SITREP 8/1/23: L’Egemone inizia a disfarsi, di SIMPLICIUS THE THINKER

RITORNA IL FANTASMA DEL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA: SERVE ALLA NATO O ALLA SPECULAZIONE FINANZIARIA E POLITICA? _ a cura di Luigi Longo

RITORNA IL FANTASMA DEL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA: SERVE ALLA NATO O ALLA SPECULAZIONE FINANZIARIA E POLITICA?

a cura di Luigi Longo

Il decreto-legge 31 marzo 2023 n.35, recante << Disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria >>, approvato in via definitiva nella seduta del Senato del 24 maggio 2023, formalmente dà il via all’approntamento del ponte sullo Stretto di Messina (si veda anche il dossier del 5 aprile 2023, a cura del Servizio Studi del Senato e della Camera, su “Disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria. A.C. 1067- D.L. 35/2023”, https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/19/DOSSIER/0/1375835/index.html?part=). L’iter di realizzazione del progetto del Ponte contiene le date di inizio dei lavori (2024) e di fine dei lavori (2030), così come fu configurata, nel 2008, dal governo di Silvio Berlusconi che fissava nel 2010 l’inizio dei lavori e nel 2016 la fine dei lavori; sarà, in sostanza, considerata la stessa durata temporale della realizzazione del Ponte, un progetto copia e incolla (della serie il tempo passa invano! Sic).

La storia si ripete, ma in maniera diversa. Vediamo come. Nella relazione di Governo del 31 marzo scorso, di accompagnamento al citato decreto-legge, si sottolinea che l’opera è «un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di basi militari Nato nell’Italia meridionale». Per la prima volta, a mia conoscenza, viene detto con chiarezza che il Ponte è una infrastruttura fondamentale per la Nato, meglio per gli Usa e le loro strategie di conflitto per il dominio mondiale nella fase multicentrica.

E’ questa chiarezza di servitù volontaria del Governo che non convince, così come non convincono le pressioni per la realizzazione del Ponte da parte sia dell’Unione Europea (un soggetto politico inesistente: una espressione geografica di metternichiana memoria), sia della Nato (uno strumento delle strategie di potenza degli Usa).

Non vi è nessuna ragione, né di un sapere critico, né di un sapere sistemico razionale (militare, economico, territoriale, ambientale, sismico, ingegneristico, fisico, storico, eccetera) che sostenga la fattibilità e l’utilità del Ponte; mentre diventa forte la convinzione che si tratti di una speculazione finanziaria che la storia del progetto del Ponte di Messina dimostra (un costo previsto oltre i 10 miliardi di euro, una previsione della Webuild SpA la società leader del settore costruzioni nata nel 2014 dalla fusione delle imprese Salini ed Impregilo. La previsione di un anno mezzo fa non tiene conto ovviamente del terremoto dei prezzi generato dalla guerra Russia-Ucraina e dalle conseguenti speculazioni sui mercati finanziari, specie relativamente alle due componenti chiave del Ponte, cemento e acciaio. Cfr. Antonio Mazzeo, Ponte sullo Stretto: il mostro è riemerso, www.antoniomazzeoblog.blogspot.com, 4/12/2022) e di una ulteriore militarizzazione del territorio (case matte militari sparse sul territorio), utile alle strategie statunitensi, di cui i servitori italiani ed europei sono a conoscenza (per quello che debbono eseguire) ma debbono ubbidire tacendo.

E si sa che le forme legislativa e giuridica, espressioni dei dominanti e dei sub-dominanti, velano i processi reali: i veri rapporti di potere non si mostrano!

Concludo ricordando la prefazione di Umberto Santino al libro di Antonio Mazzeo (I padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina, Edizioni Alegre, Roma, 2010): << C’è da chiedersi se il cantiere per costruire un ponte culturale, sociale e politico, lanciato verso un futuro diverso, sia aperto e operante o faccia parte di un desiderio destinato a rimanere tale >>.

Propongo, nella logica di svelare alcuni aspetti della realtà intorno al Ponte sullo stretto di Messina (quale cavallo di Troia), la lettura dei seguenti tre scritti: 1) Giorgia Audillo, Gli interessi militari dietro al Ponte sullo Stretto di Messina, apparso sul sito www.osservatoriorepressione.info il 27/7/2023, 2) Karim El Sadi, a cura di, Intervista a Antonio Mazzeo: il Ponte opera insostenibile spinta dal governo per collegare basi Nato, pubblicato sul sito www.antimafiaduemila.com il 8/6/2023; 3) Luigi Longo, Le infrastrutture militari nella fase multicentrica, diffuso sul sito www.italiaeilmondo.com il 19/1/2018.

PRIMO SCRITTO

GLI INTERESSI MILITARI DIETRO AL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA

Anche la Nato preme per costruire il ponte sullo Stretto, l’infrastruttura servirà a collegare le basi di Sigonella e Napoli

di Giorgia Audiello

A chi serve davvero il ponte sullo stretto di Messina? Il tema è tornato al centro dell’attenzione dopo che il governo ha deciso di riprendere il progetto infrastrutturale per collegare la Sicilia alla Calabria e sono emerse le forti pressioni dell’ambito militare – in particolare della Nato – per la realizzazione dell’opera. Più che attuare la costruzione dell’infrastruttura per migliorare la mobilità civile, infatti, l’investimento – lievitato oggi a 13,5 miliardi dai cinque del 2001 – servirebbe a migliorare la mobilità e i collegamenti delle basi militari del sud Italia, dove l’Alleanza atlantica gestisce le principali operazioni americane nel Mediterraneo. Per questo, l’opera è richiesta a gran voce dall’UE e dalla Nato, ossia da organizzazioni extranazionali che detengono cospicui interessi nel Paese e che – di fatto – decidono la linea da seguire grazie all’influenza determinante che esercitano sul governo di Roma. Nello specifico, l’opera dovrebbe rientrare nel Trans-European Transport Network, progetto europeo nato per migliorare la mobilità all’interno dell’Unione anche in un’ottica militare e di cui in Italia fa parte anche la Tav Torino-Lione.

A fugare ogni dubbio circa l’impiego e l’ottica prevalentemente militare del progetto, c’è una relazione presentata il 31 marzo dal governo Meloni – smaccatamente europeista e filo-Nato – in cui si specifica che il ponte sullo stretto rappresenta «un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di basi militari Nato nell’Italia meridionale» [grasseto mio, LL]. Da tempo, l’Alleanza atlantica evidenzia le lacune delle infrastrutture italiane: ponti che non reggono il peso dei mezzi militari, paesi con scarsi collegamenti interni, opere obsolete e scartamenti delle linee ferroviarie diversi rallentano il dispiegamento di mezzi e truppe in tempi rapidi. Nasce da queste esigenze la vera motivazione dietro al progetto del ponte sullo stretto, non certo dai bisogni della popolazione civile. Le necessità di ammodernamento ed efficientamento delle infrastrutture a scopi militari sono state naturalmente amplificate dai recenti avvenimenti in Ucraina.

Le aziende coinvolte nel progetto

Anche le aziende coinvolte nella costruzione del ponte hanno stretti legami col mondo bellico, a cominciare da WeBuild, società a cui già vent’anni fa lo Stato italiano aveva affidato l’esecuzione dell’opera e che ora chiede alla presidenza del Consiglio danni per 700 milioni di euro. L’azienda, oltre ad essere azionista per il 45% di Eurolink – consorzio a cui il governo vuole riaffidare l’incarico per la realizzazione del ponte – ha anche al suo attivo importanti lavori per il riammodernamento di infrastrutture militari: dall’aeroporto militare di Capodichino alla costruzione della tratta dell’alta velocità Novara-Milano al passante autostradale di Mestre. Questi ultimi due lavori sono volti a migliorare i collegamenti delle basi americane nel nord est italiano. Altra azienda coinvolta nel consorzio è la Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna (CMC) che si è occupata già, tra le altre cose, del potenziamento infrastrutturale di Sigonella e delle strutture per ospitare i militari americani nell’aeroporto Dal Molin di Vicenza. Anche la Società Italiana Condotte d’Acqua è parte del progetto e ha anch’essa esperienze pregresse nel settore militare, tra cui la realizzazione di un hangar e fabbricati nella base elicotteri dell’Aviazione dell’esercito di Lamezia Terme.

Il caso Eurolink e la debolezza italiana

Un altro aspetto che lega il ponte alla Difesa è la nomina, da parte di WeBuild, di Gianni De Gennaro a presidente di Eurolink. De Gennaro è ex capo della Polizia e direttore della Direzione investigativa antimafia, nonché ex presidente della maggiore azienda attiva nei settori della difesa a compartecipazione statale, Leonardo. La sua nomina a capo del consorzio indica la natura prettamente militare del progetto nonché la volontà di mettere in sicurezza i cantiere oltre che di gestire i movimenti di protesta contro l’infrastruttura. Il movimento “No ponte”, ad esempio – che aveva ottenuto una vittoria nel 2012, quando il governo aveva predisposto lo stop al progetto, dopo una partecipatissima mobilitazione popolare – è tornato a far sentire la sua voce per impedirne o ritardarne la costruzione. Eventuali ritardi danneggerebbero non solo gli interessi delle aziende e del governo, ma della stessa Nato.

A ciò si aggiunge l’importante tema della “sovranità nazionale” rivendicata proprio dai partiti di centrodestra che in realtà sono stati i primi a tradirla accettando pesanti ingerenze negli affari interni, a partire proprio dall’esecuzione delle direttive Nato sul territorio nazionale. Un caso emblematico è quello del ministro dei Trasporti Matteo Salvini che, contrario all’opera fino a pochi anni fa, ha compiuto una giravolta politica in grande stile, pur di allinearsi al volere dominante degli enti sovranazionali che di fatto governano la penisola. Così, lo scorso maggio, Camera e Senato hanno dato il via libera a quella che viene considerata “la madre di tutte le grandi opere in Italia”.

L’insostenibilità e i rischi dell’opera

Secondo diversi esperti, tra cui il giornalista antimilitarista Antonio Mazzeo, l’opera non solo è irrealizzabile dal punto di vista ingegneristico ed economico, ma comporterebbe gravi rischi per l’Italia meridionale, tra cui una maggiore militarizzazione del territorio, il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose e la sottrazione di fondi dai bisogni reali del territorio. «Il Ponte sullo Stretto è irrealizzabile come lo era dieci anni fa ma questa volta ci sono alcuni attori che stanno spingendo per avviare quest’opera. […] Un’opera di questa rilevanza non potrà non richiedere – e lo dicono le forze armate – una serie di interventi: batterie missilistiche (una sola batteria costa 800 milioni di euro, ndr), cacciabombardieri, il pattugliamento costante dei sottomarini. Questa è ovviamente un’ulteriore militarizzazione del territori», ha spiegato Mazzeo. Per quanto riguarda il pericolo di infiltrazioni mafiose, invece, il giornalista ha asserito che «Il rischio è che oggi, di fronte agli anticorpi di una cultura mafiosa, chi si promuove come realizzatore del ponte, fosse anche un mafioso, dovrebbe guadagnare una legittimità. Le grandi organizzazioni mafiose potrebbero legittimarsi come un grande elemento: prima abbiamo messo le bombe e fatto le stragi oggi facciamo il ponte e ci perdonate». Ne emerge, dunque, un quadro dove intorno alla costruzione dell’infrastruttura orbita una rete di interessi che coinvolge diversi ambiti, da quello politico-militare a quello mafioso, e che va a scapito non solo delle esigenze del territorio locale, ma di tutta la nazione, sottomessa ai voleri di Nato, Ue e Stati Uniti e destinata ad essere sempre più militarizzata e subordinata al volere di organizzazioni e stati stranieri.

SECONDO SCRITTO

ANTONIO MAZZEO: IL PONTE OPERA INSOSTENIBILE SPINTA DAL GOVERNO PER COLLEGARE BASI NATO

Intervista a cura di Karim El Sadi

Dopo oltre dieci anni lo spettro del ponte sullo Stretto è tornato ad occupare sedute parlamentari, pagine di giornale ed assemblee sindacali. La vittoria del movimento “No Ponte” – avvenuta nel 2012 quando il consiglio dei Ministri aveva varato lo stop al progetto dopo una partecipatissima mobilitazione popolare – è solo un ricordo lontano ora che il governo Meloni ha ripescato quel progetto edilizio utopico e privo di senso per portarlo a compimento entro il 2030. Nei giorni scorsi anche Camera e Senato hanno dato il loro via libera a quella che viene considerata come “la madre di tutte le grandi opere in Italia” (sarebbe il ponte a campata unica più lungo al mondo), con i lavori che dovrebbero cominciare nel 2024. Ma sarà un’impresa infattibile perché realizzarla significherebbe andare contro le leggi della fisica, dell’ingegneria, e persino contro le leggi dell’economia (non è stato messo neanche un mattone e già alle casse dello Stato è costato mezzo miliardo di euro). Da quando il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini che fino a qualche anno fa ripudiava l’idea del ponte tra Messina e Reggio Calabria – ha iniziato a far girare le “betoniere burocratiche”, il movimento “No Ponte” è tornato in campo per impedire la costruzione di questa follia ingegneristica. All’interno di questa realtà popolare ci sono sindacati, studenti, politici, ingegneri e giornalisti. Tra questi c’è anche Antonio Mazzeo, giornalista e saggista antimilitarista che da quarant’anni racconta e denuncia il coinvolgimento dell’Italia e soprattutto della Sicilia nei vari teatri di guerra internazionali. Lo abbiamo intervistato a Palermo in occasione della presentazione del suo fumetto-inchiesta “Sigonella, le guerre alle porte di Casa” (La Revue Dessinée Italia) realizzato insieme al fumettista Lelio Bonaccorso e Deborah Braccini.

Il Ponte sullo Stretto irrealizzabile come lo era dieci anni fa ma questa volta ci sono alcuni attori che stanno spingendo per avviare quest’opera. Non la realizzazione del ponte, ma una serie di opere, giustificate col ponte, che ovviamente permetteranno il trasferimento di risorse che verranno sottratte ai bisogni reali del territorio”, ha detto Mazzeo ai nostri microfoni”. “Penso alla messa in sicurezza: noi abbiamo un area dissestata dal punto di vista idrogeologico”. Secondo Mazzeo, rispetto al 2012 “questa volta l’avversario è la volontà di iniziare a bucare il territorio”. Sullo sfondo, infatti, c’è la militarizzazione della Sicilia e la guerra in Ucraina per la quale l’isola rappresenta un territorio fondamentale viste le varie basi NATO già presenti: da Sigonella, a Niscemi, fino a Trapani o ad Augusta.

Se iniziassero i lavori non possiamo che aspettarci un incremento della presenza militare sul territorio”, ha spiegato il giornalista. “Verranno create caserme, sarà più forte la presenza dell’esercito e della marina militare. Lo abbiamo visto già in Val di Susa con la No Tav, dove c’è stata una pressione enorme dal punto di vista militare e una riduzione enorme degli spazi di agibilità democratica”. Secondo Antonio Mazzeo quello che si prefigura “è la vendibilità del ponte”.

Un’opera di questa rilevanza non potrà non richiedere – e lo dicono le forze armate – una serie di interventi: batterie missilistiche (una sola batteria costa 800 milioni di euro, ndr), cacciabombardieri, il pattugliamento costante dei sottomarini”. “Questa – ha ragionato ancora il giornalista – è ovviamente un’ulteriore militarizzazione del territori”. Ma ciò che è ancora più grave, a detta di Antonio Mazzeo, “è la giustificazione che il governo dà oggi per realizzare quest’opera”. “Abbiamo scoperto che il governo la definisce di importanza geostrategica fondamentale per mettere in collegamento le basi NATO del Sud Italia con le basi NATO della Sicilia. Viene quindi giustificato il ponte come elemento fondamentale di rafforzamento militare della mobilità militare. Questa è una fandonia dal punto di vista tecnico ma ci preoccupa perché può essere utilizzata come cavallo di Troia per giustificare la necessità di iniziare a operare perché in un mondo di guerra, in un territorio di guerra è fondamentale per la guerra”. Non solo incremento della militarizzazione della Sicilia, ma il ponte ingolosisce l’appetito delle mafie, nello specifico le due mafie delle due regioni combacianti Cosa Nostra in Sicilia e ‘Ndrangheta in Calabria. Sul tema, Antonio Mazze aveva scritto un libro 13 anni fa: “I padrini del ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina” (Edizioni Alegre).

Tredici anni fa individuammo come le grandi organizzazioni mafiose internazionali volevano investire su quest’opera per legittimarsi”, ha raccontato Mazzeo. “Il rischio – ha avvertito il giornalista – è che oggi di fronte agli anticorpi di una cultura mafiosa, chi si promuove come realizzatore del ponte, fosse anche un mafioso, dovrebbe guadagnare una legittimità. Le grandi organizzazioni mafiose potrebbero legittimarsi come un grande elemento: prima abbiamo messo le bombe e fatto le stragi oggi facciamo il ponte e ci perdonate”.

TERZO SCRITTO

Le infrastrutture militari nella fase multicentrica

di Luigi Longo

Non gli animali, ma senz’altro gli uomini e soltanto

gli uomini conducono gli uni contro gli altri << guerre

terrestri e marittime >>. Sempre, quando l’ostilità tra

grandi potenze ha raggiunto il culmine, la contrapposi=

zione bellica si svolge contemporaneamente sia nell’uno

che nell’altro ambito, sicché da entrambe le parti la guerra si trasforma in << guerra terreste e marittima >> […] Se poi si aggiunge l’aria come terza dimensione, la guerra si trasforma per entrambi i contendenti anche in guerra aerea.

Carl Schmitt*

L’esercito, nel proprio paese, avrà bensì linee di comunicazioni proprie, organizzate a tal fine, ma non è affatto obbligato a valersi di esse sole; e può, in caso di necessità, scostarsene e scegliere qualsiasi altra strada esistente […] Le strade principali attraversanti le città più ricche e le province più importanti sono le migliori linee di comunicazioni. Esse meritano la preferenza anche se producono percorsi molto maggiori e hanno, nella maggior parte dei casi, carattere determinante per lo schieramento dell’esercito.

Clausewitz**

1. Le potenze mondiali, gli Stati Uniti (potenza egemone in relativo declino), la Russia e la Cina (potenze emergenti in relativo consolidamento), protagoniste in questa fase multicentrica che sta diventando sempre più visibile e determinata, vengono attraversate da conflitti interni tra gli agenti strategici delle sfere sociali per la configurazione, in equilibrio dinamico, del blocco egemone dominante (emblematico è l’esempio in questa fase del conflitto interno statunitense). All’interno di questo conflitto assumono rilevanza i comandanti della sfera militare che hanno un peso specifico nelle decisioni sugli investimenti per le infrastrutture militari e civili finalizzate alle diverse strategie territoriali sia nelle nazioni alleate sia nelle varie aree o regioni di influenza per preparare il campo [terreste, acquatico e aereo (1)] del conflitto per il dominio mondiale che non necessariamente deve passare per la fase policentrica (la guerra) anche se la storia mondiale dimostra la inevitabilità della guerra (2). Quindi i suddetti comandanti formano, insieme agli agenti strategici delle altre sfere sociali (politiche, economiche, istituzionali, culturali, eccetera), il blocco egemone dominante di ogni singola potenza mondiale con una propria visione politica del mondo: dominio assoluto gli USA, dominio multicentrico la Russia e la Cina. In sintesi, per quanto suddetto, introduco il seguente schema del conflitto strategico che ha come punto di partenza il nascente paradigma di Gianfranco La Grassa (approfondirò lo schema nel prossimo scritto su Il conflitto strategico e la mossa del cavallo).

Macro schema

 

RAPPORTI SOCIALI

SFERE SOCIALI

RELAZIONI SOCIALI DI POTERE

AGENTI STRATEGICI SFERE SOCIALI

AGENTI STRATEGICI DOMINANTI

Nell’attuale fase multicentrica gli USA, consapevoli di essere una potenza egemone in relativo declino, ri-lanciano la loro sfida per il dominio mondiale assoluto poggiandosi prevalentemente sulla indiscussa (ancora per molto, ahinoi) supremazia mondiale della forza militare (3) e non su una diversa visione dello sviluppo e delle relazioni sociali mondiali perché hanno la fissazione storica di essere la nazione indispensabile per mandato divino [il Popolo Eletto (4)] per assicurare la libertà, la pace, la democrazia, i diritti sulla Terra. In virtù di tale fissazione << gli Stati Uniti avanzavano la pretesa di decidere, al di là della distinzione tra emisfero occidentale ed emisfero orientale, sulla liceità o illiceità di ogni mutamento territoriale in tutta la terra. Tale pretesa riguardava l’ordinamento spaziale della terra. Ogni avvenimento in qualsiasi punto della terra poteva riguardare gli Stati Uniti >>(5). << Nel settembre 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: “la nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo”. E’ un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo “La nostra missione è senza tempo”. Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy […] >> (6). Nella continuità della fissazione storica, Donald Trump sostiene che è fondamentale per << mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera >> avere << la forza e la volontà di esercitare la leadership Usa nel mondo >> (7).

Le basi aeree, le basi navali, le basi dell’esercito degli USA hanno circondato la Terra: guardate con coscienza dell’occhio (8) le carte seguenti ben sapendo che la cartografia sacrifica le relazioni sociali o il corpo vivente della terra, dello spazio, del territorio ed evidenzia i segni e i simboli del dominio (9).

E’ sulla Terra che si vivono i rapporti sociali, lo spazio aereo li sorvola, lo spazio acquatico li limita, lo spazio nucleare li estingue. Essi sono spazi fondanti per le strategie degli agenti dominanti delle potenze mondiali per la egemonia e per la configurazione o ri-configurazione dei nuovi rapporti sociali e territoriali storicamente dati. Stiamo entrando in una fase storica di esplosione degli spazi che distrugge e costruisce un nuovo ordine mondiale. Per dirla con Neil Brenner << […] Nelle condizioni geografiche e storiche attuali, tuttavia, il processo di urbanizzazione si struttura sempre più su scala mondiale. L’urbanizzazione non si riferisce più solo all’espansione delle “grandi città” (Friedrich Engels) del capitalismo industriale, all’estendersi di centri di produzione metropolitani, alle configurazioni di reticoli di insediamenti suburbani e di infrastrutture regionali tipiche del capitalismo fordista-keynesiano, o all’anticipata espansione lineare della popolazione umana nelle megalopoli mondiali che finisce per creare un “pianeta di slum”. Invece […] questo processo si sviluppa oggi sempre di più attraverso lo sviluppo ineguale [ corsivo mio]di un “tessuto urbano” composto da diversi tipi di strutture d’investimento, di spazi di insediamento, di matrici di uso del suolo e di reti di infrastrutture, attraverso l’intera economia mondiale […] Noi stiamo assistendo, in breve, all’intensificazione e all’estensione dei processi di urbanizzazione su tutte le scale spaziali e attraverso l’intera superficie dello spazio planetario >> (10).

Fonte: Limes n.11/2016

Fonte: Limes n9/2016

Fonte: Limes n.11/2016

Gli Stati Uniti, parafrasando Tacito letto da Concetto Marchesi, appena diventati Nazione dopo un lungo periodo storico che va dalla guerra di indipendenza (1775-1783) alla guerra di secessione (1861-1865) (11), sono costretti a combattere per vivere; poi seguitano a combattere per accrescere il loro dominio e la loro ricchezza. La guerra è per loro prima una necessità di vita, poi una incessante necessità di grandezza e di arricchimento (12). E’ attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale.

2. Tratterò, in estrema sintesi, le suddette infrastrutture militari e civili in Europa, attraverso la PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, non come conseguenza di scelte politiche di un soggetto unitario ed autonomo, che non c’è e che non è mai esistito storicamente, ma come un continente che per la prima volta nella storia non sarà protagonista mondiale del conflitto ma sarà campo di battaglia e spazio importante per le strategie statunitensi, con conseguenti trasformazioni, modificazioni, ri-configurazioni, organizzazioni e ruoli di territori e di aree.

Inoltre tratterò degli investimenti che il Pentagono sta realizzando, a spese nostre, sul territorio italiano nelle basi militari e nelle infrastrutture civili ad esse collegate, soprattutto ferroviarie [alta velocità (AV) e alta capacità(AC)] e stradali (corridoi nazionali ed europei) (13).

Infine, un accenno ai ruoli importanti che potrebbero avere le due città della Puglia, Taranto e Foggia [già protagoniste nella seconda guerra mondiale con le loro infrastrutture militari e civili (14)] nelle strategie statunitensi nel Mediterraneo, nel Vicino Oriente e nei Balcani.

3. Riporto una sintesi chiara sulla nascita e sul ruolo della PeSCO avanzata da Manlio Dinucci << Dopo 60 anni di attesa, annuncia la ministra della Difesa Roberta Pinotti, sta per nascere a dicembre la Pesco, «Cooperazione strutturata permanente» dell’Unione europea nel settore militare, inizialmente tra 23 dei 27 stati membri.

Che cosa sia lo spiega il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Partecipando al Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea, egli sottolinea «l’importanza, evidenziata da tanti leader europei, che la Difesa europea debba essere sviluppata in modo tale da essere non competitiva ma complementare alla Nato [corsivo mio]».

Il primo modo per farlo è che i paesi europei accrescano la propria spesa militare: la Pesco stabilisce che, tra «gli impegni comuni ambiziosi e più vincolanti» c’è «l’aumento periodico in termini reali dei bilanci per la Difesa al fine di raggiungere gli obiettivi concordati». Al budget in continuo aumento della Nato, di cui fanno parte 21 dei 27 stati della Ue, si aggiunge ora il Fondo europeo della Difesa attraverso cui la Ue stanzierà 1,5 miliardi di euro l’anno per finanziare progetti di ricerca in tecnologie militari e acquistare sistemi d’arma comuni. Questa sarà la cifra di partenza, destinata a crescere nel corso degli anni.

Oltre all’aumento della spesa militare, tra gli impegni fondamentali della Pesco ci sono «lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione a partecipare insieme ad operazioni militari». Capacità complementari alle esigenze della Nato che, nel Consiglio Nord Atlantico dell’8 novembre, ha stabilito l’adattamento della struttura di comando per accrescere, in Europa, «la capacità di rafforzare gli Alleati in modo rapido ed efficace».

Vengono a tale scopo istituiti due nuovi comandi. Un Comando per l’Atlantico, con il compito di mantenere «libere e sicure le linee marittime di comunicazione tra Europa e Stati uniti, vitali per la nostra Alleanza transatlantica». Un Comando per la mobilità, con il compito di «migliorare la capacità di movimento delle forze militari Nato attraverso l’Europa» [ corsivo mio].

Per far sì che forze ed armamenti possano muoversi rapidamente sul territorio europeo, spiega il segretario generale della Nato, occorre che i paesi europei «rimuovano molti ostacoli burocratici». Molto è stato fatto dal 2014, ma molto ancora resta da fare perché siano «pienamente applicate le legislazioni nazionali che facilitano il passaggio di forze militari attraverso le frontiere». La Nato, aggiunge Stoltenberg, ha inoltre bisogno di avere a disposizione, in Europa, una sufficiente capacità di trasporto di soldati e armamenti, fornita in larga parte dal settore privato.

Ancora più importante è che in Europa vengano «migliorate le infrastrutture civili – quali strade, ponti, ferrovie, aeroporti e porti – così che esse siano adattate alle esigenze militari della Nato» [corsivo mio]. In altre parole, i paesi europei devono effettuare a proprie spese lavori di adeguamento delle infrastrutture civili per un loro uso militare: ad esempio, un ponte sufficiente al traffico di pullman e autoarticolati dovrà essere rinforzato per permettere il passaggio di carrarmati.

Questa è la strategia in cui si inserisce la Pesco, espressione dei circoli dominanti europei che, pur avendo contrasti di interesse con quelli statunitensi, si ricompattano nella Nato sotto comando Usa quando entrano in gioco gli interessi fondamentali dell’Occidente messi in pericolo da un mondo che cambia [neretto mio]. Ecco allora spuntare la «minaccia russa», di fronte alla quale si erge quella «Europa unita» che, mentre taglia le spese sociali e chiude le sue frontiere interne ai migranti, accresce le spese militari e apre le frontiere interne per far circolare liberamente soldati e carrarmati >> (15).

4. Riprendo gli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio italiano da una descrizione puntuale di Manlio Dinucci << Grandi opere sul nostro territorio, da nord a sud. Non sono quelle del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di cui tutti discutono, ma quelle del Pentagono di cui nessuno discute. Eppure sono in gran parte pagate con i nostri soldi e comportano, per noi italiani, crescenti rischi.

All’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) parte il progetto da oltre 60 milioni di euro, a carico dell’Italia, per la costruzione di infrastrutture per 30 caccia Usa F-35, acquistati dall’Italia, e per 60 bombe nucleari Usa B61-12.

Alla base di Aviano (Pordenone), dove sono di stanza circa 5000 militari Usa con caccia F-16 armati di bombe nucleari (sette dei quali sono attualmente in Israele per l’esercitazione Blue Flag 2017), sono stati effettuati altri costosi lavori a carico dell’Italia e della Nato.

A Vicenza vengono spesi 8 milioni di euro, a carico dell’Italia, per la «riqualificazione» delle caserme Ederle e Del Din, che ospitano il quartier generale dell’Esercito Usa in Italia e la 173a Brigata aviotrasportata (impegnata in Europa orientale, Afghanistan e Africa), e per ampliare il «Villaggio della Pace» dove risiedono militari Usa con le famiglie.

Alla base Usa di Camp Darby (Pisa/Livorno) inizia in dicembre la costruzione di una infrastruttura ferroviaria, del costo di 45 milioni di dollari a carico degli Usa più altre spese a carico dell’Italia, per potenziare il collegamento della base con il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa, opera che comporta l’abbattimento di 1000 alberi nel parco naturale. Camp Darby è uno dei cinque siti che l’Esercito Usa ha nel mondo per lo «stoccaggio preposizionato» di armamenti (contenente milioni di missili e proiettili, migliaia di carrarmati e veicoli corazzati): da qui vengono inviati alle forze Usa in Europa, Medioriente e Africa, con grandi navi militarizzate e aerei cargo.

A Lago Patria (Napoli) il nuovo quartier generale della Nato, costato circa 200 milioni di euro di cui circa un quarto a carico dell’Italia, comporta ulteriori costi a carico dell’Italia, tipo quello di 10 milioni di euro per la nuova viabilità attorno al quartier generale Nato.

Alla base di Amendola (Foggia) sono stati effettuati lavori, dal costo inquantificato, per rendere le piste idonee agli F-35 e ai droni Predator statunitensi, acquistati dall’Italia.

Alla Naval Air Station Sigonella, in Sicilia, sono stati effettuati lavori per oltre 100 milioni di dollari a carico di Stati uniti e Nato, quindi anche dell’Italia. Oltre a fornire appoggio logistico alla Sesta Flotta, la base serve a operazioni in Medioriente, Africa ed Europa orientale, con aerei e droni di tutti i tipi e forze speciali. A tali funzioni si aggiunge ora quella di base avanzata dello «scudo anti-missili» Usa, in funzione non difensiva ma offensiva soprattutto nei confronti della Russia: se fossero in grado di intercettare i missili, gli Usa potrebbero lanciare il first strike nucleare neutralizzando la rappresaglia.

A Sigonella sta per essere installata la Jtags, stazione di ricezione e trasmissione satellitare dello «scudo», non a caso mentre, con il lancio del quinto satellite, sta per divenire pienamente operativo il Muos, il sistema satellitare Usa che ha nella vicina Niscemi una delle quatto stazioni terrestri.

Il generale James Dickinson, capo del Comando strategico Usa, in una audizione al Congresso il 7 giugno 2017 ha dichiarato: «Quest’anno abbiamo ottenuto l’appoggio del Governo italiano a ridislocare, in Europa, la Jtags alla Naval Air Station Sigonella».

Era al corrente il Parlamento italiano di una decisione di tale portata strategica, che porta il nostro paese in prima linea nel sempre più pericoloso confronto nucleare? Se ne è almeno parlato nelle commissioni Difesa? >> (16).

5. In Puglia, due città, Taranto e Foggia, stanno subendo trasformazioni territoriali finalizzate all’approntamento di una rete di infrastrutture che apparentemente nulla hanno a che fare con il loro utilizzo ai fini militari. In realtà esse sono ben velate sotto l’uso civile delle infrastrutture (logistica, ferroviarie, aeroportuali, portuali) per lo sviluppo economico dei territori e delle città, ma nella sostanza esse sono fondanti come nodi di una rete nazionale (ed europea) che fa dell’Italia una espressione geografica al servizio delle strategie statunitensi.

Taranto, una città storicamente rilevante per la funzione militare e strategica sin dalla più remota antichità fino ai giorni nostri (17), è attraversata, dal 2012 anno di intervento della Magistratura tarantina, da una fase complessa di trasformazione da polo siderurgico a polo strategico della Nato (18). Un polo Nato che incorporerà città e territori interscalari (dal mondiale al locale con differenza qualitativa in relazione “alla specificità storica delle morfologie scalari associate ai processi sociali e alle forme istituzionali”) riconfigurandoli e riorganizzandoli alle esigenze di uno sviluppo imperniato sulle strategie USA-Nato. Un territorio logistico che formalmente è progettato per diventare un hub dell’area mediterranea destinato ad aggregare iniziative nazionali ed internazionali a sostegno della ricerca, sviluppo, sperimentazione e certificazione di soluzioni integrate tra trasporto aereo e industria aerospaziale, ma sostanzialmente piegato alle esigenze del conflitto USA-Nato per contrastare le emergenti potenze mondiali (Russia e Cina). E’ qui che si sta realizzando un progetto tra USA ed Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) per l’utilizzo di Droni con una compressione di tempo e di spazio impressionante: si parla di 100 minuti da Los Angeles a Roma attraverso un corridoio nella stratosfera (19), ovviamente per il trasporto merci di uno sviluppo pacifico e non di uno sviluppo finalizzato agli scenari di guerra. Tutto questo a partire dal 2012 (l’anno serve solo per indicare il punto di svolta dei processi sociali storicamente dati) in un luogo istituzionale di medio potere, quale è la regione Puglia, con un Presidente, Nichi Vendola, l’uomo della famosa risata servile verso i poteri dell’ILVA (20).

Foggia, una città storicamente rilevante per la posizione geografica (un nodo di collegamento tra la via Adriatica, la via Tirrenica e la via interregionale) sin dai tempi di Federico II fino ad oggi (21). Il territorio logistico è in fase di progettazione: una riconversione dello storico aeroporto “Gino Lisa” (22) (è stato nel periodo tra le due guerre mondiali una scuola per piloti di importanza mondiale, qui si sono formati i primi piloti statunitensi comandati dal Maggiore Fiorello La Guardia) in sede della Protezione Civile regionale che è il cavallo di troia per nascondere il vero obiettivo di un aeroporto di merci e mezzi militari (unica ragione per tenere in vita un aeroporto economicamente insostenibile); una riconfigurazione della base Amendola come base di fatto a comando USA-Nato così come da interventi progettati dal Pentagono; una grande area logistica ingiustificata tenendo conto del basso livello dello sviluppo economico della città e del territorio; un collegamento stradale e ferroviario tra area logistica, nodi territoriali e aerea portuale di Manfredonia ( antico porto di scambi con l’altra sponda adriatica) (23); una rete ferroviaria ad alta capacità in fase di realizzazione di collegamento tra Roma-Bari, facente parte della rete Scandinavia-Mediterraneo (Helsinki-Valletta) una delle linee strategiche europee e uno degli obiettivi della programmazione a lungo termine per lo sviluppo del settore ferroviario (24).

Posso dire con Ennio Flaiano che la situazione politica in Italia è grave ma non è seria se si pensa che la struttura del Libro Bianco del Ministero della Difesa (25) è tutta interna alla logica funzionale Nato ad egemonia USA. Tutto questo la dice lunga sull’autonomia e sul ruolo della sfera militare italiana frammentata e incapace di esprimere agenti strategici per un disegno, per una idea di una nazione autonoma e sovrana nelle relazioni mondiali (26).

6. Io non vedo nessun ruolo che l’Italia possa avere nel Mediterraneo così come non vedo nessun ruolo che la Francia e la Germania possano avere per un processo di costruzione di autonomia europea.

La divisione del lavoro tra una Francia (leader militare) e una Germania (leader economica) per costruire un asse su cui pensare una futura Europa è una utopia irrealizzabile (27).

Il problema vero è l’assenza di agenti strategici autonomi in tutte le nazioni europee (a diverse sfumature considerata la storia e la cultura peculiari di ogni singolo popolo) in grado di liberarsi dalle strategie e dalla occupazione militare statunitensi sul continente Europa. L’autonomia e le relazioni tra nazioni sono processi storici che non si costruiscono nel breve periodo.

Se non si avvierà questa costruzione di soggetti di trasformazione non dati dalla Storia ma costruiti nella Storia che pensano un progetto di coordinamento europeo per rilanciare un ruolo significativo del continente Europa tra Occidente e Oriente e soprattutto nuove relazioni con le potenze mondiali che lottano per un mondo multicentrico, dispiace dirlo scivoleremo tutti in quella che Gyorgy Lukacs ha definito :<< La stupidità e la disonestà si manifestano anzitutto nell’adattamento dei sentimenti e delle idee alla infamia della realtà sociale [ad egemonia statunitense, mia aggiunta]>> (28).

EPIGRAFI

* Carl Schmitt, Dialogo sul potere, Adelphi, Milano, 2012, pp. 58-59.

**Clausewitz, Dalla guerra, Mondadori, Milano, 2011, pp. 429 e 432.

NOTE

1. Ad ulteriore conferma del ruolo importante dei comandanti militari nelle relazioni internazionali si legga Manlio Dinucci, Italia-Israele: la << diplomazia dei caccia >> in www.voltairenet.org, 14/12/2017; sulle rivoluzioni spaziali mondiale si veda Carl Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio in Carl Schmitt, Dialogo sul potere, op.cit., pp. 49-93; Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2006; Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino, 2017.

2. Il termine comandante è riferito non solo alla sfera militare, ma può essere allargato anche alle altre sfere sociali perché è da intendere come espressione di dominio della gerarchia del mondo << Per i greci il mondo era fatto soltanto di rapporti di forza, di gerarchie, di livelli di autorità. Il mondo era composto da chi stava sopra e da chi stava sotto, da chi comandava e da chi ubbidiva. >> in Franco Farinelli, L’invenzione della terra, Sellerio, Palermo, 2016, pag. 38.

3. Sugli Stati Uniti come prima potenza militare oltre ai rapporti SIPRI (www.sipri.org) si rimanda a Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore, Roma, 2016, pp.272-312; Manlio Dinucci, Geopolitica di una <<guerra globale>> in AaVv, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Derive Approdi, Roma, 2005, pp. 11-112; Wesley K. Clark, Vincere le guerre moderne, Iraq, terrorismo e l’impero americano, Bompiani, Milano, 2004. A mio avviso, non sono convincenti le analisi di The Saker (per esempio, Pensi che la sua valutazione sia accurata ?, www.sakeritalia.it, 9/11/2017) e di Paul Craig Roberts (per esempio, Un giorno non ci sarà un domani, www.comedonchisciotte.org, 28/10/2017) sulla debolezza della sfera militare USA.

4. Sul popolo eletto si rimanda a Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008, pp.156-160.

5. Cal Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello << jus pubblicum europaeum >>, Adelphi, Milano, 1991, pag.407.

6. Domenico Losurdo, Rivoluzione d’Ottobre e democrazia, www.marx21.it, 30/8/2017.

7. Donald J. Trump, National Security Strategy of the United States of America in www.whitehouse.gov./…/NSS-Final-12-18-2017-0905.pd; Si legga anche Manlio Dinucci, Il vero libro esplosivo è a firma di Trump, www.ilmanifesto.it, 9/1/2018.

8. Richard Sennet, La coscienza dell’occhio, Feltrinelli, Milano, 1992.

9. Franco Farinelli, L’invenzione, op.cit., pp. 55-62; si legga il capitolo secondo dell’interessante libro di Matteo Vegetti, L’invenzione del globo, op.cit., pp.31-76. 10.Neil Brenner, Stato, spazio, urbanizzazione, Edizioni Guerini e Associati, Milano, 2016, pp.35-36.

11. Per la guerra di indipendenza si rimanda a Gino Luzzatto, L’evoluzione economica e sociale mondiale negli ultimi due secoli, Storia Universale, vol. VII, Casa Editrice Francesco Vallardi, 1970, pp.3-116; per la guerra di secessione si veda Raimondo Luraghi, La guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, BUR-Rizzoli, Milano, 2013.

12. Concetto Marchesi, Tacito, Casa editrice Giuseppe Principato, Milano-Messina, 1942, pp.129-170.

13. Per un primo svelamento sull’uso della infrastrutture, tramite la Nato e l’Unione Europea, in funzione delle strategie degli Stati Uniti di penetrazione ad Est dell’Europa per contrastare soprattutto la potenza mondiale emergente come la Russia, si rimanda a Luigi Longo, Tav, Corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 23/12/2012.

14. Mario Gismondi, Taranto: La notte più lunga. Foggia: la tragica estate, Dedalo, Bari, 1968.

15.Manlio Dinucci, Nasce la Pesco costola della Nato, www.voltairenet.org, 28/11/2017; si veda anche Alessandro Marrone, UE: difesa, parte Pesco, cooperazione strutturata permanente, www.affarinternazionali.it, 14/11/2017.

16. Manlio Dinucci, Le grandi opere del Pentagono a spese nostre, www.voltairenet.org, 5/12/2017.

17.G.C.Speziale, Storia militare di Taranto. Negli ultimi cinque secoli, Laterza, Bari, 1930.

18. Luigi Longo, Dalla trappola capitale/lavoro – capitale/ambiente al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 7/8/2012; Idem, Taranto, da polo siderurgico a polo strategico della Nato, www.conflittiestrategie.it, 20/7/2013.

19. Franco Giuliano, Aerei senza pilota la Puglia è nel futuro, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 15/4/2014.

20. Domenico Palmiotti, La Puglia investe nell’aerospazio, www.ilsole24ore.com, 20/4/2014; Marolla, L’aeroporto di Grottaglie piattaforma logistica dell’area mediterranea, www.impresametropolitana.it, 16/3/2016; Leo Spalluto, Taranto, smontare aerei e navi nuovo spazio per le imprese, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 15/6/2017; Redazione Repubblica, Aeroporto di Taranto-Grottaglie, iniziati lavori potenziamento infrastrutture, https://finanza,repubblica.it/News/2017/12/27/aeroporto_di_taranto_grottaglie_iniziati_lavori_infrastrutture-161/, 27/12/2017.

21. Macry Paolo, L’area del Mezzogiorno in Storia d’Italia, Volume Sesto, Atlante, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1976; J.-M. Martin-E. Cuozzo, Federico II. Le tre capitali del Regno di Sicilia: Palermo-Foggia-Napoli, Procaccini Editore, Napoli, 1995.

22. Luigi Iacomino, L’aeronautica militare a Foggia e in Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia, 2002; Idem, Storia dell’aviazione in Capitanata, Grenzi Editore, Foggia, 2006;.

23. Si veda il Piano Strategico di area vasta “Capitanata 2020” in www.capitanata2020.eu.

24. RFI, Audizione senato, VIII Commissione permanente, Lavori Pubblici, Comunicazione, Contratto di Programma 2012-2016, Parte Investimenti, Aggiornamento 2015, www.senato.it/…commissione/…/Memoria_RFI-Audizione_del_24_maggio_2016.

25. www.difesa.it/Primo_Piano/Documents/2015/04_Aprile/LB_2015.pdf

26. Fabio Mini, Usa-Italia comunicazione di servizio, Limes n.4/2017; Gianfranco La Grassa, La nostra italietta, www.conflittiestrategie, 3/1/2018.

27. Il ruolo dell’Eni e dell’Invitalia che emerge dalle interessanti analisi di Alberto Negri non può essere condiviso perché ignora il fatto che dietro alle grandi imprese (sia pubbliche sia private) non esiste uno Stato, inteso come luogo di potere degli agenti sub-sub-dominanti italiani, in grado di proteggere il loro ruolo e le loro strategie di penetrazione nelle aree di interesse (la Libia, l’Egitto, l’Iran, solo per fare alcuni esempi, non insegnano niente?). Così dicasi per un ruolo ancora più di peso, impegnativo e qualificato quale quello di un intervento nell’area Mediterranea avanzato da Fabio Falchi e da Pierluigi Fagan. Si vedano: Alberto Negri, L’Italia alla conquista del gas, è l’unica arma per contare nel mondo, www.tiscali.it, 17/12/2017; Alberto Negri, L’Italia fa grandi affari con l’Iran e se ne infischia delle sanzioni di Trump. Cinque miliardi di euro sono solo l’inizio, www.tiscali.it, 12/1/2018; Fabio Falchi, L’Italia, il Mediterraneo e il futuro dell’Europa, www.eurasia.com, 1/12/2017; Pierluigi Fagan, Propositi per il nuovo anno: torniamo a pensare un piano B per l’Europa, www.pierluigifagan.wordpress.com, 2/1/2018.

28.Gyorgy Lukacs, Tolstoj e l’evoluzione del realismo, www.gyorgylukacs.wordpress.com, 30/8/2016.

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L’Africa occidentale si prepara a una guerra regionale, di ANDREW KORYBKO

Questo sito ha sottolineato da oltre due anni la possibilità che l’Africa, in particolare l’area sub-sahariana, possa diventare l’epicentro di un confronto militare tra i paesi europei dell’area mediterranea, con l’eventuale contributo della Germania, da una parte e la Cina e la Russia dall’altra. E’ la stessa inerzia delle dinamiche geopolitiche scatenate dagli Stati Uniti a trascinare in quell’imbuto i tre principali paesi latini:

  • l’assoggettamento europeo sempre più passivo alle mire oltranzistiche e belliciste statunitensi verso Russia e Cina
  • la scarsa rilevanza militare dell’Europa nello scacchiere indo-pacifico e il suo residuo retaggio di dominazione e di interessi in Africa utile a spostare parzialmente l’area operativa del conflitto in zone che eluderebbero il confronto diretto tra superpotenze dall’esito ancora troppo incerto e catastrofico
  • la caduta verticale di autorevolezza e credibilità dell’intero campo occidentale in quell’area
  • l’impostazione manichea delle relazioni con quei paesi sui presupposti di un conflitto religioso e di un confronto tra democrazie-dittature i quali sono stati la maschera e il veicolo di conflitti di natura prevalentemente tribale; un paradosso che ha lasciato in mano russa e cinese il pallino del sostegno alla formazione di veri stati nazionali fondati sull’esercito.

La prosopopea nazionale e nazionalista con la quale il governo Meloni sta cercando di ammantare la propria sudditanza e la propria totale accondiscendenza all’avventurismo della leadership statunitense si rivelerà ben presto un velo insufficiente a coprire la propria dabbenaggine tale da azzerare la residua credibilità che l’Italia era riuscita a costruire nel primo trentennio del secondo dopoguerra e già duramente compromessa dall’intervento in Libia e dal Governo Draghi in particolare. Non potremo nemmeno più assumere la veste presentabile delle peggiori interferenze occidentali. Giuseppe Germinario

L’Africa occidentale si prepara a una guerra regionale
ANDREW KORYBKO
1 AGOSTO

Gli ultimi eventi non ispirano fiducia sulla possibilità di evitare una guerra più ampia in Africa occidentale, ed è per questo che tutti dovrebbero prepararsi allo scoppio di una guerra entro la fine del mese. Se l’ECOWAS, sostenuta dalla NATO e guidata dalla Nigeria, non sconfiggerà rapidamente la neonata coalizione saheliana composta da Burkina Faso, Mali e Niger (con la Guinea che potrebbe unirsi a loro in qualche modo), si prevede che la Russia sosterrà concretamente quest’ultima, dando vita a un conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda in cui il Ciad potrebbe essere l’artefice.

Il colpo di stato militare patriottico della scorsa settimana in Niger, attuato in risposta all’incapacità del regime precedente di garantire la sicurezza dei cittadini di fronte alle crescenti minacce terroristiche, si sta rapidamente trasformando nel catalizzatore di quella che potrebbe presto diventare una guerra regionale in Africa occidentale. I Paesi si stanno schierando in vista dell’ultimatum della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), che scade questa domenica, per reintegrare il presidente estromesso Mohamed Bazoum o affrontare quella che probabilmente sarà un’invasione guidata dalla Nigeria e sostenuta dalla Francia.

Sintesi del contesto

Ecco alcune analisi rilevanti per aggiornare tutti:

* “Il colpo di stato nigeriano potrebbe cambiare le carte in tavola nella nuova guerra fredda”.

* Il presidente ad interim del Burkina Faso ha detto ai suoi colleghi di smettere di essere burattini dell’imperialismo”.

* L’Occidente vuole che la Nigeria invada il suo vicino settentrionale”.

* Interpretare la risposta ufficiale della Russia al golpe nigeriano

* Un ex senatore nigeriano ha condiviso 13 ragioni per cui il suo Paese non dovrebbe invadere il Niger”.

Due nuovi sviluppi rendono il rischio di guerra uno scenario molto reale.

Una diplomazia infruttuosa ha portato a minacce di guerra ed evacuazioni di emergenza

Il Burkina Faso e il Mali, i cui presidenti ad interim sono stati portati al potere da colpi di stato militari patriottici e hanno recentemente partecipato al secondo vertice Russia-Africa la scorsa settimana a San Pietroburgo, hanno dichiarato congiuntamente lunedì sera che un intervento in Niger sarebbe stato considerato come una dichiarazione di guerra contro entrambi. Si sono inoltre impegnati a ritirarsi dall’ECOWAS se ciò dovesse accadere. Qualche ora dopo, martedì mattina, la Francia ha annunciato l’evacuazione d’emergenza dei cittadini dell’UE dal Niger, lasciando intendere di aspettarsi una guerra.

Il presidente ciadiano ad interim Mahamat Idriss Deby Itno, anch’egli salito al potere in circostanze simili a quelle dei suoi colleghi saheliani, pare non sia riuscito a mediare un compromesso come aveva cercato di fare durante la sua visita alla capitale nigeriana di Niamey. Sebbene il suo Paese non faccia parte dell’ECOWAS, coopera strettamente con il Niger e la Nigeria contro la comune minaccia terroristica di Boko Harm. Il Ciad è anche una potenza militare regionale che potrebbe rivelarsi l’artefice di questo potenziale conflitto, come verrà spiegato in seguito.

Forze straniere in Niger

Prima di condividere alcune previsioni di scenario e le relative variabili che possono dare forma alla traiettoria di questo probabile conflitto, è importante toccare alcuni altri dettagli regionali, a cominciare dalla presenza di forze straniere in Africa occidentale. Il Niger ospita attualmente truppe francesi, statunitensi, tedesche e italiane e la sua giunta ha affermato lunedì che Parigi sta cospirando con i lealisti dell’ex regime per coordinare gli attacchi aerei volti a liberare il leader estromesso del Paese, detenuto nel palazzo presidenziale.

La Federazione di fatto burkinabé-maliana

Il prossimo dettaglio da menzionare è che il Burkina Faso e il Mali stanno seriamente prendendo in considerazione la possibilità di fondersi in una federazione, di cui il presidente ad interim Ibrahim Traore ha recentemente parlato in un’intervista a Sputnik. Questi piani, che sono stati ventilati per la prima volta a febbraio, aggiungono un contesto cruciale alla loro dichiarazione congiunta di lunedì sera, secondo cui considereranno un’invasione del Niger come una dichiarazione di guerra contro entrambi e accorreranno di conseguenza in difesa del Paese vicino.

La posta in gioco della Guinea nel gioco regionale

A questo proposito, nello stesso mese in cui hanno presentato i loro piani di federazione, i due Paesi hanno iniziato a esplorare il potenziale di cooperazione trilaterale con la vicina Guinea. Il Paese è sotto governo militare dalla fine del 2021 ed è stato sospeso dall’ECOWAS proprio come i due Paesi per lo stesso motivo. Tutti sono vicini alla Russia, quindi la Guinea, che confina con l’Atlantico, potrebbe in teoria servire a Mosca per rifornire i suoi partner senza sbocco sul mare, a meno che, naturalmente, l’ECOWAS e/o i suoi signori occidentali non la blocchino.

Il fattore Libia

A prescindere dal fatto che ciò accada o meno, il vicino libico del Niger potrebbe svolgere un ruolo complementare nel rifornire la neonata coalizione saheliana. Il leader del Consiglio presidenziale Mohamed Yunus al-Menfi ha anche partecipato al secondo vertice Russia-Africa della scorsa settimana e ha incontrato il Presidente Putin, durante il quale il leader russo si è impegnato a “promuovere ulteriormente i progressi sui binari chiave della soluzione basata sugli sforzi per garantire l’unità, la sovranità e l’integrità territoriale dello Stato libico”.

Questi tre obiettivi sono rilevanti se si considera che la dichiarazione congiunta burkinabé-maliana avverte che un’invasione del Niger “potrebbe destabilizzare l’intera regione, come ha fatto l’intervento unilaterale della NATO in Libia, che è stato alla base dell’espansione del terrorismo nel Sahel e nell’Africa occidentale”. La loro valutazione condivisa è accurata e può servire da pretesto alla Russia per aumentare gli aiuti militari a loro e al Niger attraverso la Libia, quest’ultima estremamente fragile e che potrebbe essere destabilizzata anche da questa guerra imminente.

Potenziali ponti aerei russi

Sebbene al momento non esista un ponte aereo conveniente tra la Russia e la Libia, il circuito russo-siriano attraverso il Caspio, l’Iran e l’Iraq potrebbe essere ampliato attraverso il Mediterraneo orientale dopo il rifornimento di carburante nella Repubblica araba per servire questo scopo. Se l’Arabia Saudita e il Ciad, di recente orientamento multipolare, accettano di concedere alla Russia i diritti di transito aereo, si potrebbe creare un altro corridoio attraverso l’Iran, l’Arabia Saudita, il Sudan e il Ciad per eludere le possibili interferenze della NATO nel Mediterraneo.

Quest’ultima rotta, tuttavia, non può essere data per scontata, dopo che il Sudan ha nuovamente esteso la chiusura dello spazio aereo fino a metà agosto. Sebbene il Vice Presidente del Consiglio di Sovranità Transitorio del Sudan abbia appena guidato la delegazione del suo Paese in Russia, la giunta militare che rappresenta è ancora coinvolta in un sanguinoso conflitto con le Forze di Supporto Rapido, legate a Wagner, per cui la fiducia non è così forte come un tempo. Inoltre, il Ciad ha mantenuto una posizione riservata nei confronti del Niger, e a ragione.

Calcoli strategico-militari del Ciad

Questa potenza militare regionale deve evitare di esporsi eccessivamente di fronte alle complesse minacce interne e internazionali, le prime delle quali riguardano i ribelli anti-governativi e i Rivoluzionari del Colore, mentre le seconde coinvolgono ribelli e terroristi con base all’estero e il rischio di ricadute di conflitti regionali. Dall’inizio di quest’anno, inoltre, il Ciad sta cercando di riequilibrare le sue relazioni sbilanciate con l’Occidente, il che comporta alcune pressioni che potrebbero limitare la sua gamma di opzioni in caso di crisi regionale.

Le dieci variabili principali

Lo stato degli affari strategico-militari descritto fino a questo punto pone le basi per la previsione di scenari, anche se il lettore dovrebbe ricordare che le dinamiche caotiche di ogni conflitto significano che anche le previsioni più convincenti potrebbero alla fine non realizzarsi. Detto questo, questo tipo di esercizi di riflessione sono comunque utili se si basano sulle relazioni oggettivamente esistenti tra le parti in causa e sui loro calcoli più probabili, basati sulla comprensione dei rispettivi interessi.

Tutti gli scenari dipendono da variabili, le più pertinenti in questo contesto sono le seguenti:

1. La Nigeria accetterà di eseguire gli ordini dell’Occidente guidando l’invasione del Niger da parte dell’ECOWAS?

2. Il Ciad si unirà alla Nigeria, giurerà di difendere il Niger, giocherà a fare il kingmaker in un secondo momento o rimarrà completamente fuori dal conflitto?

2. Che ruolo avranno le forze occidentali in Niger se la Nigeria invaderà il Paese?

3. Attaccherebbero le forze burkinabé-maliane intervenute o queste ultime potrebbero attaccarle per prime?

4. Quanto è probabile che altri Stati dell’ECOWAS attacchino e/o invadano il Burkina Faso e/o il Mali?

5. Quanto sono preparate militarmente, economicamente e politicamente tutte le parti regionali per un conflitto prolungato?

6. Su quali corridoi logistici potrebbero contare gli alleati stranieri e quali ostacoli potrebbero impedirli?

7. Una guerra più ampia in Africa occidentale si trasformerà in un altro conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda?

8. In che modo le tensioni tra NATO e Russia in Africa occidentale potrebbero influenzare la guerra per procura in Ucraina?

9. Altri Stati africani si sentiranno incoraggiati a risolvere militarmente i propri problemi regionali?

10. Quale ruolo potrebbero svolgere Paesi neutrali come Cina e India nell’inevitabile processo di pace?

Da quanto detto sopra, si possono prevedere i seguenti scenari, ma nessuno di essi è ovviamente garantito:

———-

1. Conflitto limitato (scenario rapido)

* La Nigeria sconfigge rapidamente la giunta nigeriana e i suoi alleati burkinabé-maliani all’interno del Niger con/senza il supporto di Francia-Stati Uniti (forze aeree e/o speciali) e/o del Ciad (aria e/o terra), lasciando intatti Burkina Faso e Mali con i rispettivi governi provvisori a guida militare.

2. Conflitto allargato (Scenario Swift)

* Con l’appoggio diretto della Francia e/o degli Stati Uniti e possibilmente con un certo livello di sostegno ciadiano, la Nigeria guida una forza d’invasione dell’ECOWAS che deposita rapidamente i governi provvisori a guida militare burkinabé, maliana e nigeriana, ripristinando così la “sfera d’influenza” appena persa da Parigi in Africa occidentale.

3. Conflitto limitato (scenario prolungato)

* Il Niger diventa un conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda, poiché l’invasione del Paese da parte dell’ECOWAS a guida nigeriana non riesce a deporre la giunta a causa dell’accanita resistenza delle forze burkinabé-maliane sostenute dalla Russia.

4. Conflitto allargato (scenario prolungato)

* I blocchi summenzionati rimangono invariati, così come la situazione di stallo e lo status di neutralità del Ciad, ma la portata del conflitto si espande fino a includere la Federazione burkinabé-maliana de facto, il che incoraggia l’Egitto a intervenire in Sudan e il Ruanda a fare lo stesso in Congo, scatenando così una crisi di portata africana.

———-

La “gara logistica”/”guerra di logoramento” tra NATO e Russia in Ucraina influenzerà il sostegno che queste ultime daranno ai rispettivi alleati dell’Africa occidentale nei due scenari prolungati e potrà anche influenzare la loro decisione di provocare uno stallo in uno dei due teatri della Nuova Guerra Fredda. Ci si aspetta che Cina, India e altri importanti Paesi neutrali come la Turchia intervengano diplomaticamente anche in questi scenari prolungati, anche se è impossibile a questo punto prevedere il loro successo.

Queste coppie di scenari comportano anche grandi rischi per la stabilità della Nigeria, poiché potrebbero portare a crisi economiche e di sicurezza a cascata, che si combinerebbero in una gravissima crisi politica se gli scioperi dei lavoratori paralizzassero il Paese e se i ribelli e/o i terroristi sfruttassero la ritrovata attenzione delle forze armate per il Niger. Per essere chiari, nulla di tutto ciò è garantito, ma non si può nemmeno escludere, vista la fragilità della Nigeria. Un pantano nigeriano potrebbe quindi portare a conseguenze imprevedibili e forse di vasta portata per il Paese.

Riflessioni conclusive

Gli ultimi eventi non ispirano fiducia sulla possibilità di evitare una guerra più ampia in Africa occidentale, ed è per questo che tutti dovrebbero prepararsi allo scoppio di una guerra entro la fine del mese. Se l’ECOWAS, sostenuta dalla NATO e guidata dalla Nigeria, non sconfiggerà rapidamente la neonata coalizione saheliana composta da Burkina Faso, Mali e Niger (a cui potrebbe unirsi in qualche modo anche la Guinea), si prevede che la Russia sosterrà concretamente quest’ultima, dando vita a un conflitto per procura della Nuova Guerra Fredda, in cui il Ciad potrebbe essere l’attore principale.

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IL CLIMA IN VALLE D’AOSTA, di Augusta Vittoria Cerutti

L’emergenzialismo è una modalità di governo. Nei momenti di aperta conflittualità e di profonda trasformazione diventa la modalità di governo di élites spesso in crisi di autorevolezza e credibilità. Il tema delle variazioni climatiche, nella loro versione attribuita a cause prevalentemente o esclusivamente antropiche, sarà uno dei motivi conduttori necessari ad alimentare il clima emergenzialista in attesa e propedeutici ad emergenze politiche estreme, queste sì legate alle dinamiche sociali. Il sistema mediatico eserciterà, come d’abitudine, la funzione di strillone. L’emergenzialismo climatico vive di un paradosso: riconosce il dramma di una situazione sfuggita di mano e attribuisce allo stesso tempo all’uomo la facoltà di onnipotenza che gli permetterebbe di risolvere tali crisi. Le implicazioni sono enormi e contraddittorie:
  • da una parte si esorcizza l’intervento dell’uomo, dall’altra se ne omette le possibilità pragmatiche di adattamento, intervento e trasformazione dell’ambiente, dall’altra ancora si stigmatizza sterilmente nelle sue caratteristiche distruttive il suo intervento
  • si confonde l’aspetto climatico con quello ecologico ed ambientale
  • si tende a generalizzare temi che andrebbero trattati pragmaticamente e localmente secondo le diverse realtà e variazioni sulla superficie terrestre
  • si trasforma il tema delle trasformazioni climatiche ed ambientali, di per sé politico, in una strumentalizzazione rozza del confronto geopolitico e politico-sociale e in una criminalizzazione dell’avversario politico e di eventuali untori colti all’occasione
  • paradossalmente, d’altro canto, tende a nascondere la natura politica e geopolitica della gestione delle risorse ambientali, come quella delle acque
  • riporta in auge, in contrapposizione al produttivismo positivista, in termini allarmistici, il tema malthusiano dell’inesorabile ed imminente esaurimento delle risorse terrestri che prescinde dalle potenzialità dello sviluppo scientifico e tecnologico e dalla necessità di una gestione equilibrata delle fasi di transizione.

L’articolo qui sotto, ripreso significativamente da una sede istituzionale, vuole essere un ennesimo contributo di riflessione. Giuseppe Germinario

IL CLIMA IN VALLE D’AOSTA
di Augusta Vittoria Cerutti

L’allarme del IPCC

Quattro millenni fa il ghiacciaio del Ruitor non esisteva e al suo posto vi era un lago poi trasformatosi in torbiera ed ora ricoperto dalla coltre glaciale. Ogni tanto, però parti di quella torba vengono trascinati dai movimenti del ghiacciaio fino alla fronte. Essa fornisce un prezioso materiale di studio per conoscere il passato delle nostre montagne.Da alcuni anni a questa parte le variazioni climatiche sono diventate oggetto di preoccupato interesse da parte dei mas-media e dell’ opinione pubblica. Grande impatto ha avuto la diffusione di modelli computerizzati di simulazione climatica proposti dall’Intergovemental Panel on Climate Change (IPCC), ente creato dall’ONU nel 1988 per studiare l’attuale cambiamento climatico. Allarma il fatto che per la prima volta nella storia del Pianeta, nel corso del XX secolo l’uomo, a causa dell’industrializzazione, dei trasporti e dei riscaldamenti è giunto a produrre un inquinamento atmosferico tale da modificare la composizione chimica dell’aria.
Nell’atmosfera vengono immessi grandi quantità di gas provenienti dalla combustione di carbone e petrolio utilizzati per produrre energia. Questi gas, fra cui vi è l’anidride carbonica (CO2), hanno il potere di intercettare il calore oscuro irradiato dalla superficie terrestre dopo il tramonto del sole; per questa loro proprietà simile all’effetto dei vetri di una serra, vengono detti “gas serra”. Essi, ostacolando il raffreddamento notturno che dovrebbe equilibrare la temperatura atmosferica, provocano un progressivo aumento di calore. Gli scienziati dell’IPCC attribuiscono a questo meccanismo la causa essenziale dell’attuale fase di riscaldamento e per il futuro prevedono un continuo aggravarsi della situazione, dato l’attuale trend di sviluppo tecnologico e demografico. L’aumento esponenziale della CO2 porterebbe ad una sempre maggiore intensità dell’effetto serra con un conseguente progressivo riscaldamento climatico accompagnato da apocalittici sconvolgimenti degli attuali equilibri idrologici ed ecologici .
L’effetto serra è certamente una realtà ma è noto che fra i gas presenti nell’aria il maggior responsabile è il vapor acqueo che si produce spontaneamente in natura; l’incremento dell’anidride carbonica dovuta alle attività umane certamente altera un equilibrio pre-esistente, ma in quale misura? Nel mondo scientifico il dibattito su questo interrogativo è assai vivace; molti sono gli esperti che ritengono non corretto basare unicamente sull’incremento dell’anidride carbonica le simulazioni computerizzate della futura evoluzione dell’ambiente (NOTA 1).
L’inquinamento prodotto dall’uomo è certamente un grave danno ecologico con effetti pesantemente nocivi su tutti gli organismi viventi e come tale deve essere combattuto con il massimo impegno. Ma il riscaldamento climatico globale molto probabilmente ha origini diverse.
Meteorologia e Climatologia sono due scienze complementari ma la prima richiede un approccio mentale analitico, la seconda sintetico. La Meteorologia analizza il “tempo che fa” ossia i fenomeni atmosferici attualmente in atto; la Climatologia riflette sulla interazione che in lunghi periodi si instaura fra i diversi fenomeni atmosferici e come questa interazione si rifletta sull’ambiente influenzando gli aspetti del paesaggio e le attività delle popolazioni.
Le cause delle variazioni climatiche per ora sfuggono all’indagine scientifica; molti fatti però tendono a collegarle alla circolazione atmosferica generale che sarebbe responsabile del movimento delle grandi masse d’aria, le une più calde, le altre più fredde, posizionate in diverse zone del Pianeta.

Clima e ghiacciai

La Climatologia non dispone di strumenti capaci di registrare l’interagire dei diversi elementi atmosferici in lunghi tempi ma il clima proprio di ciascuna regione geografica si evidenzia nella natura e nell’aspetto del manto vegetale spontaneo e nel comportamento dei ghiacciai.
La valle d’Aosta è un vero e proprio museo di climi grazie al suo territorio grandemente esteso in altitudine ed ha attualmente più di 200 ghiacciai che si espandono su una superficie di circa 135 chilometri quadrati. Studiando nei vari periodi lo spostamento in altitudine dei limiti climatici dei grandi insiemi vegetali (i coltivi, i boschi e i pascoli) e l’evoluzione degli apparati glaciali possiamo agevolmente ricostruire la storia del clima e di conseguenza anche quella dell’ambiente e delle attività umane che in esso hanno avuto vita.
Da una ventina di anni a questa parte i ghiacciai valdostani sono entrati in una accentuata fase di contrazione, come pressoché tutti quelli delle Alpi e delle altre catene montuose del mondo. È la conseguenza del riscaldamento globale.
Le variazioni glaciali sono strettamente legate a quelle del clima in quanto il ghiaccio di ghiacciaio altro non è che neve trasformata. Nelle zone più alte, ove la temperatura è pressoché sempre sotto lo zero, si formano i bacini di alimentazione; qui la neve che si accumula di anno in anno si trasforma lentamente in ghiaccio a causa della progressiva compressione. La massa glaciale a poco a poco scivola verso valle alimentando i bacini ablatori, vale a dire le parti degli apparati che, essendo poste a quote inferiori a quella del limite climatico delle nevi perenni, sono sedi di processi di fusione.
Quando il clima è freddo e nevoso il limite climatico delle nevi perenni è relativamente basso, nei bacini di alimentazione si raccoglie molta neve e si forma più ghiaccio di quanto ne fonda nei bacini ablatori: i ghiacciai entrano allora in fase di espansione aumentando di lunghezza e di volume. Se invece il clima si riscalda o le nevicate si fanno meno copiose, il limite delle nevi si innalza provocando contemporaneamente una minore produzione di ghiaccio e un più intenso processo di fusione; di conseguenza i ghiacciai entrano in fase di contrazione lineare e volumetrica. È appunto quanto sta accadendo in questi due ultimi decenni .
Il monitoraggio dei ghiacciai effettuato dai primi decenni del XX° secolo dal Comitato Glaciologico Italiano e dal 2002, per quelli valdostani dalla Cabina di Regia dei ghiacciai della Fondazione Montagna Sicura, evidenzia dati preoccupanti: negli ultimi venti anni le lingue vallive dei ghiacciai più grandi si sono raccorciate di diverse centinaia di metri e ancora più grave è la riduzione volumetrica degli apparati messa in luce da bilanci di massa fortemente negativi i quali indicano che la quantità di neve accumulata nella stagione fredda è molto inferiore alla quantità di ghiaccio che fonde in quella calda.
Il comportamento dei ghiacciai quindi conferma il riscaldamento climatico globale.
In base ai dati dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale si constata che negli ultimi centocinquanta anni la temperatura media sulla Terra è cresciuta di circa 0,7 °C; nella zona alpina l’aumento è alquanto maggiore giungendo a circa 1 °C (NOTA 2). Sono valori piuttosto modesti ma le conseguenze si prospettano preoccupanti soprattutto se si accertasse che l’attuale riscaldamento è conseguenza dell’attività umana e che di conseguenza il suo trend sarebbe destinato non soltanto a proseguire nel futuro ma addirittura ad ingigantirsi.
Qualcuno considera addirittura l’attuale accentuato ritiro dei ghiacciai come un sintomo di esser giunti al punto di non ritorno!
Uno studio serio e sistematico delle variazioni glaciali e delle variazioni climatiche ci porta a considerazioni assai meno allarmistiche.
Prima di tutto i vent’anni di osservazioni su cui si basano i modelli computerizzati dell’IPCC sono assolutamente troppo pochi per ritenere di aver colto i fattori di fenomeni tanto complessi quali sono le variazioni climatiche le quali si svolgono sempre in periodi di tempo plurisecolari.
Se – come richiesto dalla climatologia – prendiamo in considerazione l’intero XX secolo, ci troviamo immediatamente di fronte a fasi di espansione glaciale, che, ovviamente si effettuarono in concomitanza di periodi caratterizzati da un clima fresco e nevoso, chiaramente documentato dai dati dell’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo e da quelli di molti altri sparsi in tutto il mondo (vedi tabella nella pagina precedente).

Eppure fin dai primi decenni del ‘900 l’industrializzazione dell’Euro-pa Occidentale era notevolmente sviluppata e si basava prevalentemente sull’uso di grandi quantità di carbon fossile. Le emissioni di CO2 fin da allora erano considerevoli eppure i ghiacciai alpini una prima volta fra il 1910 e il 1923 e una seconda fra il 1960 e il 1985, (quindi nella immediata vigilia dell’attuale episodio di riscaldamento) aumentarono grandemente di volume e allungarono le lingue vallive di diverse centinaia di metri.
Questi due periodi freschi e nevosi verificatisi in piena era industriale ci pongono di fronte a un interrogativo di base: in quale misura i processi climatici possono essere influenzati dall’azione umana?

Ottomila anni di variazioni climatiche in Valle d’Aosta

Il ghiacciaio di Pré-de-Bard durante la Piccola età glaciale, al culmine della sua espansione storica, Rigorosi studi di climatologia storica la giovane disciplina che Emanuel Le Roi Ladurie definì “Le nouvel domaine de Clio”, ci portano a riconoscere nel corso degli ultimi 8000 anni, numerose variazioni climatiche, tutte di durata plurisecolare (NOTA 3).
Le specifiche ricerche si valgono di studi sui sedimenti marini e continentali, sulle oscillazioni del livello marino, sulle variazioni lineari e volumetriche dei grandi ghiacciai, sui pollini fossili; sui cerchi di accrescimento di alberi plurisecolari. Le più avanzate metodologie permettono di correlare gli isotopi dell’ossigeno presenti nei sedimenti o nel ghiaccio antico dei grandi ghiacciai, con le condizioni termiche del momento in cui è avvenuta la sedimentazione o si è formato il ghiaccio. Nello stesso modo, la dendrocronologia, mediante lo studio dei rapporti fra gli isotopi dell’ossigeno, del carbonio, e dell’azoto che costituiscono la sostanza legnosa di tronchi millenari, può valutare la temperatura che caratterizzava il periodo in cui andavano formandosi i singoli cerchi di accrescimento. Il radiocarbonio permette oggi di datare i resti organici per cui con la collaborazione di tutte queste ricerche è stato possibile, ormai da qualche decennio conoscere con ragionevole sicurezza le caratteristiche cronologiche del clima negli ultimi 8000 anni, malgrado che solo dalla fine del XVIII secolo si disponga di misure strumentali di temperature e di precipitazioni.
D’altra parte sul territorio valdostano e in tante altre parti del mondo sono rimaste testimonianze che mal si accordano con l’ambiente climatico attuale come il ritrovamento di antichi ceppi di conifere centinaia di metri più in alto dell’attuale limite climatico del bosco.
L’archeologia scopre che l’Aosta romana fra il I e il V secolo d.C. era una città popolosa, dalla vita elegante e raffinata. Ma – ci chiediamo – donde poteva venire il reddito capace di sostenere l’alto tenore di vita che l’archeologia ci attesta?
Nei duemila anni di storia valdostana si alternano momenti fulgidi e momenti oscuri; i primi si accompagnano regolarmente a intensi traffici attraverso gli alti valichi, i secondi al languire di questa attività (NOTA 4). È ovvio però chiedersi come potessero fiorire i traffici transalpini se solo fra fine giugno e il principio di ottobre i valichi del Piccolo San Bernardo (2180 m) e del Gran San Bernardo (2470 m) fossero stati allora liberi dalla neve come accade oggi. È noto infatti che le carovane someggiate non possono transitare su strade innevate ma gli attuali tre mesi estivi sono un periodo di attività annuale troppo breve per spiegare la grandiosità dell’Aosta romana e di quella medioevale, la “pulcelle” dei Conti e Duchi di Savoia fra il XII e il XVI secolo. Qualche cosa di fondamentale deve essere cambiato nel lungo arco di tempo della nostra storia (NOTA 5).
Oggi sappiamo che è cambiato il clima, che più volte si sono verificate variazioni climatiche di durata plurisecolare, tali da mutare l’ambiente e influenzare profondamente la vita e l’attività delle popolazioni.
Si è accertato che trattasi di variazioni di temperatura e di piovosità che possono apparire minimi: da uno a quattro gradi centigradi delle temperature medie annue e di un 20% o 30% della quantità di precipitazioni. Ma se le precipitazioni annue per qualche decina di anni da una media di 700 mm si riducono a 500 mm, mettono in crisi l’agricoltura, mentre ne aumentano il rendimento se si accrescono a 900 mm. Una nevosità più o meno abbondante sui valichi determina un periodo più o meno lungo di fruizione delle alte vie transalpine con conseguenze economiche e sociali di grande importanza. Una variazione di temperatura di due gradi centigradi, se si protrae per qualche decennio, sposta di circa 300 metri di altitudine i limiti climatici delle colture, dei boschi dei pascoli e delle nevi perenni. Una variazione “fredda” di quella entità può privare di risorse alimentari le popolazioni che vivono sul limite climatico delle colture mentre, al contrario una variazione “calda” può migliorare grandemente il loro ambiente di vita.

La cronologia del clima europeo e le testimonianze sul territorio valdostano

Il ghiacciaio di Pré de Bard in fase di contrazione, ripreso nel 2004 dallo stesso punto di vista utilizzato dall’artista del secolo XIX.Fra il 5000 e il 1400 a.C. il nostro clima era caratterizzato da una temperatura di almeno 4 °C superiore all’attuale.
Questo periodo, il più caldo degli ultimi 8.000 anni, viene designato con il termine scientifico di optimum climatico assoluto del Post-glaciale.
In montagna, i limiti climatici del bosco, del pascolo, delle nevi persistenti, con temperature annue di almeno 4°C superiori alle attuali si innalzano di quasi 700 metri. Nella nostra regione in quel lontano periodo il bosco saliva almeno fino ai 2600 metri di altitudine, il pascolo si portava attorno ai 3200 metri sul livello del mare e il limite delle nevi persistenti addirittura a 3600-3700. Il grande ghiacciaio del Ruitor che domina la conca di La Thuile, allora non esisteva perché la quota massima delle creste rocciose che delimitano il suo circo è inferiore a quella che in quel lontano periodo aveva il limite delle nevi perenni e pertanto l’innevamento del territorio doveva essere solo stagionale. Il bacino però era occupato da un lago in cui vegetavano piante palustri che con il tempo si trasformarono in torba. Alcuni millenni più tardi, nel 1500 a.C. si instaurò un clima freddo; l’innevamento del circo divenne perenne e si formò il grande ghiacciaio che ricoprì la torbiera. Dal 1975 parte di questa torba viene spinta a valle dal movimento del ghiacciaio dando così modo ai ricercatori di raccoglierne campioni e di studiarli. La datazione al radiocarbonio, fatta per conto del Politecnico di Torino, ha rilevato un’età assoluta di 6.500 anni per gli strati più antichi; di 3500 per quelli più recenti, confermando in pieno il quadro climatico che emerge da indagini fatte in altri luoghi e con altre metodologie (NOTA 6). Questo periodo corrisponde alle età umane del Neolitico e dell’eneolitico.
Nella torba del Ruitor, che sappiamo essersi originata ad una quota largamente superiore ai 2500 metri, vi è una alta percentuale di pollini fossili di varie conifere ma anche di latifoglie fra cui il tiglio. La loro presenza indica che presso quel lago, attualmente coperto dal ghiacciaio, fino a 3500 anni fa giungeva il bosco. È evidente che la montagna offriva allora un ambiente assai più accogliente di quello che conosciamo oggi. Si spiega così come l’uomo neolitico abbia potuto risalire la valli alpine con grande facilità, insediarsi in alta quota, frequentare gli alti valichi dello spartiacque (NOTA 7) e formare quelle comunità culturali fra i due opposti versanti delle Alpi sempre meglio documentate dai reperti che vengono alla luce (NOTA 8).
In territorio valdostano sono da ascrivere a questo periodo numerosi ritrovamenti. Molti siti archeologici sono collocati ad altitudini superiori ai 1000 metri, disseminati nei territori comunali di Saint-Pierre, Saint-Nicolas, Arvier, Villeneuve, Quart, Nus, Monjovet, Challant-Saint-Victor, la Magdaleine, Champorcher e altri ancora. Il più importante di questi siti è la necropoli di Saint-Martin-de-Corléans, alla periferia occidentale di Aosta, un insieme di monumenti megalitici fra i più insigni d’Italia. La datazione assoluta al radiocarbonio rivela per i livelli più antichi un’età che risale al 3070 a.C. (=5020 B.P.) (NOTA 9). La sua grande somiglianza con la necropoli coeva di Saint-Leonard, presso Sion è ritenuta una importante testimonianza della comunanza culturale, in età neolitica, fra le genti degli opposti versanti delle Alpi Pennine e quindi della fruizione per lunghi periodi annuali del valico del Gran San Bernardo.
Fra il 1400 e il 300 a.C. il clima diventa molto freddo.
La torbiera del Ruitor viene ricoperta dal ghiacciaio già nel 1500 a.C. e nei secoli seguenti il peggioramento climatico si fa sempre più grave culminando fra il 900 e il 300 a.C. Ne sono particolarmente colpite le popolazioni dell’Europa Orientale che vivono in un ambiente a clima continentale non mitigato dagli influssi dell’Oceano Atlantico o del Mare Mediterraneo. Proprio in quel periodo (Età del Ferro) hanno luogo le migrazioni dei popoli indoeuropei provenienti dalla pianura Sarmatica. Fra gli altri migranti vi sono i Celti che fra il 900 e il 300 a.C. si diffondono in tutta l’Europa Occidentale. La celtizzazione della Valle d’Aosta avviene probabilmente dopo il V sec. a.C.

Dal 300 a.C. il clima prende a migliorare: è l’Optimum dell’età Romana che si protrarrà per ben sette secoli.
Il primo ad approfittare della nuova situazione fu Annibale che nel 218 a.C., quando ancora i romani ritenevano inaccessibili la Alpi, le valicò con un esercito di più di 25.000 uomini.
Dopo l’impresa del Cartaginese Roma comprese che la Catena Alpina non poteva più essere considerate una barriera difensiva; la sicurezza del suo territorio doveva essere tutelata dal controllo dei paesi transalpini che avrebbero dovuto fungere da antemurali. Nella concezione dei Romani, grazie al nuovo Optimum climatico che assicurava la transitabilità dei passi alpini quasi per tutto l’anno, le Alpi si trasformarono da barriera in cerniera, furono dotate di grandi vie di comunicazione e per quasi cinquecento anni, sotto il controllo della Città Eterna esplicarono la funzione di trait d’union fra il Mediterraneo e l’ Europa Centro-settentrionale.

A servizio e a guardia dei traffici transalpini, nel 25 a.C. venne fondata la città di Augusta Praetoria sul crocevia fra la Strada consolare delle Gallie già da tempo costruita per raggiungere la città di Ludgudum (Lione) attraverso l’Alpis Graia (valico del Piccolo, San Bernardo) e la via che si dirigeva verso l’Europa centro-settentrionale attraverso il Summus Poenninum (valico del Gran San Bernardo). Grazie alla propizia situazione climatica che favoriva il flusso dei traffici, l’importanza che Aosta assunse nei secoli dell’Impero Romano divenne assai maggiore di quella che essa ha attualmente. I viaggiatori che risalivano la Strada consolare delle Galli venivano accolti nella vivace e ricca città dai signorili archi della triplice Porta Pretoria, suo centro degli affari e cuore economico e politico era il mercato, il grandioso Foro giunto quasi intatto fino a noi; nel tessuto urbano il ricco Complesso termale, il monumentale Teatro che pare potesse accogliere più di 5000 spettatori, l’ampio Anfiteatro offrivano il modo di coltivare gli interessi culturali e il tempo libero.

Fra il 400 e il 750 d.C. si registra un notevole raffreddamento del clima.
La transitabilità dei passi alpini divenne assai precaria, legata alla sola stagione estiva.
I popoli dell’Europa orientale e settentrionale a causa della variazione climatica fredda, videro diminuire drasticamente la produzione agraria delle loro terre e molte tribù furono costrette a migrare verso le regioni Mediterranee meno colpite dai rigori del clima grazie alla loro posizione geografica.
Sono le invasioni barbariche, quelle tumultuose migrazioni dei popoli germanici che nell’alto medioevo travolsero la potenza dell’Impero Romano.
La valle d’Aosta conobbe nel 489 l’incursione dei Burgundi, qualche anno dopo fu la volta degli Ostrogoti, poi dei Longobardi. Nel 575 la regione valdostana entrò a far parte del regno dei Franchi e da allora restò nella loro area politico-culturale.

Dopo il 750 il clima migliora rapidamente e si instaura l’Optimum dell’età feudale.
L’innevamento dei valichi alpini ritorna assai breve e si apre il periodo d’oro dei traffici fra le Repubbliche Marinare delle coste mediterranee e i grandi centri delle Fiere transalpine (Ginevra, Lione, Borgogna, Fiandre, Champagne).
È il periodo del Sacro Romano Impero e della organizzazione feudale dell’Europa. Sulle Alpi, prendono vita numerosi stati di valico istituiti a controllo e a servizio delle vie transalpine, arterie vitali della grande unità politica. Fra di essi vi è quello dei Conti di Savoia il cui fulcro fu per secoli la Valle d’Aosta con i passi del Piccolo e del Grande San Bernardo.
Il limite climatico delle colture cerealicole si spinge fino all’altitudine di 2300 m. Lo conferma la presenza di settori attrezzati per la trebbiatura del grano in fienili di dimore dell’alta valle di Ayas e di Valgrisenche poste a quell’altitudine, ora diventate stagionali ma costruite nei tempi in cui lassù si poteva abitare tutto l’anno.
Riguardo allo stato dei ghiacciai l’Abbé Henry, noto ricercatore tanto in campo storico quanto in campo naturalistico, scrive in una sua relazione (NOTA 10); “Entre le 1300 e le 1600 les glaciers devaient être très petits et réduits à leur minimum… Sa découle d’un grand nombre de documents tels que les Reconnaissances de l’époque ou le mot glacies est introuvable. Une autre preuve que les glaciers étaient alors très petits et très recules c’est que les passages par les cols élevés de montagne étaient alors très faciles et très fréquentés: on allai communément, on faisait passer vaches et mulets de Prarayé à Evolène par le Col Collon (3130 m), de Zermatt à Evoléne par le Col d’Hérens (3480 m); de Valtournenche à Zermatt par le Col de Saint-Théodule (3380 m).
Il Colle del Teodulo – oggi centro di uno dei più prestigiosi comprensori sciistici – nel Basso Medioevo fu a tutti gli effetti un itinerario “ Europeo” sulla via transalpina che univa il porto di Genova con quello di Amsterda. Tutte le carte geografiche del ‘500 e del ‘600, comprese quelle del grande cartografo olandese Mercatore, rappresentano il “Mons Silvius” – tale era il suo nome in latino – e il villaggio di Ayas, suo principale centro di servizi. In quelle redatte nei paesi d’oltralpe compare la dizione: “Krëmertal”, ovvero “Valle dei mercanti” posta fra i toponimi di Ayas e del valico del Teodulo.
Il controllo delle strade che dalla valle della Dora salivano al colle del Teodulo, era esercitato dagli Challant, la più prestigiosa famiglia nobiliare valdostana che proprio da quel traffico traeva la sua ricchezza e la sua rinomanza a livello europeo.
In questo periodo caldo dai traffici assai vivaci, prese origine la millenaria fiera di Sant’Orso che tutt’ora si celebra il 31 gennaio nel cuore dell’inverno, una stagione che pare ben poco propizia ad un gran concorso di gente, soprattutto in passato quando non esistevano i mezzi spazzaneve. Il più antico documento che riguarda questa rassegna risale al 1305 ma pare che allora essa già fosse secolare, era esclusivamente dedicata agli attrezzi agricoli e si svolgeva nei tre giorni che precedevano la festa di Sant’Orso e nei tre che la seguivano. Questa grande fiera invernaleè una testimonianza della mitezza che doveva caratterizzare la stagione fredda durante gli otto secoli dell’Optimum climatico del basso medioevo.

Fra il 1550 e il 1850 ha luogo la più grave crisi climatica del tempi storici denominata dagli specialisti il Pessimum climatico della Piccola Età Glaciale.
Essa provocò un abbassamento di almeno 500 metri dei limiti climatici delle colture, del bosco, del pascolo e delle nevi persistenti determinando un lungo innevamento annuo dei valichi e addirittura la glacializzazione dei più elevati e insieme la perdita di una grande quantità di terre coltivabili. Venendo a mancare contemporaneamente i proventi legati ai traffici transalpini e quelli delle più elevate terre agricole, il periodo della Piccola età glaciale fu per le valli alpine un‘epoca di estrema povertà.
In valle d’Aosta il contraccolpo fu durissimo: da ganglio dei traffici europei la Regione si trasformò in cellula chiusa in se stessa; le attività economiche si ridussero ad una agricoltura volta esclusivamente all’autosussi-stenza e tanto misera che viene definita dagli studiosi francesi “de acharnement”; la popolazione, poverissima e denutrita, venne falcidiata dalla peste e da malattie endemiche, molte delle quali riconducibili alla malnutrizione e alle grandi fatiche che in tali condizioni ambientali i lavori agricoli richiedevano.
Le condizioni del clima determinarono, nel corso della Piccola età Glaciale, la più imponente crescita volumetrica, areale e lineare dei ghiacciai verificatasi negli ultimi due millenni. Ne sono testimoni sul terreno, gli apparati morenici formati da questa gigantesca espansione; lo studio di questi ultimi ha permesso di ricostruire i profili delle aree che vennero glacializzate in quei freddissimi trecento anni. In base a queste indagini i tecnici dell’Assessorato al Territorio, Ambiente ed Opere pubbliche, stimano che nei primi decenni del XIX° secolo i ghiacciai valdostani si estendessero su circa 330 kmq, vale a dire su più del 10% del territorio regionale.

Dopo la metà del secolo XIX inizia il riscaldamento climatico tuttora in corso.
La fine della piccola età glaciale è segnata da una improvvisa forte diminuzione delle precipitazioni e da un sensibil innalzamento delle temperature: all’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo nei vent’anni successivi al 1856 le precipitazioni annue risultano meno di 1600 mm e l’altezza della neve caduta di 870 cm nei confronti di medie di lungo periodo assai più elevate; le temperature medie annue che fino al 1860 erano state attorno ai -1,9 °C si innalzano bruscamente a -1,5 °C.
Questo stato di cose causa una sensibile riduzione di volume dei ghiacciai ed un considerevole raccorciamento delle lingue vallive. Fra il 1862 e il 1882 il ghiacciaio del Lys al Monte Rosa perde ben 950 metri di lunghezza (NOTA 11); la Brenva, fra il 1846 e il 1878, circa 1000 m­etri (NOTA 12), il Pré de Bard fra il 1856 e il 1882, 750 metri (NOTA 13) e nello stesso periodo il Lex Blanche, circa 800 (NOTA 14).
Si tratta di una situazione, molto simile a quella che stiamo vivendo in questi anni, che perdurò quasi un ventennio. Da allora, come mostra la tabella conclusiva, si alternarono fasi di clima fresco favorevoli al glacialismo e fasi di clima più caldo avverse ad esso.
Esaminando il comportamento dei ghiacciai valdostani dagli inizi del XIX° secolo quando culminava la massima espansione storica, al 2005, data dell’ultimo volo aerofotogrammetrico, si constata che questo lungo arco di tempo è stato ritmato da undici fasi, caratterizzate alternativamente da contrazioni ed espansioni degli apparati glaciali.
Nessuna delle espansioni però raggiunse la misura di quelle verificatesi durante la Piccola età Glaciale; quasi tutte quelle posteriori al 1860 hanno prodotto volumi di ghiaccio dalla massa inferiore a quella perduta nella precedente contrazione per cui gli apparati hanno subìto attraverso il tempo una notevole riduzione planimetrica, areale e volumetrica. Dall’indagine svolta dei tecnici della Cabina di regia dei ghiacciai sui fotogrammi del volo aerofotogrammetrico 2005 risulta che l’attuale estensione dei ghiacciai valdostani è pari a 135 kmq, il che corrisponde al 40% dell’estensione massima che l’area glacializzata aveva assunto nella Piccola età Glaciale. Bisogna tenere presente che circa il 20% di questa copertura venne asportata dalla fusione avvenuta fra il 1860 e il 1882, quando in Italia l’industrializzazione era appena agli inizi e pertanto la variazione calda di quei decenni non era certo imputabile all’opera dell’uomo.
La fase di clima “caldo” che stiamo vivendo non è una novità dell’ultimo ventennio; si tratta di processo modulare in atto dalla seconda metà del 1800 e simile a quelli che hanno avuto luogo nei secoli dell’optimum dell’età feudale o in quelli dell’età romana. Pare quindi logico pensare che, pur in presenza di alterazioni di origine antropica, l’attuale riscaldamento globale faccia parte dell’alternanza ciclica di fasi calde e fasi fredde che da sempre caratterizza la storia del clima.

Note:

1 C. Allègre, Le droit au doute scientifique, Le Monde, Paris, 27 ottobre 2006;
S. Pinna, Il Clima divulgato: una realtà virtuale imposta come dato di fatto, Ambiente, Società, Territorio. Rivista A.I.I.G. Roma, agosto 2007, pag. 3-8.

2 L’istituto Federale Svizzero di Meteorologia e Climatologia segnala che, all’Osservatorio del Gran San Bernardo, entrato in funzione nel 1818 e quindi con una serie di dati ultracentenaria, la temperatura media annua dall’inizio delle osservazioni al 1970 risulta di –1,5°C. La media del trentennio “standar” (OMM) 1971-2000 è di –0,5°C.

3 Segnaliamo alcuni dei più noti studi di climatologia storica:
– E. Le Roy Ladurie, Histoire du climat depuis l’an mil, Paris, 1967;
– M. Pinna, La storia del clima: variazioni climatiche e rapporto clima-uomo, Soc. Geografica Italiana, 1984;
– M. Pinna, Variazioni climatiche, Angeli, Milano 1996;
– P. Acot, Storia del Clima, Roma, 2004;
– L.Bonardi, Che tempo faceva?, Milano, 2004.

4 L. Colliard, Precis d’histoire valdôtaine, Aosta, 1980.

5 P. Guichonnet, Les bases géographiques de l’histoire de la Vallée d’Aoste, Atti del congresso internazionale “La valle d’Aosta e l’arco alpino nella politica del mondo antico”, Aosta, 1988, pag. 20-46.

6 E. Armand, G. Charrier, L. Peretti, G. Piovano, Ricerche sull’evoluzione del clima e dell’ambiente durante il quaternario nel settore delle Api Occidentali Italiane. La formazione di torbiera presso la fronte attuale del ghiacciaio del Ruitor: suo significato per la ricostruzione degli ambienti naturali nell’Olocene medio e superiore. Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, serie II, n. 23 (1975), pag. 7-25.

7 K. Spindler, L’uomo dei ghiacci, Milano, 1999.

8 M.R. Sauter, L’occupation des Alpes par les populations préhistoriques, in Histoire et civilisation des Alpes. T.1, Toulouse-Lausanne, 1980, pag. 61-94.

9 F. Mezzena, La Valle d’Aosta nella preistoria e nella protostoria, in Archeologia in Valle d’Aosta: dal Neolitico alla caduta dell’Impero Romano, catalogo della mostra, Aosta, 1981, pag. 15-60.

10 Abbé Henry, Le glacier de Prarayé ou de Tsa de Tsa, Roma, 1934.

11 U. Monterin, Le variazioni secolari del clima del Gran San Bernardo e le oscillazione del ghiacciaio del Lys al Monte Rosa, in Raccolta di scritti di U. Monterin, Boll. Vol.II, Aosta, 1987, pag 199.

12 G. Marengo, Monografia del ghiacciaio della Brenva, in Boll. C.A.I. n 45, 1881.

13 F. Sacco, op. cit., 1919, pag 95.

14 F. Sacco, op. cit., 1919, pag 33.

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Destini energetici: Parte 5: Transizione energetica – Destinazione misteriosa di Satyajit Das

Destini energetici: Parte 5: Transizione energetica – Destinazione misteriosa

Il commento di un lettore

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Ciò che Das descrive in modo così eloquente non è un problema, piuttosto un dilemma o una situazione difficile, cioè non c’è soluzione. Sta descrivendo l’attuale realtà futura dell’energia nel modo più accurato possibile. I contorni del dilemma sono stati ben compresi dalla fine degli anni ’50. Opere come “Man’s Role In Changing the Face of the Earth” di Lewis Mumford, “The Closing Circle” di Barry Commoner e “Global 2,000 Report”, commissionato da Jimmy Carter sono solo alcuni dei tanti colpi di avvertimento ignorati dall’élite del potere. La realtà di un futuro prossimo con un accesso radicalmente ridotto all’energia e alle risorse minerarie e con crescenti vincoli ecologici è difficile da accettare, figuriamoci affrontare in modo significativo.
Giovanni Steinbach

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Energia abbondante ed economica è uno dei fondamenti della civiltà e delle economie moderne. Gli attuali cambiamenti nei mercati dell’energia sono forse i più significativi da molto tempo. Ha implicazioni per la società nel senso più ampio. Destini energetici è una serie in più parti che esamina il ruolo dell’energia, le dinamiche della domanda e dell’offerta, il passaggio alle energie rinnovabili, la transizione, la sua relazione con le emissioni e i possibili percorsi. Le parti 1, 2, 3, e 4  hanno esaminato i modelli di domanda e offerta nel tempo, le fonti rinnovabili, lo stoccaggio di energia e l’economia delle rinnovabili. Questa parte esamina la transizione energetica.

Una transizione energetica si riferisce a un importante cambiamento strutturale nei sistemi energetici. Ci sono state diverse transizioni storiche di questo tipo: dai biocarburanti, come il legno, all’energia idrica ed eolica e poi ai combustibili fossili. Nel suo uso attuale, è usato per descrivere il tentativo di sostituire i sistemi di produzione e consumo di energia basati sui combustibili fossili con fonti energetiche rinnovabili. Questa trasformazione è incorniciata dalla necessità di mitigare le emissioni per controllare i cambiamenti climatici.

L’ arco della storia dell’energia è rappresentato di seguito.

In Energy Transitions, il professor Vaclav Smil fornisce la prova che una nuova fonte di energia ha impiegato in genere tra i 40 ei 60 anni per guadagnare una quota di mercato significativa negli periodi precedenti. Le attuali proposte presuppongono che l’energia rinnovabile produrrà guadagni comparabili in un periodo molto più breve .

Ciò sottovaluta la complessità dell’attuale transizione energetica:

  • La scala è senza precedenti e richiede la riorganizzazione dei sistemi energetici per oltre 8 miliardi di persone e alti livelli di domanda industriale e domestica.
  • In generale, le transizioni energetiche comportano il passaggio a fonti di energia più efficienti. L’attuale processo inverte la tendenza con uno spostamento verso fonti meno efficienti con EROEI inferiore, minore densità energetica, minore densità di potenza superficiale e grandi requisiti di stoccaggio.
  • A differenza delle modifiche precedenti, è probabile che il costo dell’energia aumenti anziché diminuire.
  • Anche l’urgenza del cambiamento dovuta alla necessità di contenere le emissioni è senza pari.
  • I precedenti cambiamenti negli accordi energetici sono stati intrapresi prima delle moderne strutture normative, in particolare nei paesi avanzati, che dovranno adattarsi rapidamente a cambiamenti su larga scala all’interno di standard ambientali, di sicurezza e di concorrenza contrastanti.
  • Anche la probabile interruzione degli accordi sociali e geopolitici è potenzialmente maggiore rispetto alle trasformazioni precedenti.

Una transizione incompleta

L’attuale transizione energetica, così come concepita, è fortemente sbilanciata verso l’elettrificazione incentrata sull’utilizzo di fonti rinnovabili a basse emissioni per produrre elettricità in sostituzione dei combustibili fossili.

Gli attuali piani di transizione prevedono una grande espansione della produzione globale di elettricità di un fattore da due a tre volte, senza utilizzare combustibili fossili.

Ma l’elettricità, sulla base della maggior parte delle stime, costituisce meno del 20 percento dell’attuale mix energetico .

Le alte temperature, il fabbisogno di potenza e densità energetica dell’industria pesante (manifattura, acciaio, cemento, ammoniaca, plastica), del trasporto merci e dell’aviazione favoriscono i combustibili fossili che dovranno essere elettrificati o riprogettati per utilizzare combustibili alternativi che potrebbero rivelarsi difficili senza significativi progressi della scienza e delle tecnologie di produzione.

Ci sono barriere scoraggianti. Le tecniche di riduzione diretta per la produzione di acciaio possono consumare 15 volte più elettricità rispetto all’attuale approccio di cokefazione equivalente. Richiede minerale di ferro più puro per sciogliersi completamente in fornaci alimentate a idrogeno per eliminare i contaminanti. Anche la sostituzione dei combustibili fossili nella produzione di cemento e in altri processi industriali è una sfida.

La fattibilità tecnica dell’elettrificazione, l’uso di biocarburanti o altri metodi sono in fase di sviluppo e probabilmente saranno molto più costosi dei metodi attuali. Si stima che la decarbonizzazione della produzione di alluminio coerente solo con un percorso net-zero o 1,5°C richieda un investimento cumulativo di circa 1 trilione di dollari, principalmente nell’alimentazione e nelle fonderie .

L’elettrificazione, in ogni caso, non è sufficiente per eliminare le emissioni di carbonio da molte industrie pesanti a causa della chimica dei processi. Circa la metà dell’anidride carbonica nella produzione di cemento proviene dalla conversione del calcare in clinker. Nell’acciaio, la trasformazione dell’ossido di ferro in ferro puro richiede lo stripping degli atomi di ossigeno che si combinano con il carbonio per produrre anidride carbonica. La modifica della chimica è necessaria per ridurre queste emissioni.

I problemi di peso della batteria, capacità di potenza e durata rimangono vincoli nell’elettrificazione del trasporto pesante. Lo spazio necessario per i serbatoi di idrogeno sufficienti per alimentare l’aviazione a medio e lungo raggio limita i carichi utili che incidono in modo significativo sull’economia di queste forme di trasporto.

L’elettrificazione completa o addirittura sostanziale come percorso verso la decarbonizzazione può rivelarsi sfuggente.

Intensità materiale

I macchinari della transizione energetica – pannelli solari, turbine eoliche, accumulo di energia, impianti di riserva, linee e reti di trasmissione riconfigurate, veicoli elettrici – richiedono grandi quantità di metalli, minerali ed energia, ironia della sorte, dai combustibili fossili. Le rinnovabili sostituiscono l’intensità delle emissioni con l’intensità dei materiali.

Ad esempio, i veicoli elettrici richiedono fino a sei volte più minerali rispetto alle auto convenzionali alimentate da motori a combustione interna.

I veicoli elettrici pesano in media 340 chilogrammi (750 libbre) in più. Il peso aggiuntivo influisce sul fabbisogno energetico e sull’efficienza poiché la maggior parte dell’energia in qualsiasi forma di trasporto veicolare viene utilizzata per spingere il suo peso.

Le turbine eoliche richiedono acciaio (66-79 percento della massa totale della turbina); fibra di vetro, resina o plastica (11-16 percento); ferro o ghisa (5-17 percento); rame (1 percento); e alluminio (0-2 percento). Le terre rare sono gli ingredienti chiave dei potenti magneti richiesti. Le stime suggeriscono che sono necessarie circa 500 tonnellate di acciaio e 1.000 tonnellate di calcestruzzo per megawatt di energia eolica.

Ogni modulo batteria Tesla da 80 chilowattora a lungo raggio da 450 chilogrammi (1.000 libbre) è composto da 6.000 singole celle, ciascuna contenente 10 chilogrammi (25 libbre) di litio, 36 chilogrammi (60 libbre) di nichel; 18 chilogrammi (44 libbre) di manganese; 14 chilogrammi (30 libbre) di cobalto; 80 chilogrammi (200 libbre) di rame; e oltre 250 chilogrammi (550 libbre) di alluminio, acciaio, grafite, plastica e altri materiali. Se ridimensionati in base al tipo di stoccaggio che potrebbe essere richiesto a livello statale o nazionale, gli importi necessari sono sbalorditivi. Complessivamente, l’utilizzo di moduli batteria per sostenere il fabbisogno di elettricità estivo di punta di New York per 45 minuti richiederebbe 3.750 tonnellate di litio, 9.000 tonnellate di nichel, 6.600 tonnellate di manganese, 4.500 tonnellate di cobalto, 30.000 tonnellate di rame e 82.500 tonnellate di altro materiali.

Poiché i metalli e le altre sostanze necessarie richiedono una notevole quantità di energia per essere prodotti, l’effetto netto complessivo sulle emissioni (minore produzione dalle fonti di energia aggiustata per la maggiore quantità di materiali richiesti) non è chiaro.

Le emissioni del ciclo di vita dei veicoli elettrici, la quantità totale di gas serra emessi durante l’esistenza di un prodotto, compresa la sua produzione, utilizzo e smaltimento, sono rivelatrici. Utilizzando misure standardizzate (tonnellate metriche di CO2 equivalente (tCO2e)) di gas serra, è possibile ricavare le emissioni comparative dei veicoli elettrici, ibridi e ICE di medie dimensioni :

I veicoli elettrici hanno le emissioni del ciclo di vita più basse, ma le emissioni di produzione sono circa il 40% superiori a quelle dei veicoli ibridi e convenzionali, principalmente dall’estrazione e dalla raffinazione di materie prime come litio, cobalto e nichel. La maggior parte dei vantaggi in termini di emissioni sono in fase di utilizzo. Questi confronti si basano su 16 anni di utilizzo e una distanza di 240.000 chilometri (150.000 miglia). Laddove il veicolo ha una vita più breve o viene utilizzato in modo meno intensivo (il che è probabile poiché i veicoli elettrici sono più adatti a distanze di viaggio più brevi), le elevate emissioni di produzione indicano che le emissioni del ciclo di vita del veicolo elettrico si avvicinano a quelle dei tradizionali veicoli a combustione interna.

Le affermazioni di minore intensità di materiale dei veicoli elettrici presuppongono spesso anche la capacità di riciclare i componenti , il che, in realtà, non è dimostrato. Anche se possono essere progettati per utilizzare meno materie prime, molte sono le richieste di terre rare che necessitano di processi di produzione tossici. L’analisi presuppone che i veicoli elettrici siano alimentati esclusivamente da elettricità proveniente da fonti energetiche rinnovabili, il che non è la situazione attuale.

Ciò significa che il passaggio alle energie rinnovabili potrebbe non ridurre le emissioni del quantum dichiarato e, forse, per niente in alcuni casi.

Materiali critici per la transizione

Le principali materie prime necessarie per la transizione energetica sono riassunte di seguito:

Di seguito si riporta l’applicazione e la relativa domanda di tali materie prime.

In generale, gli analisti si concentrano su due gruppi di materie prime: primo rame, nichel e cobalto e secondo litio e terre rare. In pratica dovrebbero essere prese in considerazione tutte le materie prime richieste.

Disponibilità delle risorse

Si presuppone la disponibilità delle materie prime richieste a un costo accettabile. Senza l’approvvigionamento necessario, la transizione energetica sarà, nella migliore delle ipotesi, ostacolata e, nella peggiore, non sarà possibile. Gli elementi chiave della disponibilità includono:

  • Sufficienza della risorsa.
  • Fattibilità di estrazione e produzione.

Non è chiaro se attualmente esistano quantità sufficienti di materie prime essenziali. La quantità di molti metalli necessari è maggiore di quanto inizialmente creduto, gli attuali livelli di produzione sono insufficienti e, forse la cosa più critica, le riserve minerarie note per alcuni materiali potrebbero essere inferiori alle quantità necessarie. Ulteriori investimenti possono espandere la produzione e l’esplorazione può scoprire nuove riserve, ma ci sono difficoltà nel superare le carenze soprattutto nel breve periodo.

Di seguito è riportata una stima delle riserve note di molte materie prime essenziali:

Simon P. Michaux , Professore Associato di Ricerca dell’Unità di Geometallurgia Lavorazione dei Minerali e Ricerca sui Materiali, Geological Survey of Finland, ha confrontato la produzione richiesta con le riserve conosciute concludendo che i metalli totali richiesti per una generazione di tecnologia per eliminare gradualmente i combustibili fossili sono insufficienti per molte sostanze.

 

Metallo Produzione richiesta (tonnellate) Riserve conosciute(tonnellate) Copertura di riserva(Percentuale di requisiti)
Rame 4.575.523.674 880.000.000 20 percento
Nichel 940.578.114 95.000.000 10 percento
Litio 944,150,293 95.000.000 10 percento
Cobalto 218.396.990 7.600.000 3 per cento
Grafite 8.973.640.257 320.000.000 4 percento
Vanadio 681.865.986 24.000.000 4 percento

Lo studio ha rilevato che c’erano riserve sufficienti di alcuni materiali:

 

Metallo Produzione richiesta (tonnellate) Riserve conosciute(tonnellate) Copertura di riserva(Percentuale di requisiti)
Zinco 35.704.918 250.000.000 700 percento
Manganese 227.889.504 1.500.000.000 658 percento
Silicio (metallurgico) 49.571.460 Relativamente abbondante Adeguato
Argento 145.579 530.000 3.641 percento
Zirconio 2.614.126 70.000.000 2.678 percento

Le stime della domanda e delle riserve sono inesatte e oggetto di febbrili controversie. Tuttavia, l’entità delle potenziali carenze deve essere attentamente considerata nei piani di transizione energetica.

Estrazione e produzione

Anche se esistono riserve, sorgono problemi di estrazione e produzione. La scala è impegnativa. L’entità dell’espansione della produzione richiesta per alcune materie prime chiave non è da prendere alla leggera.

La qualità dei giacimenti minerari che devono essere sfruttati è rilevante. I gradi sono diminuiti a causa dell’esaurimento naturale delle miniere già esistenti che sono, comprensibilmente, le più facilmente accessibili e a basso costo. Nel caso del rame, il grado medio delle miniere è diminuito da circa il 2,5% di 100 anni fa a circa lo 0,5% di oggi. Ci sono poche miniere di rame oggi che hanno un contenuto di rame superiore all’1% della roccia. La qualità media del rame cileno , uno dei maggiori produttori, è scesa del 30% negli ultimi 15 anni allo 0,7%. Alcune altre materie prime richieste si trovano naturalmente a concentrazioni inferiori. Nichel, litio, cobalto e rame costituiscono dallo 0,002% allo 0,009% della crosta terrestre. Al contrario, i metalli più abbondanti come il ferro e l’alluminio costituiscono rispettivamente il 6% e l’8%.

I gradi inferiori e la relativa scarsità aumentano i costi di esplorazione, sviluppo, estrazione e lavorazione, nonché il fabbisogno energetico e le emissioni di carbonio. Nel caso del rame, qualità inferiori significano che per produrre la stessa quantità di rame occorre utilizzare circa 16 volte più energia rispetto a 100 anni fa.

La convinzione che i miglioramenti nella tecnologia di esplorazione e produzione possano colmare le carenze è fuorviante. Le tecniche di esplorazione variano tra le materie prime. La tecnologia per la ricerca di giacimenti minerari, come il rame, è complicata dal fatto che i depositi sono spesso dispersi su vaste aree. Tecniche come il test sismico, che è un mezzo efficiente per la ricerca di idrocarburi, sono meno efficaci. Deve essere utilizzata la perforazione esplorativa, un processo lento.

Anche le aree che possono essere sfruttate sono diverse. L’estrazione della maggior parte dei metalli è concentrata in poche aree a causa dell’economia. Al contrario, la produzione di petrolio e gas a volte può essere intrapresa su scala ridotta. Oggi, molta esplorazione di idrocarburi è nell’oceano.

Esistono piani ambiziosi per l’estrazione in acque profonde di cobalto, nichel, manganese e rame . Ma ci sono difficoltà significative nell’operare in acqua salata corrosiva, a temperature vicine allo zero e sotto migliaia di libbre di pressione per pollice quadrato. I superamenti dei costi di capitale e operativi sono frequenti. Il costo del progetto del gas Gorgon al largo della costa dell’Australia nord-occidentale è aumentato dal budget di $ 11 miliardi a $ 54 miliardi.

I rapporti tra riserva e produzione spesso sovrastimano la quantità di minerali che possono essere estratti. Il tempo dall’esplorazione alla produzione è lungo. Ci vogliono anni per passare dall’esplorazione alla produzione di petrolio e gas. Al contrario, una miniera di rame greenfield può richiedere decenni per essere messa in funzione, anche se in genere hanno una vita più lunga che si estende fino a centinaia di anni. Ciò significa che anche se, come probabile, i prezzi aumentano bruscamente, è improbabile che l’offerta aggiuntiva di materiali richiesti per la transizione divenga rapidamente disponibile poiché presentano un’elasticità dei prezzi relativamente limitata .

Vincoli ambientali

È probabile che la produzione delle materie prime necessarie eserciti una pressione significativa su altre risorse come l’acqua e la terra.

La produzione di molte materie prime richiede grandi quantità di acqua . L’estrazione del rame richiede molta acqua. Ciò è complicato dal fatto che il 50% della fornitura mondiale di rame proviene dal Cile, dal Perù e dalla fascia africana del rame, tutte regioni con problemi di scarsità d’acqua. Le tecniche comuni per la produzione di litio sono ad alta intensità idrica, con aree come l’alto altopiano andino dove esistono grandi riserve che sono tra i luoghi più aridi della terra. La produzione di idrogeno richiede l’accesso a grandi quantità di acqua.

Ci sono richieste di terra scarsa che potrebbero essere necessarie per le popolazioni e la produzione alimentare. I biocarburanti richiedono grandi quantità di acqua e terra. Le materie prime da biomassa per l’energia alternativa estraggono efficacemente il terriccio. A livello globale, è probabile che fino al 90 percento del suolo superficiale della Terra sarà a rischio entro il 2050. Con un minimo di 15 centimetri (6 pollici) necessari per coltivare in modo efficiente, la perdita di terriccio si sta avvicinando a livelli critici. Strutture solari nei deserti che richiedono la demolizione di aree che distruggono l’ecosistema naturale e rilasciano anche una grande quantità di carbonio immagazzinato sottoterra in terreni desertici.

Altri effetti collaterali includono inquinamento e danni ambientali dovuti all’estrazione delle materie prime necessarie.

In effetti, le esternalità negative significative sono generalmente trascurate e non incorporate nei calcoli dei costi. Il consumo di energia e le emissioni di questi effetti collaterali sono spesso ignorati.

Vincoli di investimento

Gli investimenti sono essenziali per garantire la sufficienza dell’offerta. Negli ultimi decenni, il livello di investimento in materiali critici di transizione è aumentato (sebbene l’opacità dei dati delle società minerarie, in particolare le major diversificate, renda difficile identificare con precisione le aree interessate).

Dato che saranno necessari oltre 3 miliardi di tonnellate di minerali e metalli per raggiungere un risultato inferiore a 2°C e che la produzione di minerali, come grafite, litio e cobalto, dovrà aumentare di quasi il 500% entro il 2050, è discutibile se gli investimenti esistenti siano adeguati.

Ci sono diverse ragioni per un investimento inadeguato:

  • Ciclicità delle merci.
  • Prezzi reali bassi.
  • I grandi requisiti patrimoniali dei progetti.
  • Consolidamento e maggiore avversione al rischio all’interno di grandi gruppi di risorse.

La pressione degli attivisti sulle società di risorse per la decarbonizzazione, particolarmente esposte a combustibili fossili o ad alte emissioni, è sempre più un fattore. Con la maggior parte dei gestori patrimoniali e degli investitori desiderosi di migliorare la propria performance ESG (Environment, Social, Governance), c’è stata una riluttanza da parte degli enti pubblici a investire nella produzione di materie prime. Un’ulteriore influenza è la natura apparentemente fuori moda delle risorse relative alle industrie tecnologiche ad alta crescita, che ironicamente non possono sopravvivere senza i materiali che devono essere estratti. Le materie prime non possono essere richiamate con un’app da uno smartphone.

Senza investimenti sostanziali e le relative emissioni, è probabile la carenza di alcuni materiali .

I problemi con l’aumento delle fonti primarie hanno incoraggiato a concentrarsi sull’approvvigionamento secondario, come rottami e materiale riciclato. I tassi di riciclaggio per la maggior parte dei materiali critici per la transizione sono attualmente bassi. Ciò riflette le barriere ingegneristiche , nonché il materiale adatto limitato e l’utilità del materiale riciclato per le applicazioni. I prezzi storicamente bassi sono un altro fattore che crea disincentivi e incide sulla fattibilità finanziaria di alcuni tipi di riciclaggio. L’attuale scopo di soddisfare la domanda dalla fornitura riciclata è limitato.

La corsa verde

Le questioni relative alla sufficienza degli investimenti sono, in realtà, più profonde. Le spese in conto capitale sono inadeguate ma anche non adeguatamente mirate.

La transizione energetica si è evoluta in una “corsa verde” finanziaria speculativa. L’entusiasmo per le nuove tecnologie energetiche è ignaro di semplici fatti e la pianificazione di base è assente. Anche una volta completati, gli impianti rinnovabili non possono essere collegati alla rete a volte per diversi anni. In casi estremi, i progetti non vengono perseguiti a causa di queste carenze. Il Lawrence Berkeley National Laboratory ha trovato quasi 2.000 gigawatt di energia solare, di stoccaggio ed eolica negli Stati Uniti in attesa nelle code di interconnessione della rete di trasmissione.

Aggiunta del sostegno del governo, l’euforia degli investitori è cresciuta. Gli investimenti in titoli e fondi legati alle energie rinnovabili hanno raggiunto nuove vette. Le valutazioni delle azioni dei veicoli elettrici, come Tesla, i produttori di batterie e le società legate all’idrogeno sono aumentate notevolmente. La maggior parte ha un prezzo elevato a multipli di utili, vendite e valori patrimoniali. Nel 2020, gli SPAC (Special Purpose Acquisition Vehicles) di energia verde hanno raccolto 40 miliardi di dollari con il mandato di acquisire asset di energia pulita non ancora identificati.

I fondi sono spesso affluiti ad aziende con tecnologie non testate, piani irrealistici o semplici fronzoli e ciarlataneria. C’è una malsana mancanza di concentrazione sull’essenziale scienza di base sottostante a favore degli espedienti. Gran parte di questo investimento può essere completamente ammortizzato con le rapide e grandi perdite di capitale che lasciano meno denaro disponibile per bisogni reali.

Ad esempio, l’attuale interesse per l’economia dell’idrogeno smentisce i precedenti fallimenti degli investimenti. Nel 1997, l’entusiasmo dei media per l’energia a idrogeno traboccò appena prima della fine di quel boom. Un articolo recente che ha stimolato la “nuova” economia dell’idrogeno ha razionalizzato il fallimento dell’ondata degli anni ’90 come risultato dell’assenza di un mercato chiaro per il carburante e di un sostegno statale e aziendale limitato. Il sottotitolo del pezzo era significativamente qualcosa che la maggior parte delle persone ha imparato a temere: ‘Questa volta è diverso’. Un’analisi storica ha rilevato che i tentativi seriali di guidare un’economia globale dell’idrogeno sono stati in gran parte guidati dall’entusiasmo e resta da vedere se l’ondata attuale è diversa.

La frenesia speculativa distoglie fondi dalle imprese energetiche tradizionali. L’ industria energetica ha investito poco , nelle rinnovabili e negli idrocarburi. Dal picco del 2014, gli investimenti nell’energia tradizionale (petrolio e gas) sono diminuiti del 57% determinando una riduzione di oltre il 30% degli investimenti globali in energia primaria, da 1,3 trilioni di dollari nel 2014 a 0,8 trilioni di dollari nel 2020. Parallelamente, gli investimenti totali in energia sono diminuiti di circa il 22% dal picco di $ 2,0 trilioni nel 2014 a $ 1,5 trilioni nel 2020, anche se ora si sta invertendo.

La focalizzazione degli investimenti sulle rinnovabili non è sufficiente a compensare i minori investimenti nell’energia tradizionale, soprattutto in considerazione della scala ridotta e della maggiore intensità di capitale per unità di energia prodotta. Alla base di questo modello c’è la convinzione dell’imminente fine dell’era degli idrocarburi. Ciò è stato rafforzato da una marea di analisi che prevedevano il picco della domanda mondiale di petrolio e il calo di circa un terzo del consumo entro il 2040. È interessante notare che ciò è incoerente con le proiezioni del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti secondo cui la domanda americana aumenterà leggermente, e non diminuirà entro 2050.

Le aziende energetiche tradizionali hanno registrato investimenti minimi nonostante i comprovati record di attività e asset base. Le valutazioni sono contenute, ignorando i profitti record dovuti all’impennata dei prezzi del petrolio e del gas conseguente alla guerra in Ucraina.

C’è bisogno di spese in conto capitale per l’energia attraverso fonti nuove ed esistenti, che saranno necessarie per molto tempo a venire, così come le relative infrastrutture e materie prime. L’eccessivo affidamento sull’introduzione delle energie rinnovabili, la mancanza di investimenti nei combustibili fossili e i vincoli sui materiali critici per la transizione creano la possibilità di significative carenze energetiche future.

Vincoli politici

La transizione energetica deve affrontare ostacoli politici.

Mentre la maggior parte dei cittadini è a favore di un allontanamento dai combustibili fossili, l’intrusione da parte di impianti di energia rinnovabile e attività minerarie per estrarre risorse essenziali potrebbe non essere universalmente supportata. Alcuni minerali saranno inevitabilmente estratti in cattive condizioni di lavoro nei mercati emergenti, tra cui una sicurezza sul posto di lavoro inadeguata, l’utilizzo di lavoro minorile, nessuna salvaguardia ambientale e i proventi utilizzati per finanziare i conflitti. Ciò può rivelarsi problematico sia in base alle leggi esistenti che eticamente. Come minimo, ciò rallenterà la fornitura dei necessari materiali di transizione.

Dal punto di vista geopolitico, la richiesta di determinati minerali creerà tensioni. I petrostati esistenti rischiano di perdere finanziariamente e in termini di influenza. Allo stesso tempo, i produttori di materiali essenziali acquisiranno importanza. Il grafico sottostante illustra le nazioni che producono e possiedono riserve di quattro metalli di transizione chiave. L’ampia rappresentanza di paesi in via di sviluppo non necessariamente favorevoli alle agende occidentali è notevole.

Nota : le etichette dei dati nella figura utilizzano i codici paese dell’Organizzazione internazionale per la standardizzazione (IOS). Pr = produzione; r = riserve.

Una questione centrale è il predominio della Cina nella fornitura e lavorazione di minerali critici di transizione. La Cina ha quasi il monopolio su alcuni minerali; ad esempio, il 90 percento degli elementi di terre rare lavorati. È tra i più grandi processori di litio. La Cina fornisce oltre il 60% di tutta la grafite naturale e la maggior parte dell’equivalente sintetizzato necessario per gli anodi delle batterie al litio. Il problema principale è l’elaborazione. Molti materiali richiesti si trovano in basse concentrazioni che richiedono la lavorazione di grandi quantità di minerale e metodi metallurgici spesso inquinanti. I processi sono complessi, ad alta intensità energetica, pericolosi e costosi.

Questa situazione non è casuale. La pianificazione a lungo termine della Cina ha dato la priorità a queste industrie per decenni. Gli acquirenti occidentali hanno acconsentito mentre i trasformatori cinesi, supportati da sussidi statali e standard ambientali minimi, hanno abbassato i costi.

I piani per ridurre la dipendenza dalla Cina sono, nel migliore dei casi, probabilmente lenti o, nel peggiore dei casi, quasi impossibili nei tempi previsti. Le attuali strategie per la gestione della catena di approvvigionamento di queste materie prime includono il friend-shoring per creare fornitori alternativi, costruire scorte e capacità di lavorazione di riserva. È improbabile che sia facile e sarà costoso. Sovvenzioni altamente condizionate (come quelle contenute nell’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti), finanziamenti, opposizione locale per motivi ambientali e riduzione dei prezzi da parte dei fornitori cinesi esistenti hanno finora rallentato diversi progetti. Crescente riconoscimento della posizione si riflette nel notevole cambiamento di linguaggio dal ‘disaccoppiamento’ al ‘de-risking’ in relazione al rapporto con la Cina. Qualunque sia il risultato, la disponibilità e il costo di queste materie prime essenziali limiteranno il passaggio a nuove fonti di energia.

Il controllo di alcune forniture è già un’arma economica. A seguito delle prime scaramucce, a metà del 2023, la Cina ha limitato le esportazioni di composti di gallio e germanio (utilizzati nei semiconduttori e nell’elettronica ad alta velocità), entrambi tra i minerali classificati dal governo degli Stati Uniti come critici per la sicurezza economica e nazionale. Molto probabilmente era una rappresaglia per i divieti statunitensi sugli acquisti cinesi di tecnologie avanzate.

Gli effetti di tali importanti riallineamenti di potere globale sono imprevedibili, specialmente in un periodo come quello attuale in cui sono evidenti varie tensioni.

Per arrivarci, non partirei da qui!

La transizione energetica è fondamentale per ridurre le emissioni di gas a effetto serra ma anche per integrare la fornitura in calo di combustibili fossili. Ma ci sono dubbi sulla fattibilità di una tale trasformazione dei sistemi energetici mondiali.

L’attuale focalizzazione ristretta sull’elettrificazione è limitante poiché l’elettricità è solo una piccola parte degli attuali sistemi energetici. I requisiti delle applicazioni industriali, dei trasporti pesanti e dell’aviazione richiederebbero che un’ampia varietà di questi processi fosse prima elettrificata o convertita in tecnologie con celle a idrogeno. Anche l’ approvvigionamento di materie prime essenziali per la transizione energetica non è assicurato . Le emissioni e le esternalità derivanti da una maggiore intensità materiale potrebbero non modificare sostanzialmente i livelli complessivi di produzione di gas serra. Gli attuali livelli di investimento sono inadeguati.

Alla fine, la transizione ha ‘hopium’ incorporato. Si trova sulla credenza micawberiana che qualcosa – scientifico o tecnologico – salterà fuori. Sono possibili scoperte che migliorino l’efficienza produttiva, riducono gli inquinanti o consentono la sostituzione di materiali critici per la transizione con alternative migliori, ma non ci si può fare affidamento.

Nella migliore delle ipotesi, qualsiasi transizione energetica potrebbe rivelarsi più lenta e più costosa di quanto si pensi attualmente. Nel peggiore dei casi, la transizione energetica potrebbe rivelarsi impossibile, almeno nella misura attualmente prevista con una sostanziale dipendenza residua dalle riserve di combustibili fossili in diminuzione.

Nel valutare i progressi, la formulazione dell’ex primo ministro russo Viktor Chernomyrdim sembra appropriata: “abbiamo completato tutti i punti: da A a B “.

_________________________

Autore: Satyajit Das, ex banchiere e autore di numerose opere sui derivati ​​e diversi titoli generali: Traders, Guns & Money: Knowns and Unknowns in the Dazzling World of Derivatives  (2006 e 2010), Extreme Money: The Masters of the Universe and the Cult of Risk (2011), A Banquet of Consequences RELOADED (2021) e Fortune’s Fool: Australia’s Choices (2022).

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Avete finito di linciare il povero Elkann?_di Marcello Veneziani

Della serie: il blasone, il potere; ma sotto il vestito niente. Avulsi dal mondo, dopo aver plagiato e salassato l’Italia tra le odi e la piaggeria. Giuseppe Germinario
Avete finito di linciare il povero Elkann?
I@C In qualità di esperto e decano della tratta ferroviaria Roma-Foggia, con l’aggravante di oltrepassare Foggia e spingermi fin dentro il cuore di tenebra pugliese, mi è stato chiesto da più lettori un referto postumo sul caso Alain Elkann che ha tenuto banco per giorni sui media, i siti e i social. Quando lessi l’articolo di Alain sulle pagine culturali de la Repubblica, in cui esprimeva il suo disagio di viaggiare in treno in deplorevole promiscuità, pensai di non commentare. Troppo facile e ingeneroso inveire e coglionare. Mi parve anzi commovente il suo candore elitario e tenero il suo disagio di classe in treno; epica e struggente la sua estraneità a quei luoghi infernali – Caserta, Benevento, fino addirittura a lambire Candela e Incoronata – e a quel popolo di viaggiatori che ancora si accoppia con gente dell’altro sesso, e parla apertamente di donne e di calcio, spudoratamente, profanando la cartellina di cuoio in cui lo Scrittore custodiva quotidiani finanziari stranieri; e disturbando la sua lettura di Marcel Proust (e i maestrini pedanti subito a far notare che ha sbagliato citazione e volume).
Davanti agli attacchi che subiva da giorni ho avuto l’impulso a costituire un comitato di solidarietà e sostegno al povero Alain trattato come un alieno, un radical-chic, un intellettuale con la puzza sotto il naso. Posso assicurarvi che non è niente di tutto questo, avrà pure la puzza sotto il naso, il povero Alain, ma intellettuale non è, non lo mortificate con questi appellativi ingiuriosi e impropri, sarà chic ma non è nemmeno radical. Alain è stato un bel giovane, attraente ed elegante e ora è un bell’anziano di settantatré anni, un po’ insofferente verso i giovani, che compie missioni impossibili, come quella di andare addirittura in treno, nientemeno che a Foggia, con un gesto eroico di sfida nei giorni in cui c’erano 43 gradi in terra di Capitanata.
Voi lo considerate baciato dalla fortuna, io invece lo considero uno sfortunato, con una vita difficile. Alain è figlio del banchiere e rabbino Jean-Paul Elkann e nipote del banchiere Ettore Ovazza (un tempo fascista, poi vittima dei nazisti). Poi diventò il marito di Margherita Agnelli. Infine è diventato il padre di John Elkann, oltre che del leggendario Lapo.
Insomma, il povero Alain non è mai stato se stesso, è sempre stato il figlio, il nipote, il cognato, il marito, il genero, il padre di qualcuno. Più che una persona è una sinapsi, una cerniera, un crocevia parentale, un favoloso inseminatore che ha dato un futuro alla sfortunata dinastia degli Agnelli e alla Fiat, che oggi viaggia sotto falso nome e altra bandiera.
Anche nella vita letteraria, Alain ha fatto da “spalla” ad Alberto Moravia e poi in tv a Indro Montanelli. Portatore sano di cultura e letteratura, Alain è stato un elegante indossatore di opere e talenti altrui. E’ stato pure il sotto-sottosegretario alla cultura, ma il suo principale era Vittorio Sgarbi, non so se mi spiego. Un martire. Cosa gli rinfacciate, che male ha fatto in vita sua? Innocente, innocuo, lieve e discreto, con una sua altera gentilezza. Non è mai stato egocentrico ma centrifugo. Si, gli hanno dato presidenze e incarichi, soprattutto non operativi, però lui ha sempre tenuto un profilo non alto né basso, ma evanescente. Ha scritto decine di libri, romanzi, interviste e altro, ma non ha mai fatto nulla per lasciare una traccia o lanciare un’idea. Che discrezione. Ha vissuto all’ombra del suo bel nome, della sua bella figura, dei suoi bei vestiti, del suo bel parentado, senza mai prendersi la scena.
Ora lo avete linciato perché ha osato dire che in treno qualcuno gli ha dato fastidio, parlando ad alta voce (nei vagoni c’è pure l’area silenzio; la prossima volta, se mai volessi sottoporti a un’altra tortura ferroviaria, prenota quei posti). Alain si è lamentato perché non lo hanno riconosciuto, ma forse è stato meglio per lui.
Resta un mistero il suo viaggio a Foggia, è come se – che so – avvistassero Bill Gates da Padre Pio o Chiara Ferragni a Medjugorie. Così come non capisco perché definire lanzichenecchi quei giovanotti che viaggiavano in prima classe (ma non si chiama più così, col nuovo lessico ipocrita). I lanzichenecchi erano soldati tedeschi, calati dal nord Europa a Roma per fare il famoso sacco. Questi invece erano italiani, forse settentrionali e andavano a sud, dove i guaglioni sgarbati vengono chiamati vastasi o bastasi (in Sicilia), ribusciati e nel napoletano guappi; se viaggiano in prima classe sono sgalliffi o chiavici. Ma poi cos’hanno fatto di male? Non l’hanno insultato, non l’hanno menato, niente rutti, abusi o sconcezze.
Per andare da Roma a Foggia, e qui capisco lo sgomento di Alain, non si passa dalla Costa Azzurra ma addirittura da Caserta e Benevento. Ma non sono cannibali, anche se non leggono il Financial Times.
Immagino con quale sgomento abbia letto l’articolo di Elkann il massimo esperto e utente della linea Roma-Foggia. E’ il mio amico Francesco Martucci, devoto a Padre Pio, e purtroppo un po’ anche a Mario Merola; lui è nato nientemeno a Caserta, lavora tra Foggia e Napoli, ha famiglia nella Puglia più profonda, e dunque batte tutto il sud. Non c’è volta che mi chiami al telefono e non si senta in sottofondo: “E’ in arrivo sul secondo binario locale per Foggia”. Martucci ha cittadinanza ferroviaria, vive e risiede sul treno, da pendolare, recita a memoria l’orario ferroviario, è sommelier di carrozze; e appena ha un giorno libero, si mette sul treno per i suoi pellegrinaggi. Francesco avrebbe difeso il povero Alain dalla masnada dei “lanzichenecchi”, perché è sudista, è buono di cuore, e ama leggere più di lui, anche se viaggia in terza classe; pure quella non c’è più, ma lui mentalmente è ancora lì, è un classista a rovescio di Alain, salta sul treno più disagiato per gustare la lentezza bollente di quei vagoni scassati.
Insomma, non disturbate il povero Elkann, lasciategli leggere l’opera di Proust che avrà probabilmente cominciato in adolescenza e non ha ancora finito.
Marcello Veneziani
28 Luglio 2023

Sul treno per Foggia con i giovani “lanzichenecchi”

Sul treno per Foggia con i giovani “lanzichenecchi”
Un gruppo di ragazzi poco educati e un signore con i capelli bianchi che usa carta e penna, legge Proust e i giornali in inglese protagonisti di questo racconto d’estate di Alain Elkann
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Non pensavo che si potesse ancora adoperare la parola “lanzichenecchi” eppure mi sbagliavo. Qualche giorno fa, dovendo andare da Roma a Foggia, sono salito su una carrozza di prima classe di un treno Italo. Il mio posto assegnato era accanto al finestrino e vicino a me sedeva un ragazzo che avrà avuto 16 o 17 anni.

T-shirt bianca con una scritta colorata, pantaloncini corti neri, scarpe da ginnastica di marca Nike, capelli biondi tagliati corti, uno zainetto verde. E l’iPhone con cuffia per ascoltare musica. Intorno a noi, nelle file dietro e in quelle davanti, sedevano altri ragazzi della stessa età, vestiti più o meno allo stesso modo: tutti con un iPhone in mano. Alcuni avevano in testa il classico cappello di tela con visiera da giocatore di baseball di colori diversi, prevalentemente neri, e avevano tutti o le braccia o le gambe o il collo con tatuaggi piuttosto grandi. Nessuno portava l’orologio.

Io indossavo, malgrado il caldo, un vestito molto stazzonato di lino blu e una camicia leggera. Avevo una cartella di cuoio marrone dalla quale ho estratto i giornali: il Financial Times del weekend, New York Times e Robinson, il supplemento culturale di Repubblica. Stavo anche finendo di leggere il secondo volume della Recherche du temps perdu di Proust e in particolare il capitolo “Sodoma e Gomorra”. Ho estratto anche un quaderno su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica.

Mentre facevo quello, i ragazzi parlavano ad alta voce come fossero i padroni del vagone, assolutamente incuranti di chi stava attorno. Parlavano di calcio, di giocatori, di partite, di squadre, usando parolacce e un linguaggio privo di inibizioni.

Intanto il treno, era arrivato a Caserta. Non sapevo che per andare da Roma a Foggia si dovesse passare da Caserta e poi da Benevento. Pensavo di aver sbagliato treno, ma invece è così. Non ho mai rivolto la parola al mio vicino che o taceva ascoltando musica o si intrometteva con il medesimo linguaggio nella conversazione degli altri ragazzi.

A un certo punto, poco dopo Benevento, mentre erano sempre seduti o quasi sdraiati ai loro posti, ammassando nei vari cestini per la carta straccia lattine di Coca Cola o tè freddo, uno di loro ha detto: «Non è che dobbiamo stare soli di sera: andiamo a cercare ragazze nei night».

Un altro ragazzo più piccolo di statura e con il viso leggermente coperto di acne giovanile ha detto: «Macché night! Credetemi, ho esperienza. Bisogna beccare le ragazze in spiaggia e poi la sera portarle fuori e provarci. La spiaggia è il posto più figo e sicuro per beccare».

Quella conversazione sulle donne da trovare era andata avanti mentre io avevo finito di scrivere sul mio quaderno ed ero immerso nella lettura di Proust. Loro erano totalmente indifferenti a me, alla mia persona, come se fossi un’entità trasparente, un altro mondo.

Io mi sono domandato se era il caso di iniziare a parlare col mio vicino, ma non l’ho fatto. Lui era la maggioranza, uno nessuno centomila, io ero inesistente: qualcuno che usava carta e penna, che leggeva giornali in inglese e poi un libro in francese con la giacca e i pantaloni lunghi.

Per loro chi era costui?

Un signore con i capelli bianchi, una sorta di marziano che veniva da un altro mondo e che non li interessava. Pensavano ai fatti loro, parlavano forte, dicevano parolacce, si muovevano in continuazione, ma nessuno degli altri passeggeri diceva nulla.

Avevano paura di quei ragazzi tatuati che venivano dal nord, lo si capiva dall’accento, o erano abituati a quel genere di comportamento?

Arrivando a Foggia, mi sono alzato, ho preso la mia cartella. Nessuno mi ha salutato, forse perché non mi vedevano e io non li ho salutati perché mi avevano dato fastidio quei giovani “lanzichenecchi” senza nome.

https://www.repubblica.it/cultura/2023/07/23/news/racconto_alain_elkann_sul_treno_per_foggia_con_i_giovani_lanzichenecchi-408733095/

Caduta di Roma, caduta degli USA, Di E. Jeffrey Ludwig

Caduta di Roma, caduta degli USA
Di E. Jeffrey Ludwig
Questo articolo esaminerà due cause del crollo dell’Impero romano e vedrà fino a che punto i suoi difetti possono essere applicati al declino degli Stati Uniti come principale potenza mondiale. Anche se l’influenza degli Stati Uniti non può essere considerata imperiale, i termini egemonia, leadership e dominio nel sistema mondiale si applicano all’antica Roma e potrebbero applicarsi anche a noi.

Invasioni di tribù barbariche. Nel 410 i Visigoti saccheggiarono la città di Roma. I Romani chiamarono giustamente gli invasori “barbari” perché non avevano le conoscenze, le capacità e le basi organizzative di Roma. Inoltre, a quel punto i barbari erano pagani – adoravano un pantheon di divinità come Woden, Thor, Frigg e Balder – mentre Roma aveva accettato il cristianesimo come religione ufficiale.

Negli Stati Uniti, assistiamo ora a un crollo al confine meridionale. L’apparente recinzione bipartisan eretta nel 2006, a posteriori, appare una farsa. La recinzione è stata lasciata cadere in rovina ed era inadeguata a scoraggiare l’accesso illegale. Nel 2016, il candidato alla presidenza Donald Trump ha denunciato l’immobilismo del Congresso e delle precedenti amministrazioni repubblicane e democratiche per aver permesso questa “invasione” di clandestini. Come parte del suo programma “Make America Great Again”, ha proposto e poi, dopo essere stato eletto, ha iniziato a costruire un muro con annesso sistema di sorveglianza migliore di qualsiasi altro tentativo effettuato in precedenza sul nostro confine meridionale.

Sotto Trump, gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro politica generale di immigrazione liberale, che ammetteva circa un milione di persone all’anno, ma hanno dovuto limitare l’immigrazione a causa della necessità di un’adeguata verifica dei richiedenti per quanto riguarda la storia criminale, la salute, le capacità lavorative e gli obiettivi dell’immigrazione. Già nel 1921 avevamo imparato che i valori politici e morali degli immigrati, le intenzioni di assimilazione pacifica, la volontà di vivere in un sistema capitalistico/democratico e l’etica del lavoro erano tutte caratteristiche che definivano il successo dell’immigrazione. Una politica dell’immigrazione priva di criteri di definizione su chi debba o non debba essere ammesso non è affatto una politica.

Inoltre, il Presidente Trump ha visto chiaramente che alcune nazionalità erano più inclini a produrre terroristi jihadisti di altre e ha chiesto un esame più attento dei loro candidati rispetto a quelli di altri Paesi. In questo modo è stato falsamente caratterizzato come anti-islamico. Tuttavia, non ha chiesto restrizioni per gli immigrati dall’Indonesia, il Paese con la più grande popolazione islamica. Se Iraq, Siria, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen sono stati esclusi, non lo sono stati gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e il Libano, in Medio Oriente. Tuttavia, pur abbracciando l’amicizia e persino gli aiuti militari con l’Arabia Saudita, Trump ha pronunciato un discorso contro il terrorismo durante la sua visita in Arabia Saudita, che sicuramente risuonerà nei secoli. In quel discorso ha detto: “I terroristi non adorano Dio. Adorano la morte”. Avrebbe il coraggio di dire questo davanti ai leader di un Paese che ha prodotto 16 dei 19 terroristi che hanno attaccato il World Trade Center, presumibilmente in nome di Allah?

Divisione dell’Impero romano in Oriente e Occidente. Siamo di fronte a una tale polarizzazione come Paese che molti articoli sono stati scritti sulla probabilità di essere coinvolti in un’altra guerra civile. Tuttavia, l’Impero romano non è crollato con una guerra civile. La parte occidentale cadde a causa delle invasioni di varie tribù germaniche. La parte orientale dell’Impero Romano, in gran parte di lingua greca, continuò per secoli dopo il crollo della parte occidentale, avvenuto nel V secolo. La maggior parte del crollo del Medio Oriente fu dovuto alle incursioni islamiche tra il VII e il XIV secolo. Naturalmente, una serie di lotte interne per il potere e di disaccordi resero l’Impero romano più vulnerabile.

Così, il crollo dell’America, anche se probabile, non avverrà attraverso una guerra civile, ma attraverso un indebolimento causato da dissensi interni, corruzione, incompetenza e immoralità. Nell’America di oggi, le forze della disunione sembrano fare breccia su quelle dell’unità. I sostenitori del MAGA si sono riuniti intorno a posizioni tradizionali come tenere sotto controllo l’inflazione, avere un esercito forte che si concentri sugli armamenti e non sull’identità sessuale dei soldati, avere la famiglia e non il “villaggio” come unità di base della società e assicurare che l’uguaglianza di opportunità piuttosto che l’uguaglianza di risultati sia il punto di riferimento corretto per la libertà individuale e la crescita economica.

Inoltre, il MAGA afferma che lo status sociale e il benessere economico non dovrebbero essere basati sulla razza, ma su altri criteri relativi alla responsabilità, alle competenze e alla motivazione e che l’amore per la patria dovrebbe sostituire l’amore per l’etnia. Inoltre, la libertà di parola è un diritto importante se esercitato in modo non violento, e il comportamento legale deve essere seguito in ogni momento, anche se si hanno serie obiezioni ad alcune politiche governative sostenute da quelle leggi. I disordini non dovrebbero essere equiparati alla “libertà”. Tuttavia, se qualcuno si ribella o infrange in altro modo una legge, deve essere perseguito, non perseguitato. Il diritto all’habeas corpus ha più di 350 anni e deve essere sempre rispettato. Per quanto riguarda il cosiddetto “quarto ramo del governo” – lo Stato amministrativo – i dipendenti statali non dovrebbero avere il potere di emanare o applicare regole come se fossero leggi che sostituiscono l’autorità di quei quadri amministrativi.

L’alleanza dogmatica, ondivaga, internazionalista e cultural-comunista che ha preso il controllo del Partito Democratico ritiene che i diritti e le libertà tradizionali debbano essere controllati e limitati per il bene dell’ambiente, al fine di aiutare le popolazioni diseredate di tutto il mondo, per assicurare che tutte le razze siano trattate in modo equo e per mantenere il potere nelle mani di un’élite illuminata che sa cosa è meglio per il “bene di tutti”. Questo è ciò che chiamano “sostenibilità” o “soddisfazione dei bisogni” (ricordate il principio di Marx, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”). Trump chiama i suoi singoli avversari con dei nomi e ridicolizza i loro modi di fare, ma i Democratici hanno chiamato in modo antidemocratico coloro che mettono in discussione la loro autorità e le loro idee deplorevoli, fascisti, razzisti, intolleranti, meschini, di mentalità ristretta, ecc. quando le loro idee non sono in accordo con le loro. Cosa è peggio: chiamare gli avversari e le celebrità con dei nomi o chiamare i cittadini con dei nomi?

Sia i democratici che molti repubblicani MAGA sono generalmente d’accordo con la ridefinizione del matrimonio e lo stesso Trump è favorevole all’uso dei bagni dell’altro sesso nei suoi hotel da parte dei transessuali. Dov’è la protesta contro le drag queen nelle scuole e nelle biblioteche? È volgare, indecoroso e assolutamente offensivo per qualsiasi cittadino onesto vedere una persona trans che si strofina i seni nudi impiantati sul prato della Casa Bianca e non viene arrestata o almeno allontanata. A quell’individuo, di nome Rose Montoya, è stato semplicemente detto che non sarà invitato a tornare alla Casa Bianca. Tuttavia, nello Stato di New York, ad esempio, un atto di atti osceni in luogo pubblico – e non è necessario che avvenga in uno dei più importanti edifici pubblici; può essere anche in un parco – è punibile con un massimo di 90 giorni di carcere.

Come Roma alla fine del IV secolo e nel V secolo, gli Stati Uniti sono in declino. Possiamo aspettarci un crollo del nostro ruolo dominante nel prossimo futuro. La nostra società è divisa in modo irreparabile. Anche senza una guerra civile, la divisione stessa è indice di estrema debolezza. Il Dio della Sacra Bibbia non è più il Dio chiaro del nostro Paese. Elementi senza Dio e immorali, sostenuti ora da uno dei nostri due grandi partiti politici, hanno eretto una barriera al compromesso e i repubblicani sono troppo deboli e accomodanti per ripristinare l’unità nazionale.

https://www.americanthinker.com/articles/2023/07/fall_of_rome_fall_of_the_usa.html

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Il tunnel di Zojila: Un’ancora di salvezza strategica per il Ladakh, Di Numan Bhat e Mehroob Mushtaq

Il tunnel di Zojila: Un’ancora di salvezza strategica per il Ladakh
Mentre le tensioni continuano a ribollire lungo il confine tra India e Cina, il progetto non solo rafforzerà la sicurezza dell’India, ma servirà anche come simbolo della sua presenza nel difficile territorio dell’Himalaya.

Di Numan Bhat e Mehroob Mushtaq
25 luglio 2023

pushpin marking on Leh, Ladakh map

Il tunnel di Zojila: Un’ancora di salvezza strategica per il Ladakh
Credito: Numan Bhat
In un’ottica strategica di miglioramento della connettività e di rafforzamento delle infrastrutture di confine, l’India sta realizzando l’ambizioso progetto del tunnel di Zojila, vicino al teso confine con la Cina. Immerso nel terreno accidentato dell’Himalaya, il tunnel mira a fornire un accesso tutto l’anno all’esercito e ai residenti della regione, garantendo trasporti più sicuri e protetti.

Il Passo Zojila, situato tra Srinagar e Leh, è da tempo una via cruciale per il movimento di truppe militari e merci, soprattutto durante l’inverno, quando le forti nevicate rendono inaccessibili altri passi. Tuttavia, il passo rimane altamente vulnerabile alle valanghe e alle frane, causando frequenti interruzioni dei collegamenti.

Il progetto di costruzione del tunnel di Zojila è stato inaugurato nel maggio 2018 dal primo ministro Narendra Modi. Il progetto è stato realizzato dalla National Highways and Infrastructure Development Corporation. Il tunnel di Zojila sarà un’autostrada a due corsie larga 9,5 metri e alta 7,57 metri a forma di ferro di cavallo. Verrà utilizzato il Nuovo Metodo Austriaco di Tunnelling, una tecnologia avanzata.

Il tunnel di Zojila, lungo 14,15 chilometri e situato a un’altitudine di oltre 11.500 piedi, è una meraviglia ingegneristica, che attraversa lo scoraggiante Zojila Pass e garantisce la continuità della connessione anche in condizioni meteorologiche estreme. Il completamento è previsto per il 2026.

Il costo del progetto è stimato in circa 68,09 miliardi di rupie indiane. La costruzione del tunnel è un compito erculeo, con gli operai che devono affrontare un terreno insidioso e condizioni meteorologiche estreme. Il terreno è caratterizzato da ripidi pendii, superfici rocciose e ghiacciai instabili, che rendono il processo di costruzione impegnativo. Nonostante queste difficoltà, gli operai sono determinati a portare a termine la loro missione e a fornire un’ancora di salvezza alla regione.

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Burhan Andrabi, senior manager del progetto, ha dichiarato che dei 14,15 chilometri totali, sono stati completati 6 chilometri di scavo del tunnel. Sono state completate anche due sottostrutture del ponte e sono in corso i lavori per un terzo ponte.

I lavori per il tunnel sono iniziati nel 2021. L’autostrada avrà due tunnel a doppia canna, quattro ponti, due gallerie per la neve e una struttura di 2,3 chilometri a taglio e copertura.

Il tunnel di Zojila dovrebbe essere completato entro il 2026. Foto di Numan Bhat.

La distanza da Baltal a Meenamarg scenderà a 13 chilometri dagli attuali 40; il tempo di percorrenza dovrebbe essere ridotto di un’ora e mezza e il viaggio dovrebbe essere meno faticoso. Si spera che il progetto porti allo sviluppo integrato di entrambi i territori dell’Unione, Ladakh e Jammu e Kashmir.

Raja Ahmad, un operaio di Ganderbal, ha detto che nonostante i molti ostacoli, “abbiamo lavorato duramente”.

“A volte il lavoro è stato sospeso”, ha detto, “ma con coraggio abbiamo continuato a lavorare nonostante il clima rigido”.

Un altro operaio ha detto che le strutture fornite erano buone, “ma a causa del clima freddo, anche durante le tempeste di neve, portiamo avanti il nostro lavoro con zelo. Speriamo che il nostro duro lavoro dia buoni frutti”.

I timori di un conflitto sono più che speculativi. Nel 2020, truppe indiane e cinesi hanno ingaggiato una guerra corpo a corpo nella valle di Galwan, in Ladakh. Venti soldati indiani e almeno quattro cinesi sono stati uccisi nel primo scontro serio tra le due potenze nucleari dal 1975. Da allora, la situazione è rimasta caotica, con entrambe le parti che investono in infrastrutture vicino al confine de facto che le separa, noto come Linea di controllo effettiva.

Una volta completato, il tunnel risolverà un problema logistico per l’India, poiché l’autostrada nazionale tra Srinagar, la capitale del Kashmir, e il tratto di Zojila del Ladakh è coperta di neve per tutto l’inverno, impedendo il traffico stradale e isolando la regione di confine dal resto del Paese.

La popolazione locale, che da tempo sopporta i disagi causati dalla natura imprevedibile del Passo Zojila, attende con ansia il completamento del tunnel. Molti residenti devono affrontare l’isolamento durante i mesi invernali, poiché i rifornimenti di base e i servizi di emergenza scarseggiano a causa delle strade bloccate.

Un residente, Bashir Ahmad Bhat, ha espresso la sua gratitudine per il progetto: “Il tunnel di Zojila cambierà la nostra vita in meglio. Non solo faciliterà la circolazione di merci e persone, ma farà anche fiorire il commercio e gli scambi nella regione. Questo porterà opportunità economiche e prosperità ai nostri villaggi remoti”.

Si prevede che il tunnel avrà anche un impatto positivo sul turismo della regione, poiché la bellezza naturale dell’area è stata spesso messa in ombra dalle sfide poste dal valico. Con una migliore accessibilità, è probabile che un maggior numero di turisti visiti le pittoresche valli e i laghi incontaminati della regione, contribuendo allo sviluppo complessivo dell’economia locale.

Uno degli ingegneri del progetto ha parlato delle sfide affrontate durante il processo di costruzione. Il Passo Zojila è noto per le forti nevicate e le valanghe. La costruzione di un tunnel in queste condizioni ha richiesto un’ampia pianificazione e l’impiego di tecnologie avanzate. Ma con i nostri sforzi collettivi e la nostra determinazione, siamo riusciti a fare progressi significativi e presto questo tunnel diventerà l’ancora di salvezza di questa regione”.

Oltre a garantire l’accesso ai militari per tutto l’anno, il tunnel migliorerà notevolmente le infrastrutture di confine dell’India e rafforzerà la sua posizione strategica nella regione. Servirà come linea di vita essenziale per le forze armate indiane, garantendo la loro preparazione e agilità nel rispondere efficacemente a qualsiasi minaccia.

Farooq Misger, un uomo d’affari di Leh, ha condiviso le sue aspirazioni per il tunnel di Zojila. Ha detto: “Con il completamento di questo tunnel, speriamo di attirare più turisti a Leh. Attualmente, a causa delle condizioni meteorologiche incerte e dell’accesso stradale difficile, molte persone esitano a visitarla. Ma con una strada per tutte le stagioni, un maggior numero di persone potrà sperimentare la bellezza della regione e contribuire a stimolare la nostra economia”.

Mentre le tensioni continuano a ribollire lungo il confine tra India e Cina, il completamento del tunnel di Zojila non solo rafforzerà la sicurezza dell’India, ma servirà anche come simbolo della sua determinazione ad affermare la propria presenza nei difficili territori dell’Himalaya.

Il progetto del tunnel di Zojila rappresenta un significativo passo avanti nel miglioramento della connettività e nel rafforzamento delle infrastrutture di confine. Nonostante le ardue sfide affrontate dai lavoratori, il progetto ha un valore immenso sia per i militari che per i civili, garantendo l’accesso alla regione per tutto l’anno e promuovendo lo sviluppo economico in questo remoto angolo dell’India.

Nazir Ahmad, un camionista, ha dichiarato: “Ho guidato sul Passo Zojila per anni, ed è sempre stata un’esperienza snervante. Non vedo l’ora che il tunnel di Zojila sia completato, perché porterà un senso di sicurezza e facilità ai nostri viaggi”.

“Ero solito temere di affrontare il viaggio attraverso il Passo Zojila, soprattutto in caso di forti nevicate. Il tunnel di Zojila eliminerà questa paura e renderà il viaggio molto più piacevole per gli automobilisti come me”, ha aggiunto.

Secondo gli esperti, una volta completato, il tunnel farà risparmiare milioni di rupie in carburante, a beneficio sia dell’esercito che dei civili.

AUTORI
AUTORE OSPITE
Numan Bhat e Mehroob Mushtaq
Numan Bhat e Mehroob Mushtaq sono giornalisti freelance del Kashmir.

https://thediplomat.com/2023/07/the-zojila-tunnel-a-strategic-lifeline-to-ladakh/

The Diplomat è una rivista indiana di studio delle relazioni internazionali e di geopolitica. Un riferimento importante, quindi, per cogliere da un altro punto di vista fondamentale e promettente le dinamiche di formazione di rapporti multipolari.

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Spiegazione delle differenze segnalate da Cina e India sull’espansione dei BRICS, di ANDREW KORYBKO

Spiegazione delle differenze segnalate da Cina e India sull’espansione dei BRICS

ANDREW KORYBKO
29 LUGLIO 2023

La Cina prevede che i membri dei BRICS sostituiscano il dollaro con lo yuan e si integrino nella BRI, mentre l’India vuole che diano priorità all’uso delle valute nazionali e non vuole che i BRICS nel loro insieme siano ufficialmente collegati a questo progetto globale.

Un orologio rotto ha ragione due volte al giorno

Gli osservatori più attenti sanno che non ci si può sempre fidare di Bloomberg, ma nel suo ultimo rapporto sui BRICS potrebbe dire la verità, nonostante abbia dato una piega ovvia a tutto. Nel suo articolo intitolato “China’s Push to Expand BRICS Membership Falters” (La spinta della Cina per espandere l’adesione ai BRICS vacilla), ha citato due funzionari indiani senza nome che hanno affermato che il loro Paese ha proposto criteri rigorosi per l’adesione ai BRICS dopo che la Cina avrebbe espresso una posizione relativamente più rilassata su questo tema.

Chiarire le comuni percezioni errate sui BRICS

Prima di spiegare perché la notizia è verosimile, è importante chiarire che questa importante testata giornalistica ha ovviamente interesse a inquadrare questo disaccordo come l’ennesimo esempio delle crescenti tensioni sino-indiane, motivo per cui ha intitolato l’articolo in questo modo. La formulazione è volta a sottintendere che i BRICS sono guidati dalla Cina e che tutti gli altri membri sono suoi partner minori. Il contenuto particolare del loro articolo trasmette quindi l’idea che le dispute all’interno del gruppo stiano mettendo in pericolo il suo futuro.

La realtà è che i BRICS potrebbero essere più accuratamente concettualizzati come una forma finanziariamente focalizzata di RIC+. Il trilaterale Russia-India-Cina funge da nucleo centrale, mentre Brasile e Sudafrica sono i partner principali al di fuori dell’Eurasia per accelerare i processi di multipolarità finanziaria. Per quanto riguarda il loro obiettivo comune, questo viene perseguito attraverso riforme graduali a causa del rapporto di complessa interdipendenza di ciascun membro con il sistema finanziario occidentale-centrico, con la Russia come unica eccezione.

L’osservazione precedente spiega perché il loro progetto di valuta di riserva probabilmente non sarà lanciato a breve, se non mai, e perché il Sudafrica ha ceduto alle pressioni occidentali affinché il Presidente Putin partecipasse al prossimo Vertice dei BRICS online anziché di persona, a causa del mandato di arresto della Corte penale internazionale. Questo aggiunge anche un contesto alla recente dichiarazione del Presidente della Banca BRICS Dilma Rousseff, che ha confermato che la sua istituzione rispetta le sanzioni occidentali contro la Russia e quindi non sta pianificando alcun nuovo progetto in quel Paese.

La disputa sino-indo sull’espansione formale dei BRICS

La comunità dei media alternativi (AMC) considera i fatti sopra descritti come una battuta d’arresto, poiché sono stati condizionati da influencer di primo piano a pensare che i BRICS siano un movimento rivoluzionario dedicato a detronizzare il dollaro, ma si tratta di una falsa percezione propagata per motivi di interesse personale. I BRICS sono ancora più che in grado di cambiare il sistema finanziario globale, anche se in modo graduale e non radicale. A tal fine, i suoi membri continuano a de-dollarizzare e a costruire piattaforme finanziarie alternative non occidentali.

Tuttavia, esistono ancora differenze tra di loro sul modo migliore di procedere, da cui il probabile contenuto fattuale dell’ultimo rapporto di Bloomberg sulle posizioni opposte di Cina e India nei confronti dell’espansione dei BRICS. La prima prevede che i membri del gruppo sostituiscano il dollaro con lo yuan e si integrino nella Belt & Road Initiative (BRI), mentre la seconda vuole privilegiare l’uso delle valute nazionali e non vuole che i BRICS nel loro insieme siano ufficialmente collegati a questo progetto globale.

Di conseguenza, secondo quanto riferito, la Cina ha una posizione relativamente più rilassata nei confronti dell’espansione dei BRICS, poiché si aspetta che i nuovi membri accelerino l’internazionalizzazione dello yuan e la loro integrazione nella BRI, mentre la posizione dell’India è più rigida a causa della complessità di dare priorità alle valute nazionali. Naturalmente ci sarà chi, nell’AMC, sosterrà che l’ultimo rapporto di Bloomberg dimostri che l’India è il cavallo di Troia dell’Occidente nei BRICS, ma non potrebbe essere più sbagliato.

Chiarire le comuni percezioni errate sull’India

All’inizio di maggio, è stato scritto che “le differenze della RIC dovrebbero essere candidamente riconosciute invece di essere negate o distorte dai media alternativi”. Un mese dopo, l’accoglienza del Primo Ministro Modi da parte degli Stati Uniti, nonostante il suo coraggioso rifiuto delle richieste di scaricare la Russia, ha dimostrato che “gli Stati Uniti hanno finalmente realizzato l’inutilità di cercare di costringere l’India a diventare un vassallo”. Questo sviluppo ha dimostrato che l’India ha completato la sua ascesa come Grande Potenza di rilevanza globale, la cui autonomia strategica nella Nuova Guerra Fredda è rispettata da tutti gli attori chiave.

Gli influencer dell’AMC che ancora insistono sul fatto che l’India sia il cavallo di Troia dell’Occidente nei consessi multipolari contraddicono le conclusioni degli alti funzionari russi che, dopo il viaggio del Primo Ministro Modi negli Stati Uniti, hanno rassicurato tutti sul fatto che i legami bilaterali rimangono ancora forti. È loro diritto credere a ciò che vogliono, ma gli osservatori dovrebbero essere consapevoli che non c’è alcuna sostanza nelle loro affermazioni, che sono state sfatate da professionisti della diplomazia che ovviamente conoscono meglio di loro la politica indiana.

È importante che i lettori tengano a mente questo aspetto, per evitare di essere fuorviati da influencer dell’AMC che propagano teorie cospirative sul ruolo globale dell’India per qualsiasi motivo. Tornando all’articolo di Bloomberg, questo ulteriore chiarimento dovrebbe migliorare la comprensione delle dinamiche dei BRICS in generale e delle differenze sino-indiane sulla questione dell’espansione formale del gruppo in particolare.

I pro e i contro degli approcci di Cina e India

Entrambe le grandi potenze asiatiche sono sincere nel loro desiderio di riformare gradualmente il sistema finanziario occidentale-centrico, ma non sono d’accordo sul modo migliore per farlo. La Cina vuole accelerare l’internazionalizzazione dello yuan e l’integrazione dei BRICS nella BRI, mentre l’India vuole dare priorità all’uso delle valute nazionali e mantenere i BRICS separati dalla BRI. Questi approcci opposti riflettono i rispettivi interessi nazionali e sono quindi naturali da sposare, a differenza di quanto l’AMC potrebbe sostenere a proposito dell’India.

Ogni percorso ha i suoi meriti ma anche argomenti convincenti contro di esso. Per quanto riguarda la Cina, accelererebbe i processi di multipolarità finanziaria, ma con il rischio di far sospettare ad alcuni Paesi che la Repubblica Popolare voglia segretamente sostituirsi al ruolo unipolare degli Stati Uniti, anche se solo in Asia. Per quanto riguarda l’India, essa rafforzerebbe la sovranità finanziaria di ciascun Paese, ma i tempi per l’attuazione di cambiamenti sostanziali sarebbero probabilmente più lunghi rispetto al percorso della Cina, oltre ad essere comparabilmente più complessi da attuare.

Considerando che “gli Stati della SCO hanno concordato i contorni dell’ordine mondiale emergente” durante il vertice virtuale dei leader di inizio luglio, nonostante le crescenti tensioni sino-indiane, i recenti precedenti suggeriscono che i BRICS probabilmente raggiungeranno un compromesso sull’espansione del gruppo che soddisfi gli interessi di tutti. Il risultato più realistico potrebbe essere l’attuazione del concetto di BRICS+ reso popolare dal guru russo della geoeconomia Yaroslav Lissovolik, in modo che i potenziali membri possano formalizzare i loro legami con il blocco.

Il BRICS+ potrebbe essere un compromesso reciprocamente vantaggioso

Sebbene non si possa escludere che la Cina e l’India siano d’accordo sull’ingresso di uno o due Paesi come membri ufficiali, cosa a cui secondo Bloomberg gli altri tre non si opporrebbero in linea di principio, questo compromesso potrebbe evitare che le crescenti tensioni sino-indiane ostacolino la crescita del gruppo. Gli interessi di Delhi verrebbero serviti stabilendo i criteri per l’adesione ufficiale, indipendentemente dai dettagli che potrebbero essere alla fine, mentre quelli di Pechino verrebbero serviti facendoli partecipare alle attività dei BRICS.

I Paesi interessati possono internazionalizzare lo yuan e integrarsi nella BRI attraverso l’ambito dei loro legami bilaterali con la Cina e la partecipazione a piattaforme non BRICS, dando invece priorità all’uso delle valute nazionali attraverso i loro legami con i membri BRICS e BRICS+, esattamente come prevede l’India. Se si crede a quanto riportato da Bloomberg sulle posizioni di Brasile, Russia e Sudafrica su questo tema, questi tre Paesi sono tacitamente più allineati all’approccio dell’India che a quello della Cina.

La posizione della Cina su questo tema è la vera anomalia

Le fonti brasiliane e sudafricane non sono state citate, mentre quella russa è il direttore di ricerca del Valdai Club e capo del Council on Foreign & Defense Policy Fyodor Lukyanov, le cui due istituzioni affiliate forniscono consulenza al Cremlino. È uno dei più influenti esperti russi ed è stato citato per dire che “è ampiamente favorevole all’espansione dei BRICS, ma senza grande entusiasmo. Sta seguendo l’esempio degli altri. Non bloccheremo nessuna decisione”.

Non ci sono ragioni credibili per credere che Bloomberg abbia inventato la sua citazione, come potrebbero immaginare i teorici della cospirazione dell’AMC, né che questo esperto molto rispettato abbia disinformato il suo pubblico sulla posizione della Russia su questo tema delicato. Piuttosto, Lukyanov ha descritto candidamente il pensiero del Cremlino per dissipare false percezioni e aspettative associate, come quelle finora coltivate dai principali influencer dell’AMC. Ciò conferma che la Russia riconosce le dinamiche intra-gruppo dei BRICS precedentemente descritte.

La posizione misurata e pragmatica del Cremlino riflette i suoi interessi nazionali, così come si può dire che la Cina e l’India siano rispettivamente entusiaste e caute. Allo stesso modo, Brasile e Sudafrica hanno presumibilmente approcci simili a quelli della Russia per lo stesso motivo, anche se i loro interessi nazionali corrispondenti hanno più a che fare con la necessità di non subire ulteriori pressioni occidentali. Questa valutazione complessiva aumenta le possibilità che si accordino sull’attuazione del BRICS+ come compromesso.

Riflessioni conclusive

La richiesta dell’India di stabilire criteri rigorosi per l’adesione ai BRICS non è quindi una cosa negativa come l’AMC potrebbe essere portata a pensare, poiché è probabilmente in linea con i punti di vista di tutti gli altri membri, a parte quello della Cina, il che la rende rappresentativa della maggioranza e non di una presunta eccezione influenzata dagli Stati Uniti. Non c’è nulla di male nemmeno nella posizione della Cina, che è anche animata da buone intenzioni, ma è Pechino a fare da apripista su questa delicata questione, non Delhi o altri. In ogni caso, è probabile che si raggiunga un compromesso.

https://korybko.substack.com/p/explaining-chinas-and-indias-reported?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=135541253&isFreemail=true&utm_medium=email

L’occidente collettivo si è talmente crogiolato nella presunzione della propria superiorità che alla prova dei fatti in Ucraina è crollato come un bluff, a cura di Claudio Martinotti Doria

L’occidente collettivo si è talmente crogiolato nella presunzione della propria superiorità che alla prova dei fatti in Ucraina è crollato come un bluff

L’autore di Giubbe Rosse News riporta nel testo sottostante esattamente quanto avevo argomentato nei miei articoli dei mesi precedenti, in particolare il concetto fondamentale, che gli occidentali (europei in particolare) dovrebbero tenere ben presente, cioè che dovremmo essere grati a Putin per la sua moderazione e pazienza oltre che lungimiranza.

Esattamente il contrario di come i media mainstream lo descrivono (falsamente, mentendo sapendo di mentire). Lo dobbiamo considerare un amico dell’Occidente, dell’Europa in particolare, in quanto rappresenta il senso comune di appartenenza culturale e antropologica del popolo russo occidentale (Russia Europea) alla comunità europea, intesa come comunità di popoli, non certo politica e istituzionale. Con qualche eccezione, ovviamente, mi riferisco ai popoli dell’Europa dell’Est, piuttosto russofobi.

Questo suo atteggiamento di mediazione e moderazione strategica spiega il fatto che non abbia ancora infierito militarmente sull’Europa, nonostante tutte le gravissime provocazioni subite ripetutamente, bel oltre qualsiasi linea rossa. E’ anche vero che le élite europee sono talmente demenziali, essendo composte da minus habens, che si stanno suicidando da sole e quindi sarebbe inutile e crudele infierire su di esse, anche perché sarebbero i popoli a subirne le conseguenze, che sarebbero ancora più gravi di quelle attualmente già pesanti e debilitanti, e Putin, lo ripeto per l’ennesima volta, non vuole colpire i popoli ma i loro governanti e servitori.

Putin sta mantenendo una sorta di guerra fredda impedendo che diventi calda, nonostante le élite occidentali (in particolare quelli anglofoni) facciano di tutto per renderla calda, anzi caldissima. In particolare gli USA sperano che la guerra rimanga in Europa e non colpisca mai il territorio americano, anche se iniziano a nutrire qualche dubbio, sapendo di quali armi apocalittiche dispone la Russia, in grado di radere al suolo in pochi minuti tutte e due le coste del paese, Atlantico e Pacifico, non avrebbero neppure il tempo di accorgersi di cosa gli sta venendo addosso.

Con la potenza bellica di cui dispone la Russia, nettamente superiore a quella occidentale, il fatto che i russi si limitino a una guerra convenzionale, nonostante l’aberrante e criminale comportamento nazi-ucraino, rende un fatto accertato che Putin e il suo entourage non intende infierire sull’Europa, ma è la sua leadership che sta infierendo masochisticamente su se stessa per un’autolesionista pusillanime sottomissione alle politiche USA-NATO.

Putin deve solo attendere che l’Occidente si danneggi da solo con le sue ottuse e deleterie scelte strategiche, fino a che non collasserà o imploderà. Che senso avrebbe bombardare un territorio se sai già che presto sarà colpito da un terremoto? Quando un popolo o più popoli, come nel caso europeo, sono governati da stupidi, occorre attendere che gli stupidi abbiano esaurito il loro entourage composto da altri stupidi,  fino a che si siano distrutti a vicenda e inizino a comparire persone meno stupide. Intendiamoci, gli stupidi non si estingueranno mai, ma occasionalmente e temporaneamente potrebbero esaurirsi le scorte …

Claudio Martinotti Doria

Di qua e di là del fronte

Enrico Tomaselli 23 Luglio 2023 – GIUBBE ROSSE NEWS

https://giubberosse.news/2023/07/23/di-qua-e-di-la-del-fronte/

Mentre sulla linea di combattimento emergono, in tutta la loro evidenza, i limiti tattici e strategici della NATO, preludio ad una sconfitta che è già nei fatti, ed a cui manca solo la sanzione formale e finale, all’interno della Federazione Russa si gioca un’altra partita, non meno importante, soprattutto per gli europei; ed a cui proprio gli europei dovrebbero prestare attenzione, giacché da lì dipende il futuro del vecchio continente nei decenni a venire.

Sulla linea di combattimento

Come era facilmente prevedibile – ed infatti previsto – il tentativo di passare ad una postura offensiva, da parte delle forze armate ucraine, cercando di replicare i successi della scorsa estate, non solo non ha dato i risultati sperati, ma si è trasformato in un vertiginoso incremento delle perdite.
Se infatti l’offensiva dell’estate 2022 consentì a Kiev di riprendere Kharkiv (profittando del fatto che i russi avessero lasciato quel settore quasi sguarnito) e la parte di Kherson sulla riva destra del Dniepr (da cui però i russi decisero di ritirarsi senza neanche combattere, per una scelta strategica del Generale Surovikin), stavolta per l’esercito ucraino si è trattato di andare all’attacco di forze considerevoli, ben fortificate, e largamente superiori in alcuni ambiti fondamentali – artiglieria, aviazione d’attacco, guerra elettronica.

Il risultato di sei settimane di controffensiva è semplicemente devastante, per Kiev. Tanto che ormai in occidente si comincia (sia pur malvolentieri) ad archiviare questa storia, e tutte le aspettative ad essa connesse. Dopo il sanguinoso tritacarne dell’ostinata resistenza a Bakhmut, contro ogni logica militare, il salasso di sangue pagato in queste ultime settimane rende le cose davvero complicate, per il regime ukronazi. Ormai le perdite viaggiano sull’ordine dei 400.000 KIA, una cifra enorme rispetto ai numeri delle forze impiegate.
Tra l’altro, la capacità di mobilitazione diventa sempre più difficoltosa; benché vi sia potenzialmente un bacino ancora ampio cui attingere (1), non si può certo dire che l’Ucraina sia percorsa da un fremito patriottico, che spinge ad arruolarsi volontariamente. Ovviamente, la consapevolezza che ci sono elevatissime probabilità di restare uccisi è la prima ragione che raffredda l’afflato nazionalistico; ma anche la dilagante corruzione degli ufficiali, spesso più preoccupati di lucrare in ogni modo possibile che di combattere, fa la sua parte.

Del resto, ormai sono centinaia, se non migliaia, le testimonianze video dei reclutamenti forzati, veri e propri rastrellamenti. Da ultimo, il governo di Kiev ha stretto accordi con vari paesi europei affinché questi si incarichino a loro volta di rimandare in Ucraina gli uomini delle classi richiamate, e precedentemente rifugiatisi all’estero allo scoppio dell’Operazione Speciale Militare. Tutti segnali, appunto, di una difficoltà di reclutamento. Ciò nonostante, secondo l’attuale Ministro degli affari dei veterani ucraino, alla fine della guerra “la nostra previsione è che ce ne saranno almeno 4 milioni” (2). Secondo i media ucraini, “la cifra è abbastanza spaventosa, perché è più di quattro volte l’attuale forza delle forze armate ucraine”.
Ovviamente questa stima ha un suo senso nella previsione che il conflitto si protragga ancora a lungo, non meno di altri due anni. Per arrivare a quei livelli di mobilitazione, stante la situazione precedentemente descritta, e che tende ad aggravarsi, è infatti necessario un tempo abbastanza lungo; peraltro, ammesso che non venga meno il fattore tempo, benché il regime zelenskyano si sia dimostrato disponibilissimo a fornire carne da cannone alla proxy war della NATO, resta comunque l’esigenza di addestrare ed armare questa eventuale massa di mobilitati. Cosa che, allo stato, appare sempre più complicata, viste le crescenti difficoltà della NATO stessa.

Uno degli esiti della fallimentare strategia ukro-NATO, infatti, è il consumo quasi completo delle disponibilità di armamenti da parte dei 33 paesi membri dell’Alleanza. Il che ha mostrato, tra l’altro, non solo l’impreparazione strategica nell’affrontare un conflitto ostinatamente voluto e provocato, ma anche gli enormi limiti del potenziale militare della NATO stessa. Tutte le potenti tecnologie belliche fornite a Kiev, spesso spacciate per decisivi game changer, si sono alla fine dimostrate estremamente sopravvalutate. E non si tratta semplicemente di un cattivo uso da parte degli ucraini, come pure qualcuno vorrebbe far credere, a cui semmai si deve rimproverare l’aver seguito le direttive tattiche impartite dagli addestratori e dai comandi NATO; né tanto meno di una mera questione d’insufficienza quantitativa.
Il problema, e qui sarebbe necessario aprire ben altro capitolo, è strutturale, quasi ideologico. L’occidente collettivo si è talmente a lungo crogiolato nella presunzione della propria superiorità (morale, politica e tecnologica, mettendo quest’ultima alla prova prevalentemente contro forze infinitamente inferiori sotto ogni profilo), da aver messo a punto un modello – strategico, tattico, e quindi anche iper-tecnologico – che discende direttamente da questa idea di superiorità. Il giardino borrelliano non può che vincere, contro la giungla.

La realtà della guerra guerreggiata, si è incaricata di spazzare via questa illusione. Disporre di strumenti altamente tecnologici, costosissimi e quindi disponibili in quantità limitate, non serve quando si deve fronteggiare un esercito di pari livello, che dispone di strumenti un po’ meno sofisticati, ma in grandissima quantità.
Inoltre, c’è una questione rilevantissima, che incredibilmente i comandi NATO sembrano aver sottovalutato. Il modello strategico occidentale è basato interamente sulla coordinazione terra-aria, e richiede quindi l’impiego massiccio di una forza aerea predominante. Senza di questa, il modello semplicemente non funziona, e si traduce in un tritacarne (ed un tritacarri).
Non è per un caso che la NATO, se ancora può disporre – almeno teoricamente – di un vantaggio strategico (nei confronti di Russia-Cina-Iran) è proprio nel campo dell’aviazione, sulla quale ha investito moltissimo. E si tratta appunto, anche qui, di un vantaggio teorico, in quanto mai verificato sul campo.
E comunque il dato quantitativo non è privo d’importanza. È infatti ben chiaro che fornire i caccia-bombardieri F-16 a Kiev resta strategicamente insignificante, non solo perché la Russia dispone di migliaia di velivoli equivalenti o migliori, ma perché i sistemi di difesa aerea russi ne farebbero strame.

Sul fronte interno

Ha di recente fatto un po’ di scalpore la notizia dell’arresto, da parte delle forze di sicurezza russe, di Igor Girkin ‘Strelkov’. Famoso combattente del Donbass durante la guerra civile, Strelkov è poi diventato un esponente di punta di quel mondo iper-nazionalista russo, estremamente critico nei confronti delle scelte strategiche del Cremlino, verso cui non ha risparmiato critiche ferocissime.
Questo arresto va a mio avviso inquadrato in un contesto più ampio, che serve a meglio comprendere cosa sta accadendo dietro la prima linea.
In questo quadro, vanno collocati sia il fallito putsch di Prigozhin, sia il ridislocamento della Wagner in Bielorussia, sia l’incontro di Putin con i blogger di guerra lo scorso giugno. Per restare ovviamente ai fatti più noti.

Anche se lo storytelling occidentale ama dipingere la Russia come un’autocrazia orientale ed un po’ barbara, la realtà è alquanto diversa. Fondamentalmente, la Federazione Russa è una democrazia rappresentativa presidenziale, come può esserlo la Francia e gli stessi Stati Uniti, anche se ovviamente – per ragioni storiche e culturali – vi sono delle differenze, formali e sostanziali. Ma soprattutto, la Russia (la sua parte più popolosa ed importante) è e si sente europea.
Ne consegue che la società russa contemporanea non è poi molto dissimile da quella di qualunque altro paese europeo, ed al suo interno – fermo restando il larghissimo consenso di cui dispone Putin, anche da prima del conflitto (3) – si muovono diverse correnti di pensiero politico, le cui diversità si riflettono poi anche sulle questioni di merito relative al conflitto in Ucraina.
C’è una componente liberal, cosmopolita, che guarda all’occidente, composta prevalentemente – ma non solo – dall’oligarchia economica, che nei rapporti con l’ovest ha ulteriormente sviluppato il proprio successo economico, così come c’è una variegata componente nazionalista, che rivendica con forza la rottura, culturale e politica, con questo occidente.

La posizione di Putin, e del suo gruppo dirigente, che deve comunque fare i conti con queste realtà presenti all’interno della nazione, è in un certo qual senso mediana. C’è ovviamente piena consapevolezza che – quella che stiamo attraversando – è una fase di rottura nei rapporti est-ovest, e che non si tratta di una questione di breve durata. Con un orizzonte, a voler essere ottimisti, di nuova guerra fredda, è chiaro che la Federazione deve essere in qualche modo ridislocata strategicamente, non solo sotto il profilo economico e militare, ma in senso più ampio anche geopoliticamente; il che comporta un lavoro anche culturale. Ma, al tempo stesso, c’è consapevolezza che il ruolo storico della Russia è quello di fare da ponte tra Europa ed Asia, di essere lo snodo centrale di una prospettiva euroasiatica. Senza questo ruolo, se l’asse geopolitico venisse spostato completamente verso l’Asia, la Russia sarebbe destinata ad essere fagocitata politicamente dalla Cina. Si tratta quindi di giocare una partita di grande equilibrio, che per un verso deve fare i conti con l’esigenza di pendere tatticamente ad est, ma senza mai perdere di vista l’esigenza – altrettanto importante – di non disperdere il sentiment di appartenenza europea.

Per questo diventa necessario segare sul nascere quelle forme di opposizione troppo radicali, e che si spingono troppo oltre nella critica; del resto, si tratta pur sempre di un paese in guerra. In quel presunto tempio della democrazia che sta dall’altra parte del fronte, accade quotidianamente molto ma molto di peggio.
Ugualmente, diventa necessario spiegare ai corrispondenti dal fronte indipendenti che la questione non è meramente tattico-strategica, ma che ha una dimensione (ed una prospettiva) assai più ampia, e che pertanto è necessario tenerla presente anche quando – legittimamente – si muovono critiche al modus operandi delle forze armate.
C’è infine da tener presente, anche a fronte di un (sia pur maldestro) sollevamento come quello della Wagner, non solo della popolarità acquisita dalla PMC, ma anche del ruolo che questa svolge e può svolgere, sullo scacchiere internazionale.

La soluzione di compromesso adottata per risolvere la crisi innescata da Prigozhin, quindi, al di là di come possa apparire, va letta ed inquadrata ancora una volta in un contesto strategico più ampio. Il fatto che Prigozhin stesso sia stato graziato per la sollevazione, non toglie che sia sempre sotto scopa in Russia, dove si trovano le sue altre imprese ed i suoi beni. È chiaro che il suo ruolo sarà sempre più ridimensionato, anche mediaticamente, mentre tornerà ad essere centrale la figura di Urkin, il capo militare e fondatore della PMC. In fondo, la compagnia è nata da e per conto dei servizi di sicurezza militari. Il suo ruolo in Africa è strategicamente importante, e non può essere facilmente sostituito.
Ma soprattutto è chiaro che il trasferimento in Bielorussia risponde ad un preciso disegno strategico. Che non è certamente quello di farne una base offensiva verso ovest, come pure racconta la narrazione NATO style.

Dal punto di vista russo, la Bielorussia è assai più che un paese amico; sostanzialmente, è quasi una marca ad ovest, ma al tempo stesso è anche un po’ un ventre molle. Mosca, più che altro, teme che possa essere oggetto di una manovra aggirante della NATO, combinando tentativi insurrezionali interni ed attacchi esterni. Tenendo presente questo punto di vista, si spiegano meglio una serie di mosse. Che sono anche concatenate tra loro.
Dispiegare lì i missili nucleari tattici non ha solo un valore dissuasivo verso la NATO, e di riequilibrio dopo l’adesione della Finlandia, ma significa indicare in modo forte e chiaro come Mosca guarda a Minsk. Cosa poi ribadita ancor più esplicitamente da Putin, quando ha affermato che un attacco contro la Bielorussia sarebbe considerato equivalente ad un attacco contro la Russia stessa.
A sua volta, dispiegare lì anche la Wagner significa aggiungere un dissuasore importante, rispetto ai temuti piani NATO, nonché una protezione per le armi nucleari che vi sono state portate. Last but not least, può rappresentare sia un modo per riportare in Russia parte delle truppe che si trovano attualmente in territorio bielorusso, sia per togliere dal territorio russo un possibile interlocutore per quelle forze iper-nazionaliste di cui si è detto.

Insomma, quella che stanno giocando Putin e i suoi è una partita a scacchi, che vede per scacchiera il mondo intero. Già solo per questo, per la portata delle questioni in ballo, sarebbe bene che gli europei tifassero Putin a più non posso; la sua posizione equilibrata, infatti, è la miglior garanzia non solo per prevenire tremende escalation, ma soprattutto per assicurare una possibilità ad un dopo più ragionevole. E ciò a prescindere dal fatto che si possa essere o meno d’accordo con la sua politica.
Il 24 marzo 2024, mesi prima che in USA, in Russia si voterà per le presidenziali. L’ultima dichiarazione in merito di Putin era che non intendesse ricandidarsi, ma è ragionevole credere che non si sottrarrà a questa responsabilità proprio mentre il paese, sotto la sua guida, si trova a metà del guado. Di certo, diversamente da quel che accade in Ucraina, non cancellerà il voto col pretesto della guerra. Un prevedibile successo plebiscitario darebbe alla Russia la forza per superare di slancio la crisi, e portare a compimento un disegno che la vede – ora e sempre – parte della famiglia europea.

1 – Cfr. “Una lunga estate calda”Giubbe Rosse News
2 – Interessante notare che questa cifra corrisponde esattamente a quella che stimavo raggiungibile con una mobilitazione totale. Cfr. “Una lunga estate calda”, ibidem
3 – Fondamentalmente, il sostegno a Putin va attribuito alla sua capacità di risollevare la Russia dal disastro post-sovietico in cui l’avevano precipitata Gorbaciov prima, e Eltsin poi. Ma vi hanno contribuito sia la capacità di stroncare il terrorismo islamista (le due guerre cecene), sia la scelta di intensificare i rapporti con l’Europa.

 

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

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