sola o coppia di variabili, ma tutte queste e loro mille e più forme di interrelazione e causazione reciproca ed incrociata, a volte non lineare. Tanto che alla fine si scoprirà che ogni modello è una riduzione. Per cui alla fine, in vie brevi, non potrete altro dire che la gerarchia sociale è figlia dei modi ancora molto primitivi con cui affrontiamo la crescente complessità delle condizioni interne ed esterne delle nostre forme di vita associata a scale di crescente complessità. Se poi vi piace immaginare e dire in un libro che sarebbe meglio sciogliere gli Stati e formare milioni di città o villaggi-stato autogestiti in equilibrio con la natura e coi vicini[40], va bene (ammesso sia vero questo presunto possibile equilibro con la natura per otto miliardi di produttori di entropia), ma tanto dovrete sempre fare i conti con la domanda del come arrivare a questo modo di rispondere al “che facciamo?” nelle nostre forme di vita associata per arrivare a dove volete arrivare. Vale per gli anarchici ma anche per qualsiasi altra idea sulle forme politico-sociali. Qui tutto lo sforzo di G-W fallisce, non si capisce dove pensano di mettere il motore delle gerarchie sociali, del fatto che Pochi decidono per Tutti.

Stranamente, G-W nelle prime pagine del loro trattato scrivono: “La questione ultima della storia umana … [… è] l’equa capacità di partecipare alle decisioni sulla nostra convivenza” (p.19). Quindi sembra che tale verità non gli sia estranea. Tale capacità si perde progressivamente in seguito ad un movimento in cui i singoli aggregati umani diventano viepiù massivi, in cui i singoli vengono schiacciati in funzioni e ruoli da macchina sociale, lì dove la logistica di funzionamento del bene generale diventa complessa, oltretutto pressata dall’esterno fatto da potenziali nemici o concorrenti umani o condizioni geo-ecologiche-climatiche avverse. Tali decisioni vengono progressivamente delegate, poi si perde la facoltà di controllarle pur avendole delegate, diventano modalità “necessarie” con una parallela narrazione giustificante sempre più condivisa che “obbliga” ad accettarle e riprodurle perché tutti così pensano sia giusto fare, perché non si vede alcuna altrettanto facile modalità diversa. I delegati iniziali furono coloro che avevano la fiducia di tutti, i nuovi sacerdoti in possesso delle nuove immagini di mondo collettive. I delegati diventano progressivamente autonomi, il potere dato diventa il potere sequestrato, le questioni si complicano ed i singoli non sanno ormai più nulla del tutto sociale ma solo del loro metroquadro di esistenza particolare. È lì che l’equa capacità di partecipare alle decisioni ultime si perde progressivamente. Questa sequenza di apparenti necessità viene introiettata, non venne imposta, all’inizio è impossibile immaginare concretamente come si sia potuta imporre. Sappiamo benissimo come poi ha agito il potere delle élite e delle classi, inclusa coercizione e fisica punizione, ma prima bisogna capire come si sono formate e non si può dire che si sono imposte prima ancora che si venissero a formare. L’assurda teoria per la quale l’eccedenza agricola avrebbe generato le élite improduttive come spiega l’intagliatore dell’Uomo Leone di Hohlenstein di 40.000 anni fa? Chi l’ha mantenuto a lavorar per mesi alla statuina? E quelli che produssero le migliaia di perline d’avorio di Sungir, chi li ha mantenuti? E quelli che costruirono Gobekli Tepe?[41]? Non c’è bisogno dell’agricoltura per spiegare le élite improduttive poiché inizialmente, i delegati a svolgere una qualche funzione utile al gruppo erano “produttivi” e quindi la loro produzione a fini di gruppo (ad esempio coordinare quando vediamo prodotto agricolo affluire al tempio per la ridistribuzione) era remunerata dal gruppo stesso condividendo la sussistenza.

Oggi siamo vittime sociali e politiche delle élite, ma le prime élite le abbiamo lasciate formarsi noi stessi. Ed è questo “noi stessi” collettivo che dobbiamo rivolgerci se vogliamo invertire i loro poteri. Abbiamo detto “stranamente” riportando questo passo essenziale alla comprensione del dilemma dell’avvento delle società gerarchiche perché convenuto che è effettivamente questo il problema come sembra esser noto a gli stessi Autori, dopo scompare, apre il trattato ma non lo chiude ed anzi, alle Conclusioni tornano con insistenza a negare che l’inflazione di complessità nei gruppi umani sia la causa prima di questa perdita delle capacità di equalizzare le dinamiche interne agli stessi gruppi umani. Gli Autori rimangono ingabbiati in parti di quella mentalità moderna che loro stesso provano a decostruire, ad esempio immaginando che la democrazia sia un metodo che da sé risolve tutto, basta fare piccole assemblee che cercano il consenso discutendo, che problema c’è? Invece il problema c’è, la capacità di prender decisioni non è solo la possibilità formale di farlo è la capacità di capire i problemi nella loro complessità e di farvi fronte con giudizi competenti ed attinenti. Quando nel passato di Atene qualcuno provò a suggerire che le città-Stato ognuna orgogliosa della propria differenza, forse era meglio cominciassero a pensare come mettersi assieme visto che erano assediati da un impero, nessuno gli diede retta. La democrazia c’era pure, in qualche modo, ma mancava la mentalità. E nel 322 a.C. la democrazia fallì definitivamente, il modo non garantisce di per sé la giusta decisione attinente. Quando tutti sono in contatto con tutti e col tutto loro interno e circostante non si vede per quale ragione si dovrebbe rinunciare a partecipare alle decisioni sul “che fare?”. È quando non lo sono più che, anche invitandoli benevolmente a farci sapere la loro, non possono più dare giudizi pertinenti. Semplicemente, non sanno più nulla sul ciò su cui dovrebbero esprimere una opinione. Senza tempo perché ingabbiati nel lavoro-salario, con immagini di mondo formate un po’ nei primi anni di scuola ma poi preda di tutti coloro che vi intervengono per darne certe forme e non altre. Con immagini di mondo formate da schemi riduzionisti e deterministi solo mono-disciplinari che impediscono in via di principio di capire qualcosa del nostro mondo complesso. Rimbalzando tra le verità parziali di questa o quella disciplina che tagliano il mondo a piacere. Con flussi di informazione monodimensionale, tutta emessa da emittenti in mano alle élite, spesso strutturalmente costruite in realtà per venderci cose. Con distribuzioni di conoscenza che prevedono pochissimi che “sanno” sui tantissimi che non sanno nulla. Con un impedimento strutturale ad incontrarci a discutere tra noi per equalizzare le asimmetriche conoscenze se non a botte di 140 caratteri su twitter o di battute su facebook o muti davanti al dibattito degli esperti in televisione, esperti poi cosa non si sa, dibattito o più spesso rissa polemica inconcludente e basta su stereotipi ideologici di nessuna utilità. Come si può pensare di avere una reale democrazia in queste condizioni?

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Prima di chiudere è doveroso citare un ultimo punto teorico, il problema della o delle libertà. Ammetto che nella mia immagine di mondo il problema delle libertà è relativo, magari per altri come Graeber è invece dirimente ed orientante. Si dovrebbe allora discutere perché per alcuni è dirimente e per altri meno. Credo che il destino sociale della nostra specie, abbia portato di per sé una limitazione della piena libertà. Per altro, pare sia stato un buon affare perché liberi da qualsiasi vincoli, cioè da soli, persi nel mondo grande e terribile del paleolitico, senza zanne, artigli, corazze, veleni, muscolature possenti, saremmo durati una mezz’oretta. La natura pone vincoli ancora più severi di quelli che ci diamo come umani. Abbiamo quindi adattativamente barattato la piena libertà con sistemi di vincoli, come per altro avevano fatto i discendenti primati e prima di loro molti mammiferi e prima di loro altri ancora. Il punto allora, per una specie autocosciente come la nostra, è stabilire come definiamo e gestiamo i sistemi di vincoli. E qui, non vedo altro modo migliore se non puntare al diritto societario naturale, siamo soci di società per diritto naturale, come farla, a che fini, in che modi, deve definirsi per partecipazione della più ampia assemblea dei soci.

Possiamo così concludere la nostra analisi critica che però, come annunciato in premessa, è stata anche l’occasione per ragionare di nuovo su questi argomenti, anche a prescindere le tesi specifiche dei due. Tesi a volte discutibili e qui discusse, comunque stimolanti. Il lavoro di G-W vi interesserà se siete interessati a questo che abbiamo chiamato il “problema dell’Origine” capito che le origini vengono da lunghe transizioni a più variabili interrelate e non nascono come Atena dalla coscia di Zeus già bell’è fatta, una delle prime versioni della teoria interruttore. Vi interesserà sia nel prender informazione nuova, sia nel rivedere modi vecchi di pensare l’argomento. Detto ciò, il lavoro può intendersi un contributo (né il primo, né il più originale, né il più significativo) comunque vasto, all’origine di un nuovo modo di pensare l’uomo, il mondo, le nostre forme di vita associata che purtroppo impiegherà il suo tempo e chiama a molto, ma molto altro lavoro collettivo di ricerca, critica, analisi e poi anche qualche sintesi. Nuove sintesi perché notata la complessità come essenza delle società umane, essa comunque alla fine va ridotta a sistemi di conoscenza che possano esser infilati pur con tutte le dovute cautele nelle nostre limitate teste in modo ci si possa incontrare a discutere e poi decidere assieme come rispondere all’eterna domanda dell’adattamento umano: “che fare?”. A cominciare proprio da come arrivare a quel “decidere assieme” che è propedeutico a qualsiasi altra versione di futuro ci si vorrà dare.               


[1] D. Graeber, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, 2012; D. Graeber, Critica della democrazia occidentale, Eleuthera, 2019;

[2] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, 2019

[3] K. Marx, Quaderni antropologici – sua ultima scrittura non terminata

[4] Nella nota 1 cap 3, ricordano opportunamente il calcolo fatto dal protestante James Ussher nel 1650, ma di fondo ritenuto valido ancora nel XIX secolo, sulla lunghezza del tempo del Tutto: la settimana creativa di Dio si era svolta nell’Ottobre del 4004 prima di Cristo. Ma per Newton era il 3988 a.C. . Il calcolo era fatto sulle varie generazioni discendenti citate nella Bibbia a partire da Adamo ed Eva.

[5] Ad esempio, nel suo “Il mondo fino a ieri” (Einaudi, 2013), Jared Diamond fa intenso “cherry-picking” scegliendo con cura società tradizionali in appoggio alle sue tesi, ma è una tendenza anche più vasta. Come detto, prender esempi dall’antropologia è naturale, ma c’è un delicato confine tra “esempio tra gli altri” ed “esempio probanti”.

[6] Il modo di questo ragionamento non è lontano dal Leibniz de “il migliore dei mondi possibili”.

[7] In S. Ferrara, Il salto, Feltrinelli, 2021 p. 81

[8] Citato nell’ottimo: H. Gee, La specie imprevista, Il Mulino, 2016

[9] Coltivazioni su piccola scala di 25.000 anni fa: https://en.wikipedia.org/wiki/Ohalo_II

[10] Un ottimo riassunto dell’intera questione secondo le ultime più aggiornate scoperte in J.C. Scott, Le origini della civiltà, Einaudi, 2018

[11] L’ingresso alla grotta Cosquer, in Francia, si trova oggi a circa 35 metri sottacqua, ma ai tempi in cui era frequentata e dipinta, circa 27.000 anni fa per le immagini più antiche, era 130 metri sopra al livello del mare che distava 8-10 chilometri.

[12] Su Catalhoyk, dati aggiornati qui: https://www.catalhoyuk.com/

[13] Esempio: J. Attali, L’uomo nomade, Spirali, 2006

[14] “Non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica” Hegel, lezioni sulla storia della filosofia.

[15] Una review generale dei punti di vista e degli apporti femminili e femministi alla paleoantropologia in: M. Patou-Mathis, La preistoria è donna, Giunti, 2021

[16] Review aggiornata su pitture murali, petroglifi ed altro in: S. Ferrara, Il salto, Feltrinelli, 2021

[17] https://pikaia.eu/lavorazione-del-legno-nel-pleistocene/

[18] Due ottime review di aggiornamento sui Neanderthal: R. Wrag Sykes, Neandertal, Bollati Boringhieri, 2021. Più condensato ma anche più incisivo: S. Condemi, F. Savater, Mia caro Neandertal, Bollati Boringhieri, 2018

[19] Il classico: J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale, Adelphi, 1996.

[20] Vedi nota 4.

[21] Un compendio della nuova Sintesi estesa in: E. Jablonka, M.J. Lamb, L’evoluzione in quattro dimensioni, UTET, 2007. Meno chiaro ma più recente: R. Bonduriansky, T, Day, L’eredità estesa, F. Angeli, 2020

[22] https://www.treccani.it/enciclopedia/sociobiologia

[23] R. Dunbar, La scimmia pensante, il Mulino, 2009 (ma ce ne sono anche altri)

[24] https://en.wikipedia.org/wiki/Jebel_Sahaba

[25] Analisi del più anziano Neandertal mai trovato, Shanidar 1: https://en.wikipedia.org/wiki/Shanidar_Cave

[26] La faccenda nasce dagli studi di G. Rizzolati, C. Sinigaglia, So quel che fai, Cortina editore, 2006. Oggi si è molto ingarbugliata anche ad opera di critici americani.

[27] A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, 1759 (Rizzoli, 1995)

[28] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, 2017. Titolo originario: An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations

[29]  https://en.wikipedia.org/wiki/Sungir

[30] Aggiornamenti sugli scavi qui: https://www.dainst.blog/the-tepe-telegrams/

[31] K. Schmidt, Costruirono i primi templi. 7000 anni prima delle piramidi, Oltre edizioni, 2011

[32] Su Kaharan Tepe: https://medium.com/@zehramevlevi55/karahan-tepe-2dfec2e89879

[33] Testo fondamentale prima di avventurarsi a parlare con eccessiva disinvoltura della democrazia ateniese, che porta poi a ripetere luoghi comuni che sembrano pure citazioni quasi-colte, ma sbagliate: M. Herman Hansen, La democrazia ateniese del IV secolo a.C. (ma documenta anche quella del V° secolo), LED, 2003

[34] Sulla platonica metafora della società-nave: G. Cambiano, Come nave in tempesta, Laterza, 2016

[35] Discorso sulla servitù volontaria, Feltrinelli, 2014

[36] L’intera sequenza che va dal Castelperroniano al Magdaleniano via altri quattro stili di lavorazione, sono tutti scansionati su ritrovamenti fatti esclusivamente in Francia (da cui i nomi coi quali si indentificano) e non si capisce bene cosa significhino per una visione più generale (del tempo e nello spazio) del periodo.

[37] L. Russo, La rivoluzione scientifica dimenticata, Feltrinelli, (edizione accresciuta) 2013

[38] Luciano di Samosata II secolo a.C. Philopseudés o L’amante del falso. Da cui L’apprendista stregone di Goethe, poi musicato da Paul Dukas, fino poi al Walt Disney di Fantasia.

[39] Si vada in fondo a Further reading: https://en.wikipedia.org/wiki/The_Dawn_of_Everything

[40] È per altro questa anche la tesi del liberalissimo geopolitico globalista P. Khanna, vedi: La rinascita delle città-stato, Fazi, 2017.

[41] Sull’uomo leone, 40.000 anni fa, si stimano quattrocento ore di lavoro, da: N. McGregor, Vivere con gli dèi, Adelphi, 2019. Sulle perline di Sungir invece, si stimano diecimila ore di lavoro. Su Gobekli Tepe, se si conosce il sito, il discorso va da sé.

https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/02/20/allaba-degli-studi-sullalba-di-tutto/

COPERNICANESIMI, di Pierluigi Fagan

COPERNICANESIMI. La cultura delle immagini di mondo ha una sua credenza fondativa. La credenza è quella che, data una struttura di pensiero gerarchica che da uno o più assunti di vertice produce discorso complesso a cascata secondo l’operatore logico “se … allora”, “se” si mette in discussione il punto iniziale, “allora” cambia l’intera struttura di pensiero. Classicamente, si è presa l’ipotesi di Copernico del porre la Terra in periferia ed il Sole al centro, al contrario di quanto faceva l’ideologia dominante cristiana di derivazione tolemaica, per chiamare questo processo “rivoluzione copernicana”.
Kant dichiara di esser stato soggetto ad una rivoluzione copernicana quando venne svegliato dal “sonno dogmatico” grazie alla lettura di Hume. Marx sarà ancor più copernicano nel voler rimettere la dialettica a testa in su dopo che Hegel l’aveva messa a testa in giù. Darwin fece altrettanto con l’idea che le specie nascevano, cambiavano e sparivano in un ciclo di esistenza adattiva e quindi non erano fisse, immobili, create perfette ex ante dal Perfetto Assoluto. Freud fece qualcosa di simile con la pretesa razionalista, in parte anche Nietzsche, come riconobbe Paul Ricoeur nel confezionare la definizione di “scuola del sospetto” (Marx-Freud-Nietzsche). Einstein infine fece qualcosa di simile con Newton o meglio con la pretesa epistemologica che la gravità newtoniana fosse l’unica dimensione valida per comprendere il funzionamento macro dell’Universo. Per non parlare della distruzione paradigmatica della meccanica quantistica rispetto alle nostre pretese di uniformare il mondo macro al micro.
Insomma, da dopo Copernico, si nota quello che solo negli anni ’60 per merito di un epistemologo americano (Thomas Khun) verrà razionalizzato come un sistema di pensiero che discende da un paradigma, messo in dubbio la pretesa ordinativa del paradigma, si muove tutto il sistema di pensiero fino a trovare un nuovo paradigma che sembra più adatto al cumulo delle conoscenze sviluppate.
Si noti il fattore tempo. Un paradigma è sempre figlio di un’epoca storica. Passando il tempo si accumulano evidenze a favore ma anche molte non a favore di quel paradigma, da cui l’idea di metterlo in discussione per cercarne un altro che faccia i conti con tutto ciò che si sapeva al tempo in cui è stato formulato, ma anche con tutto ciò che s’è scoperto dopo.
Sottoponiamo allora a verifica il paradigma del materialismo storico. Classicamente il paradigma, che era a sua volta un copernicanesimo anti-hegeliano, invertiva i rapporti tra struttura materiale produttiva e sociale con la sovrastruttura ideologica sovrastante. Così funzionava l’ordine delle cose e quindi così doveva funzionare l’anti-ordine delle cose. Fare “politica” per trasformare lo stato delle cose in atto, ordinava di cambiare le strutture. In effetti poiché lo ordinava in base ad una analisi e prognosi, cioè a seguito di una costruzione di pensiero, aveva in sé una contraddizione in quanto esso stesso negava il suo presupposto. C’era una idea prima dell’azione. In effetti, già prima nella sequenza storica del suo pensiero, Marx non aveva affatto escluso il ruolo delle idee, aveva solo raccomandato di tenerle in contatto col mondo reale delle cose, di pensare mentre si agisce, creando quello che noi oggi possiamo chiamare un “circolo ricorsivo” tra pensiero-azione-nuovo pensiero-nuova azione etc.
Dopo un secolo e mezzo di progresso conoscitivo operato da molte discipline, oggi si è per lo più convinti che, coscienti e non sempre del tutto coscienti, gli esseri umani agiscono in base a ciò che pensano. L’uomo è l’animale con il più sfolgorante successo adattativo della storia recente del vivente, proprio perché pur non dotato di alcuna specialità fenotipica, pensa prima di agire. Financo pensa che è meglio non agire, talvolta, cosa che lo ha -in parte- emancipato da certi meccanismi istintuali non sempre adatti a tutte le circostanze. Il complesso sistema che sovraintende alla funzionalità mentale, noi qui lo chiamiamo “immagine di mondo”, logiche, memorie, informazioni, teorie, conoscenze, giudizi, attraverso i quali pensiamo prima di agire. Ci teniamo talmente tanto (in effetti lo potremmo dire la nostra “identità”) che spesso che ce freghiamo se i risultati delle nostre azioni sono in contraddizione con il sistema di verità dell’attività pensante, facciamo prima a dar la colpa al mondo, piuttosto che alla nostra immagine.
A questo punto potremmo fare una contro-storia culturale del dominio dell’uomo sull’uomo, evidenziando quanto problematica sia l’idea che tale dominio si sia creato nelle condizioni materiali e solo dopo sia stato “giustificato” da quelle ideali. Fino a giungere all’Origine di questa asimmetria che secondo alcuni (tra cui chi scrive) data all’inizio delle società complesse, cinquemila anni fa. Origine che alla sua origine, si è affermata al contrario, prima distruggendo l’immagine di mondo condivisa naturalmente nei piccoli gruppi umani, per poi sviluppare un doppio processo ideale e materiale che ha portato progressivamente alla forma gerarchica della società. Ma non abbiamo spazio e tempo per poter esser più precisi a riguardo.
Saltiamo allora direttamente ad oggi. Come forse saprete, c’è una “discorso delle idee” che si dipana con grande coerenza ed intensità dalla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto in ambito statunitense. E’ un discorso complesso fatto di psicologia diretta allo sviluppo prima del comportamentismo e poi del cognitivismo, che poi si interseca con la rivoluzione informatica, lo sviluppo dei mass-media, che poi arriva ad Internet che nasce da una rete militare, che poi si sviluppa progressivamente nella cultura digitale, nel più ampio movimento della informazione, della cultura e dell’intrattenimento in direzione di certi precisi canoni conformi all’ordinatore economico mediato dal marketing. Fino ad arrivare ai primi del nuovo millennio, ad una nuova strategia lanciata dal governo americano detta NBIC, appunto la convergenza e sinergia tra le ricerche su nanotecnologie-biotecnologie-informazione-sviluppi della “cognitive science” che porterà al Internet of Things, al Metaverso, alla Realtà aumentata e molto altro per altro da tempo anticipato dalla letteratura fantascientifica distopica.
Ci si domanda quindi: quanto della battaglia politica condotta dalle élite oggi si basa su strutture piuttosto che sovrastrutture? Quanto materiale e sociale condizionamento sono esercitati, quanto controllo biopolitico, ma a questo punto quanto controllo psicopolitico come intuito da Byung-chul Han? Siamo sicuri che il dominio dell’uomo sull’uomo è operato dal piano materiale e solo dopo si confezionano ideologie? E come spieghiamo allora la vasta e storica servitù volontaria dei Molti se non con l’introiezione che è giusto sia così e non altrimenti possibile ancorché desiderabile? Se l’uomo è l’animale che pensa prima di agire, il controllo dell’uomo sull’uomo non parte dal controllo di questa facoltà di pensiero per poi raccogliere i frutti nel dominio materiale? Cosa hanno fatto le religioni per milioni di anni?
Sino a giungere alla nostra domanda finale: non è che convinti ancora che la battaglia politica debba partire dalle forme materiali, ci siamo persi l’opportunità di agire invece sul piano mentale? Perché invece di fondare partiti materiali, non proviamo a fondare un partito mentale? Che faccia conflitto organizzato mentale? Avremo dei vantaggi a fare un nostro copernicanesimo che riconosca la necessità di agire in forme organizzate il conflitto sociale e politico sul piano mentale? Non è che ci serve un partito culturale, un movimento culturale organizzato prima di quello sociale e politico?
O crediamo che basti la nostra confusa e scoordinata, vociante ed inconcludente “guerriglia critica” per combattere le potenti forze messe in campo dall’ ordinatore dominante e relativa élite con codazzo funzionariale sempre più dedita a capire e controllare come riannodare i fili dei nostri dendriti disciplinando i flussi elettrici e chimici che da neurone vanno a neurone?
E’ forse questa la risposta che non troviamo per la versione attuale dell’eterna domanda politica: che fare?
NB_Tratto da facebook

ESONOMIA, di Pierluigi Fagan

ESONOMIA. [Post rilevante] Incontro il termine-concetto in un libricino di Pierre Clastres, etno-antropologo di propensione politica, allievo prediletto di C. Levy-Strauss, anarchico, prematuramente scomparso per incidente a poco più di quaranta anni. Se digitate il termine su Google, almeno a me (saprete che gli algoritmi personalizzano i risultati di ricerca, Google è un dispositivo relativistico ovvero relativo alla tua immagine di mondo) viene fuori, come avessi commesso un errore di digitazione: “economia”. Poi Google si sforza di trovare qualcosa e mi propone “isonomia” dal vocabolario Treccani. Cerchi sul vocabolario Treccani e viene fuori nulla. Ah! Un concetto nuovo, penso. Poiché però avevo capito al volo cosa intendeva il Clastres, mi sorprendo che il concetto venga ritenuto inesistente, cioè nuovo. Perché ciò avviene e perché merita un post? Ora provo a spiegarlo.
Di per sé il termine si compone di “eso” che vuol dire esterno e “nomia” da nomos che significa legge, quindi “legge che proviene dall’esterno”. Il suo opposto sarebbe endonomia, da “endo” ovvero interno, ma siccome il termine-concetto non esiste, non esiste neanche il suo contrario.
Relativamente alle questioni sociali (ma il discorso vale anche per gli individui), politiche e culturali, la nostra cultura prevede per principio solo approcci endonomici. Il “motore della storia” sarà interno alle forme sociali, le forme politiche dipendono chi pensa dai modi economici, chi altro pensa da preferenze ideologiche, così le culture, poi come “unità metodologica” c’è chi pone solo gli individui, chi invece i gruppi magari chiamandoli comunità o classi o società etc. etc. Ovvero, data un società x, cercheremo le ragioni del perché è così e non cosà, analizzando il suo interno nello statico o nel dinamico del tempo storico. Comunque, partendo dall’assunto dato, ma non giustificato, che tutte le cause dei vari modi in cui la società è e si struttura, dipendono da forze interne, condizioni che impongono la legge “nomia” partendo da fatti interni “endo”.
Esonomia, invece, dice il contrario, pone ciò l’attenzione all’esterno della società, ciò in cui è posta la società. Può esser l’esterno ambientale, quello geo-storico, il tempo caratteristico della civiltà di appartenenza, la complessa rete sistemica in cui ogni società è iscritta di natura e cultura. Esonomia segnala quando la legge, intesa qui come pressione adattiva, proviene non dall’interno ma dall’esterno. Il che ci porta al concetto di adattamento. Infatti, se ti devi adattare, vorrà dire che c’è un esterno a te con il quale devi andare d’accordo.
Il concetto di adattamento, diversamente da esonomia, esiste nella nostra immagine di mondo ma non è molto sviluppato. Darwin, a suo tempo, ha proposto una teoria dell’adattamento, ma gli interpreti della sua opera del 1859, hanno preferito apporgli concetto di “evoluzione”, termine che non esiste nella prima edizione dell’Origine delle specie. Quindi Darwin scrive l’opera fondativa della teoria dell’evoluzione, ma senza mai usare il termine, così come Marx scrive le opere fondative il concetto di capitalismo usando il termine, pare, solo due volte nella corrispondenza privata. Fu un sociologo, Sombart, a chiamare capital-“ismo” il sistema a lungo analizzato da Marx e fu un altro sociologo Spencer a chiamare evoluzione la teoria di Darwin, potenza degli interpreti!
Glielo appose Spencer che, in quanto anche filosofo, era legittimato poiché artigiano nella “fabbrica dei concetti” (questa è la funzione della filosofia o almeno “una delle funzioni”) e poiché era anche il produttore principale del concetto di “progresso” (siamo nella seconda metà del XIX secolo in quel della Gran Bretagna), gli veniva bene appaiare il concetto di progresso con quello di evoluzione.
Ma l’opera di Darwin non è del tutto sull’evoluzione, è più sull’adattamento. Però, la cultura occidentale, poiché ha coartato per secoli natura ed altri popoli per favorirsi l’adattamento, non ha ritenuto utile problematizzare il fatto adattivo, lo ha fatto e basta, passando poi il resto del tempo della sua auto-riflessione a domandarsi quali forze interne (endonomiche) hanno fatto sì essa abbia sviluppato i suoi modi che siano la società di classe, il capitalismo, la democrazia liberale, la tecnoscienza e molto altro della nostra storia culturale di famiglia. Colpa o merito di individui o classi sociali o specifiche ideologie o teorie, tutte però nate come Atena dal nulla, gratuitamente, per genio (o perversione) umano endogeno o forse per caso. Nessuno pare si sia mai domandato quali fossero le pressioni esterne che hanno mosso individui o classi o teorie ed ideologie a fare quel che hanno fatto o pensato.
Tant’è che oggi, che il modo sta cambiando radicalmente, pare che nessuno capisca bene il perché visto che cercando all’interno non si trovano poi questi complessi forti di cause agenti. Il fatto che sia il mondo fuori di noi ad esser cambiato, quello umano (altri popoli e civiltà) o naturale (ecologia e clima), pare interessi dal nulla al poco. Non si comprende ciò la carica esonomica che ci imporrebbe di cambiare molte cose per il semplice fatto che dovremmo adattarci ad un mondo nuovo. A noi piace il concetto di Nuovo Mondo ovvero la scoperta dell’America, ma abbiamo difficoltà insormontabili con il Mondo Nuovo, perché non siamo abituati a domandarci del “fuori di noi”. In particolare quelli del Nuovo Mondo hanno difficoltà col Mondo Nuovo, poverini, si capisce …
Ne verrebbe fuori a seguire un lungo e bellissimo discorso anche sulla nascita delle gerarchie, anche perché il Clastres usa il concetto proprio nella sua ricerca sulla nascita dello Stato e la rottura dei regimi egalitari sociali dei selvaggi che si potrebbero, con giudizio, retroproiettare al passaggio tra Mesolitico e Neolitico ovvero nascita delle società complesse e delle gerarchie sociali ab origine. Ma qui non c’è spazio e tempo, quindi andiamo a chiudere.
Volevo solo segnalarvi che, in prima istanza, le perturbazioni profonde, continuate ed incrementali che vanno ad affliggere i nostri ordini sociali, provengono proprio da questo “fuori di noi” che fatichiamo a considerare nel suo continuo proporci nuovi dilemmi adattivi. La nostra, oltreché complessa, è una era potentemente esonomica. Forse pari per intensità solo al passaggio tra Mesolitico e Neolitico. Specifico che il “noi” qui usato non si riferisce come solitamente intendiamo senza curarci della nostra ipertrofia egotica occidentale, nel senso di “umanità”. Noi non siamo l’umanità siamo solo una parte, pure piccola (intorno un sesto, circa). Alla nostra civiltà o civilizzazione si voglia intendere, l’era propone potenti ed inediti, specifici dilemmi adattivi, per questo la diciamo esonomica. Familiarizzare col concetto è un buon primo passo per sviluppare nuove strategie adattative, necessarie ed urgenti. Su questa riformulazione strutturale della nostra immagine di mondo siamo molto in ritardo e ciò non va bene.
Per involontaria saggezza implicita la logica delle immagini di mondo, sia il concetto di “economia”, che quello di “isonomia” che era il nome originario di quella che poi si chiamerà “democrazia”, hanno in realtà molto a che vedere con l’esonomia. L’equazione adattiva del nostro futuro ha infatti questi tre poli: data una certa esonomia, come si mette a quadro funzionale ed adattivo l’economia con la democrazia nelle società della civiltà occidentale?

 

RI-FORME DEL PENSARE, Pierluigi Fagan

RI-FORME DEL PENSARE. La torre Einstein di Potsdam in Germania (foto), venne costruita tra il ’17 ed il ’21 a gli inizi della Repubblica di Weimar dall’architetto E. Mendelsohn. Pare che, quando finita venne presentata ad Einstein, questi abbia esclamato “Organico!”. L’architetto costruttore che raccontava l’episodio, chiosava la icastica definizione con la spiega: “organico”, che non gli si può togliere alcunché, né dalla massa, né dal movimento, né, persino, dal suo sviluppo logico, senza distruggere il tutto”. Quando spesso qui ci appelliamo al concetto di “complesso”, ci stiamo riferendo a qualcosa di molto simile all’ “organico”. Del resto, la disciplina madre del concetto di complesso è proprio la biologia, la quale ha di sua costituzione in oggetto l’organico.
Poiché l’uomo fa per ciò che pensa e pensa per ciò che fa, per lungo tempo l’uomo ha pensato prevalentemente con la forma organica. La sua attività principale, che era legata alla sussistenza, che fosse agricoltura o allevamento o ancora raccolta e caccia e pesca, si occupava di un tema organico con oggetti organici. Dell’organico, fa parte il concetto di equilibrio, equilibrio delle parti per formare l’organico ed equilibrio tra organici e tra organici e l’organismo madre che è la Natura. Non a caso, uno dei due grandi filosofi antichi, Aristotele, era non solo un attento proto-studioso di biologia (Diogene Laerzio sosteneva che la maggior parte degli scritti di studio di Aristotele era di biologia, purtroppo non pervenutici), ma anche il filosofo dell’equilibrio compendiato nel concetto de il “giusto mezzo”.
Nel famoso dipinto di Raffaello “La Scuola di Atene”, lo stagirita conversa con l’altro grande filosofo antico, indicando con la mano destra aperta il mezzo con palmo rivolto verso la terra, così come l’altro indica il cielo con l’indice. L’uno imbraccia l’Etica, l’altro il Timeo, l’opera della Creazione secondo Platone che probabilmente aveva tratto spunti e chiare influenze dal contatto con i sacerdoti ebraici in quel d’Egitto, nel viaggio che lo portò dalla Sicilia ad Egina. Due sono le forme del pensiero platonico, entrambe non derivate dall’organico. La prima è il mondo immateriale, delle Idee e della forme pure, mondo mentale tipicamente umano, la seconda è la matrice matematico-geometrica anch’essa figlia del mondo mentale umano sebbene a differenza della prima non sia “inventata” ma dedotta come logica costitutiva della natura stessa, anche se più quella inorganica che quella organica. Per altro, questa forma geometrica che pare fosse celebrata sul frontone dell’Accademia come fondamento del pensare lì svolto, non era platonica ma di eredità pitagorica.
Raffaello dipinge a metà XVI secolo ed il Rinascimento fu l’ultima espressione compiuta del pensiero organico. Una tempesta scettica accompagnò il trapasso al moderno che ha sua prima espressione del pensiero in Descartes che tenta una rifondazione del pensiero accettando la sfida scettica. Ne nasce il razionalismo e la scienza moderna e tutto ciò che poi accompagnerà i quattro secoli del moderno.
Si potrebbe dire che l’intero corso del moderno, coltivi per lo più forme di pensiero inorganico. I due presupposti della scienza seicentesca, la riduzione e la pretesa di determinazione, sono l’esatto contrario di ciò che è l’organico, irriducibile per principio alla parte ma anche ribelle alle pretese di determinazione poiché dinamico, “vivo”, adattativo al contesto, sensibile al tempo, pieno di variabili e loro interrelazioni. Il presupposto invece della metafisica anche cartesiana, Dio, è nell’accezione europeo-moderna sempre meno organico e così lo sviluppo “idealistico” che non avendo vincoli di materia, si libra in un mondo tutto suo che inventa mentre lo pensa. Il moderno tardo, dalla fine del XVIII secolo, si dedicherà sempre più a “fare cose”, macchine per lo più o manufatti, tutte cose morte quindi inorganiche. Esemplificativo di questa lunga e potente dilatazione nel mondo delle cose inorganiche è il pensiero economico che taglia per principio sia il problema dell’origine delle materie ed energie, sia gli effetti della loro trasformazione. Tant’è che quando un economista franco-rumeno, nel Novecento, proverà a reintrodurre tanto il segmento delle origini che quello degli effetti, rinominerà la sua versione di pensiero economico “bio-economia”.
Essendo l’economia attività umana svolta con materie ed energie naturali e con effetti naturali, è abbastanza paradossale si debba qualificare questa forma di pensiero come “bio” per distinguerla da quella dominante che è infatti assai platonica. Si noti che il bio-economista citato, era egli stesso tanto un matematico che uno statistico, la sua forma di pensiero non era quindi opposta alla dominante, solo la integrava in un contesto ed una visione di processo più ampia, includente altri pezzi di realtà che il pensiero economico tende a lasciar fuori dal suo sguardo per tuffarsi con golosa passione nella modellizzazione astratta. Del resto, va da sé che per esser “astratti” si debba rifuggire dal “concreto” e l’organico coincide indissolubilmente col dominio del concreto.
L’espressione plastica di cosa succede quando si affrontano problemi organici con mentalità inorganiche, è dato dal grande volume disordinato del dibattito pubblico sull’epidemia dell’attuale SARS2. Dell’argomento, per esser com-preso, bisognerebbe tener conto di una quindicina di variabili, per altro imprecise. Imprecise sia perché l’organico di norma lo è visto che è vivo, ma anche perché la nostra tecno-scienza sebbene sia noi in grado di sparare razzi morti su Marte, con le cose organiche si trova spesso a mal partito. I biologi non tendono a trattare la loro materia come gli ingegneri, ma nella mentalità pubblica è il paradigma ingegneristico-numerologico a dominare. Aggiungendo tutto il portato dei problemi sociali, psicologici, economici, politici e geopolitici che l’epidemia porta con i suoi impatti, ne viene fuori il gran bordello che vediamo. Lo stesso bordello si replica con le questioni ecologiche, anch’esse del dominio dell’organico.
Alla forma del nostro pensare più adattiva per la nuova epoca in cui siamo capitati, sembrerebbe consigliarsi l’adozione tanto delle più note ed affermate forme del pensiero inorganico, che di quello organico che dal ‘500 in poi ha avuto una sua evoluzione ma i cui principi e fondamenti non sono assunti nell’immagine di mondo collettiva in pari grado ai principi del pensiero sulle cose morte.
E’ cioè terminata l’epoca in cui pensavamo di migliorare la nostra vita solo col pensiero sulle cose morte.

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un interessante saggio di Pierluigi Fagan (PF), con relativo link al sito originario di pubblicazione. L’argomento (la sinistra, la nazione e la geopolitica) prosegue sulla falsariga di saggi già pubblicati su questo sito e ovviamente sul blog dell’autore. Per accedervi è sufficiente digitare sulla voce dossier del menu in alto e sul nome dell’autore. Il tema è ricco di spunti; la finalità dell’autore è di contribuire a far uscire il dibattito e l’azione politica dei critici della Unione Europea dallo stallo abbarbicato com’è alle mere enunciazioni di principio e ad un approccio meramente negativo della proposta politica, specie della componente sinistrorsa. La chiosa non intende essere una critica al testo, quanto piuttosto un tentativo di focalizzare schematicamente alcuni punti sui quali sviluppare un dibattito proficuo.

Fagan in particolare, nella fase di multipolarismo complesso in via di affermazione:

  • ritiene imprescindibile il problema della dimensione degli stati nazionali. Una posizione nient’affatto scontata; sono numerosi i fautori della tesi che attribuisce anche agli stati più piccoli, purché attrezzati con una adeguata classe dirigente, significative condizioni di agibilità
  • le dinamiche geopolitiche sono altrettanto importanti delle dinamiche tra le classi sociali; anzi, una condizione ottimale nelle prime consente una migliore gestione delle formazioni sociali. In questo ambito il dibattito generale spazia tra la priorità attribuita alle dinamiche sociali e i rapporti tra stati, tema tipico della sinistra e della estrema destra e l’esclusività attribuita ai rapporti geopolitici tra stati e istituzioni, tipica degli analisti geopolitici. Nel mezzo, a dar man forte all’approccio “complesso” offerto da Fagan, trova posto a pieno titolo, come promettente chiave di interpretazione delle dinamiche politiche, la teoria lagrassiana del conflitto strategico tra centri decisori
  • affronta la questione fondamentale riguardante l’approccio al rapporto con l’Unione Europea con una importante delimitazione. Il suo discrimine riguarda non solo i sostenitori duri e puri della UE, ma anche i cosiddetti riformatori. Le possibili posizioni dipendono in pratica dalle combinazioni possibili delle relazioni tra gli stati europei eventualmente aggregati in aree omogenee
  • vede nella Francia il baricentro della costruzione europea. Una posizione originale rispetto alle tesi prevalenti che attribuiscono alla Germania il primato politico oppure agli Stati Uniti l’assoluta predeterminazione della costruzione e degli indirizzi politici comunitari.Una ricostruzione storica delle vicende comunitarie può sembrare un puro esercizio accademico; serve in realtà a determinare le dinamiche e il peso dei vari decisori. La letteratura, al netto dell’agiografia, offre diversi punti di vista. Uno di questi, ben presente nella ricerca francese e statunitense, attribuisce alla classe dirigente “sovranista” francese la volontà di sostegno al progetto comunitario nella misura in cui fosse stata la Francia, con inizialmente la Gran Bretagna, a determinare gli indirizzi. In soldoni, nella misura e nei momenti in cui sarebbe apparsa sempre più chiara l’assoluta influenza americana e la sua volontà di sostenere la Germania in funzione antifrancese e antibritannica e come importante risorsa antisovietica, l’afflato comunitario della Francia sarebbe a sua volta venuto meno. Con due eccezioni importanti tra le quali l’azione dell’oestpolitik tedesca negli anni ’70 che indusse i francesi a sostenere l’ingresso della Gran Bretagna
  • consiglia di prendere atto della progressiva formazione di più aree europee politicamente autonome per individuare in quella latino-mediterranea, il possibile coagulo di forze capace di sostenere il confronto.    

Si attendono sviluppi e contributi_Buona lettura_Giuseppe Germinario 

 

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO.

Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.

La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche  alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.

C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon,  fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.

Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.

Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.

Tutti e tre gli schieramenti, si ripromettono sia la democratizzazione delle istituzioni europee, sia l’inversione delle politiche neoliberali che le hanno contraddistinte. Il secondo schieramento, quello di Varoufakis, più che inter-nazionale, è trans-nazionale nel senso che a quanto par di intuire, si ripromette di costruire una unica forza politica contemporaneamente presente in più paesi, posizione molto in auge negli ambienti federalisti.

Il terzo schieramento invece, si è trovato subito diviso, una divisione però sopita e rimandata, tra il famoso “Piano B” di France Insoumise e Podemos. I francesi si sono presentati alle ultime presidenziali con un programma corposo “L’avvenire in comune”, nel quale hanno declinato 83 tesi in 7 sezioni. Nella tesi 52, presentavano l’ipotesi subordinata “Piano B”. Si trattativa dell’alternativa all’eventuale (certo) fallimento dei tentativi di correzione della politica europea, l’ultima ratio era la rescissione unilaterale francese dei trattati. Come molti avevano notato ai tempi del referendum greco, le trattative politiche si basano su i rapporti di forza e chi aspira a contrastare il potere dominante deve poter -ad un certo punto- mettere sul piatto l’opzione alternativa, quella che rovescia il tavolo. Senza questa minaccia o concreata alternativa, inutile sedersi a far qualsivoglia trattativa, trattasi di verità negoziale a priori.

Il Piano B francese era “o cambiamo l’UE-euro o usciamo”, rimaneva aperta una successiva  possibilità in cui la Francia sovrana avrebbe poi  stretto patti cooperativi e di collaborazione in ambito educativo, scientifico, culturale. Questa era la tesi 52, la 53 invece, iniziava con un “Proporre un’alleanza dei paesi dell’Europa meridionale per superare l’austerità e lanciare politiche concertate per il recupero ecologico e sociale delle attività” che è appunto ciò che hanno fatto a Lisbona. Con ciò terminava la quarta sezione e si passava alla quinta. La quinta sezione si apriva col titolo “Per l’indipendenza della Francia” e quindi dava outline di ciò che la Francia avrebbe potuto e dovuto fare sia nel mentre rimaneva nelle istituzioni europee, sia a maggior ragione e con più convinzione dopo l’eventuale applicazione dell’opzione nucleare che portava al Piano B, l’uscita unilaterale. La tesi 63, metteva in campo idee concrete di cose ed iniziative  da promuovere  nel bacino Mediterraneo, un Mediterraneo braudeliano quindi considerato sia per la sponda europea (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia), che per quella nord-africana (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia). Il senso dell’intera questione manteneva una certa ambiguità tra questi tre livelli: Francia sovrana, Francia cooperante con i paesi latino-mediterranei nella lotta contro ma dentro l’UE, Francia perno di un nuovo sistema mediterraneo come già Sarkozy ma anche molti altri francesi avevano pensato in passato, ancora dentro l’UE ma a maggior ragione se fuori.  L’ editoriale del numero in edicola di Limes, rimarca pari ambiguità in Macron quando questo sembra superare di slancio il principio di non contraddizione nel sostenere al contempo la Francia sovrana ed uno stadio superiore di Europa federale.

Podemos, pur avendo firmato la Dichiarazione di Lisbona, pare stia ancor tentennando suDiem25 ma più che altro è interessante sottolineare come Iglesias abbia del tutto escluso la condivisione del Piano B di France Insoumise. Al di là delle opinioni specifiche di Podemos sull’euro, Iglesias ha specificato che in Spagna c’è un forte per quanto vago ultramaggioritario sentimento europeista, lo stesso che posso testimoniare personalmente vivendo lì una parte dell’anno, hanno i greci.  Sentimento europeista non vuole affatto dire adesione a questa UE o a questo euro, si tratta di una intuizione più culturale che politica.

Molta parte dell’opinione pubblica europea, è come se avvertisse che i tempi impongono il fare una qualche forma di fronte comune. Il sentimento è forte nel suo radicamento ed al contempo debole nella sua razionalizzazione, unisce i convinti supporter dell’attuale stato di cose, quanto i suoi più convinti critici oltre che ovviamente gli indecisi ed i confusi che sono la maggioranza. Vedi Trump, vedi Putin, vedi Xi Jinping, i britannici che si mettono in proprio, senti di bombe atomiche coreane, terroristi arabi, migranti africani o asiatici, la incombente matassa intricata della “globalizzazione”, l’incubo delle nuove tecnologie, il temuto collasso ambientale e ti viene facile pensare che davanti a tanta minacciosa complessità, l’unione fa la forza e da soli non si va da nessuna parte. Il passaggio da “unione” come spirito vago ad “Unione” come istituzione precisa è garantito dal meccanismo di analogia che abbiamo nel cervello, “sembra” proprio che l’uno risponda all’altro. Vale per le élite, per i medio informati ma anche per coloro che usano più neuroni della pancia che quelli della scatola cranica. Chi si muove politicamente in forma critica sulla questione europea dovrebbe tener conto di questo diffuso sentimento se non altro perché chi fa politica deve aver per interlocutore pezzi di popolazione prima che l’avversario ideologico. Si fanno discussioni con gli amici ed i nemici ideologici davanti a pezzi di popolazione perché il fine politico è conquistare cuori e menti di questi secondi. Dai temi che tratta al linguaggio che usa, questa avvertenza di parlare sempre alla generica popolazione, è del tutto ignorata dalla sinistra che oggi si interroga su dove mai sia finito il suo “popolo”.

Sembra quindi che France Insoumise abbia costruito una posizione a cerchi concentrici di definizione. Il cuore a fuoco è la battaglia contro questa UE ed euro, la corona interna meno a fuoco è la ricerca di alleanze organiche con forze politiche latino-mediterranee da cui la Dichiarazione di Lisbona, la corona esterna ancora meno a fuoco un po’ sciovinista e molto “francese”, è l’idea in fondo guida di una Francia sovrana al centro di cerchi concentrici di cooperazione asimmetrica che arriva fino a pezzi della Françafrique. Questa ultima posizione occhieggia a più vasti settori dell’opinione pubblica francese, inclusi pezzi di classe dirigente ed è forse merito di questa ampia vaghezza se France Insomise ha preso quasi il 20% al primo turno delle presidenziali. Se Mélenchon declina questo target a fasce concentriche che sembrano volersi distaccare dall’UE, Macron declina la stessa geometria egemonica  rivolta verso più UE[1].  Come mai, pur da sponde opposte, i due francesi si agitano tanto occupando più posizioni al contempo e lasciando intendere tutto ed il suo contrario?

Svegliatici, occorre dircelo, tutti un po’ tardi rispetto a ciò che si era stabilito a suo tempo nel trattato di Maastricht (che ricordiamolo è del 1992), l’analisi critica si è soffermata su gli aspetti economici e monetari, tra neo-ordo-liberismo e posizione dominante tedesca. Ma se andiamo a ritroso del registro storico, si vedrà come tutto ciò che precede Maastricht e l’euro  (ed inclusi questi) a partire dall’immediato dopoguerra, ha il suo baricentro non in Germania ma in Francia. E’ la Francia a promuovere la CECA, è la Francia a non approvare la riforma decisiva che avrebbe potuto dare un futuro politico all’Europa ovvero la CED (approvata già dai Benelux e dalla stessa Germania), è la Francia e non far entrare la Gran Bretagna in UE per poi ripensarci ed è lei stessa a sospendersi dalla NATO per diventare potenza atomica per poi ritornarci, è De Gaulle ad invitare Adenauer a Parigi per sancire il trattato dell’Eliseo (1963) quindi fissare formalmente la diarchia regnante l’europeismo, e così via fino allo stesso Maastricht e l’euro che nascono come  contropartita richiesta alla Germania per il via libera dato alla sua preoccupante riunificazione. I tedeschi, si sono limitati ad imporre la struttura economico-monetaria ai trattati, struttura che per altro avevano già nella loro Costituzione dal 1949 e dalla quale non avevano la minima intenzione di derogare perché fonda la loro nazionale narrativa post-bellica, soprattutto come spiegazione dell’irrazionalità da cui sorse il nazismo. Secondo questa narrativa, il nazismo venne dall’eccesso di inflazione.

Questo ci ha portato altrove a definire il progetto europeista, primariamente un trattato di pace tra Francia e Germania, stante che nei due secoli precedenti, questi campioni della potenza europea, si erano già combattuti e reciprocamente invasi più volte. Il  problema del confine tra Francia e Germania con tutto il portato di carbone, acciaio, metallurgia e siderurgia (quindi armi), è una costante geopolitica ovvero basata sulla politica (gli Stati, la volontà di potenza) e la geografia (confine in comune, passato indistinto, assenza di chiari segni geografici di separazione). Se Mélenchon si agita verso più autonomia e Macron verso più integrazione, l’uno pensa che la relazione con la Germania sarà sempre subalterna, l’altro pensa di poterla dominare o quantomeno contrattare secondo la tradizione del dopoguerra, il punto in comune è la Francia, la sua posizione nei prossimi decenni. Si noti come in tutta la questione europeista si incrocino sempre due assi, quello degli interessi delle classi sociali e quello degli interessi delle nazioni. Ogni governante sa che maggiore è il vantaggio portato alla propria nazione, più relativamente agevole sarà gestire i rapporti tra le classi sociali.

Tutta la faccenda europeista, se da una parte discende dal problema dei confini e dalla turbolenta convivenza dei due potenti vicini, non meno certo che da considerazioni ed interessi dell’ economia di mercato e della élite che ne beneficiano, discende anche da alcune non sbagliate considerazioni che si trovano nel Manifesto di Ventotene non meno che in Carl Schmitt, in Alexander Kojève non meno che nel primo scritto europeista del poi diventato leggenda nera principe Coudenhove Kalergi, la PanEuropa. Questi e molti altri, che data l’estrema eterogeneità non possono dirsi discendenti di una unica ideologia (ci sono accenni di Stati Uniti d’Europa addirittura in Lenin), evincono sin dai primi del Novecento che oggettivamente Europa non è più un campo di gioco unico in cui si riflettono le sorti del mondo. Gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Russia, il mondo arabo su fino all’India, segnano il prepotente allargamento del rettangolo di ogni gioco, politico, geopolitico, culturale, militare ed ovviamente economico. Lo spettro largo di queste riflessioni dura un secolo ed è la versione più colta del sentimento “unionista” di senso comune di cui abbiamo parlato prima.  Improbabile che Europa, dove a fronte di un 7% delle terre emerse si concentrano ben il 25% degli Stati mondiali, possa continuare a pensarsi come una macedonia conflittuale di stati e staterelli di più o meno antico pedigrèe. La doppia tenaglia anglosassone e sovietica per più di quattro decenni, ha reso presente a tutti come la divisione fa imperare altri soggetti, la sovranità prima ancora che monetaria, fiscale e giuridica, la si è perduta militarmente, quella politica ne è solo la conseguenza. Questo ci dice che se prima abbiamo individuato due assi ora ne dobbiamo mettere un terzo, oltre alla lotta tra le classi di una nazione e quella tra le nazioni europee tra loro, c’è anche da considerare che il quadrante di gioco non è più solo quello sub continentale ma quello mondiale.

Torniamo così al nostro discorso principale. Chi si propone di democratizzare l’UE temo stia perdendo altro tempo. Mi domando se “più democrazia” sia una invocazione infantile che serve ad acchiappare voti agitando il nobile drappo dell’autogoverno dei popoli o un preciso piano. In questo secondo -improbabile- caso, mi domando come pensano questi neo-democratici di risolvere il problema dell’oggettiva differenza che corre tra popoli latini e mediterranei e popoli germani e scandinavi, tra gli euro-occidentali e gli euro-orientali. Se domattina Mago Merlino con la bacchetta magica ci donasse il parlamento dell’euro a cui sottomettere la politica della banca centrale, i mediterranei  avrebbero la maggioranza dei 2/3, se ben convinti (e ci sono oggettivi interessi materiali nazionali a largo spettro a supporto) potrebbero far passare la riforma dell’euro facile-facile. Un millisecondo dopo la Germania, l’Olanda, la Finlandia, Lussemburgo ed i tre baltici uscirebbero.  Lo stesso varrebbe per la maggioranza italo-francese nell’eventuale parlamento della piccola federazione dei sei paesi fondatori la CEE-UE.  Così per lo statuto dell’euro ma anche per le altre necessarie riforme economiche e sempre evitando la politica estera che con la sua radice geografica, pone i mediterranei e quelli del Mare del Nord su sponde opposte, interessi diversi, prospezioni ed alleanze altrettanto diverse. Per avere democrazia ci vuole -al minimo- una Costituzione un parlamento, un governo, l’unione dei tre poteri di Montesquieu ed in definitiva niente di meno di uno Stato. Questo Stato che è l’unico sistema conosciuto in cui applicare la democrazia, a 6 se a base storica (?), 19 se su base euro o a 27 se su base UE, non è materialmente possibile per motivi auto-evidenti che i “democratici” non capisco perché si ostinino a non voler vedere. Se per fare un mercato si può essere 19 o 27 e pure eterogenei, per fare uno Stato sono richieste omogeneità giuridiche, culturali, religiose, linguistiche, storiche, politiche. Ogni volta che il sistema di mercato (UE) tenta di fare lo Stato si spacca, ma non lungo le linee ideologiche, lungo le linee geo-storiche. Ancora di recente, Macron si è speso per l’intensione (più governante quasi-federale) e Juncker ha invece ribadito l’estensione (ci sono molti paesi nel sistema, sarebbe più utile allargare il sistema ad altri paesi ad esempio i balcanici), perché le logiche per fare Stati o quelle per fare mercati sono intrinsecamente diverse.

Nessuno vuole in Europa uno Stato federale (anche perché materialmente irrealizzabile), quindi nessuno è in grado di sottomettersi a volontà generali che diventerebbero potere di popoli su altri popoli. Tra il disprezzo nei confronti dei mediterranei ed il ricambiato odio per i tedeschi o l’ironia svagata su quanto si sentono furbi i francesi senza esserlo davvero, mai come oggi stanno tornando in auge sentimenti nazionalistici che categorizzano molto sommariamente l’Altro. Far finta che non esistono i popoli o gli Stati o la storia o la geografia non aiuta, non appena si spinge troppo sull’inflazione retorica unionista, ecco spuntare subito il rimbalzo sovranista. Ma il peggio è che unionisti e sovranisti si disputano il gran premio della chiacchiera perché tanto né sembra si possa andare a più unione, né tornare alla nazione e ciò che impera, alla fine della fiera, è sempre e solo la Commissione, la BCE, i “Nien!” tedeschi. Tra il grande ed il piccolo Stato, alla fine vince sempre il Mercato.

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Siamo nel doppio vincolo, da una parte vorremmo esser più forti ed unirci ma la nostra estrema eterogeneità lo rende impossibile, dall’altra vorremmo ripristinare una accettabile democrazia e tornare a decidere noi sul “che fare?” il che però ci riporta in teoria ai nostri singoli stati che già oggi ma viepiù fra trenta anni, varranno quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni. Strappare più sovranità oggi, significa perderla senza speranza nell’immediato domani del commercio internazionale, della circolazione dei capitali, della dittatura dei mercati, delle nostre fragilità economiche, dei diktat anglosassoni sulla NATO, delle crescente minorità politica di nazioni piccole, sempre più anziane, sempre meno competitive e significative nello scenario mondo.

In questo dilemma che a volte si presenta come trilemma (dentro la nazione, tra le nazioni europee, nazioni europee vs resto del mondo) la sinistra ha forse una opportunità per quanto la confusione mentale ed ideologica oggi occulti proprio ciò che ha davanti a gli occhi.

Se gli otto paesi firmatari del distinguo rispetto ai sogni devolutivi macroniani sono tutti del nord Europa (inclusa la Germania dietro le quinte), se il gruppo di Visegrad unisce stati orientali confinanti ed eterogenei uniti però nel distinguersi rispetto ai dettami occidentali franco-tedeschi, se la Dichiarazione di Lisbona è firmata dai meridionali portoghesi, spagnoli, francesi ed una particella di italiani è perché l’Europa è fatta di popoli ed i popoli di culture, di storie sovrapposte su un piano geografico costante che unisce alcuni e separa altri. Sono le culture l’ordinatore che consente e non consente le eventuali fusioni tra Stati-nazione in Europa. Nessun paese latino mediterraneo avrebbe grossi problemi ad avere una banca centrale che fa quello che ogni banca centrale al mondo fa (espansione economica, controllo del cambio, aiuto nella gestione del debito pubblico oltre al fatidico controllo dell’inflazione), non così i tedeschi e la loro area egemonica nord europea. E lo stesso gruppo dei latini certo che ha interessi geopolitici comuni verso il Mediterraneo, il Nord Africa ed anche il resto del continente che s’affaccia sul nostro stesso mare (per non parlare delle opportunità di sistema con il Centro-Sud America), quindi interesse ad unire le forze in qualche modo. Interessi diversi da quelli germano-scandinavi o dei confinanti con la Russia.

Tra paesi latino mediterranei si possono fare alleanze senza speranze che si battano per una diversa UE, si possono promuovere  maggior livelli di integrazione e cooperazione fattiva mentre si rimane nell’UE, ci si può dar man forte per coordinare una simultanea uscita dall’euro tornando a chi ci crede alle rispettive valute o per uscire tutti dall’euro tedesco e confluire  in un altro euro mediterraneo espansivo, svalutabile, di aiuto alle gestione dei debiti pubblici (soprattutto quelli collocati all’estero, estero che a quel punto avendo nel nuovo sistema sei diversi paesi, diminuirebbe come impegno nel caso lo si volesse ricomprare per immunizzarsi dagli spread, come è in Giappone), sottomesso non ad un trattato ma ad un parlamento democraticamente rappresentativo.

Nel rompicapo europeo non ci sono soluzioni facili e questa invocazione di un insieme latino-mediterraneo non è esente da problemi. Si tratta però di scegliere la via meno problematica e sopratutto quella che apre a maggiori condizioni di possibilità. La comune cultura latino-mediterranea è l’unica solida base per cominciare a sviluppare progetti politici inter-nazionali per tempi che stanno velocemente scalando indici di complessità sempre meno rassicuranti. Ci conviene oltremodo svegliare tutti dal sonno dogmatico che vuole unioni a 27 o a 19 senza che sussistano gli indispensabili pre-requisiti per farlo, così come ci conviene essere realisti e responsabili e cominciare a pensare  che nel mondo nuovo paesi solitari da 60, 40, 10 milioni di abitanti avranno sovranità men che formali. Coordinarsi tra simili per criticare, provare a cambiare o abbandonare l’euro non meno che la NATO, è condizione necessaria, il fine preciso lo valuteremo assieme, intanto fissiamo il mezzo.

Non esiste una sinistra senza una Idea ed in tempi così complicati, far base su un substrato comune di origine geo-storico, quindi culturale, quindi popolare e reale, a noi sembra il modo migliore per far si che la sinistra torni a pensare e ad agire politicamente. Se le opinioni specifiche su UE, euro e vari tipi di progetti avanzati da più parti fanno perno su quel sentimento istintivo che pensa necessario unire le forze tra alcuni di noi, dare a quel sentimento la prospettiva più limitata e perciò più concreta dell’alleanza progressiva tra noi mediterranei europei (per i paesi-popoli musulmani mediterranei il discorso verrà fatto dopo, non si possono fare progetti di unione federale con paesi del nord Africa, ora), può aiutare a darci identità, egemonia nel dibattito pubblico, spinta creativa a disegnare il mondo che verrà, voglia di tornare a fare politica. Se la sinistra nasce nel conflitto sociale interno, oggi deve anche misurarsi con il formato Stato-nazionale, coi rapporti interni all’Europa che sono tra nazioni prima che tra classi e col problema di ciò che è fuori dal nostro antico mondo. L’Idea deve orizzontarsi su tutte e tre le variabili altrimenti rimane idealismo, inutile sequenza di petizioni di principio e non progetto.

La sinistra uscirà dalla sua crisi quando dimostrerà di avere un progetto positivo sulla realtà, alla funzione critica si può aderire scrivendo e comprando libri (una delle principali attività della sinistra), ma non si costruisce realtà con la “potenza del negativo”. La sinistra nata dal conflitto di classe deve sapersi riattualizzare davanti ai tre scenari sistemici mai davvero trattati in profondo dalla sua pur voluminosa produzione teorica: nazione, Europa, mondo. Niente progetto, niente sinistra.

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[1] Il Piano Macron è stato presentato a settembre 2017 alla Sorbona. Le “corone” del piano Macron erano sicurezza, difesa e politica estera, tre argomenti che si fondono come interesse francese ad agire negli “esteri” identificando l’interesse francese con quello europeo. La partecipazione francese, almeno “ideale”, al bombardamento in Siria e l’orgogliosa rivendicazione valoriale che ne ha fatto Macron il 17 aprile a Bruxelles, confermano di questa vocazione del francese ad intestarsi la funzione esteri. (Sullo sviluppo del business della difesa, si veda questo contributo di B. Montesano su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/difesa-europea-business-della-sicurezza/ a rimarcare la costante ambiguità per la quale non si parla di esercito comune ma di business comune). Oltre ai tre argomenti “estero”, il piano Macron ha ambiente e ricerca tecnologica dove quest’ultima segna una delle croniche debolezze europee. Nessuno stato europeo è effettivamente in grado di mobilitare investimenti significativi in grado di competere con quelli americani e cinesi, mancanza che poi si riflette nelle minori condizioni di possibilità economiche e mancanza di indipendenza in un settore strategico. Infine, l’euro che Macron vorrebbe riformare con un comune bilancio e conseguente allineamento fiscale e con unico ministro delle Finanze.  Difficile che anche volendo (e sull’esistenza di questa volontà è lecito nutrire parecchi dubbi), la Germania in cui le due forze politiche in ascesa e che controllano già oggi un quarto dell’elettorato sono i Liberali euroscettici ed AfD apertamente xenofoba, aderisca al progetto se non rendendolo ancora più ambiguo tra la sua forma narrativa e la sostanza ben meno palpitante. Chissà quindi se ci sono proprio i tedeschi dietro la presa di posizione del 6 marzo, in cui otto paesi euro (Finlandia, Irlanda, Olanda, i tre baltici, Svezia e Danimarca ultimi due non in Eurozona e si tenga conto che fuori Eurozona c’è poi su posizioni simili anche il Gruppo di Visegrad) hanno pensato necessario dichiarare assieme l’assoluta contrarietà ad ulteriori devoluzioni dei poteri nazionali, bocciando in sostanza il piano Macron. A sentire le dichiarazioni di Merkel in preparazione del vertice con Macron sembrerebbe proprio di sì, i settentrionali  non vogliono alcun sistema politico comune coi meridionali, non si capisce perché i meridionali non ne prendano atto e ne traggano conclusioni.

RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN_ di Massimo Morigi

CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE O CULLA DEL NUOVO MONDO? RIFLESSIONI INTORNO A “IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE” DI PIERLUIGI FAGAN

DI MASSIMO MORIGI

Come del resto per palesemente manifestata intenzione comunicativa dell’autore, l’assai denso e stimolante contributo di Pierluigi Fagan per “L’Italia e il mondo”,  Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare (URL di riferimento: http://italiaeilmondo.com/2018/04/05/il-conflitto-permanente-come-culla-del-nuovo-mondo-multipolare-di-pier-luigi-fagan/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWLdQbR;https://pierluigifagan.wordpress.com/, WebCite: http://www.webcitation.org/6ySWkATvg) contiene due distinti livelli di analisi. Il primo, mostrato immediatamente in apertura del contributo, riguarda il problema di come e se si possa parlare di conoscenza scientifica nelle scienze politiche e sociali (Fagan, per la verità, non usa questa impostazione terminologica ed epistemologica ma ci mette in guardia contro le “false analogie”che, come sappiamo, sono state la grande trappola di tutte quelle impostazioni – in primis quella della scuola positivista, ma di questa ingenuità “analogica” non solo il positivismo si è macchiato, come ben illustra riguardo il moderno realismo classico l’articolo di Fagan –,  che volevano rendere le scienze storiche e sociali una scienza di tipo meccanicistico-naturalistico). Il secondo, che attraversa ed innerva tutto il contributo, è volto a dare un volto ed una fisiologia al nuovo mondo multipolare che stiamo vivendo dopo la caduta del muro di Berlino. Ma Fagan non vuole limitarsi a fornirci (in tutto il suo intervento: in maniera egregia) questa rappresentazione ma lo scopo finale del contributo, in gran parte riuscito (poi con qualche distinguo che avanzeremo), è intrecciare il livello di critica epistemologica contro una metodologia interpretativa facilona ed analogica del ragionamento sulla storia e la società basata  sulle false analogie con la presa d’atto del  mutamento in senso multipolare dello scenario internazionale, in un percorso argomentativo dove questo mondo multipolare, proprio per la sua novità, è da un lato la pietra tombale dell’ingenuità di tipo analogico e, dall’altro. ci deve introdurre alla consapevolezza di una visione dove il conflitto attraversa tutti i livelli dell’umano operare. Forse il passaggio dove meglio viene esplicitata questa tensione all’unione del livello della costruzione di una nuova teoresi storica e sociale con la sua (brillante) presa d’atto della multipolarità dell’attuale (e futuro) scenario internazionale è il seguente: «Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.» Il realismo che quindi dovrebbe essere all’altezza dell’interpretazione del nuovo mondo multipolare viene definito come un «nuovo “realismo complesso”» , un nuovo realismo complesso che, come il lettore potrà verificare dalla lettura del contributo, partendo dai due caposcuola del realismo politico Hans Morgenthau e Kenneth Waltz, intende su questi due autori compiere una sorta di hegeliana Aufhebung che faccia giustizia soprattutto delle false analogie che, come ben ci mostra Fagan, hanno sempre afflitto anche un’impostazione interpretativa della politica, il realismo, che, proprio per onorare il suo termine, dovrebbe stare religiosamente attaccata alla realtà effettuale e rifuggire dalle facili ed ingenue analogie tanto giustamente deprecate da Fagan (e tanto inutili, sottolinea assai opportunamente sempre per Fagan, a comprendere il nuovo mondo multipolare che non ha nessuna analogia col vecchio mondo bipolare dove esercitarono la loro dottrina Morgenthau e Waltz). Ma questo superamento/conservazione del moderno realismo politico classico (quello, per intenderci dei sunnominati Waltz e Morgenthau e di tutti coloro che hanno operato sulla loro scia nel secondo dopoguerra: per lo scrivente discorso molto diverso per il realismo à la Tucidide e, soprattutto,  à la Machiavelli, assolutamente  costoro più dialettici e teleologici dei due autori realisti che hanno segnato gli ultimi settant’anni di studi) questa Aufhebung alla luce di un nuovo realismo complesso, trova una completa definizione in Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare? Su questo punto è lecito avanzare qualche perplessità e questo non per mancanza di acutezza critica e nell’analisi delle fallacie interpretative del moderno  realismo classico o della nuova situazione che si è prodotta nel mondo con la polverizzazione dei centri di potere ma perché nell’attuale scienza politica (e quindi questa critica non è solo per Fagan ma è anche per lo scrivente) deve essere ancora compiuto dal punto di vista della teoresi politica quel percorso di completo distacco dal meccanicismo positivistico (e quindi, di riflesso, anche dalle false analogie tanto deprecate da Fagan). Ma, del resto, è proprio Fagan ad indicarci che è proprio questo il punto che deve essere superato quando scrive che «Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti ». Qui Fagan con “fisica realista”si riferisce specificamente alla dinamica dei rapporti internazionali come meccanicisticamente e violentemente inquadrati dal realismo alla Morghenthau o alla Waltz ma ci sia consentito di fare un (benevolo) processo alle intenzioni a Fagan dicendo che il nostro ha (giustamente) indicato un Écrasez linfâme! nel meccanicismo pseudonaturalistico di stampo galileano e poi positivistico e neopositivistico che ormai da cinque secoli sta ammorbando le scienze storiche e sociali. A questo punto nel rilevare il non ancora soddisfacente percorso teorico del nuovo realismo politico proposto da Fagan, si potrebbe evidenziare con la matita rossa il non avere affrontato il problema del costruttivista Alexander Wendt, cioè se sia condivisibile o meno l’impostazione che l’anarchia del sistema internazionale sia un dato di natura prettamente culturale e per niente “meccanica”(problema affrontato dal Alexander Wendt in Id., Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425, articolo consultabile all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf e che noi per la sua importanza abbiamo anche caricato  su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf e https://ia601506.us.archive.org/7/items/AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf/AlexanderWendt.AnarchyIsWhatStatesMakeOfIt.TheSocialConstructionOfPowerPolitics.pdf), oppure, per risalire alle origini della geopolitica (geopolitica e realismo politico moderno, come si sa, hanno stretti vincoli di parentela, e senza voler forzare troppo la mano, si potrebbe dire che il moderno realismo politico è, per molti versi, la traduzione anglosassone del secondo dopoguerra  della geopolitica di area tedesca – cfr. Patricia Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo fra Otto e Novecento, Roma, Carocci Editore, 2014; e nonostante questa strettissima filiazione con il moderno realismo politico di area anglosassone, geopolitica condannata alla damnatio memoriae per i suoi reali, e presunti,  legami col nazismo – Haushofer maestro di Rudolf Hess, Hess  a sua volta sinistro Virgilio di geopolitica di Hitler incarcerato nella prigione di Landsberg am Lech dopo il fallito putch di Monaco e che durante questa dorata carcerazione, potendo anche approfondire la sua superficiale conoscenza della geopolitica, scrisse il Mein Kampf – e per l’essere stata  considerata la Germania del  Novecento – e quindi in extenso tutta la sua cultura politico-strategica, fra cui in prima fila la geopolitica –  la protagonista e colpevole per l’annientamento a livello globale dell’importanza del Vecchio continente), il non avere Fagan citato  Kjellén e la sua concezione dello Stato come forma di vita (Rudolf Kjellén, Staten som lifsform, Gebers, 1916): il punto vero è che sia Wendt che Kjellén, pur andando nella giusta direzione di un modello teorico antimeccanicisitico, né riescono, in fondo, a proporne uno alternativo né escono, di conseguenza, dalle false analogie tanto giustamente deprecate da Fagan.

In particolare, in Wendt, seppur particolarmente sentita la necessità di uscire dal modello meccanicistico di stampo galileiano, e allo scopo Wendt arriva a ricorrere alla meccanica quantistica da lui ritenuto alternativo alla fisica meccanicistica galileano-newtoniana (cfr. Alexander Wendt, Quantum mind and social science: unifying physical and social ontology, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; questa impostazione “quantistica”, denunciando a giudizio del Repubblicanesimo Geopolitico, una notevole e del tutto giustificata “nostalgia” verso un ritorno di una dialettica di stampo hegeliano) non ci si decide mai, alla fine, di prendere il coraggio a due mani arrivando ad affermare, come invece in Fagan, che gli Stati  “sono entità intenzionali ed autocoscienti” ma il suo costruttivismo è orientato ad affermare che l’intenzionalità ed autocoscienza degli Stati sono, in ultima analisi, un espediente euristico per giudicare la dinamica interna ed esterna di  questi Stati e non un giudizio in merito alla loro intima natura (così facendo, è ovvio, Wendt evita false analogie di tipo organicistico ma, altrettanto ovvio, compie un debole compromesso verso quel meccanicismo che egli vorrebbe demolire in direzione di un organicismo che dovrebbe sì lasciarsi alle spalle ogni falsa analogia ma che per essere veramente epistemologicamente innovativo e produttivo dal punto di vista di un rinnovato realismo dovrebbe andare, come però non riesce alla fine ad accadere in Wendt, alla riscoperta di un organicismo antimeccanicistico lungo la direttiva teleologica – e, aggiungiamo noi, intimamente dialettica e, quindi, in ultima analisi, hegeliano-idealistica –  Aristotele-Machiavelli).

Kjellén, al contrario, col suo Stato come organismo vivente, compie sì un grande e coraggioso passo ma in lui è fortissima la presenza della falsa analogia di una visione certamente organica ma visione organica che è quasi totalmente in preda di un organicismo di stampo positivistico e meccanicistico (e, vista l’epoca, senza alcuna possibilità di fuoruscita dalla stesso attraverso la fisica “alternativa” della meccanica quantistica, in primis dei suoi principii, da un certo punto di vista alquanto dialettici,  della superposition quantistica, della complementarietà e, last but not the least per la sua immensa portata teleologica, dell’observer effect).

In conclusione, il problema è uscire dalle false analogie nel giudicare gli eventi storici e sociali, false analogie che possono originare semplicemente dal paragonare l’attuale mondo multipolare con l’appena tramontato mondo pre caduta muro di Berlino, ma, ancor più grave, false analogie che ci giungono dal vedere il mondo delle relazioni umane dominato da schemi meccanicistici e in cui, in questo caso, la corretta  via d’uscita è dotare, come ha fatto Fagan, gli Stati e le formazioni sociali umane (ma, aggiungiamo noi, anche non umane) di una loro capacità organica (ma qui con il rischio che questa loro natura organica sia immiserita e snaturata, a sua volta, da una sorta di meccanicismo deterministico, o ancor peggio – e qui lo diciamo di sfuggita, ma rischio che deve essere sottolineato –  che la natura organica e  quindi teleologica e quindi dialettica di questi aggregati – ineludibile natura teleologica e dialettica degli aggregati organici sociali, storici, culturali o biologici che siano, in assenza della quale questi non potrebbero relazionarsi con l’ambiente e, quindi, in ultima istanza, esistere: rimandiamo ancora una volta a Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 – venga confusa con una sorta di spiritistico  ed irrazionalistico élan vital di bergsoniana memoria).

E allora? Ci permettiamo di indicare (non di dimostrare, per carità, le dimostrazioni le lasciamo ai geometri neopositivisti) la risoluzione sciogliendo la domanda retorica del titolo di queste riflessioni al contributo di Fargan in senso positivo e quindi affermando che il conflitto non è solo la culla del nuovo mondo multipolare ma è, soprattutto, la culla del mondo tout court. Ed affermando, inoltre, che perché questa “culla del mondo” possa essere il luogo di un conflitto umanamente profondo e produttivo, non è possibile prescindere da un’autentica e sentita filosofia della prassi che non si limiti ad analizzare il conflitto ma che questo conflitto costituisca e riconosca come categoria gnoseologica ed epistemologica interiormente vissuta e progressivamente ed attivamente proiettata verso una realtà esterna che, proprio in ragione di questa comune natura conflittuale, sia dinamicamente e dialetticamente legata all’agente che ne ha compresa la comune radice creativo-dialettico-strategico-conflittuale.

La proposta è, quindi, aggiornata sul piano empirico dalla consapevolezza di uno scenario politico multipolare   (e magari integrata sul piano delle scienze naturali dagli interessanti apporti euristici dati anche dalla meccanica quantistica ma non solo, vedi teoria del caos – antesegnano della quale Carl von Clausewitz ed il suo Vom Kriege ed epigenetica – vedi i lavori di Eva Jablonka, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb, Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005 –, temi da noi già sfiorati in Dialecticvs Nvncivs e altrove, e che troveranno una più profonda trattazione in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico) ma su un piano teorico più alto, animata dalla consapevolezza della natura costitutiva del conflitto nella morfogenesi del mondo naturale ed umano lungo la direttiva di una filosofia della prassi che vede in Giovanni Gentile, Antonio Gramsci dei Quaderni del Carcere e nel György Lukács di Storia e coscienza di classe i suoi più recenti terminali ma che ha avuto inizio con la phronesis aristotelica per continuare con Machiavelli e poi con Hegel, quella stessa, in fondo, del “realismo complesso” indicata da Fagan. Ovviamente non pretendendo, proprio per la natura complessa di questo realismo, che egli possa concordare su ogni singolo punto qui esposto ma sperando, sempre per la natura complessa e quindi dialettica di questo realismo, che questo dibattito, ponendo la parola fine ad ogni ingenua, passiva e meccanicistica analogia, possa essere l’inizio di  nuove profonde ed attive linee di azione.

Massimo Morigi – 14 aprile 2018

 

 

Riguardo a   “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan”, di Massimo Morigi

Riflettendo in queste pagine dell’ “Italia e il mondo” sul   “ “Che fare” di Carl Schmitt. Europa, nuovi stati, Nomos del mondo” di Pierluigi Fagan (sempre pubblicato in questo blog) riassumevo nei seguenti termini il mio pensiero in merito all’odierno stato della scienza politica ritenendo che, pur nella differenza di impostazione nell’affrontare la storia del pensiero politico  fra lo scrivente e Fagan (a mio giudizio un eccesso di schematismo classificatorio in Fagan che lo porta a trascurare la presenza o meno della componente conflittuale-strategica dei singoli pensatori: «Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza», scriveva in quell’intervento Fagan riferendosi a Carl Schmitt, accusando quindi il suo pensiero di strumentalismo e trascurandone perciò la drammatica ed euristicamente fondamentale  dialettica del confronto della teoria con la prassi politica), Pierluigi Fagan fosse pienamente convergente con me  nel cogliere il terribile deficit di pensiero che caratterizza le odierne classi dirigenti politico-intellettuali delle cosiddette democrazie rappresentative: «Conclusione che non conclude ma che (dovrebbe) aprire il cantiere del rapporto fra prassi e teoria politica: c’è indubbiamente diffusa una rinnovata consapevolezza che le vecchie mitologie politiche liberali e democraticistiche non stanno più letteralmente in piedi; ma c’è in tutti noi indubbiamente il bisogno di un rinnovato ed approfondito sforzo teorico-pratico per rimpiazzare queste consunte mitologie politiche. E l’odierno contributo di Pierluigi Fagan senza dubbio si inserisce validamente in quest’alveo.» Ora riguardo a “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan” pubblicata in tre parti in questo blog (caricata anche su YouTube e sulla quale piattaforma viene pubblicata nelle sue tre parti anche sul seguente unico URL  https://www.youtube.com/watch?v=MBVEzL4hsL0), non posso che confermare – e rafforzare – il mio giudizio totalmente positivo su questo studioso, giudizio positivo ulteriormente confermato in ragione non solo del fatto che nell’intervista Fagan ribadisce e argomenta ulteriormente l’attuale crisi che attraversa la teoresi politica ma fornisce anche indizi per fornire un contesto storico alla stessa. Per Fagan questa crisi di pensiero risale principalmente al periodo fra il primo ed il secondo dopoguerra (cita come esempio e della debolezza intrinseca di questo pensiero ed anche della scarsa produttività dello stesso il progetto della Paneuropa di Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi e il Manifesto federalista di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, risibili non solo per la – dirigistica ed autoritaria –  utopicità di voler federare un’Europa che al massimo presa nel suo insieme, nell’insieme cioè delle sue immense differenze, potrebbe aspirare ad una confederazione ma anche ridicoli nel senso che sono state le uniche nuove proposte di un Vecchio continente in crisi che, invece, sul piano culturale ed artistico si era contraddistinto come l’iperproduttiva fucina della modernità); mentre, a mio giudizio, la crisi del pensiero politico moderno (e la crisi del Vecchio continente tout court, le quale due cose, come è di tutta evidenza, sono strettissimamente correlate) va piuttosto collegata col trauma della seconda guerra mondiale, conflitto che ha significato accanto alla giusta e sacrosanta damnatio memoriae del totalitarismo nazista e fascista anche la damnatio memoriae di un qualsiasi pensiero  non  di stretta osservanza universalista, liberale e/o comunista-internazionalista che fosse. Ma queste sono non dico questioni di dettaglio (non lo sono di dettaglio sia perché anche l’universalismo politico e filosofico possiede una sua dialetticità storica, e a seconda o no che si concordi sulla realtà di  questa dialetticità si è o reazionari –  absit iniuria verbis! – o appartenenti ad una tradizione realista-strategica ed intrinsecamente dialettica (Machiavelli, Mazzini, Marx, Gramsci, il György Lukács di Storia e coscienza di classe) ma certamente problemi che però non riescono ad occultare il fatto principale – e puntualmente rilevato da Fagan – che la crisi del pensiero politico occidentale – e della sua filosofia – non deriva dal fatto che la teoria ha giocato tutte le sue carte ma dal semplice dato di fatto che la crisi geopolitica dell’Europa, che ha avuto il suo acme nel Secolo breve, non poteva non produrre anche una contemporanea crisi di pensiero: non grande importanza, allora stabilire l’esatto terminus a quo, l’importante è avere ben presente il processo. Al giorno d’oggi la vera nobilitate di un pensiero e di un pensatore è sulla consapevolezza di questo inestricabile e dialettico nesso fra dato geopolitico e/o storico e dato teorico che si misura. Da questo punto di vista il pensiero di Fagan veramente molto attento, come ama concepirlo Fagan, al dato della “complessità” del mondo contro ogni ideologico tecnicismo ed invadente ed autoritaria tecnocrazia (ma noi, preferiamo dire: estremamente sensibile alla storicità e dialetticità dell’agire umano) si colloca veramente con grande autorità nell’alveo storicista di una filosofia della prassi che ha compreso che non esiste una evoluzione della teoresi politica qualora questa si consideri separata dalla “bassa” pratica del cambiamento del “politico”. E di questa non piccola consapevolezza dobbiamo continuare a ringraziare Pierluigi Fagan.

 

 

Massimo Morigi, 31 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_3a parte

Qui sotto il link della terza ed ultima parte dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_1a parte

Qui sotto il link della prima delle tre parti dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

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