POLITICA E REALTA’_ di Pierluigi Fagan

Politica, da almeno quattro decenni e non solo in Italia, ha sostanzialmente perso il contatto con la realtà. Si sono sommate varie perturbazioni.
La prima è il dominio di teorie irrealistiche come il neo-liberismo. Il neo-liberismo non è una teoria buona o cattiva, è soprattutto una teoria che non funziona, non fa funzionare l’economia di una società per come economia e società sono state entangled lungo tutta la storia della civiltà.
La seconda teoria è il globalismo ingenuo ovvero la credenza che il mondo potesse diventare un unico mercato (libero e bello) sopra la rugosità delle differenze geostoriche, etniche, culturali. Di nuovo, questa teoria è “neanche sbagliata” come sarcasticamente diceva il prof. W. Pauli (“Ciò non solo non è corretto, ma nemmeno sbagliato!”) quando si trovava davanti a formulazioni semplicemente inconsistenti, letteralmente “sopra la realtà” (ovvero “surreali”).
La famosa “distruzione dei corpi intermedi” (partiti, sindacati) ha privato della catena di trasmissione delle informazioni e delle problematiche che chiamano attenzione politica, dalla realtà ai centri pensanti e decisionali. Così questi non pensano e non decidono rispetto alla realtà. Terza componente.
Quarta componente, il trasloco della politica nel virtuale e nello spettacolo, poi nei social: slogan, beauty contest, sembrare simpatici, poca riflessione, scarsa argomentazione, dialettica ridotta alle polarizzazioni semplificanti. Lo spettacolo ha sue regole proprie e l’intero sistema risponde a logiche che nulla hanno a che vedere con la realtà concreta.
Infine, quinta componente e solo per darci un taglio che non siamo in un trattato analitico, la realtà, negli ultimi quaranta anni, ha scalato gradi sempre maggiori di complessità nell’ambito della più generale transizione all’Era complessa iniziata nel dopoguerra. Ricordo che in questa transizione la popolazione umana si è triplicata, così gli Stati ed anche di più i sistemi multilaterali, pubblici e privati, legali ed illegali. Sono aumentate di molto le interrelazioni tra le parti per via delle rivoluzioni dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle transazioni commerciali e finanziarie e la complessità delle catene del valore. Ormai tutto il mondo organizza il fare economico nel modo moderno il che aumenta di molto la competizione che nasce economica, finanziaria, valutaria per diventare -come vediamo oggi- geopolitica. Sono venti anni che andiamo avanti con “post-moderno”. Ma mettersi l’anima in pace e dichiarare finito il moderno e quindi interrogarsi su i caratteri specifici della nuova era storica, no? Chissà, magari sincronizzeremmo meglio le nostre immagini di mondo sulla specialità dei tempi in cui siamo capitati. Non è che si cambia era storica tutti gli anni come il guardaroba.
Se ponete l’oggetto-fenomeno “Mondo” in rapida ed intensa inflazione di complessità da una parte e la somma dei primi quattro punti che hanno distrutto la catena pratica ed ideologica di relazione tra politica e realtà, avrete la prima diagnosi del problema dato.
E veniamo all’attualità che mi ha mosso a scrivere il post.
Scandalo e risate per il concetto di “sovranità alimentare”. Il concetto nasce in organizzazioni alter-mondialiste (Via Campesina) in quel degli anni Novanta in cui nasce il WTO e la stagione della prima globalizzazione ingenua, oggi ripudiata in favore di nuovi blocchi geopolitici “democrazie vs autocrazie”. Il concetto nasce in favore dei produttori agricoli medio-piccoli per consumo prevalentemente locale vs grandi multinazionali tendenti OGM, per produzioni standard per consumo globale. Ma ci sono anche altri aspetti. Abbiamo temuto tutti, nel mondo, l’improvvisa mancanza di produzioni agricole ucraine e russe. Shock del genere tenderanno a ripetersi una volta che il mondo ha abbandonato, come sembra, il globalismo in condizioni di sostanziale pace. Non solo per conflitti, anche per la nuova competizione geopolitica che porrà ostracismi verso sistemi-Paese non allineati o diversamente allineati, ma anche per improvvisi rovesci ambientali e climatici. Il problema s’era già posto con la sovranità sanitaria, mascherine prima, ventilatori polmonari poi, vaccini infine. Già tutto scordato nell’acquario dei pesci rossi?
Scandalo con meno risate per la questione della “famiglia”. Sentivo un giornalista ieri dire di aver il giorno prima partecipato ad una conferenza ISTAT il cui presidente avvertiva che il pronunciato calo demografico italiano da qui al 2040, porterà ad allora ad una perdita di un quarto del Pil. Non so se sarete in grado di collegare il dato al debito pubblico ed il servizio sul debito o alla consistenza geopolitica che in primis è dato dal peso demografico e produttivo dei diversi attori o ai problemi di bilancia di spesa sanitarie e pensionistica. Dovreste esserlo visto che andrete a schiantarvi in quell’annunciato buco nero.
Ora, il primo argomento promosso da un governo di destra con tendenze post-fasciste (quindi non fascista in sé per sé, ma neanche così attento a rinnegarne la tradizione), porta al facile dileggio dell’autarchia di antica memoria. Realismo consiglierebbe magari di capire che tipo di interpretazione ne danno ovvero quanto sono o non sono vicini al mondo rurale delle produzioni perché magari sono più vicini e collegati politicamente di chi scrive il meme per farsi due risate su facebook. Il che porterebbe anche a domandarsi perché la destra fa lavoro politico in campagna mentre la sinistra (o supposta tale) fa brunch in città.
Il secondo argomento, sempre interpretato per come si pensa lo interpreterà la destra, diventa la Polonia o Dio, Patria, Famiglia. A ciò si oppone la politica dei diritti per la pluralità interpretativa dell’affettività e della sessualità. Così per aborto permesso di diritto che può esser impedito di fatto poiché con la catena logistica ospedaliera si può pur sempre fare il contrario di ciò che in teoria di dovrebbe fare. Se non addirittura impedito di diritto con la surreale iniziativa di Gasparri.
Riportare la politica alla realtà però, imporrebbe lasciar perdere il meccanismo per cui semplifichiamo ed estremizziamo quello che dice l’avversario per dire il simmetrico inverso che sarà altrettanto semplificato, alimentando così politica ineffettiva che diventa chiasso di slogan spettacolari.
Si potrebbe invece presidiare il concetto di autonomia di certe produzioni di base affinché non diventi a sua volta uno slogan inconsistente ma intervenga davvero sul modello produttivo adatto alle caratteristiche produttive sia del nostro Paese, sia dei tempi che si prospettano assai turbolenti, per chi non se fosse accorto. Sempre senza rinunciare ad importazioni giudiziose.
Altresì si potrebbe presidiare il problema della scarsa natalità parlando di servizi pubblici, case popolari ad affitti calmierati per le giovani coppie, potatura dell’immane pletora di contratti di lavoro senza garanzie, salario minimo. O forse anche discutere serenamente se, nel frattempo che tali improbabili politiche sociali possano venir implementate, aprirsi a forme di importazione controllata di popolazioni migranti, notoriamente più riproduttive di quelle occidentali per motivi culturali. Sempre battendosi per i diritti precedentemente accennati.
La differenza dei due modi corre tra mantenere la politica ad un gioco di ruoli virtuali in cui lo strato chiacchierato va per conto suo sopra lo strato dei fatti e riportare la politica a misurarsi coi fatti. Sono convinto che in effetti nel mondo delle chiacchiere la distinzione destra-sinistra non ha più senso, sono convinto che tale distinzione mostrerebbe la sua ostinata consistenza se invece ci misurassimo con la realtà concreta del come si vogliono fare certe cose. Ma se poi si trovano anche convergenze saltuarie, non vedo il problema.
Ma quanto meno facile, semplice e giocherellona sarebbe la politica con i vincoli di realtà?

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L’IPOTESI DI PACE (PROVVISORIA)_di Pierluigi Fagan

L’IPOTESI DI PACE (PROVVISORIA). [Ragionamento ipotetico] Nel post di qualche giorno fa abbiamo messo assieme un pacchetto di considerazioni, su fatti ed ipotesi, che andavano in direzione di una possibile de-escalation sul campo. Ho poi scoperto essere un “quasi-fatto” dato per tale da alcuni geopolitici televisivi, immagino meglio informati di me o meglio informati direttamente di ciò che circola in certi ambienti che io certo non frequento. Io mi limito ad osservare ed interpretare da lontano. Questo “da lontano” vale anche per coloro che non capisco bene perché, si sentono mobilitati fortemente in favore di questa o quella parte, come se quella parte fosse la “loro” parte. Comunque, un po’ di pathos ci sta, si comprende a livello ideologico, basterebbe non farlo tracimare.
Ad ogni modo. Questa ipotesi ci sia una trattativa su come trattare tra russi ed americani, è stata ripresa da più parti ed a questo punto la si potrebbe ritenere non un wishful thinking, ma qualcosa che siccome “circola” senza grandi contrasti, evidentemente ha dei fondamenti.
In tal senso, la attesa reazione russa all’attentato al ponte dirà del suo stato. Se i russi saranno poco meno o almeno proporzionati, vorrà dire che la cosa ha sostanza, se eccederà di un po’ vorrà dire che ha sostanza ma tende ad incagliarsi, se sarà amplificata vorrà dire che le cose non vanno bene.
Vediamo però di ragionare sul proseguo dell’ipotesi.
1. Una trattativa sarà più che altro una possibile sospensione del conflitto. Sospensione che sarà poi interrotta tutte le volte che una parte vuole forzare in un senso o mandare un messaggio di intransigenza. Una trattativa non porterà pace soluta, porterà solo de-escalation sul campo e raffreddamento relativo del conflitto.
2. Ciò perché il numero di variabili che debbono andare a posto per dirsi pace firmata, sono innumerevoli e le parti, soprattutto russi ed ucraini, partono da posizioni assai lontane ed inconciliabili.
3. In ordine di rigidità, gli US hanno conseguito almeno metà dei propri obiettivi ovvero la cattura egemonica completa dell’Europa (inclusa nuova clientela per shale ed armi), compattamento NATO e l’irreversibilità (per qualche anno) della rottura di relazioni UE con la Russia oltreché qualche danno alla stessa Russia.
4. I russi hanno conseguito anche loro poco più o poco meno dei loro obiettivi in termini di territorio. Sul resto ovvero la normalizzazione dell’Ucraina in termini politici e militari, la questione sarà sospesa per un bel po’. Hanno anche pagato dei prezzi, ma penso li abbiano messi in conto nella strategia iniziale.
5. Per gli ucraini il discorso è complesso. Ci sono almeno tre problemi: a) la perdita (provvisoria) di un 15-20% di territorio che vale. Si poteva dare per perso comunque il Donetsk ed il Lugansk, meno la zona di Zaporizhzhya e Kherson; b) per “resistere”, il governo di Kiev ha dovuto militarizzare la popolazione, accendere gli animi, dar libero sfogo ai nazionalisti. Sarà molto difficile ora riportarli al guinzaglio. Dato il blackout informativo sullo stato politico, sociale ed economico interno all’Ucraina, non sappiamo del livello delle contraddizioni interne che però si possono immaginare molto alte anche se sopite dal momentaneo allineamento a difesa della propria nazione con sopra la legge marziale; c) il problema più grosso e complesso è un misto di questioni geopolitiche ed economiche. Chi e cosa garantirà il futuro ucraino stante l’impossibilità che i russi accettino la sua integrale entrata nella NATO? Chi, come e quanto si farà carico della ricostruzione di una Paese già ai minimi termini prima della guerra e con oggi danni materiali ed immateriali enormi, più qualche milione di profughi prima o poi da rimpatriare? Questo secondo punto è anche più difficile da risolvere del primo.
Per gli ucraini i tre punti sono collegati. Possono accettare di lasciarti dei territori o parte di, ma in cambio cosa ottengo e non cosa ottengo dai russi, cosa ottengo dall’Europa e dagli USA? Cosa ottengo, valutato da chi? Ovvero “cosa ottengo” per il governo in carica, ma anche cosa ottengo come classe impreditorial-oligarchica e soprattutto “cosa ottengo” per le frange più estremiste e belliciste? Qui oltre alla cosa in sé c’è il problema della vendibilità di certi accordi, come ogni parte può sopravvivere ad eventuali concessioni, ognuno a cascata ha qualcuno più scontento che può impuntarsi, cosa che renderebbe molto problematica una trattativa. Se si mina l’equilibrio interno ovvero si mette in difficoltà l’attuale dirigenza, c’è sempre il rischio ci possa trovare con una più intransigente, il colpo di stato militar-nazionalista dopo un conflitto del genere è rischio certo. A meno non vi sia una contro-parte più votata al “puntiamo ad ottenere il massimo e diamoci un futuro normale”. Ma anche in questo caso il rischio di conflitto civile per parti imbottite di armi è dietro l’angolo.
La variabile territori, non del tutto ma in parte, potrebbe esser mediata da US-NATO-EU direttamente con i russi muovendo la leva de-sanzionatoria, in senso parziale ovvio. Sulla protezione militare o meglio garanzia di protezione dissuasiva una ripresa del conflitto, l’accordo è più semplice, si era già quasi trovato ai primi tentativi di colloquio tra le parti. Il “referendum legale” proposto da Musk (ovviamente Musk ripeteva ipotesi che girano in certo ambienti americani, sappiamo come i destini personali di Musk siano collegati alla macchina militar-aerospaziale di Washington, certo Musk non ha tutti i miliardi che spende e spande in missili e satelliti perché ha venduto un sacco di automobiline elettriche) è una possibilità. Nei fatti, soprattutto nel Donetsk e Lugansk, sono rimasti solo coloro che vedono con favore o non con sfavore l’annessione russa, far tornare indietro quelli scappati la vedo molto complicata. Un “referendum legale” è ciò che serve a tutti per mettersi al riparo da critiche interne ed esterne. I russi dovrebbero rivedere un punto della loro Costituzione per rimettere in giudicata l’annessione, ma anche qui dipende da cosa otterrebbero in cambio. Sulla Crimea si può accettare il dato di fatto al di là dei proclami.
Ma, ripeto, il nucleo delicato e decisivo della questione, dopo i territori, è nei soldi. Come ogni altro caso nelle crisi di società moderne, pioggia di soldi o meno lenisce molte ferite. C’è qualche altra decina di punti da quadrare, dagli equilibri sul Mar Nero alla interposizione di forze terze ai confini reciproci, dalla relativa normalizzazione o meno delle relazioni dirette tra russi ed ucraini alla revisione interna di leggi e costituzioni. Ma paradossalmente, più punti ci sono meglio è in quanto una trattativa con molti punti permette più flessibilità nel gioco “ti do, mi dai”.
I soldi da dare all’Ucraina andrebbero sostanzialmente considerati come “a fondo perduto”. Molto improbabile riceverne il saldo, l’Ucraina era una economia ai minimi termini prima della guerra e la perdita di buona parte delle industrie nelle zone occupate ed annesse da Mosca certo non ha migliorato le cose. Ricordo un discorso fatto da Zelensky un paio di mesi dopo l’inizio del conflitto, il quale citava il “modello Israele” ovvero un paese pronto al conflitto permanente e perciò votato alla ricerca avanzata soprattutto in ambito digital-tecnologico. Forse un sogno dell’élite più giovane ed liberal-cosmopolita di Kiev che circonda il soggetto Z, non so come questo potrebbe far quadrare i conti per un Paese che comunque ha tra 30-40 milioni di persone, in media, povere. A riguardo, “amici dell’est europeo” ed anglosassoni sarebbero senz’altro disponibili anche per ampliare influenza e delocalizzare a basso costo. Qualcosa si può scaricare su casseforti int’li come IMF-WB, inclusi cinesi ed indiani chiamati a fare meno gli “indiani”. Temo però che la richiesta di soldi e riconoscimento sarà per lo più scaricata sull’Europa e non so dire quanto l’Europa potrà credibilmente farsene carico.
Semmai così andasse, US e Russia avrebbero ognuna preso il proprio come si conviene tra potenze, la prima più dei secondi ma, ripeto, credo sia stato previsto date le condizioni di partenza o meglio quelle questioni invisibili ai più che stavano per stritolare geo-militarmente la Russia ed a cui la Russia non ha potuto che reagire. Il saldo eventuale per l’Ucraina o forse solo per l’attuale élite ucraina, sarà da calcolare a bocce ferme. Sicuramente chi alla fine avrà il bilancio più negativo sarà l’Europa.
Dal che il mio sconcerto nel vedere tanti prodi tifosi per guelfi e gabellini visto che nei fatti siamo tutti iscritti di dovere nel sistema che pagherà il prezzo più alto. Del resto, se mediamente ci fosse stata -non dico tanto ma- almeno un minimo livello di comprensione di ciò che stava succedendo, non certo quello che hanno raccontato stava succedendo, le cose sarebbe andate diversamente sin dall’applicazione degli accordi di Minsk.
La stupidità costa, costa morti, migranti, sofferenze, distruzione materiale, ferite materiali ed immateriali ed un sacco di soldi, di restrizione delle condizioni di possibilità per lo sviluppo delle nostre forme di vita associata. Ma tanto tutto ciò lo stupido non lo sa altrimenti non sarebbe stupido.

HOMO VOLUNTARIUS, di Pierluigi Fagan

HOMO VOLUNTARIUS. Non ho sottomano un affidabile vocabolario italiano-latino, GT mi restituisce questa tradizione per “uomo intenzionale”. L’intenzionalità, in filosofia, è spesso ricondotta ad una particolare definizione di Brentano per il quale ogni pensare è pensare a qualcosa. Il pensiero sarebbe quindi intenzionato. Ma noi qui usiamo “intenzionalità” nel verso più di senso comune “avere l’intenzione cosciente di…”. In tal senso, l’intenzione è un attributo della volizione, è volere qualcosa di prima pensato. Vi prego qui di non farvi distrarre dalle polemiche sulla “libera” volontà, concentratevi solo sulla volontà che ovviamente non sarà libera come non lo è il portatore del cervello-mente-corpo.
Non ho la mia biblioteca sottomano quindi tratto l’argomento a braccio, che per andare al sodo è anche meglio. È un argomento complicato, stranamente poco trattato. Attiene alla coscienza e l’autocoscienza. Su cosa sia la coscienza c’è voluminoso dibattito. Di recente, un neuroscienziato italiano trapiantato lì dove si fa ricerca seria, quindi negli Stati Uniti, Giulio Tononi, ha proposto la definizione di “informazione integrata”. Sarebbe lo stato integrato di funzionamento in stato di veglia del cervello a definire lo stato di coscienza. Afferenza dei cinque sensi (più il senso interno), memorie, pensiero, tutte attività sincronicamente operanti, darebbero lo stato mentale cosciente. Quando dormiamo, ad esempio, non tutte queste operatività funzionano. Ne consegue che lo stato cosciente lo condividiamo, perlomeno con tutti gli animali superiori, ognuno con la sua specifica qualità differente rispetto alle rispettive menti, quindi cervelli.
Purtroppo, tutto questo argomento è spezzettato in un gran numero di discipline ed ogni disciplina ha la moda di pensiero del momento, inclusi termini, concetti, luoghi comuni del pensiero. La conoscenza è attività sociale e quindi ci sono vari livelli: quello cerebrale, quello mentale, sarebbe meglio dire mentale incorporato (la mente sopravviene all’attività cerebrale che è un organo connesso ad altri organi facenti assieme il corpo) ed appunto quello sociale. Negli Stati Uniti, ad esempio, la ricerca su questi concetti è fortemente influita dagli interessi di sviluppo dell’AI, quindi è tutta “informazione”. Ricordo di aver letto una lunga intervista sul FT a quello che è considerato il più grande neurochirurgo del mondo (o almeno uno dei…), il quale ha aperto e messo mano dentro centinaia di cervelli, il quale sosteneva che quando leggeva i saggi di questo tipo di ricerche per lo più non capiva niente del cosa stessero parlando. È un fatto da me verificato più volte quello per il quale in gran parte di questa ampia e variegata comunità di ricerca, mancano i biologi. Vorrebbero replicare l’attività del cervello umano ma spesso sanno poco o niente proprio di cervello.
Non è questo il caso del Tononi che ha collaborato per vari anni con Gerald Edelman che quanto a cervello e mente sa bene di cosa parla, eccome. Però poi la sua comunità di ricerca l’ha consigliato a trasferire i discorsi in informazione, magari con qualche equazione perché così si fa.
Noi ce ne freghiamo di mostrare il nostro expertise specifico in questo o qual campo di ricerca su questo argomento usando i concetti di moda nel momento. Li abbiamo, studio questo argomento da anni ed anni, conosco la topografia di tutta la vasta comunità che ricerca intorno a questo sfuggente problema, definito “hard problem”, ma ci interessa andare al sodo non la sociologia delle cucine che cuociono le uova sode.
Se la coscienza è considerata l’”hard problem” per antonomasia (che lo sia davvero ci sarebbe da discutere), in ambito anglosassone è del tutto escluso voi possiate parlare di auto-coscienza, coscienza riflessiva, coscienza di secondo grado, coscienza che ha per oggetto sé stessa. Non è cosa scientifica e quindi ciccia, ragionano così. Il discrimine non è se un argomento esiste o meno, esiste solo se lo potete trattare in maniera scientifica. Storia lunga quella di spiegare come si passa dal Circolo di Vienna alla filosofia analitica anglosassone ed al dominio dello scientismo più ottuso che qui non possiamo trattare.
Sta di fatto che è proprio l’autocoscienza a dare all’intenzionalità umana una diversa qualità rispetto a quella degli animali superiori, inizialmente differenza di grado che poi diventa di modo. In pratica, è la differenza tra fare una cosa più o meno d’acchito o pensandoci su più o meno a lungo dopo di che liberate l’intenzione, fate la cosa che avete lungamente valutato e pensato di fare. Tutto questo pensiero che precede l’azione, si svolge da qualche parte nel nostro cervello e pare sia, sin dagli esordi dell’homo habilis che in inglese è detto “handy man”, il nostro più peculiare tratto distintivo. Marx, andando appresso agli inglesi per certi versi della sua mentalità, parlava di homo faber. Ma che sia “faber” perché fa e che fa perché ha le mani, quelle mani sono collegate ad un peculiare modo di funzionare del cervello.
C’è uno scavo di due milioni di anni fa, in iniziale habilis, in cui si trovano i resti di lavorazione di decine e decine di pietre scheggiate per una comunità il cui numero dedotto è assai contenuto. Se ne è dedotto che: a) preparavano le pietre non per un uso immediato, ma in previsione di…, anche con una certa propensione all’accumulo; 2) lavoravano in gruppo, una sorta di primordiale divisione del lavoro per specializzazione; 3) soprattutto, si procuravano la materia prima andando a 15 chilometri da dove poi l’hanno lavorata, lì nei dintorni non c’erano depositi di pietre. Quest’ultimo punto rivela la forma inedita della prima mente umana. Si doveva elaborare l’intera sequenza nella mente e tra l’altro comunicandola ai simili, prima di compierla: -se- alcuni di noi vanno a prendere tante pietre lì e le portano qui, -allora- le possiamo lavorare assieme in vista di… . Questo è il pensare prima di fare. L’intenzionalità è l’intera sequenza del pensare e poi fare.
Questo “pensare” si svolge in un sistema che qui chiamiamo “immagine di mondo”, l’intero sistema di logiche, memorie, concetti, esperienze, modelli e conoscenze stratificate messe a sistema che fanno la nostra mente. Chi controlla il pensare, controlla il fare.
Tutto il problema del campo di conoscenza che chiamiamo “politica”, attiene al come i membri di una comunità pensano prima di deliberare l’azione, individuale e collettiva. Dopo ci sono tradizioni, forme sociali, modi di produzione della sussistenza e tutta la complessità nota in filosofia e sociologia politica, prima però c’è individuo e gruppi che pensano, giudicano ed agiscono in base a ciò che hanno in testa.
Il primo, generativo campo del comportamento politico, è nella mente umana. Alcuni filosofi hanno duramente lavorato sulla forma della propria mente per arrivare a pensare in maniera indipendente ed emancipata. Nessuno ha elaborato una teoria emancipativa sul come aiutare masse critiche a condividere lo stesso processo di indipendenza ed emancipazione. Ne ha sentito chiara l’esigenza il Gramsci, ma il suo lascito non è stato ripreso, qualcun altro con interessi in pedagogia tipo Dewey ma poco altro. Se non si riprende quel lascito, non avremo mai una teoria politica emancipativa che funzioni ovvero produca cambiamento sociale e politico.
Le élite compaiono all’inizio della civiltà e da allora tali sono perché controllano la formazione dell’immagine di mondo. Se la democrazia dipende dalla sovranità, la sovranità mentale è la precondizione per ogni altra.
 Aggiungo un’altra considerazione sulla ricerca di nuove teorie emancipative. Così come la divisione del lavoro è propedeutica al controllo, quindi al potere dei processi produttivi, la divisione delle conoscenze come unica forma del nostro “conoscere”, lo è nel campo delle immagini di mondo. Veniamo da decenni di dominio dell’economico, ora stiamo scoprendo che il geopolitico sopravviene all’economico. Forse le due cose andavano ed andrebbero trattate assieme? Assieme a parecchie altre visto che sono in ballo questioni sociali, comportamentali, culturali, politiche, tecnologiche, militari etc etc?
CHE FARE NEL CASO DI “SONNO DELLA RAGIONE”? Nel suo “Sulla vocazione politica della filosofia” (Bollati Boringhieri, 2018), Donatella Di Cesare riprende una vecchia questione agitata a suo tempo anche dall’ultima opera del filosofo Costanzo Preve ovvero il fatto che il secondo libro di Metafisica in cui Aristotele compendiava la filosofia c.d. pre-socratica, ha condizionato la nostra interpretazione e tutta la successiva catena di trasmissione del sapere e dei suoi significati di quell’inizio del “pensiero che pensa se stesso”.
Nella filosofia pre-socratica c’era dell’interrogazione fisica (quasi tutte le opere dei pensatori del tempo a noi per altro non pervenute pare s’intitolassero “Sulla Natura” ed i primi filosofi di Mileto erano detti “fisici”) e sulla logica ed il linguaggio. Ma seguendo quanto sosteneva lo stoico Diodoto a proposito di Eraclito, molto altro invece riguardava faccende politiche.
Per altro, capire la logica della natura, la logica dello strumento con cui gli umani hanno interazioni (pensiero, logica e linguaggio) e la logica della forma di vita associata (polis), sono cose chiaramente intrecciate assieme. Le poleis erano fatte di uomini che dialogavano su come ordinare la città-Stato nel contesto più generale dell’ordine del mondo. Siamo tutti soci naturali della società detta Stato e lo Stato è la forma collettiva che usiamo per adattarci alla grande complessità del mondo. Da soli, moriremo in poco tempo e per questo, come molte altre specie, seguiamo la strategia del “totale più della somma delle parti”.
Lo stesso Socrate, per quanto difficile ricostruire il vero Socrate che non fu del tutto il pupazzo usato dal ventriloquo Platone per dire quello che preferiva dire usando la storica vittima della dissennatezza democratica come testimonial, era fino in fondo politico. Così molti altri dopo di lui, incluso Platone la cui Accademia, secondo il Berti, era una vera e propria scuola di preparazione all’attività politica e così il Liceo di Aristotele di cui si narra la collezione di poco meno di duecento diverse Costituzioni di altrettante poleis greche.
Il filosofo del tempo, sembra quindi si sentisse incaricato di svolgere una funzione di guardiano della polis e poiché i cittadini pensavano e discutevano, il filosofo si occupava di capire meglio come pensavano e come discutevano. Non il “cosa” pensavano e discutevano, ma il “come”.
Il famoso primo frammento di Eraclito in cui c’è una famosa questione interpretativa su una virgola che non c’è ma che se ci fosse, a seconda di dove la ponete cambia un po’ il significato della prima frase, l’efesino diceva che “unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo particolare”. “Non solo l’intelligenza è comune, ma è sull’intelligenza che si basa (o dovrebbe) quello che è comune”, chiosa la Di Cesare. Avere la stessa percezione del mondo (intelligenza) poi non implica affatto si abbia la stessa opinione politica su come condurre gli affari della polis, ma se non si ha la stessa percezione del mondo non c’è alcuna possibilità di dialogo politico, quindi di democrazia. In più si scambiano sogni per fatti, desideri per opinioni, favole per realtà.
Da sette mesi, la nostra polis stretta ovvero l’Italia e quella larga ovvero l’Europa dentro quella più larga ancora che è la sfera occidentale, è saltata in una nuova fase storica aperta dall’atto compiuto dai russi di invadere un vicino con la forza armata. Prima o poi qualcosa del genere doveva accadere, chi studia il mondo sapeva che il fascio di contraddizioni interagenti con attrito, prima o poi avrebbe fatto “emergere” il conflitto esplicito che condurrà ad un nuovo stato del mondo. Quale? è appunto l’oggetto del contendere.
Chi scrive, sette mesi fa reagì ai fatti subito con molto allarme, tant’è che ripresi a pubblicare sul mio blog cosa che non facevo da tempo. Reagii con molto allarme non per il fatto in sé, ma per come si cominciò a reagire al fatto stesso. La cosa più allarmante era quella che immediatamente qualcuno cominciò a schierarsi da una parte e qualcun altro da un’altra. Si dirà, be’ è normale esprimere un giudizio di parte in queste cose. Forse, ma dopo aver capito su cosa. A me pare che da subito, una potente macchina del pensiero pubblico, ha fatto di tutto per non far capire cosa stesse succedendo, quali le dinamiche reali, i pregressi, le conseguenze. Mi sembrava, e da qui l’allarme, che si facesse di tutto per NON rendere “unica e comune” la percezione del mondo, dei fatti che accedevano.
Qualche giorno fa ho ascoltato una intervista di Mentana alla Meloni su questo argomento. La Meloni ha argomentato la sua visione geopolitica dicendo, in breve: 1) noi siamo occidentali, nel bene e nel male questo è il nostro sistema e vogliamo rimanere ben saldi in questo sistema; 2) anche perché fuori da questo sistema saremmo facile preda dell’unica altra egemonia possibile, quella cinese, cosa che aborro. Ora, io non sono d’accordo con la visione geopolitica e quindi politica della Meloni, però le riconosco almeno il merito di esser andata dritta al punto. Potrei dire che con lei condivido la stessa percezione del mondo, il mondo è comune e la condizione di vigilanza razionale, altrettanto comune. C’è una crisi grave che ci dovrebbe portare a discutere cos’è Italia in Europa ed Europa in Occidente ed Occidente vs Resto del mondo. Differiamo da qui in poi, ma c’è un “in comune” di partenza, il che è precondizione per avere un dialogo politico. Questo intendo per “mondo comune in stato di veglia” alla Eraclito.
Ieri stavo più volte per perdere le staffe a proposito della questione del gasdotto. Molti, anche insospettabili utilizzatori della ragione magari solo quando si occupano del ristretto del loro piccolo campo di conoscenze, vagavano in stato di sonno indotto. Dopo che i giornali hanno capito che dire che erano stati sicuramente i russi era troppo assurdo, hanno cominciato ad alludere. E si sono viste strane manovre di navi russe in quelle acque, e sappiamo che i russi hanno robot sottomarini, e chissà chi è stato anche se “molti” (molti chi?) indicano i russi etc. Una epidemia di sonno della ragione indotta che trasformava prontamente in zombie molti che non sono usi riflettere, che si espongono al flusso delle tecniche sofisticate di manipolazione del discorso pubblico e diventano amplificatori portatili di assurdità e difese sofistiche delle assurdità. Tipo: che prove hai che non sono stati i russi? Prove da tribunale giuridico nessuna, prove da tribunale della ragione quante ne vuoi anche perché di contro so che invece tu non hai nessuna, neanche una, neanche mezza che resista al vaglio della ragione.
Come avvertire i concittadini “hei, svegliati, stai dicendo cose assurde che ti hanno ficcato in testa a forza, riprenditi, riprenditi la tua ragione!”. Abbiamo tutti l’intelligenza, ma senza comune intelligenza non c’è comune, non c’è politica, non c’è democrazia, non c’è polis. Ribadisco, si può dire “ok NON sono stati i russi, ma comunque tutto sommato è un bene ciò che è successo perché a, b, c”, ci sta, ne discutiamo. Ma non si può discutere con chi nega l’uso della ragione poiché il dialogo è basato sul comune logos. Dal comune logos si possono poi trarre diversi giudizi, per carità, come nel caso della visione geopolitica mia e della Meloni. Ma senza comune logos, non c’è alcuna possibilità la polis discuta e decida sa sé, discuterà quello cha altri hanno deciso discuta, giudicheranno secondo gli interessi di questo o di quello, penseranno mischiando orribilmente ragione ed emozione, non sarà una polis ma una torma di invasati emotivi caricati a molla da qualcuno.
Poiché tutto ciò avviene nel menzionato passaggio storico decisivo che implica a cascata decine e decine di questioni delicatissime su decine e decine di aspetti della nostra forma di vita associata da domani ai prossimi trenta anni, forma che crediamo esser regolata su convenzione democratica, quindi sul dialogo su base di comune logos, che fare? Che fare se la “democrazia” non discute cosa fare della polis sul fatto storico più importante da decenni e con conseguenze per i prossimi decenni?
Eraclito diede la partita per persa, mandò a quel paese i concittadini e si rifugiò in campagna a scrivere il suo libro. Stanchi di esser pungulati da Socrate che dimostrava loro che neanche sapevano di non sapere le cose, gli ateniesi gli fecero bere la cicuta. Protagora ed Anassagora andarono in esilio e ne morirono. Platone morì nel suo letto tanto era un aristocratico elitista la cui carica sovversiva era negativa. Aristotele, pur tipo molto cauto, scappò prima che lo facessero a fette poiché sospettato di intelligenza col nemico macedone. Cosa deve fare un guardiano della polis quando la polis perde la ragione?
Come si fa a dire “guarda che non stai usando la ragione” ad uno che non sta usando la ragione?
Sono secoli e secoli che ci si fa la domanda e sono secoli e secoli che non troviamo la risposta. Forse il problema è il tempo. Forse non ci si dovrebbe trovare in tale situazione poiché lì non c’è soluzione. Forse ci si dovrebbe agitare quando i tempi sono calmi, forse si dovrebbe curare la ragione quando tutto sembra andare bene, forse si dovrebbe fare come gli agricoltori e lavorare molto ma molto intensamente molto prima del raccolto poiché porsi domande quando c’è il raccolto è tardi.
Scusate questo post, pesante, amaro e come si conviene nello stile antico greco, con un fondo aporetico, inconcluso.
[Il libro della Di Cesare è interessante, almeno la prima metà. Lo posto solo perché nei post ci va un’immagine ed il suo taglio è ben in tema]

PUNTO CRITICO?_di Pierluigi Fagan

Siamo ad un punto critico della guerra in Ucraina? Proverò a sviluppare una tesi ipotetica, troppe cose non sappiamo per aver certezze e sebbene esplorerò una tesi, si potrebbe interpretare le stesse cose in altro modo. Il punto è: si inizia a pensare a come uscirne?
I fatti, almeno quelli pubblicamente noti. Biden, ad un fundraising a casa del figlio di Murdoch, ha detto: 1) siamo nella più grave crisi di rischio atomico dai tempi dei missili a Cuba; 2) conosco personalmente Putin, non scherza; 3) se in virtù di una sostanziale non vittoria sul campo sente minacciato il suo potere e si mette ad usare l’atomico tattico, da lì in poi è escalation senza via di uscita; 4) sto allora pensando quale potrebbe essere una via d’uscita.
Blinken ha rilanciato “noi siamo pronti a trovare una soluzione diplomatica, ma i russi vanno in direzione opposta”. I russi, nei giorni scorsi, hanno detto più o meno lo stesso, dal loro punto di vista. Alcuni sostengono che da tempo i due si parlano dietro le quinte e quindi quello che noi vediamo è schiuma quantistica sopra fatti ignoti. Se veramente di tratta, le dichiarazioni pubbliche vanno interpretate, sono spiragli, tentativo di delimitare il campo, trattativa su come fare una trattativa, porre linee rosse che poi diventano rosa e svaniscono quando effettivamente si finisce al tavolo? Cos’è irrinunciabile per l’uno e per l’altro?
Alcuni hanno voluto leggere una nuova volontà di abbassare i toni da parte americana nel far uscire dichiarazioni CIA su NYT a proposito dell’attentato alla figlia di Dugin per colpa di una parte dell’establishment ucraino (c’è una parte trattativista ed una oltranzista com’è ovvio ci sia in questi frangenti?).
Altri hanno evidenziato il crescente fastidio americano per le continue richieste ucraine sempre molto pretendenti, oltretutto con una situazione sul campo che mostra una certa autonomia operativa ucraina, pare, non sempre gradita a Washington.
C’è anche chi ha osservato che l’uscita di Elon Musk, che ha fatto imbestialire Kiev, potrebbe esser pilotata.
Ieri abbiamo scritto un post sul fatto che sta montando una forte insofferenza per l’annunciato Armageddon economico-finanziario planetario. Per ora si sono espressi a mezza voce cinesi, indiani, i 24 dell’Opec. Sempre ieri alla Commissione diritti umani delle UN è stata negata la proposta americana di istruire una indagine ufficiale per il maltrattamento degli uiguri da parte dei cinesi nel Xinjiang. Voti contrari su asse musulmano-africano ma con aggiunte asiatiche. La questione del missile di Kim ha portato i coreani del sud a spararsi un missile vero (armato) addosso, brutta performance.
Giorni fa, funzionari ucraini si sono lamentati con una certa disperazione per il fatto che l’Europa non fa arrivare i fondi promessi (notoriamente a Bruxelles non sono così disponibili quando si tratta di cacciare i soldi) e non promette bene anche per i mesi a venire. La macchina statale e bellica ucraina mangia miliardi al mese, poi c’è la ricostruzione e così sarà molto a lungo. Di contro, sappiamo l’Europa a cosa va incontro nei prossimi mesi e pensare di destinare congrui fondi alla guerra mentre qui imperversa freddo e disoccupazione, va oltre il realistico.
Sempre qualche giorno fa è uscito su Rep un interessante articolo di Franceschini, portavoce degli ambienti strategici americani. L’articolo riferiva delle preoccupazioni che circolerebbe nei pensatoi strategici americani, Atlantic Council e Carnegie Endowment, a proposito della possibile frammentazione della Russia sconfitta nella guerra con crollo del potere centrale e scomparsa di Putin. Nuovi stati e staterelli, alcuni “canaglia” (vedi Kadyrov, non a caso promosso da Putin l’altro giorno, della serie “se non vi piaccio io potreste sempre trovarvi un Kadyrov in futuro”), ma con l’atomica, un incubo.
In più, un enorme spazio di possibile allargamento dell’egemonia cinese ad est, nessun alleato nell’area su cui far perno per pilotare gli eventi. In verità, queste cose erano note da tempo ed erano solo metà della questione che invece prometteva anche molti vantaggi geostrategici per gli americani. Sintomatico però oggi si faccia uscire solo il lato preoccupante.
In più, va notata la montante paranoia nucleare qui in Europa ed in parte negli stessi US. Quanto è reale il rischio? Se è reale ma non così probabile, perché monta la paranoia? È un effetto amplificazione mediatica tipo paranoia da Covid su legge delle audience o c’è un interesse ad avanzare questa “causa di forza maggiore” per aprire ad un ripensamento del “credere, ubbidire e combattere” in auge fino ad oggi?
Che calcoli reali di sostenibilità economico, sociale e politica si stanno facendo a proposito dell’Europa ma a questo punto anche degli USA che vanno ad elezioni a novembre? Dopo la Svezia e l’Italia, si teme che ci saranno elezioni anticipate anche in Danimarca ed anche lì pare che la destra abbia significative ed inedite chance di vittoria. Ci sono state elezioni in Bulgaria domenica scorsa ed ha perso la parte europeista-liberale, si è affermato il centro-destra, ma si è formato anche un partito contro le sanzioni, stile Orban. Pare non riusciranno comunque a fare un governo, dovranno andare – credo la quarta volta- ad elezioni in breve tempo, ma la tenuta del fronte scricchiola in tutta evidenza. E quando Orban farà il tenuto referendum per chiedere “democraticamente” al popolo se supporta o meno le sanzioni e relativo peso, che succederà? E siamo solo ai primi di ottobre.
Ripeto, questa è una selezione di fatti, ce ne sono anche altri e di senso diverso. Questi stessi potrebbero esser diversamente interpretati. Però rimane il fatto delle dichiarazioni aperturiste di ieri di Biden e questo è una “prima volta”, di cui pender nota. Vedremo.
Putin si è arroccato con il suo piccolo bottino del suo 15-20% di territorio ucraino mettendoci sopra l’ombrello nucleare e dicendo “io mi accontento così, parliamo?”. Zelensky ha risposto portando a legge una sorta di impossibilità a trattare. Biden dice: attenzione perché quello mena se perde di brutto. Così i think tank paventano Balcani nucleari pieni di coatti islamici o siberiani assai pazzerelli. Pe ora è tutto, vediamo come si svolge.
L’America ha ottenuto molto, rilancio NATO in grande stile, Finlandia e Svezia, cattura egemonica dell’Europa totale ed irreversibile almeno per qualche anno, comunque una bella botta per i russi e con prospettive di sanzioni lunghe un bel tarlo che agirà nel tempo. In più sanno tutti che la vera partita strategica è in Asia. Quanto le costerebbe provare ad ottenere di più?
LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE. I 24 Paesi OPEC+, hanno l’altro giorno deciso di dare un sostanzioso taglio alla produzione petrolifera, pare lo abbiano deciso in una riunione di mezzora; quindi, la decisione era comune e preparata in anticipo. La decisione è stata motivata come sostegno al prezzo dal momento che la recessione globale diminuisce la domanda. Ma si tratta di una preventiva poiché, all’altro giorno, il prezzo era sceso a livelli di gennaio stante che allora era in tendenza ascensionale dall’inverno del 2020. Cioè, campavano due anni fa senza tagli alla produzione col prezzo sotto i 25 dollari, sembra strano ora si fascino la testa perché è “solo” a 91 US$.
C’è l’interpretazione politica o meglio geopolitica. L’ha data Biden il quale ha strepitato dicendo che è una manovra ispirata dalla Russia. Colpiscono due cose di questa dichiarazione, la prima è che l’ha data quando avrebbe fatto meglio a tacere, la seconda è la ragione data che è stupida. L’ha data e con quella ragione, probabilmente per il pubblico interno, gli americani vanno ad elezioni a novembre ed il prezzo della benzina che notoriamente è il primo drive dell’inflazione è già un problema e viepiù lo sarà quando si voterà. Ma quando il presidente degli US parla, non ascolta solo il pubblico interno. I sauditi hanno risposto che è ora di dismettere questa “arroganza della ricchezza” (!).
Vediamo allora meglio cosa può esserci sotto. I paesi OPEC+ sono 24, centro e sudamericani, africani, asiatici ed ovviamente mediorientali, più la Russia. I “+” sono 13, aggiunti al nucleo storico degli 11 mediorientali originari che rimangono quelli che trainano l’associazione. Alcuni hanno cattivi rapporti con gli US (Iran, Venezuela, Russia), molti non hanno simpatia, molti altri hanno invece normali o anche cordiali rapporti. L’Arabia Saudita, nonostante il viaggio di Biden ad inizio guerra per cercare di strappare un aumento di produzione a compensazione del ban alla Russia, è in posizione piuttosto critica. Ma UAE, Qatar, Kuwait no. Assolutamente fantasioso pensare che la Russia possa decidere cosa gli OPEC+ fanno o non fanno. Tuttavia, rimane il fatto che la decisione è tecnicamente un po’ strana se guardiamo al prezzo a meno di non considerare la manovra preventiva e che la tempistica dice appunto che s’è voluto mandare un segnale.
Veniamo allora al titolo del post. Noi qui vediamo usare il concetto di “comunità internazionale” a sproposito per dar l’impressione alle nostre opinioni pubbliche che tutto il mondo o per lo meno il mondo che conta tranne Stati delinquenziali, approva quello che l’Occidente collettivo sta facendo nella guerra Ucraina. Non è affatto così, lo abbiamo sezionato a proposito del secondo voto alle UN a marzo e via via, analizzando le varie posizioni degli attori internazionali non occidentali. I giornali occidentali fanno sforzi di sottolineare come le astensioni ai voti di condanna al Consiglio di sicurezza da parte di India e Cina, dicano dell’isolamento della Russia. Ma questa è propaganda. Nelle dinamiche diplomatiche, stante che certo nessuno può credibilmente votare a favore di quello che i russi fanno se non schierandosi come alleati organici, tra l’altro in favore di palesi infrazioni che teoricamente nessuno può approvare davvero, astenersi significa “non posso votare contro, ma scordati il mio voto a favore”. Cosa pensa allora la vera “comunità internazionale” fuori di quel 16% di popolazione (o poco più: Europa + Anglosfera) terrestre embedded nel sistema a guida americana?
La reale comunità internazionale era bella felice e contenta dentro una tendenza mossa dalla globalizzazione. Giravano i soldi, si facevano progetti, le economie-Paese crescevano, così i popoli se non del tutto felici avrebbero potuto almeno coltivare speranze. Popoli se non felici speranzosi, governi stabili. Tutta la comunità internazionale, che è da considerare in macro “non allineata”, sa perfettamente che la guerra è scoppiata per colpa operativa di Putin ma in reazione a insostenibili pressioni americane via NATO-Ucraina. L’altro giorno l’economista americano J. Sachs diceva che tutta la comunità internazionale sa e dice apertamente che i due condotti Nord Stream sono stati sabotati dagli americani, ma qui non si può dire, si insulta la logica di base nel sostenere “non sappiamo chi è stato”. Ieri leggevo un articolo di Rampini che ormai è diventato un impazzito propagatore di assurdità lampanti e senza ritegno, sostenere tre valide ragioni per pensare siano stati in realtà i russi. Stiamo vivendo tempi surreali e ciò è allarmante anche più che non il vivere tempi conflittuali ad altissima tensione. La qualità delle narrazioni stese su i fatti è talmente assurda anche per chi sa che il conflitto interpretativo ovviamente manipola le idee ed i giudizi, che lancia un doppio allarme. È normale raccontarsela così e cosà, lo fanno i russi, lo fanno gli americani, lo fanno le nostre élite e va bene. Ma c’è modo e modo di confezionare le favole, quelle che girano sono scombinate in maniera troppo assurda, di una assurdità esasperata.
Ma torniamo alla comunità internazionale. La comunità internazionale, pur sapendo come stanno le cose in Ucraina, non sarebbe poi più di tanto interessata e tantomeno mossa a prender le parti di tizio o di caio. Vede però arrivare uno tsunami di ritorno che la inquieta e terrorizza. Niente più mercati globali, “tu si e tu no” nei circuiti SWIFT dove circolano i bonifici di pagamento, dollaro alle stelle che per Paesi quasi sempre indebitati è un gran bel problema, rottura delle catene logistiche, rottura del sistema detto “catena del valore” basato su delocalizzazioni di segmenti di produzione (non intere produzioni, pezzi di…), tempeste inflattive, esportazione del conflitto in Asia (US, Jap, CdS hanno fatto manovre navali davanti alla CdN una settimana prima che Kim gli lanciasse un missile vuoto sulla testa, forse la cosa è poco nota qui. Per non parlare di Taiwan etc.).
Su stampa asiatica, ho letto più di un analista segnalare la profonda preoccupazione per quello che qui da noi sembra non preoccupare sul serio nessuno ovvero l’entrata dell’Europa in un profondo buco nero recessivo. L’Europa è semplicemente la più grande economia aggregata del mondo, è il cuore che succhia e pompa sangue finanziario e commerciale a tutto il sistema-mondo. È ovvio che il sistema-mondo che è indifferente alle narrazioni americane e guarda ai fatti duri, si preoccupi come ognuno di noi si preoccuperebbe se il dottore gli dicesse “guardi che lei avrà sicuramente un infarto”. Il nostro infarto sarà il loro ictus.
La lettura solo geopolitica della decisione OPEC+ è sbagliata, è una questione che ha origine in geoeconomia. E tale questione, è dall’inizio, il vero tallone d’Achille della strategia americana, gli americani non hanno tenuto in debito conto lo scenario mondo. Lo si è capito e l’abbiamo scritto i primi giorni, con i voti alle UN e gli improvvisi e poco concludenti viaggia di Blinken in M.O. e poi di Biden in Arabia Saudita, nonché le profferte di “nuova amicizia” con Maduro, se non l’iniziale boutade di nuovi accordi per ul nucleare iraniano ed il fallimento imbarazzante del forum degli “americans” a cui non è andato quasi nessuno. Lo si è visto con la comparsa di articoli arrabbiati contro l’India che fa Ponzio Pilato, lo si è visto col disastro diplomatico dell’improvvisata della Pelosi a Taiwan, cose che non si fanno se devi fare diplomazia con asiatici a forte matrice confuciana.
Sospetto che il nucleo neocon promotore di questa strategia “o la va o la spacca” che è iniziata con la lunga penetrazione in Ucraina prima del 24 febbraio, sia caduto nella trappola del confondere “quello che voglio il mondo sia” con il più concreto “quello che il mondo può realisticamente essere”. S’è messo contro troppa gente, ha fatto male i calcoli, non ha dato il giusto peso ad alcune variabili. La cattura egemonica totale dell’Europa che pare ormai irreversibile, è un bel bottino, ma quanto varrà lo sapremo solo dopo aver dedotto il prezzo il cui conto si farà alla fine.
Intanto, prepariamoci al secondo shock petrolifero (gasifero, carbonifero, elettrico, energetico, produttivo etc.), cinquanta anni dopo il primo.
[Alcune info riportate sono tratte da articoli BBC e Reuters di ieri, più tardi vediamo gli aggiornamenti]

SOCIOLOGIA DEL VOTO_di Pierluigi Fagan

SOCIOLOGIA DEL VOTO. Faremo una breve considerazione a grana grossa su dati quasi completi della Camera per il proporzionale.
Tra coloro che hanno votato, si stagliano due gruppi. Quello che si nomina ed è di fatto il CDX somma, al momento, circa 11 milioni di voti. L’altro gruppo non ha nome e non è tale neanche di fatto, ma ha certi suoi gradi di omogeneità pur molto relativa. Parliamo qui in termini di sociologia politica, classificazione per condivisioni di impostazioni politiche ideali molto a gran grossa, nulla con cui poi si fanno governi o leggi specifiche semmai frutto di mediazioni e compromessi. Composto dal CSX propriamente detto ed il M5S, peserebbe sempre 11 milioni di voti, qualche centinaia di migliaia di voti meno dell’altro. Di questo secondo gruppo non fa parte Azione-Italia Viva.
Merito del meccanismo che trasforma questo relativo equilibrio dei due gruppi socio-politici in una disfatta epocale, visto da una parte – dall’altra è un trionfo epocale, è di un certo Rosato, oggi proprio in Italia Viva, un ragioniere democristiano ai tempi parte del PD. Ma poiché la lungimiranza della classe dirigente del PD è esuberante, oltre ad aver creato un meccanismo elettorale assurdo e non aver mai neanche provato a cambiarlo sebbene più o meno tutti lo ritengono assurdo dal 2017, hanno anche deciso che per fedeltà ad un totem detto “Agenda Draghi” non si doveva neanche provare a fare un accordo tattico col M5S. Meglio per quest’ultimo, che recupera parecchio dai sondaggi estivi.
Quanto al PD propriamente detto, siamo ad un milione di voti in meno rispetto al 2018 per una percentuale appena superiore del +0,5% per via della più generale contrazione dei votanti. Un milione di voti persi, quasi un -18% e stante che questo partito, nel 2018, era guidato da uno sbiadito funzionario, tale Maurizio Martina oggi alla FAO.
Tuttavia, l’Italia si uniforma agli standard europei, festeggiando la sua prima premier donna e medie di voto basse, su standard post-democratico, due fatti tipicamente europei.
[La foto è un tributo all’intrepido ragioniere al cui nome è legato il fatidico meccanismo che ha trasformato un composito e variegato quadro politico in un monocolore di destra]
[Attenzione alle pesature di sociologia politica. Al di là degli esiti elettorali partitici, al di là del diritto a governare garantito dal voto, in politica i voti si contano ma si debbono anche pesare]
SOCIOLOGIA DEL VOTO (2). Ieri abbiamo evidenziato come i due blocchi socio-politici principali, quello che ha vinto e quello che non è neanche riuscito a presentarsi come un blocco dividendosi in due parti, (qui non uso CDX e CSX perché queste sono categorie solo politiche mentre qui l’analisi è “socio”-politica), in realtà divergono per poco. Il loro insieme fatto cento, infatti, vede quello che ha vinto al 52% e quello che ha perso al 48% (l’ipotetica alleanza elettorale CSX+5S), questa è la loro pesatura sociale relativa.
Alcuni commenti sul post di ieri, evidenziavano le varie ragioni che portarono il partito principale dell’area che non formandosi in blocco poi ha perso più del reale peso (PD-CSX), a fare questa dissennata legge elettorale. Legge che ha trasformato un dato molto relativo in assoluto. In aggiunta, la decisione di Letta ad escludere a priori ogni possibile alleanza con i 5S, decisione incomprensibile stante la meccanica elettorale. Le rapide dimissioni annunciate ieri da Letta fanno pensare che tale esito era per certi versi “programmato”, per quali ragioni può esser oggetto di speculazione. Ma ci sarebbe anche da domandarsi perché in questi cinque anni, quel partito non ha sentito necessità almeno di provare a cambiarla.
Credo la risposta risieda nella genetica del PD, un progetto bipolare su format di cultura politica anglosassone (Lab-Con UK/ Rep-Dem US), quasi che imponendo una legge elettorale maggioritaria, allora si sarebbero formati partiti e cultura politica bipolare conseguente, una assurdità. Ne è venuto fuori un accrocco con una minoranza ex-democristiana che però spadroneggia su un totale maggiore della somma delle parti, con fazioni lib-lab confusamente “post-moderne/progressiste”, altri rimasugli più un corpo in teoria, almeno potenzialmente, “socialdemocratico” in senso europeo (PSE-SPD). Parliamo non della sua classe politica di partito, di nuovo, parliamo degli elettori, dei pezzi di società. Chi non ha amici e conoscenze di persone per bene, intrinsecamente quasi-socialdemocratiche per idee e valori, che si ostinano in mancanza di meglio a votare questo accrocco che fatalmente li delude?
Dato l’evidente fallimento di impiantare una cultura politica maggioritaria in un Paese che, come la Spagna, la Francia, la Germania ovvero la tradizione europea, è intrinsecamente pluripartitico, forse arriverà il giorno in cui questo accrocco si potrà sciogliere rilasciando le sue due anime principali a due percorsi di identità propria. Queste due aree avranno poi agio di collaborare ed allearsi, ma partendo da due soggetti pesati che chiariscano il loro reale peso di rappresentanza, determinando quindi i pesi dell’agenda politica concordata -dopo- una elezione e non prima dentro lo stesso partito che tale non è vista la diversità componente obbligata a convergere su dinamiche assai poco chiare in senso democratico. Detto altrimenti, la fazione ex-democristiana non volendo tornare all’insignificanza della Margherita, vuole a tutti i costi tenere unite le parti componenti l’accrocco che non è mai stato, né mai potrà essere “un” partito. A loro conviene.
Passiamo poi ad evidenziare come il soggetto +Europa abbia fallito il quorum per 50.000 voti. Unitamente alla punizione delle principali forze di sostegno al governo Draghi (PD, FI, Lega, Di Maio etc.), si evidenzia palesemente come il dibattito politico pubblico sia artificiosamente centrato su temi ed argomenti (ad esempio il dogma sfiorante il culto di Mario Draghi) che non hanno alcuna presa sul Paese reale. Ha stra-vinto l’unica forza politica che non ha partecipato al governo del banchiere ed ha vinto relativamente (ovvero ha perso rispetto al 2018 ma rimbalzando all’ultimo momento delle più fosche previsioni) la forza che alla fine se ne è in parte dissociata tra scrosci di pubblico sdegno.
In Italia c’è un problema grave di scollamento tra élite pubblica (imprenditori, affaristi, giornalisti, intellettuali organici alle classi di potere e conseguente classe politica da questi supportata) e popolazione, è del tutto evidente. Era evidente nel 2018, continua ad esserlo. La “democrazia”, ammesso e non concesso quella solo rappresentativa possa definirsi tale, è un sistema complesso. Si può nominalmente far finta sia tale rincuorandoci dell’esser dalla parte giusta della storia politica, salvo poi manipolarla di modo che sia, com’è nei fatti, una oligarchia che si sottopone a giudizio molto poco libero una volta ogni cinque anni. E’ questo blocco dall’alto che genera come unico sfogo il c.d. “populismo”.
E veniamo ai bassifondi elettorali. Qui abbiamo una forza politica centrata su un giornalista televisivo (Paragone), senza reale consistenza politica in senso tradizionale che ottiene 540.000 voti, agitando il tema dell’uscita dell’Italia dall’euro o forse anche dall’Europa. Fa già ridere così. Nel senso di presumere il poter fare una forza politica su un singolo tema così delicato senza essere in Inghilterra (modello Farage), di nuovo presupponendo che nel mondo politico ci siano “modelli” non dipendenti dalle condizioni di contesto cui applicarli, una sorta di teoria della fisica politica trasferita alle società, alla geo-storia, alla cultura. Va be’, diciamo che il tipo che ha del furbacchione, stando già in Parlamento, ci ha “provato” a rimanere nel bel mondo, rimarchevole comunque che mezzo milione di persone gli abbiamo pure dato retta.
Quanto a Italia Sovrana e Popolare, siamo a 300.000 voti, tenuto conto che 100.000 circa sono del PC di Rizzo (2018). La c.d. area sovranista politicamente più seria del “fenomeno Paragone”, “pesa” 200.000 voti. Sul totale aventi diritto, Italia ed Estero, sarebbero lo 0,4%. Ripeto, qui facciamo pesatura all’ingrosso dei blocchi sociopolitici, quindi non consideriamo il poco tempo avuto da queste formazioni (sì perché l’area è piccola, ma ciononostante si divide in fazioni) per la campagna elettorale e gli scarsi mezzi. Anche se uno si potrebbe domandare perché con poco tempo a disposizione e scarsi mezzi, cose note a priori, qualcuno abbia sentito l’esigenza di mettere in piedi una macchina elettorale dedicata.
Qui si possono fare due considerazioni che poi è una sola. Questa legge elettorale, ma è cosa che penso rimarrà anche quando decideranno di adeguarla ad un modo normalmente proporzionale, pone lo scalino del 3% che sugli attuali votanti vale qualcosa come circa 850.000 voti. Se fossero stati quelli del 2018, lo scalino sarebbe valso 1,1 milioni di voti. Sempre poi che in una nuova legge proporzionale non decideranno, com’è probabile, di portarlo al 5%. Chi tenta la scalata elettorale deve porsi questo target. Il target dovrebbe retroagire sul pensiero ed il fare politico. Ho l’impressione che gli amici di ISP non avessero una auto-percezione realistica della propria consistenza. Ho l’impressione che questa area che ha presenza più nel virtuale che nel reale, scambi i numeri di Internet con quelli del mondo “grande e terribile”. Il che per un’area critica verso il neoliberalismo con distopiche derive da capitalismo della sorveglianza ha del paradossale. Speriamo il risultato concreto porti riflessione concreta e non collezione di scuse per continuare a pensare ed agire come s’è fatto fino ad ora. Popolo vs élite? Non c’è più destra, né sinistra? Non c’è più o non deve esserci? No perché la destra sembra ci sia e neanche poco.
E chiudiamo l’analisi del micromondo con Unione Popolare. Qui il risultato migliora dal solo Potere al Popolo del 2018 ma di molto poco e comunque anche qui, di gran lunga lontani dal quorum. Anche De Magistris, come Ingroia, come Paragone, è uno di quegli aspiranti al Parlamento, chissà se per pure ragioni personali o anche ideali. Perché gente di questa area politica si ostini a creare forze politiche che in tutta evidenza non riescono a lievitare come progetto politico e si svegliano quando sentono la chiamata alle elezioni che, come sappiamo, sono ampiamente condizionate se non truccate, ha del mistero.
Chissà profondere impegno ed energia politica nei cinque anni e non nei cinque mesi o settimane che portano alle elezioni, sarebbe più serio e proficuo?
A conclusione, ho idea che la corrosione profonda del significato del concetto di “politico” e di “società” operata ormai da decenni, abbia raggiunto il suo risultato: nessuno sa più come interpretarli. Chissà, magari, prima o poi, a qualcuno verrà in mente di studiare riflessivamente la faccenda invece che scrivere l’ennesimo libro o articolo di critica al neoliberismo. Una critica della critica, in altri tempi si sarebbe chiamata una “autocritica”. Non un pentimento formale di tipo confessional-cristiano, una applicazione delle razionalità a sé stessa. Sarebbe già un buon inizio e poiché dalle nostre parti (cultura della complessità) si dice che ogni percorso ha dipendenze dalle condizioni iniziali, sarebbe l’inizio necessario.
[Naturalmente molti lettori e lettrici, qualcuno anche in vena di commento, come ieri accaduto, non coglieranno la differenza tra una analisi sociopolitica ed una politica stile diretta Mentana. Qui si cerca di capire i rapporti tra blocchi sociali/ideali e politica, al netto di leader e partiti specifici. Altre analisi sono benvenute, polemiche da basso condominio, meno]

PREPARAZIONI INVERNALI, di Pierluigi Fagan

PREPARAZIONI INVERNALI.
Impazzano le analisi ed i commenti sulla mossa referendaria voluta dai russi per i territori sin qui sottratti all’Ucraina, oggi accompagnata da un discorso di Putin con Shoigu a seguire. Poiché rappresenta una parziale novità rispetto alla guerra in corso su cui avevamo sospeso i discorsi fino, appunto, a novità di rilievo, ne diamo un commento.
La mossa referendaria era stata annunciata più e più volte sin dai primi mesi di guerra. Arriva a fine settembre e ciò induce a pensare in rapporto al tempo. Nei fatti, l’operatività militare su terra in quel di Ucraina sud-est, da ottobre quantomeno sino ad aprile inoltrato, sarà fortemente condizionata dal tempo atmosferico, pioggia, neve, gelo. Questo porta a diversi problemi operativi in termini di logistica militare, a parte lanciarsi l’un l’altro missili in testa. Nei fatti, la blocca o la limita fortemente. Per i mezzi pesanti, escluso l’off-road, rimane l’utilizzo delle strade o autostrade, praticamente un invito a farsi bombardare su coordinate certe, lo abbiamo visto già all’inizio del conflitto che era appunto marzo-aprile. A scanso d’equivoci, anche per turnare le truppe nei lunghi mesi freddi e bui, il Cremlino mobilita la riserva ovvero ex soldati già formati, da aggiornare.
Ammetto di non esser un analista militare, leggeremo i contributi di chi ne sa di più, ma ad occhio mi sembra che tempistica e contenuto degli annunci siano così leggibili. Si tratta di quel “congelamento del conflitto” ovvero consolidare le posizioni difendendole e senza nuove iniziative, iniziative problematiche anche per l’avversario, di cui già parlammo. Mosca avrebbe preferito senz’altro conquistare tutto il Donbass, ma non è stata in grado, tanto vale allora prenderne atto ed attestarsi.
Passiamo allora al piano strategico e politico. Mosca ha dichiarato i suoi obiettivi in tre più due punti sin dai primissimi giorni. Si trattava della famosa intervista Peskov a Reuters basata su. 1) riconoscimento autonomia Donbass; 2) riconoscimento sovranità di Mosca su Crimea; 3) neutralità in Costituzione ucraina con, in aggiunta, de-militarizzazione sostanziale dell’Ucraina (di cui Shoigu ha appena detto esser nei fatti stata realizzata, al netto degli apporti successivi NATO) e la quanto mai vaga denazificazione. Poiché questi due ultimi punti erano e rimangono vaghi, sembrano messi lì apposta per trattare di modo l’uno possa dire “ho vinto” e l’altro “ho vinto o comunque non ho perso e comunque non ha vinto lui”. I punti 2) e 3) dovrebbero esser in qualche modo trattabili, l’1) no. Direi che l’impianto rimane valido dopo quasi sette mesi di conflitto anche perché così è continuamente ribadito dai russi nella formula “obiettivi dell’operazione militare speciale” e quindi lo assumerei come posizione russa alla base della strategia del congelamento operativo del conflitto.
Sul piano politico ci sarebbe da parlare degli equilibri interni alla Russia nonché tra Russia ed amici SCO, ma lo faremo in altro momento.
Alla luce di ciò, anche le consultazioni nelle aree non Donbass che costituiscono oggi l’area della cartina aggiornata, avrebbero un valore successivamente trattabile, trattabile -nella mente dei russi- in un quadro più ampio in cui vanno messe sanzioni, ostracismo, forniture gas et varia. Ogni area avrebbe un suo peso e prezzo in una ipotetica trattativa. Ovviamente, ad oggi, non si vede la minima prospettiva di trattativa, fra sette mesi, chissà. Personalmente e contrariamente a molti, non vedo escalation di fatto, vedo anzi congelamento situazione di fatto e scommessa su i tempi lunghi.
Non so dire se hanno o meno ragione, ma a me pare che i russi sapessero sin dall’inizio che la questione sarebbe stata lunga, quindi immagino si siano attrezzati relativamente. Occorre scorporare tutto ciò che cediamo di sapere perché lo hanno detto le fonti informative occidentali dalla blitzkrieg a Kiev, all’invasione fino ai confini della Romania, la Novorussia con Odessa ed altre intenzioni attribuite in statuto ampiamente ipotetico. Nei fatti, nulla di tutto ciò potevi ottenerlo con 100-150.000 uomini quindi nulla di tutto ciò era nelle strategie russe.
Le strategie poi debbono declinarsi e le si declinano anche rispetto all’avversario, non puoi farle tutte a priori. Mi sembra probabile i russi vogliano vedere come staranno le cose tra sette mesi e cosa faranno ucraini ed euro-anglo-americani in questi sette mesi. Mi pare un gioco su un tavolo in cui le fiches sono appunto “tempo”. Chi ha più tempo e resistenza? I russi vantano di poter mettere sul piatto altri 300.000 riservisti per turnare al fronte, difesa, presidio, nulla di particolarmente impegnativo se non rischiare la pelle sotto le bombe ed i missili che continueranno a piovere. Gli ucraini al fronte e la popolazione verso la quale si potranno avere altri disagi come il riscaldamento e la luce, come staranno tra sette mesi? E cosa succederà alle elezioni americane di novembre? Gli americani daranno missili a lungo raggio o addirittura aerei il che li porterebbero ufficialmente in guerra? E l’Europa, quale sarà la geografia politica europea dopo il lungo e problematico inverno e relativa tenuta delle opinioni pubbliche? La partita è ancora lunga.
Credo i russi vogliano comprare tempo, vedremo, è una ipotesi. A poker corrisponderebbe non a “rilancio” ma allo “sto”, “arrocco” se preferite gli scacchi. Certo, ogni ipotesi deve fare i conti con la consistenza di deduzioni ed induzioni su informazioni che però non sono certo quelle date in pubblico dalla stampa occidentale. Vedremo quindi quale tra questa ed altre ipotesi avrà più consistenza.
[Non mi sfugge il tintinnio di atomiche ovvio, solo che parlarne è un conto, usarle un altro. La M.A.D, secondo me, di base vale ancora, com’è ovvio che sia]

Roberto Buffagni

Buona ipotesi ma perché si verifichi bisogna essere in due, ossia bisogna che l’Ucraina, dopo aver messo in campo l’esercito ucraino 1 e l’esercito ucraino 2 (quello della controffensiva), non metta in campo l’esercito ucraino 3. Io purtroppo temo che lo faccia, perché a giudicare o meglio a improvvisare un giudizio sulla base di quel che si vede, ho l’impressione (NON le prove) che già nell’esercito ucraino 2 ci siano interi reparti – non singoli, reparti – NATO a cui sono state cambiate le mostrine e organizzato un quadro giuridico sufficiente a inquadrarli formalmente nell’esercito ucraino. Se le cose stanno così per la Russia questa storia non finisce mai, la “demilitarizzazione” dell’Ucraina è impossibile senza un dispiegamento di forze molto rilevante. E più dura la guerra, più sale di intensità, più si fanno probabili improvvise escalations, anche per semplici incidenti. 
DUE È FACILE, TRE È COMPLESSITA’.
[All’inizio non sembra, ma è un post di geopolitica]. Questo il titolo di un libro scritto ormai qualche anno fa da un fisico inglese. Il concetto proviene da un problema matematico-astrofisico, detto “problema dei tre corpi” analizzato dal grande matematico francese Henry Poincaré. Analizzando il corpo delle equazioni, si arriva alla Teoria del caos ed altri sviluppi la cui gran parte entra nella cultura della complessità.
Da un po’ di tempo seguo delle lezioni on line di fisica sul problema della gravità quantistica. Naturalmente non capisco granché di quello che dicono. Vi domanderete: allora perché butti via così il tuo tempo? Perché seguo abbastanza per capire come ragionano, che forma ha il ragionamento. Il ragionamento è il funzionamento di quella che qui chiamiamo immagine di mondo. L’immagine di mondo è una proprietà sistemica della mente umana. Naturalmente essa ha varietà in base al sesso, l’età, l’etnia, il cumulo di esperienze, la formazione e il campo specifico in cui opera il portatore. Tuttavia, è sempre possibile individuare dei gradi di generalità. Ad esempio, seguire i modi di ragionare in questo campo della fisica, trovandone corrispondenza in generale nel pensiero scientifico, ma anche nel pensiero non scientifico. Al livello più generale, sono sempre, tutte, “menti umane”.
Nel pensiero generale, specie quello occidentale, si privilegia il discorso sull’Uno. A volte e recalcitrando, si affronta il problema del Due che è poi la relazione tra due Uno. Ma a Tre scoppia il casino. Il “casino” qui è la nostra pretesa di perfetta calcolabilità delle cose, una sorta di sindrome da controllo. La sindrome è una nostra minorità, le cose là fuori, ma anche dentro di noi, sono collegate tra loro in matasse 4D, per cercar di domare il casino lo semplifichiamo. La semplificazione è la nostra procedura di riduzione della complessità intrinseca affinché il tanto degli oggetti e fenomeni osservati, possa entrare nelle nostre limitate facoltà. La procedura non ha alternative, la mente umana è quello che è, quindi è legittima. È però un problema quando ci convinciamo non di far qualcosa di arbitrario per quanto necessario, ma che il mondo è proprio così come lo riduciamo per farcelo entrare nella testolina.
Passiamo allora alla geopolitica partendo da un articolo di Le Monde.
L’articolo segnala che nella dinamica sempre più conflittuale tra Ucraina con dietro allineato l’Occidente (Europa ed Anglosfera) e Russia con dietro i meno allineati ma non per questo contrari SCO-BRICS etc., una grande e sempre crescente parte del mondo, decide di chiamarsi fuori, di non allinearsi.
L’articolo cita un funzionario UN, secondo il quale, questo gruppo crescente di Paesi che pesa “metà del mondo”: 1) ritiene la guerra russo-ucraino un conflitto regionale intra-europeo quindi a loro estraneo; 2) questo gruppo di paesi ha legami diretti o indiretti con la Russia e con l’area SCO-BRICS che vengono vissuti come meno imperativi dell’Occidente; 3) questo gruppo ha memoria e percezione del fatto che l’Occidente manipoli a piacimento i principi della convivenza planetaria come più gli fa comodo. Secondo me si è dimenticato un quarto punto, forse il più importante. Questi Paesi hanno un loro elenco di problemi e priorità che nulla hanno a che vedere con lo stato di conflitto in essere e in Ucraina e, più in generale, nella fase storica di transizione o meno ad un ordine multipolare. Detto altrimenti, questo gruppo di Paesi non ha alcuna sensibilità all’interferenza ideologica nel giudizio, avendo davanti una lunga lista di problemi concreti di ben altro peso e natura.
Uno studioso francese dell’IFRI (Istituto di Relazioni Internazionali Francese), nota giustamente che la Russia pur essendo solo l’undicesima economia al mondo, ha grande rilevanza in: gas, petrolio, armi, energia nucleare civile ed alcuni alimenti tra cui grano. Quindi ha facoltà di contro-sanzionare turbando in profondo mercati strategici dai quali essi stessi dipendono.
Pare che i francesi, vecchie volpi di colonialismo anche culturale, siano particolarmente sensibili a questi smottamenti, si pensi al loro ruolo in Africa. Pare dunque che Macron, dice Le Monde, sia impegnato a sensibilizzare europei ed alleati a non perdere questa “metà del mondo” che se ne sta andando per conto suo. L’articolo non è un saggio, quindi si limita a esortare a nuovi sforzi diplomatici. Temo però non si tratti di far chiacchiere più o meno sensibili e sintoniche, ma di analizzare nel concreto obiettivi, interessi e nuova concorrenza nel soddisfarli.
Altri articoli anche sul Guardian, segnalano che tra MBS e Biden ormai è partita persa, i due divergono senza mediazione. Sintomatica altresì, la recente uscita sincronica di più articoli critici su quella che gli occidentali cominciano a chiamare “l’ambiguità indiana”, la quinta nazione al mondo per Pil ma la prima per popolazione tra qualche mese. Gli indiani, com’è ovvio, fanno gli indiani. Comprano armi ed energia dai russi salvo poi dirgli di smetterla con la guerra. Litigano a 4000 metri coi cinesi per confini delle reciproche sfere di orgoglio nazionale ma poi ci fanno assieme cose nella SCO e nei BRICS. Comprano navi dagli americani e ci fanno esercitazioni militari assieme, ma le fanno anche coi russi ed i cinesi. Incassano le profferte che piovono da più parti (ultimo Biden qualche giorno fa) di includerli nella riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di cui tanto di parla ma che nessuno è davvero in grado di promuovere a breve dato che siamo in modalità conflitto planetario e non stagione diplomatica.
Poiché credo tutto ciò sia stranoto e previsto dagli strateghi di Washington, per quanto è possibile scontino un certo grado di cecità selettiva che porta a concentrarsi sulle cose che gli danno ragione e minimizzare quelle che gli danno torto, sindrome di perdita di realismo che colpisce fatalmente ogni sistema in parabola dis-adattativa, se ne dovrebbe trarre una inferenza. A Washington, il problema mondo è diagnosticato come irrisolvibile in prospettiva, tanto vale serrare i ranghi e prepararsi al conflitto su larga scala, il più forte sopravviverà.
Cosa nota diranno alcuni, così come altrettanto noto è il fatto che questa posizione forse inevitabile per USA ed anglosfera, non sembrerebbe coincidere nel campo degli interessi e delle possibilità con quella europea. Tant’è che la più alta sensibilità geopolitica notoriamente francese, tra quelle subcontinentali, se ne preoccupa.
Sarà che Poincaré era francese, ma i transalpini sembrano preoccuparsi del problema dei tre corpi e relativa complessità tendente al caos a dimensione mondo, tanto da avere una intera testata votata a questo oggetto. Noi abbiamo il Corriere di Milano e la Repubblica di Roma. Quindi inutile parlare di queste cose qui nel Paese che pensa che il mondo è tutta quella sfocata roba intorno alle cose che davvero contano. È proprio in base a ciò che ritieni conti davvero che poi conterai o meno nel grande gioco di tutti i giochi.

INVECCHIARE MALE, di Pierluigi Fagan

INVECCHIARE MALE. La chart mostra lo sviluppo progressivo della Shanghai Cooperation Organization, nata nel 2001, l’anno dell’entrata nel WTO della Cina e del 11/9. Originariamente fondata da Cina, Russia ed i quattro “-stan” centroasiatici, ha poi aggiunto India e Pakistan tra i membri, più una periferia a gironi. Ci sono Stati in procedura di cooptazione (Iran e Bielorussia), osservatori (Mongolia, Afghanistan) e partner di dialogo (oggi ben 14 tra cui Turchia, Egitto, quasi tutto il Medio Oriente). Al momento, rimane fuori il vivace sud est asiatico (ASEAN), ma non cedo rimarrà tale a lungo per ragioni di logica materiale.
L’Asia, complessivamente, conta oggi il 60% della popolazione mondiale, quasi il 50% del Pil mondiale, per circa 50 Stati. Sono, in media, Stati grandi e massivi, tant’è che in numero sono praticamente pari a quelli europei (49 a 45), con la differenza che l’Asia conta 4,5 miliardi di persone mentre l’Europa ne conta solo 750 milioni, ma ci sono vari modi contare (ad esempio in queste cifre la Russia è contata come europea perché fino ad oggi in geografia così s’è ritenuto di fare, ma si può dubitare così si continuerà a fare).
Questa la statica. La dinamica mostra un futuro incremento di popolazione per l’Asia ed un ancor più pronunciato incremento della percentuale di Pil mondiale, consenso unanime di tutti gli analisti. Eccetto il Giappone, tutti gli stati asiatici hanno adottato le forme dell’economia moderna (tecnoscienza-mercato-capitale), solo dal dopoguerra e progressivamente rispetto anche allo sviluppo del lento processo di de-colonizzazione. La Cina, ad esempio, s’incammina lungo i percorsi di economia moderna solo da fine anni ’70, l’India anche dopo.
Quest’ultimo punto va meglio spiegato. Lo sviluppo portato dall’utilizzo dei principi di economia moderna è una curva. Poiché è fatto storico relativamente recente (XIX secolo, in Europa e Stati Uniti), nessuno ha mai chiarito se tale curva che indubbiamente mostra una linea ascensionale più o meno pronunciata, arriva poi ad un tetto, lì rimane un po’ e poi tende a calare o come i più implicitamente pensano, scambiando la logica della fisica con quella metafisica, cresce all’infinito. Purtroppo, questo argomento è viziato dalle ideologie e l’economia è oggi il campo preferito delle ideologie che si sono dichiarate morte in politica, per altro assai prematuramente. Nei fatti, i fatti si misurano in dati (numero-peso-misura), la crescita delle principali economie moderne (o capitalistiche o OCSE o peggio ancora G7), negli ultimi cinquanta anni, tende a flettere in intensità, a volte in assoluto. Sembrerebbe quindi che, come logica delle curve logistiche impone, quello dell’economia moderna sia un ciclo che per lunga fase iniziale sviluppa, poi si ferma, poi tende a sgonfiarsi. Si può discutere se si possa allungare come e quanto il raggiunto livello del momento ottimale, ma pare che l’idea di una crescita e sviluppo infinito è inconsistente, come ben sanno i fisici che quando trovano “infiniti” nelle equazioni, sanno che stanno sbagliando qualcosa.
Tutto ciò non ha solo direttamente a che fare con le obiezioni sulla crescita infinita fatte già negli anni ’50 da un economista della complessità (Kenneth Boulding) e ripetute poi da decrescisti armati di Secondo principio della termodinamica. Ha a che fare col “sottostante” dell’economia, del ciò che compone il fare economico. L’economia produce beni e servizi, ma la quantità di beni e servizi utili o quasi utili o superflui ma piacevoli, fino ai superflui insensati come la televisione 3D o i monopattini elettrici, è comunque tendente alla saturazione, ad un limite. Si dirà: ma il desiderio umano è un motore infinito, già, ma forse la sua conversione in prodotti e servizi che promettono di soddisfarlo (in realtà non soddisfacendolo mai altrimenti il sistema collassa), no. A dire che se prendete in storia sociale dell’economia l’Europa dell’inizio del XIX secolo, scorrete fast-forward il film, vedrete spuntare edifici, palazzi, strade, fogne, ferrovie, porti, aeroporti, macchine, moto, televisioni, radio, computer, ogni altro ben di dio materiale e molti servizi connessi poi -ad un certo punto- vi accorgerete che c’è già più di tutto e non si vede cos’altro manchi per trainare la curva in su. Non che non ci sia più nulla da inventare o produrre, certamente si può fare ancora molto ad esempio in termini di economia pubblica piuttosto che privata, ma quando andrete a fare i conti, non troverete più le vivaci condizioni di possibilità che c’erano nella fase ascensionale della curva. Tutto ciò lo stiamo scoprendo, a fatica, ora, poiché è la prima volta nella storia che si presenta il fenomeno dell’economia moderna. Quasi tutti, liberali non meno che keynesiani ovvero teorici interni il campo “economia moderna”, danno per scontata l’infinità della curva prodotta dall’utilizzo dei principi e delle forme di economia moderna. Ne consegue la loro difficoltà esistenziale ad ammettere che la curva non è infinta e quando comincia a flettere occorrerebbe ripensare non solo le forme dell’economia in generale, ma il suo ruolo nell’ordinamento delle nostre società.
Quest’ultimo punto però porterebbe a dover la lasciar il campo ai teorici socio-politici e questo per un economista non si dà. O quantomeno ad un fertile dialogo multidisciplinare per capire “quanto” si deve lavorare (lavoriamo più o meno secondo gli standard fissato nella convenzione internazionale del 1919, pensate un po’ quanto è assurdo il mondo), chi e come, con quale reddito, con quali servizi pubblici, dedicando a cosa il restante tempo etc. La questione non è solo tecnica ovvio, è l’ordine complessivo della società e dei poteri che finirebbe con l’essere trasformato, da cui una certa resistenza ad accettare la realtà.
Tutta questa lunga digressione, per sottolineare come l’Asia sia complessivamente nella fase iniziale della curva di sviluppo, noi nella fase terminale. Loro con sotto 4,5 miliardi di produttori-consumatori giovani che hanno spesso ancora bisogno dei fondamentali, noi con 0,7 miliardi di tendenzialmente anziani, sempre meno produttivi, annegati nel superfluo ma anche meno consumanti visto che le aspettative passano dalla spider ai pannoloni.
Tutto ciò in novelle condizioni perigliose quanto ad ambiente, ecologie e clima ovvero stato del tavolo di gioco.
Tutto ciò è un problema? Non lo so, so che è un fatto ed a ogni fatto dello stato del mondo in cui viviamo, ci si dovrebbe adattare. Come ci adattiamo? Revochiamo la globalizzazione per impedire che la loro crescita ci superi, li trattiamo come paria perché non sono bianchi, profumati e democratici, eleviamo sanzioni per correggere la loro endemica tendenza al dispotismo asiatico, aumentiamo la spesa in armi, espandiamo le nostre alleanze militari e riempiamo le nostre popolazioni di cazzate emesse a banda larga 24/7. Così, a naso, non mi pare una grande strategia.
A poker, non so se l’espressione è valida in tutta Italia, si dice “piatto ricco mi ci ficco” a dire che quando il piatto promette vincite consistenti, varrebbe la pena di rischiare e stare al gioco. Noi che siamo nella curva flettente, sia dell’esistenza che dello sviluppo economico che, forse, della nostra stessa civiltà, invece di partecipare allo sviluppo asiatico, alziamo muti, barriere, emaniamo fatwe, ostracizziamo, ci armiamo. Invecchiamo male, acidi, rancorosi, ottusi.
Di solito, in Storia, va sempre così e nonostante ciò -credo di non spoilerare nulla di inaspettato-, di solito finisce molto male. Regoliamoci.
PEACE WITHOUT LOVE. [Post lungo]. Come esseri umani siamo un amalgama di razionalità e sentimento. E’ culturale la divisione che facciamo tra i due modi di essere che condividiamo come umani. Significa che facciamo questa divisione in descrizione, più o meno accentuata e problematica, ma tale distinzione in natura non c’è affatto.
Nulla più che la politica e di conseguenza la geopolitica (ed altri casi tribali come il calcio), eccita entrambi i modi umani. Tuttavia, ci sono buone ragioni per suggerirci di tenere a bada questa commistione o meglio, la sua parte emotiva.
In effetti, se la politica è il trovare il modo di convivenza entro un popolo, la geopolitica potrebbe essere il trovare il modo di convivenza tra i popoli. A livello epistemologico non è esattamente così, geopolitica va sovrapposta ad un’altra disciplina, le Relazioni Internazionali e forse anche altre più normative, per ampliare il suo statuto da descrittivo a prescrittivo. Tuttavia, regge l’idea che come la politica cerca di trasformare conflitti e caos potenziale in un regolamento per le relazioni interne, “geopolitica” -nel senso più ampio datole- dovrebbe cercare di trovare il modo di gestire conflitto e caos potenziale nelle relazioni esterne.
Messa così, che sia politica interna o politica estera, le discipline che studiano le relazioni interne esterne delle poleis (gli Stati), dovrebbero essere razionali e governare l’emotività intrinseca che ci connota e che viene eccitata quando abbiamo a che fare con “l’Altro”.
Da quando siamo finiti a vivere assieme agli estranei, agli albori della civiltà cinque-seimila anni fa circa, s’è posto questo problema del trovare ordine interno ed esterno, problema che prima non c’era. Prima non c’era questo problema quanto agli ordini interni perché i gruppi umani, la vita associata, era basata su longeve interrelazioni tra persone che si conoscevano bene, figli e figlie di altri che si conoscevano bene. Questo “conoscersi” significava -di minima- sapere cosa aspettarsi dall’altro, se non avere un congruo set di comuni valori, mentalità, tradizioni unificanti. Ordine, insomma, in senso ampio. Non così nell’andare a vivere con “estranei” quindi “diversi” come accadde quando sorsero le prime città con decine di migliaia di reciproci estranei.
Quanto alle relazioni esterne, prima della civiltà e per lo più, c’era abbastanza spazio che divideva i gruppi umani, non troppo e quindi favorevole all’interrelazione e scambio (idee, persone, cose), non troppo poco da farli urtare l’un con l’altro. In più, il rapporto tra dotazioni di sussistenza dei territori ed esigenze dei gruppi umani e soprattutto loro dimensione, era ben bilanciato e quindi non c’era il conflitto per lo “spazio vitale”.
L’avvento della “civiltà” che non fu una condizione piovuta da non si sa dove, ma il compimento di una serie di traiettorie soprattutto demografiche ed ecologiche (che nulla avevano a che fare con l’invenzione dell’agricoltura che risale a millenni prima dell’avvento della civiltà), ci mise però in altra condizione. Appunto, trovare regolamenti di convivenza interni ai gruppi umani ed esterni tra gruppi umani. I gruppi non si auto-organizzavano più per eccesso di complessità. Per cinquemila anni, questi due regolamenti dell’interno e dell’esterno, prevalentemente, sono stati forme interne di stretta gerarchia, con un piccolo gruppo di maschi anziani di potere a capo e per lo più la guerra tra gruppi umani, intervallata da periodi di relazioni pacifiche a base di scambi di idee, persone e cose per l’esterno.
La guerra, nonostante gli sforzi di certi “scienziati” bio-sociali anglosassoni che dominano la formazione della nostra immagine di mondo, gente capace di scriverti un libro sul “gene delle guerra” o tirar fuori improbabili teorie sull’aggressività primate trasferita a noi, non è un istinto umano, anche perché mette a rischio la vita e tutta la nostra complessione raffinata in più di tre milioni di evoluzione e cambiamenti, è fatta per evitare la morte il più a lungo possibile. E’ fatta anche di continuo affinamento della capacità di gestire gli istinti, per altro. Da cui la razionalità.
Non solo siamo emotivamente avversi a correre rischi di morte, ma dotati di razionalità, dovremmo esserlo anche sul piano della consapevolezza cosciente. L’aggressività animale a livello inter-individuale, che senz’altro c’è, non porta di per sé all’aggressività di gruppo se non sollecitata intenzionalmente. Tant’è che il registro etno-antropologico è pieno di casi di conflitto tra gruppi simulato, non veramente agito, senza vero spargimento di sangue. Se non mediazioni a base di scambi fino all’andare a vivere da un’altra parte. Negli studi storici, poi, si può apprezzare la sofisticata fantasia narrativa con cui i vari gruppi di potere hanno convinto o costretto i propri giovani ad andar a morire per motivi spesso assai bizzarri.
Tuttavia, l’estrema primitività del nostro grado di civiltà (si ricordi che il genere homo ha tre milioni di anni, il sapiens trecentomila, la “civiltà” solo cinquemila, lo 0,16% del tempo totale) è ancora basata sul fatto che le oligarchie che dominano l’ordine delle nostre società, tali sono per via di sistemi di ordine interno che richiede spesso il dominio esterno, il che porta a conflitto. Il fenomeno non si forma per libera decisione razionale a livello di popolazioni, è formato per via emotiva, l’odio per l’Altro diretto dall’alto.
Molti storici della mentalità hanno osservato sbigottiti la repentina trasformazione di pacifici idraulici e ragionieri europei in quel dei primi del Novecento, in esagitati e schiumanti belve pronte all’assalto con la baionetta. Ancora ci si domanda come sia potuto avvenire nel cuore della “civiltà europea”, Francia, Germania ed altri.
Alcuni che non hanno le idee molto chiare, i “pacifisti” in genere, sono per principio contro la guerra e quindi il conflitto esterno, ma ne deducono improvvidamente la necessità di amare l’Altro. In genere, solo gli stessi che dicono di amare l’Altro che viene occasionalmente a vivere con loro, lo “straniero” o il “migrante”. Meglio senz’altro delle élite conflittuali, non c’è dubbio, ma temo che tali atteggiamenti non aiutino a risolvere il problema della “convivenza con gli estranei”.
In Svezia hanno “amato” democraticamente l’Altro migrato da loro, fino a che questi non hanno raggiunto una massa critica, si sono determinati in enclave culturalmente diversa, creando attriti e potenzialità di conflitto interno. Capita così che la media della popolazione cominci a soffrire di mille piccoli attriti di convivenza con estranei, arriva un partito post-fascista che dice loro “avete ragione! Ora mettiamo ordine, con le buone o con le cattive!” e dopo decenni di serena social-democrazia, vince le elezioni. Che poi, ironia della sorte storica, questo evento di politica interna, è sincronico ad uno di politica estera ovvero la rinuncia allo stato di neutralità che la Svezia ha coltivato per ben due secoli, a partire dalle guerre napoleoniche. Paura, politica della paura, usata da politici diversi, per intenti diversi.
Fare politica o geopolitica coi sentimenti non è buona guida. Con la razionalità, invece, si possono ottenere risultati molto migliori come quelli che ottenne Kissinger che portò il suo presidente, un ultra conservatore americano, a Beijing a stringere la mano a Mao Zedong, pur di dividere la comunista Cina dalla comunista Unione Sovietica che preoccupava gli americani ben di più, impensabile oggi.
Così anche nei problemi di convivenza interna non c’è da amare o da odiare l’Altro, c’è solo da provare e riprovare a trovare una forma di utile convivenza gestita, gestita come lo scopriremo provando e riprovando formule varie. Formule non semplici e naturali, c’è da saperlo senza scandalizzarsi ed accendere l’emotività, farla facile o farsi prender dalla scoramento. Quanti stranieri, di che tipo, in quale congiuntura economica, studiando spesso questioni culturali che i più ignorano, come ad esempio non far finanziare le moschee da sauditi e qatarioti (centri di reclutamento al Qaida e Isis nel primo caso, Fratelli musulmani nel secondo). Se si decidesse di ospitare musulmani sarebbe meglio finanziarle noi le moschee, magari a prestito pluridecennale, il 98% dell’islam non è affatto salafita, basta andare in Oriente per notarlo. Con-vivenza non è né assimilazione, né ostracismo, è lenta e paziente mediazione razionale.
Tutto ciò a seguito della lettura di alcuni commenti sul mio ultimo post a sua volta ripostato da alcuni di Voi sulla propria pagina. Ho letto di gente che pensava esser l’autore del post un amico di Putin o Lukashenka o Xi Jinping o Bin Laden o forse il diavolo in persona, probabilmente anche un po’ razzista e xenofobo con venature orbaniane e criptofasciste, il che per un democratico radicale è ben curiosa misinterpretazione.
La misinterpretazione non credo sia colpa di ciò che scrivo, ma di ciò che molti si sono fatti ficcare in testa. C’è una crescita di sentimenti di odio, interni alla comunità e sincronicamente esterni. Sulla stampa di oggi si trova: a Samarcanda si riunisce il club dei dittatori che vogliono distruggere l’Occidente, il Sauron di Mosca è avido del nostro sangue, Il subdolo cinese ci vuole irretire coi suoi involtini primavera ma poi tirerà fuori la scimitarra per far volar le nostre teste democratiche (dopo aver invaso Taiwan), ci sono addirittura gli iraniani! Se non li odi allora vuol dire che li ami! Principio di non contraddizione applicato a vanvera.
Ricordate, la storia mostra che ogni volta un ordine interno sta per crollare, si irrigidisce internamente (l’Inquisizione non è un fenomeno del pieno Medioevo, solo della sua lunga fine) ed esternamente, il che porta alla guerra.
Per i livelli tecnologici applicati alle armi che abbiamo raggiunto, questa volta la guerra sarebbe da evitare in ogni modo. C’è da trovare il come, non facile. Ma impossibile se non stiamo attenti a sospendere i sentimenti di odio e di amore per l’Altro e non trattiamo la faccenda in modo razionale.
[Non sono sicuro esista davvero in Senegal questo proverbio, ma dovevo mettere una immagine ed è trovato questa che mi sembrava ben precisa rispetto al post]

NEL MONDO DEI CECHI BEATO CHI HA UN OCCHIO, di Pierluigi Fagan

NEL MONDO DEI CECHI BEATO CHI HA UN OCCHIO. Giunge notizia della prima manifestazione europea contro l’atteggiamento di un governo, ergo dell’Unione europea, verso il conflitto ucraino. A Praga erano 70.000 secondo la polizia, stante che in Repubblica Ceca sono 10 milioni, un sesto di noi. I temi erano il costo dell’energia, l’inazione del Governo verso l’inflazione e l’imminente disastro economico, neutralità nel conflitto e contratti sul gas diretti con la Russia.
L’informazione attribuisce la piazza all’estrema destra e comunisti, forze non parlamentari (cioè neanche l’opposizione parlamentare che pure c’è), in Cechia il governo è di centro-destra. La Repubblica Ceca ha la presidenza di turno dell’’UE. Da notare che una parte di questi contenuti si stanno manifestando già, ma gli stessi manifestanti davano segno di disagio soprattutto per l’aspettato autunno-inverno. Sono rare le manifestazioni preventive e se a Praga vanno in piazza ai primi di settembre, chissà cosa faranno la fine di dicembre o gennaio, li butteranno giù dalle finestre?
Analisti e commentatori, temono in prospettiva reazioni forti anche in UK e Francia. Domani in UK, dovrebbe esser eletta Liz Truss come nuovo primo ministro nelle primarie interne al partito conservatore. La Truss è una ex liberale ed è ultraliberista, quindi pensa di affrontare la situazione, che in Britannia è non poco critica dal punto di vista economico-sociale, con taglio delle tasse e corollario tipico di quella ideologia. Va però detto che: a) i conservatori in generale oggi risulterebbero perdenti in una eventuale elezione secondo i sondaggi: b) la posizione di Truss non è solidamente maggioritaria nel partito. La sua eventuale elezione risulterebbe dalla convergenza di casualità, dall’inciampo di Boris Johnson al fatto che l’avversario di Truss convince anche meno di lei per varie ragioni (tra l’altro è di origine indiana) oltre all’indubbia abilità adattativa anche in termini di metalinguaggi della Truss. A dire che la “nuova Thatcher” non ha dietro il momento storico della vera Thatcher.
Macron, dopo aver annunciato la fine dell’”era dell’abbondanza”, pare abbia fatto lunghe riunioni con il Consiglio di Sicurezza anche per prevedere le misure di emergenza per le questioni energetiche incluso, forse, l’utilizzo delle scorte strategiche nell’eventualità più grave. Macron non ha maggioranza parlamentare e sappiamo quanto i transalpini siano indocili nei momenti di crisi acuta.
Dell’Italia sappiamo e sappiamo in anticipo che difficile sarà per la Meloni tenere unita una coalizione che quanto a Lega, ma anche Forza Italia, non sopporteranno in silenzio la tortura economica (in particolare della loro base elettorale) del fatidico “combinato disposto” che si abbatterà sulla nostra struttura economico-sociale. Poi si potrebbe parlare di Germania ed Olanda ma il post aveva un altro intento.
Il post voleva invitare a riflettere su un fatto. Era noto a tutti che: a) gli “europei” intesi qui come totale indifferenziato delle popolazioni, si sarebbero trovati nella famose “condizioni storiche che non avete mai provato” come aveva minacciato Putin nel suo discorso della sera prima del 24 febbraio; b) le condizioni storiche sarebbero state un collasso di inflazione (dovuto anche a dinamiche pre-guerra ma che la guerra e la nostra reazione politico-economica certo non migliorava), più severi problemi energetici, più altri problemi indotti da volatilità di molte materie prime proprie di russi e di ucraini, in un più generale “momento” geoeconomico complicato e turbolento. Ovvero impatto diretto su attività produttive (dall’industria al semplice commercio) e vita di tutti i giorni (riscaldamento ed energia elettrica). Cosa ha fatto pensare ai decisori politici e geopolitici che tutto ciò si sarebbe potuto gestire come hanno deciso e stanno decidendo di gestirlo?
Solo per amor di storia del pensiero, Alexis de Tocqueville, pensava che le “rivoluzioni” potessero scoppiare non quando le cose andavano male, ma quando cominciavano ad andare drasticamente peggio in poco tempo. Non importava il livello delle condizioni originarie, era il brusco scalino il problema.
I “decisori” davvero si sono convinti che sarebbe bastato un bombardamento ideologico in favore della resistenza all’aggressione russa, la difesa dei nostri “valori”, la solidarietà con il prima ignoto e se noto neanche così ben considerato “popolo ucraino”, per motivare la sopportazione della crisi indotta? Mi rivolgo anche a coloro che leggendo questo post, sono in effetti convinti che tutto ciò non solo sia “giusto” ma possa davvero funzionare. Li invito a non concentrarsi sul fatto che sia giusto o meno pensando qui si sostenga che non è giusto, non è questo il problema. Il problema che volevo porre era: davvero qualcuno pensava e pensa che tutto ciò potesse funzionare? Ovvero sopportare sulla propria pelle i costi di questa guerra stante che proveniamo da sette decenni senza concetto diretto di guerra, questa guerra è sì vicina ma in fondo anche lontana, non sempre sono chiari i suoi contorni al di là delle semplificazioni somministrate a forza in questi sei mesi, tra lunga crisi del secondo decennio del secondo millennio, Covid shock, congiuntura globale assai impegnativa e stati d’anima perturbati per varie ragioni, alte e basse, la “gente” è sfiduciata, stanca, smarrita e spesso in condizioni concrete problematiche e senso delle prospettive future anche peggio?
Qui si aprono due possibilità. Sì, c’era qualcuno che era ed è davvero convinto che tutto ciò potesse e possa funzionare, resisteremo, la società non si strapperà tragicamente ed alla lunga vinceremo la sfida. “Alla lunga” poi è concetto forse poco chiaro. Roubini, ad esempio, parla di un prossimo “decennio perduto” in Europa come di cosa certa ed incontrovertibile dati i numeri ed il buonsenso e non mi è chiaro su cosa si possa fondare una previsione contraria. Quindi per tornare alla teoria della tenuta sociale di Tocqueville, non solo un vistoso gradino da scendere in breve tempo, ma una scala di vistosi gradini a scendere per un tempo lungo. Come diagnosticare questa fiducia? Ignoranza? Lontananza dalla vita reale della gente normale, condizione ignota alle varie élite di governo, decisionali e della informazione? Cecità dell’interesse personale che ignora ciò che ha determinato il proprio fortunato status sociale? Mancanza di minima conoscenza della Storia?
No, in fondo non ci credeva davvero nessuno e tuttavia non si è potuto fare diversamente. Cosa s’intende allora per “non si poteva fare diversamente”? Non eravamo in grado o non c’era proprio una alternativa possibilità anche solo teorica? Mi rifiuto di pensare alla mancanza di alternative per quanto difficili da perseguire, la politica è l’arta del possibile, non è deterministica e francamente non vedo nulla di solidamente inevitabile in questa vicenda. Né per il come la nostra insipienza geopolitica ha permesso che per otto lunghi anni la faccenda ucraina degenerasse progressivamente, né nel come una volta accaduto lo scandaloso fatto del 24 febbraio l’abbiamo gestita e l’abbiamo comunicata. Rimane allora il “non eravamo in grado”. Perché? Incapacità? Ricatti a livello dei grandi giochi geopolitici? Siamo arrivati al nodo in cui si condensano decenni di nostri errori strategici in ambito politico, unionista, economico, di stile di vita, culturale, di incoscienza storica del grave momento cui andavamo incontro al di là del precipizio poi presentatoci da Putin?
E su tutto ciò, che riflessione possiamo fare? Se fossimo tedeschi della Repubblica di Weimar, se fossimo nel prima che porta ad Hitler, ci consolerebbe sapere che le nostre élite stanno fallendo l’adattamento storico portandoci a correre rischi di gravità assoluta i cui prezzi toccheranno le nostre vite in modi insopportabili? E quali le nostre responsabilità a parte quelle delle élite che poi sono lì perché così abbiamo acconsentito fosse.
Insomma, il post invitava a fare una riflessione sul presente che ha in vista un futuro. In tempi ciechi e di pazzi che guidano ciechi, beato chi ha un occhio. L’occhio serve e vedere, vedere viene dal greco antico οἶδα, dal latino video, dal sanscrito veda, dall’avestico vaēdha e tutti significavano “il sapere”, la conoscenza, la saggezza”. Tutte cose selezionate dal nostro lungo processo evolutivo per farci essere ciò che siamo. Vedere bene è vivere meglio e più a lungo. Abbiamo bisogno di una rivoluzione ottica?

Roberto Buffagni

Bella analisi che condivido. Mia opinione sul perché di questa cazzata epocale dei governanti europei (per gli americani il discorso è diverso). Secondo il mio avviso, all’origine sta una cosa semplice, situata anzitutto dentro le teste dei dirigenti europei. Ossia, la cristallizzazione pluridecennale di una lunga serie di presupposti: superiorità assoluta degli americani, economicismo terminale, fiducia assoluta nei numeretti della Bocconi e nelle gabole amministrative della UE, politically correct con il corollario del giudizio moralistico applicato ai fatti politici, più incompetenza e ignoranza pittoresche di tutto ciò che è guerra, arte militare, etc. (v. ” ci pensano gli americani”). Questo compost di presupposti circoscrive il perimetro dell’ufficialità, e chi si trova nell’ufficialità e vuole restarci sperimenta una forte resistenza anzitutto interiore a uscirne, perché uscendone rischia reputazione e status. Quindi ignora o svaluta o attacca tutte le idee, atteggiamenti, proposte che non vengano dall’ufficialità, anche se non originano da marginali o estremisti. Un indizio che in questa opinione c’è almeno un po’ di verità è la reazione IMMEDIATA all’invasione russa dell’Ucraina, questi hanno IMMEDIATAMENTE votato sanzioni suicide senza discuterne neanche cinque minuti. Non credo neanche a pressioni terrificanti degli americani, è chiaro che dire di no o anche ni avrebbe avuto gravi costi politici, ma non credo proprio che gli americani abbiano fatto arrivare pizzini tipo “Ti stermino la famiglia”. Non ce n’era alcun bisogno: è questo il dramma, anzi la tragicommedia.

Pierluigi Fagan

Roberto Buffagni Sì concordo. Un fallimento adattivo storico è sempre un fallimento combinato di uomini e mentalità che li guidano, nonché distanza e mancanza di contrasto e controllo tra popolo ed élite. Anche se, qualcosina dietro le quinte non la escludo. A quei livelli è incenerire la carriera politica più che lo sterminio famigliare la leva. Ci ricordiamo dell’affaire del cellulare della Merkel ed abbiamo saputo che il presidente americano ha rapporti riservati anche su i comportamenti sessuali degli altri presidenti. Se ci aggiungi cose tipo Panama papers ovvero la correttezza fiscale o qualsiasi altra inezia che però tocca la “credibilità, onestà, mancanza di conflitti di interessi, tracce scabrose del passato (vedi Corbyn impiccato per il suo presunto anti-semitisimo)” sappiano bene che tali cose esistono. Certo però non possono spiegare tutto.

BILANCIO PROVVISORIO PRIMI SEI MESI DI GUERRA IN UCRAINA …e altro, di Pierluigi Fagan

BILANCIO PROVVISORIO PRIMI SEI MESI DI GUERRA IN UCRAINA. Fare un bilancio implica stabilire un parametro, ma qui i parametri sono almeno quattro, come i contendenti coinvolti.
Dal punto di vista ucraino, s’è perso non poco territorio ed è molto improbabile tornerà mai a casa. Al di là dei proclami, potrebbe tornare a casa solo con una catastrofica sconfitta russa, ma tale sconfitta è molto improbabile mai possa avvenire per ragioni di consistenza militare sul campo presente e futuro oltreché per il fatto che la Russia potrebbe reagire in maniera molto forte al manifestarsi di una tale situazione negativa. Nel senso che c’è sempre l’arma pesante da mettere sul piatto prima di anche solo iniziare a perdere la partita. Tutte le parti sanno di questa ultima ratio, quello che vediamo e sentiamo nelle dichiarazioni e negli articoli di analisti che più che analisti sono propagandisti, è solo guerra nel campo delle opinioni pubbliche. Di contro, gli ucraini possono contare ancora sul supporto americano, inglese ed europeo. Quello americano è solido e continuo (si parla di soldi e di armi che sono sempre soldi). Biden sta recuperando in patria e con lui anche il suo partito, rispetto alle elezioni di mid-term. Mancano ancora due mesi e poco più, ma ora la sconfitta DEM non è più scontata ed anzi cominciano a sperare in una doppia vittoria. Questa dinamica non ha nulla a che fare con la guerra ovviamente, sono altre le questioni che sviluppano la politica interna americana. Quanto ai britannici, a giorni (5 settembre) sapremo se la leadership conservatrice andrà a Sunak o Truss. Per gli ucraini, meglio la seconda molto aggressiva in politica estera. A riguardo, va detto che i brit se la passano piuttosto male in generale, nei sondaggi il Labour (ora in moderata versione “terza via”) oggi batterebbe di netto i conservatori, molti prevedono peggio andrà se vincesse Truss troppo sbilanciata e divisiva. Purtroppo, questa crisi interna rischia di diventare il classico ottimo motivo per peggiorare una crisi esterna e richiamare tutti all’unità di patria ovvero di supporto ad un governo aggressivo. Quanto agli europei essendo uno dei quattro attori vanno analizzati a parte.
Come al solito, non c’è un punto di vista europeo ma singoli punti di vista dei suoi vari attori principali o gruppi regionali. In macro, l’Europa s’è infilata in un dispositivo di tortura economica, finanziaria, politica e sociale che ha cominciato a tormentarla e che promette di intensificare e prolungare il dolore procurato. Perché l’ha fatto rimane il grande punto interrogativo. Rimango dell’idea che, oltre l’insipienza geopolitica con cui gli europei hanno gestito gli anni e decenni passati, ci sia stata da parte del socio americano un’azione molto dura e pesante i cui contenuti non conosciamo e forse non consoceremo mai, ai primissimi giorni da inizio conflitto. Un ricatto probabilmente, da cui era impossibile divincolarsi anche volendo e stante che davvero nessuno lo voleva o anche solo poteva pagarne gli eventuali prezzi molto alti. Da parte delle élite di potere in Europa, meglio accettarlo, restare in sella e far pagare i prezzi del gioco alle popolazioni. I prezzi sono e saranno sempre più alti. Si tratta di costi di quantità di energia che andrà scarseggiando ma anche costi alti per quella che comunque si avrà. Costi alti si riflettono su costi alti di produzione e quindi costi alti di merci e servizi. Aumento di inflazione internamente, diminuzione di esportazioni esternamente, quindi poi costi sociali e distruzione di alcune filiere produttive. Si badi che l’opzione rigassificatori, che semmai diventerà operativa non prima di un anno e mezzo, potrebbe migliorare la situazione (GNL comprato dagli USA, ma non è del tutto detto), ma sempre a costi più alti del passato e di quanto pagano l’energia gli americani. Il che creerà un gradino di costo permanente in termini competitivi. A ciò si aggiungerà l’equivalente su molte materie prime, nonché la perdita del mercato russo. Ne risente anche l’euro e chissà se questa precaria istituzione europea varata negli splendenti anni Novanta; quindi, votata ai fasti del big bang della allora irresistibile globalizzazione, resisterà ancora a lungo. La sua presenza percentuale nelle riserve delle banche centrali mondiali potrebbe diminuire a tutto vantaggio del dollaro. Intanto i capitali emigrano e vanno a rifugiarsi nei bond americani a tassi apprezzabili, un classico alla base di molte guerre “by americans”, oltre al commercio di armi e stante l’aumento delle spese di difesa deliberate e ritenute ormai essenziali. Sul piano narrativo potrebbe esser d’effetto qui dire che tutto ciò scatenerà reazioni, ma temo che sul piano del potere concreto, quello di cui abbiamo di solito solo una pallida idea, qualsiasi tentativo di reazione verrà soffocato prima di diventare davvero problematico. Sarebbe ad esempio utile conoscere quanti, chi e come si sta adoperando per far digerire la Meloni agli americani e gli interessi americani alla Meloni che non essendo stupida pagherà la cambiale atlantista per ottenere il suo quarto d’ora di governo.
E veniamo ai russi. S’era qui ipotizzato che a fine agosto i russi potevano arrivare ai confini del Donbass e quindi prendersi una pausa per congelare il conflitto (militare) per l’inverno, dato anche che la logistica da quelle parti diventa molto problematica nella lunga stagione piovosa, fredda, nevosa. Non ci arriveranno, la concentrazione delle difese ucraine nel nord del Donetsk è insuperabile, al momento. Sappiamo che i russi continuano ad incassare bei soldi dalla vendita del gas, hanno in parte riorientato i flussi verso est, non manifestano gravi danni dalle sanzioni, almeno per il momento. Non sappiamo quanta riserva d’arma abbiano e sebbene alcuni c.d. “analisti” abbiano previsto la consunzione a breve ormai da mesi, tale consunzione non pare ci sia ed è improbabile ci sarà. I russi non s’imbarcavano in tale operazione ragionando come ragionano i c.d. “analisti” occidentali, avranno fatto i loro calcoli visto che da subito hanno accettato e promesso un conflitto molto lungo. Solo gli sprovveduti fan amatoriali dei wargames da tavolo, sin delle prime settimane, hanno creduto alla strategia blitzkrieg. Non parliamo di quelli che vedevano i russi al confine con la Romania in pochi giorni (Macron) o a Berlino (Zelensky). Altresì non c’è stato alcun vero isolamento dei russi sul piano diplomatico globale, tranne la rescissione del corpo calloso che univa l’emisfero russo a quello europeo. Tuttavia, rimane del tutto non conoscibile per noi, gli effetti medio lunghi del dispositivo sanzionatorio a molti livelli, si tratta come sempre in questi casi di questioni di tempo e di calcolo su cose che non consociamo. Certo è che avranno fatto i loro calcoli a riguardo per cui non è escluso che semmai vedessimo una improvvisa e massiccia azione sul campo nei prossimi mesi, si potrà dedurre si trovino nel momento “ora o mai più”. Vedremo.
E chiudiamo con gli americani veri master of game del caso in questione. È tutta una questione di tempo. L’Ucraina diventa nei fatti un satellite americano per sempre, tutti i soldi liquidi e solidi in forma di armi non sono donazioni, sono prestiti da rimborsare, debiti visti dalla parte di Zelensky, debiti inestinguibili per l’eternità (UDD Land-Lease Act ’22). Per questo la guerra non potrà aver fine perché, sotto ricatto di debito, gli ucraini non potranno mai decidere altrimenti a meno di un colpo di stato interno che poi sopravviva alla reazione americana. Quindi gli USA si sono comprati l’Ucraina e la useranno come spina dolorosa nel fianco russo per sfinirli, ovvero il “più a lungo” possibile. Quindi, in sostanza, è da vedere come hanno calcolato il tempo gli americani ed i russi per capire come andrà a finire. Per il resto la cattura egemonica dell’Europa appare forte, irreversibile e duratura, le questioni interne di elezioni di stanno aggiustando (c’è anche una sfida per la leadership del GOP di modo che i neocon vincano in ogni caso, ma questa è una faccenda complicata). La vera partita principale diventa Taiwan ma su questo dovremo riflettere a parte.
Sarebbe utile alcuni potessero onestamente riflettere su ciò che hanno detto e scritto in questi sei mesi, per domandarsi cosa davvero hanno compreso della questione ucraina. Ma tanto non lo faranno, molti discorsi pubblici hanno a traguardo solo la guerra virtuale delle opinioni combattenti, la mia contro l’opinione altrui, senza passare per la bruttezza concreta della guerra reale.
AMBASCIATOR PORTA PENA. Come previsto, la questione dell’Artico procede inesorabile. Gli Stati Uniti hanno previsto di nominare un Ambasciator-at-Large per l’Artico. La carica che si può tradurre come “Ambasciatore generale” verrà data ad un diplomatico con ampi poteri che rappresenterà gli USA per le questioni artiche presso tutte le istituzioni, formali ed informali, presenti o che si occupano della regione.
Scatta subito sull’attenti il fido Stoltenberg, annunciando che “La NATO deve aumentare la sua presenza nell’Artico” perché i russi stanno trafficando nelle loro basi portando missiloni di ultima generazione. In più, sappiamo degli appetiti cinesi verso questa regione che permetterebbe loro di aggirare le forche caudine degli stretti indo-pacifici. Insomma, si sta apparecchiando il nuovo gioco che porterà la nuova guerra fredda sottozero. O visto che da quelle parti non c’è praticamente nessuno, molto soprazero tanto l’ambiente lì si sta già scaldando di suo. Motivo per il quale poi tutti si stanno agitando visto che sottacqua è pieno di minerali appetitosi ed energie fossili molto poco green.
Finalmente, anche i più tonti potranno così capire cosa c’era sotto l’urgenza inderogabile ad accorpare la Finlandia e la Svezia nella NATO, due nazioni storicamente non allineate, pacifiche, conviventi da tempo col vicino russo, prive di materie prime che non siano alberi e renne, senza apparente alcun rilievo strategico che non sia il Mar Baltico che è praticamente un mare chiuso, ma membri del Consiglio dell’Artico.
Si noti invece come la punta nord-est della Finlandia sia ad un tiro di schioppo (si fa dell’ironia) dalla città (Murmansk) più grande al mondo sopra il Circolo polare Artico ed unico porto russo che non ghiaccia d’inverno, quindi strategica base militare navale.
Ma tanto non serve a niente dirlo, quando scoppierà il casino annunciato, torme di invasati caricati a molla dai media brain-washing, presi da una aggressiva emotività ingestibile ed insopprimibile, ci faranno sapere la loro inutile opinione formata il giorno stesso in cui succederà qualcosa, ignari che ogni storia ha cause pregresse che loro ignorano, come ignorano tutto l’argomento della politica di potenza in questa fase storica. Così come hanno fatto e fanno per l’Ucraina. Ci vuole pazienza, tanta.
REALISMO STRATEGICO. Charles A. Kupchan è un più che noto studioso di relazioni internazionali americano. Già direttore degli affari europei per il Consiglio Nazionale di Difesa degli Stati Uniti nonché Consigliere capo per gli affari europei della presidenza Obama, Senior fellow del Council on Foreign Relations, insegna alla Georgetown di Washington. In italiano, il suo interessante “Nessuno controlla il mondo”, Il Saggiatore, 2013.
L’articolo allegato esce su The National Interest, rivista bimestrale di IR di taglio conservatore, repubblicano diciamo in senso largo. Come si intuisce, in America, un democratico può pubblicare su testata avversaria, anche perché in incrocio condivide più l’impostazione realista che idealista (detta “liberal”, ma in sostanza e per simmetria se uno è realista l’altro è idealista per potare i fronzoli terminologici), di solito fortemente radicata proprio in campo democratico.
Per comprendere meglio questo incrocio ed il suo riflesso epistemologico (sebbene una epistemologia della disciplina sia rimasta al compianto Morghentau e poco poi sviluppata come del resto è capitato all’economics vista l’ampia funzione ideologica più che “scientifica” -sempre si possa dare “scienza” delle discipline socio/umane- delle due discipline), va ricordato che la disciplina di Relazioni Internazionali è prettamente americana, tanto quanto la geopolitica nacque europea. Ma il punto epistemologico interessante da notare è che realisti o idealisti, sono sempre americani, condividono cioè fortemente e senza alternative il punto di vista sull’interesse americano. Ora, il punto di vista su un problema come i soggetti di potenza nel loro sviluppo di relazioni internazionali dovrebbe esser almeno un po’, se non tanto, diverso a seconda che lo studioso sia francese o britannico, o tedesco o italiano. E ciò vale anche per la geopolitica. Così non accade quasi mai, salvo rare eccezioni per lo più francesi.
Quelli di Limes, hanno spesso notato e giustamente, la mancanza di un fondato punto di vista italiano su queste faccende, punto di vista cioè tornito intorno ad un ben definito punto di interesse nazionale nostro proprio. L’interesse nazionale, in genere, è semplice quanto unitario, si divergerà poi sul come perseguirlo. A riguardo, permettetemi una punta che suonerà polemica ma non lo è, è un semplice fatto.
Consocerete l’esperta di IR Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di ampia visibilità mediatica, che tuonava con il prof. Orsini negandogli il diritto di parlare di Ucraina perché non ci era mai stato fisicamente. Ha poi detto che non sarebbe più andata in televisione se ci fosse stato lui, quindi, lui è stato ostracizzato e lei salta da un programma all’altro. Vabbe’, non era questo il punto, il punto è che se andate sul sito del suo istituto, sotto Istituto, Chi Siamo, Amministrazione trasparente, trovate l’ultimo bilancio pubblico che chissà perché è ancora solo quello del 2019. Alla pagina 3, Ricavi, l’IAI denuncia di ricevere il 61% dei suoi fondi da “Fondazioni ed Enti Internazionali”. Più o meno la stessa percentuale del 2018 sembra un fatto strutturale. Che munificenza! Ma chi sono questi enti e fondazioni estere che hanno così tanto interesse a finanziare il lavoro di un istituto italiano di relazioni internazionali? E quanto dovremmo prender sul serio un’analista che sicuramente è stata in Ucraina a differenza di Orsini ma il cui stipendio e status professionale è per lo più mantenuto da interessi stranieri? Ce lo vedete uno studioso americano che parla a nome di un istituto finanziato dai cinesi o dai russi?
Be’ così va il mondo dietro le quinte dello spettacolo cui molti contribuiscono lanciandosi fatwe al veleno radioattivo sui social, basandosi su quello che ha detto tizio e caio, senza domandarsi chi sono tizio e caio, cosa sanno, cosa credono di sapere, come lo sanno, a chi parlano, da chi sono pagati, come tutto ciò incide sulla loro immagine di mondo da cui traggono giudizi che zelanti zeloti rilanciano ed amplificano, senza neanche esser stipendiati da “enti e fondazioni estere”.
Pazienza, indispensabile materia prima dei tempi che ci sono toccati in sorte di vivere.
Ad ogni modo, l’americano da cui siamo partiti, sviluppa una sua analisi compiuta della strategia americana, nel tempo e nello specifico dell’affare ucraino. Leggetela, fa cultura del campo se vi interessa coltivarlo. Ovviamente avrei da discutere diversi suoi punti. Tuttavia, ne consiglio ugualmente la lettura, non è che si debba leggere solo l’intemerata consonante i nostri apriori ideologici.
Il succo però va riportato. In sintesi, Kupchan dice al decisore americano che sarebbe meglio contenere le velleità di egemonia esterna perché si rischia troppo e troppe brutte cose. Tra cui effetti molto negativi interni al campo delle c.d. “democrazie di mercato” occidentali e non solo, che pure sono uno dei più solidi successi della strategia egemonica americana di questi ultimi decenni. In particolare, ricorda l’ovvio ovvero che si chiamano “relazioni internazionali” perché riguardano due o più soggetti di potenza. Essendo una relazione c’è un emittente ed un ricevente. L’emittente che dice “guarda sto portando la mia alleanza militare ai tuoi confini ma non ti preoccupare, è solo un’alleanza difensiva”, in una relazione consapevole ed onesta, dovrebbe tener conto che il ricevente potrebbe inquietarsi comunque dal momento che rampe di missili sono sempre rampe di missili e le intenzioni con cui tu puoi usarli possono cambiare com’è ovvio che sia. Ed anche come tutte le dottrine difensive americane prevedono impedendo in via di principio che supposti o potenziali avversari si presentino, non ai confini, ma nell’intero continente e nei suoi due oceani adiacenti.
Questa si chiama “reciprocità” tema del mio secondo post dopo il 24 febbraio ed è considerata etica universale, molto più universale di ogni diritto umano o altro valore che a noi sembra universale quando non è affatto detto che lo sia. Lo hanno certificato 143 rappresentati di altrettante religioni (wow, i religiosi di etica qualcosa sanno, no?), riuniti nel parlamento delle religioni mondiali nel 1993, definendolo l’unico punto incontrovertibile di una etica mondiale!
Lo si è detto e ripetuto più volte all’inizio del conflitto ma molti pupazzi caricati a molla continuano a scrivere post ed articoli che sostengono che questa è una falsa argomentazione. Chissà se leggendolo detto da un americano personalità riconosciuta del campo e della disciplina, consigliere di Obama, gli entra in testa. Non credo, la fede dello zelante zelota è impermeabile all’argomentazione logica, però perché non tentare? Buona lettura.

La guerra in Ucraina e il ritorno della Realpolitik

(riprodotto con traduttore_Giuseppe Germinario)

Il ritorno di un mondo a due blocchi che gioca secondo le regole della realpolitik significa che l’Occidente dovrà ridurre i suoi sforzi per espandere l’ordine liberale, tornando invece a una strategia di paziente contenimento volta a preservare la stabilità geopolitica ed evitare una grande guerra di potere .

La competizione GREAT POWER è tornata. L’alleanza transatlantica deve rivedere di conseguenza la sua grande strategia e ridimensionare le sue ambizioni idealistiche a favore di un realismo pragmatico. Durante la crisi sull’Ucraina, la stella polare ideologica dell’Occidente – la promozione della democrazia – ha guidato l’arte di governo, con la NATO che ha sostenuto e incoraggiato le aspirazioni di Kiev di unirsi all’alleanza occidentale. Ma il presidente russo Vladimir Putin, non volendo lasciare che l’Ucraina lasci l’ovile russo ed emerga come una democrazia ancorata in Occidente, ha lanciato una guerra per riportare Kiev sotto il dominio di Mosca. Putin possiede questa guerra , con la morte e la distruzione che ha prodotto.

La reazione dell’Occidente – armare l’Ucraina, sanzionare la Russia, rafforzare il fianco orientale della NATO estendendo l’adesione a Finlandia e Svezia – è pienamente giustificata. Tuttavia, il legittimo indignazione per la presa a pugni dell’Ucraina da parte della Russia minaccia di oscurare la necessità di trarre sobrie lezioni dalla guerra. Forse la cosa più importante è che il mondo stia tornando alle regole della politica di potere, richiedendo che l’ambizione ideologica ceda più regolarmente alle realtà strategiche per garantire che gli scopi dell’Occidente rimangano sincronizzati con i suoi mezzi. Questo adeguamento significa che l’Occidente dovrà concentrarsi maggiormente sulla difesa, anziché sull’espansione, della comunità democratica. Certamente, combinando i suoi valori con il suo potere, l’Occidente ha piegato l’arco della storia lontano dalla pratica della realpolitik e verso una maggiore libertà, dignità umana e pace.

Il mondo indisciplinato e più competitivo che sta prendendo forma rafforzerà naturalmente l’unità transatlantica, proprio come la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica ha contribuito alla coesione della NATO durante la Guerra Fredda. Eppure i mali politici che hanno afflitto l’Occidente non si sono dissipati; L’invasione della Russia, insieme alla prospettiva di una nuova guerra fredda, non è sufficiente a curare gli Stati Uniti e l’Europa dall’illiberalismo e dalla disfunzione politica. In effetti, la guerra in Ucraina ha prodotto effetti di ricaduta economica che potrebbero indebolire ulteriormente il centrismo politico. Di conseguenza, l’America e l’Europa affrontano una doppia sfida: devono continuare a mettere in ordine le proprie case anche mentre stanno insieme per resistere alla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina.

QUESTA TENSIONE tra alta ambizione e realtà strategica non è una novità, in particolare per gli Stati Uniti. Fin dai primi giorni della repubblica, gli americani hanno compreso che lo scopo del loro potere implicava non solo la sicurezza, ma anche la diffusione della democrazia liberale in patria e all’estero. Come scrisse Thomas Paine nel 1776, “abbiamo il potere di ricominciare il mondo. Una situazione, simile a quella attuale, non si è verificata dai giorni di Noè fino ad ora”.

Paine si stava sicuramente impegnando nell’iperbole, ma le generazioni successive di americani hanno preso a cuore la vocazione eccezionalista della nazione, con risultati piuttosto impressionanti. Grazie al potere del suo esempio e ai suoi numerosi sforzi all’estero, tra cui la prima, la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, gli Stati Uniti sono riusciti a espandere l’impronta della democrazia liberale. Al momento della fondazione della nazione, le repubbliche erano lontane tra loro. Oggi, più della metà dei paesi del mondo sono democrazie totali o parziali. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo di primo piano nell’attuazione di questa trasformazione.

Ma queste aspirazioni ideologiche hanno a volte alimentato il superamento, producendo risultati che compromettono le ambizioni idealistiche della nazione. La generazione fondatrice era determinata a costruire una repubblica estesa che si estendesse fino alla costa del Pacifico, un obiettivo che la nazione raggiunse a metà del diciannovesimo secolo. Gran parte dell’espansione verso ovest degli Stati Uniti ha avuto luogo sotto la bandiera esaltata del Destino manifesto, che ha fornito una giustificazione ideologica per espandere la frontiera, ma anche una copertura morale per calpestare i nativi americani e lanciare una guerra d’elezione contro il Messico che ha portato all’annessione degli Stati Uniti di circa la metà del territorio messicano.

Il presidente William McKinley nel 1898 intraprese una guerra per espellere la Spagna da Cuba, una delle poche colonie rimaste nell’emisfero, insistendo sul fatto che gli americani dovevano agire “per la causa dell’umanità”. Eppure la vittoria nella guerra ispano-americana trasformò gli stessi Stati Uniti in una potenza imperiale, poiché affermò il controllo sui possedimenti spagnoli nei Caraibi e nel Pacifico, comprese le Filippine. “Non ci restava altro da fare che prenderli tutti, educare i filippini, elevarli, civilizzarli e cristianizzarli”, ha insistito McKinley mentre le forze statunitensi occupavano le Filippine. L’insurrezione che ne è derivata ha portato alla morte di circa 4.000 soldati statunitensi e centinaia di migliaia di combattenti e civili filippini. Gli Stati Uniti resistettero alle Filippine fino al 1946.

Mentre preparava il paese all’ingresso nella prima guerra mondiale, il presidente Woodrow Wilson dichiarò davanti al Congresso che “il mondo deve essere messo al sicuro per la democrazia”. Dopo che le forze statunitensi hanno contribuito a portare a termine la guerra, ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati sulla Società delle Nazioni, un organismo globale che doveva preservare la pace attraverso l’azione collettiva, la risoluzione delle controversie e il disarmo. Ma tali ambizioni idealistiche si sono rivelate eccessive anche per gli americani. Il Senato ha respinto l’appartenenza degli Stati Uniti alla Lega; Il superamento ideologico di Wilson aprì la strada al testardo isolazionismo dell’era tra le due guerre.

Poco prima di lanciare l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, il presidente George W. Bush ha affermato che “riteniamo che il popolo iracheno meriti e sia capace della libertà umana … può dare l’esempio a tutto il Medio Oriente di una vita vitale, pacifica e nazione autonoma”. Il risultato della guerra in Iraq è stato molto diverso: sofferenze a livello regionale e conflitti settari pronti a continuare per generazioni. Quanto all’Afghanistan, ha proclamato Bush nel 2004: “Ora il Paese sta cambiando. Ci sono i diritti delle donne. C’è uguaglianza sotto la legge. Le ragazze ora vanno a scuola, molte per la prima volta in assoluto, grazie agli Stati Uniti e alla nostra coalizione di liberatori”. Ma due decenni di esaurienti sforzi degli Stati Uniti per portare stabilità e democrazia in Afghanistan sono stati imbarazzanti, con il ritiro degli Stati Uniti la scorsa estate che ha lasciato il posto al governo talebano e a un incubo umanitario. In questi episodi storici, le nobili ambizioni si sono ritorte contro con conseguenze terribili.

La questione UCRAINA ha allo stesso modo messo in luce le inevitabili tensioni tra alte ambizioni e realtà geopolitiche. Queste tensioni erano, per la maggior parte, sospese nel bipolarismo della Guerra Fredda, quando l’espediente geopolitico guidava la strategia di contenimento degli Stati Uniti. L’accordo di Yalta raggiunto da Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill e Joseph Stalin alla fine della seconda guerra mondiale fu l’ultimo compromesso realista, lasciando gran parte dell’Europa orientale sotto il dominio sovietico. Roosevelt e Churchill stavano saggiamente cedendo i principi al pragmatismo fornendo alla Russia sovietica una zona cuscinetto sul fianco occidentale. Tale moderazione strategica ha dato buoni frutti; ha contribuito alla stabilità durante i lunghi decenni della Guerra Fredda,

L’espansione verso est della NATO iniziò quindi negli anni ’90, l’era dell’unipolarità, quando Washington era fiduciosa che il trionfo del potere e degli obiettivi americani avrebbe inaugurato l’universalizzazione della democrazia, del capitalismo e di un ordine internazionale liberale e basato su regole. L’amministrazione Clinton ha abbracciato una grande strategia di “allargamento democratico” – un punto chiave della quale era aprire le porte della NATO alle nuove democrazie europee e accogliere formalmente in Occidente gli stati del defunto e screditato Patto di Varsavia.

L’allargamento verso est della NATO ha favorito guadagni sia morali che strategici. L’Occidente ha sfruttato l’opportunità di invertire Yalta; I membri della NATO potrebbero riaffermare la loro autorità morale integrando le ultime democrazie europee. Il fascino di soddisfare gli standard politici per l’ingresso nell’alleanza occidentale ha aiutato a guidare attraverso le transizioni democratiche più di una dozzina di paesi che hanno sofferto a lungo sotto il dominio comunista. L’apertura delle porte della NATO ha anche fornito all’alleanza profondità strategica e una maggiore forza militare aggregata. La garanzia di difesa che viene fornita con l’adesione funge da forte deterrente all’avventurismo russo, un bene prezioso dato il rinnovato appetito di Mosca di invadere i suoi vicini. Finlandia e Svezia, infatti, si sono lasciate alle spalle decenni di neutralità per avvalersi di tale garanzia.

Ma nonostante questi vantaggi pratici e di principio, l’allargamento della NATO ha comportato anche un significativo svantaggio strategico: ha gettato le basi per un ordine di sicurezza post Guerra Fredda che escludeva la Russia mentre avvicinava sempre più ai suoi confini l’alleanza militare più formidabile del mondo. Proprio per questo motivo l’amministrazione Clinton ha inizialmente lanciato il Partenariato per la Pace, un quadro di sicurezza che ha consentito a tutti gli Stati europei di cooperare con la NATO senza tracciare nuove linee di divisione. Ma quell’alternativa cadde nel dimenticatoio all’inizio di gennaio 1994, quando il presidente Bill Clinton dichiaròa Praga che “la domanda non è più se la NATO assumerà nuovi membri, ma quando e come”. La prima ondata di espansione ha esteso l’adesione alla Repubblica Ceca, all’Ungheria e alla Polonia nel 1999, seguita da allora da quattro ulteriori periodi di allargamento. Finora, la NATO ha ammesso quindici paesi (che comprendono circa 100 milioni di persone) che erano precedentemente nella sfera di influenza della Russia.

Il Cremlino si è opposto fin dall’inizio all’allargamento della NATO. Già nel 1993, il presidente russo Boris Eltsin avvertì che i russi di tutto lo spettro politico “lo percepirebbero senza dubbio come una sorta di neo-isolamento del nostro paese in diametralmente opposta alla sua naturale ammissione nello spazio euro-atlantico”. In un incontro faccia a faccia con il presidente Clinton nel 1995, Eltsin è stato più diretto:

Non vedo altro che umiliazione per la Russia se procedi… Perché vuoi farlo? Abbiamo bisogno di una nuova struttura per la sicurezza paneuropea, non di quelle vecchie! … Per me accettare che i confini della NATO si espandano verso quelli della Russia – ciò costituirebbe un tradimento da parte mia del popolo russo.

Il disagio di Mosca è cresciuto solo quando Putin ha preso il timone nel 1999 e ha ribaltato il flirt di Eltsin con un tipo di governo più liberale. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007, Putin dichiarò che l’allargamento della NATO “rappresenta una seria provocazione” e chiese: “Perché è necessario mettere infrastrutture militari ai nostri confini durante questa espansione?”

La Russia iniziò presto sforzi concreti per fermare un ulteriore allargamento. Nel 2008, non molto tempo dopo che la NATO aveva promesso che Georgia e Ucraina “diventeranno membri della NATO”, la Russia è intervenuta in Georgia. Nel 2012, Mosca avrebbe tentato di organizzare un colpo di stato in Montenegro per bloccarne l’adesione all’alleanza , e in seguito avrebbe lavorato per impedire l’adesione della Macedonia del Nord. Questi sforzi nei Balcani furono inutili; Il Montenegro ha aderito all’alleanza nel 2017 e la Macedonia del Nord ha seguito l’esempio nel 2020. Ora Putin ha invaso l’Ucraina, in parte per bloccare il suo percorso verso la NATO. Nel suo discorso del 24 febbraioalla nazione che giustifica l’inizio della “operazione militare speciale”, Putin ha indicato “le minacce fondamentali che i politici occidentali irresponsabili hanno creato per la Russia … Mi riferisco all’espansione verso est della NATO, che sta spostando le sue infrastrutture militari sempre più vicino a il confine russo”.

Gli Stati Uniti hanno in gran parte respinto le obiezioni della Russia. Mentre il Cremlino osservava con ansia l’avanzata della NATO, Washington ha visto l’espansione della NATO verso est principalmente attraverso la lente benevola della vocazione eccezionalista dell’America. L’allargamento dell’alleanza ha significato diffondere i valori americani e rimuovere le linee di divisione geopolitiche piuttosto che tracciarne di nuove.

Quando ha lanciato la politica della porta aperta della NATO, il presidente Clinton ha affermato che ciò avrebbe “cancellato la linea artificiale in Europa tracciata da Stalin alla fine della seconda guerra mondiale”. Madeleine Albright, la sua segretaria di stato, ha affermato che “la NATO è un’alleanza difensiva che … non considera nessuno stato come suo avversario”. Lo scopo di espandere l’alleanza, ha spiegato, era costruire un’Europa “intera e libera”, osservando che “la NATO non rappresenta un pericolo per la Russia”. Questa è la linea che Washington ha adottato da allora, anche per quanto riguarda la potenziale adesione dell’Ucraina. Con l’aumentare della crisi sull’Ucraina, il presidente Joe Biden ha insistito su questo, “gli Stati Uniti e la NATO non sono una minaccia per la Russia. L’Ucraina non sta minacciando la Russia”. Il segretario di Stato Antony Blinken ha convenuto: “La stessa NATO è un’alleanza difensiva … E l’idea che l’Ucraina rappresenti una minaccia per la Russia o, se è per questo, che la NATO rappresenti una minaccia per la Russia è profondamente sbagliata e fuorviante”. Gli alleati dell’America sono stati per lo più sulla stessa pagina. Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha affermato durante il periodo che precede l’invasione della Russia che: “La NATO non è una minaccia per la Russia”.

Eppure la Russia vedeva le cose in modo molto diverso, e non senza ragione. La geografia e la geopolitica contano; Le grandi potenze, indipendentemente dalla loro inclinazione ideologica, non amano quando altre grandi potenze si allontanano nei loro quartieri. La Russia nutre comprensibili e legittime preoccupazioni per la sicurezza riguardo all’apertura di un negozio da parte della NATO dall’altra parte del suo confine di oltre 1.000 miglia con l’Ucraina. La NATO può essere un’alleanza difensiva, ma mette in atto una potenza militare aggregata che la Russia, comprensibilmente, non vuole parcheggiare vicino al suo territorio.

In effetti, le proteste di Mosca sono state, ironia della sorte, molto in linea con la stessa politica americana, che ha cercato a lungo di tenere le altre grandi potenze lontane dai propri confini. Gli Stati Uniti trascorsero gran parte del diciannovesimo secolo a far uscire Gran Bretagna, Francia, Russia e Spagna dall’emisfero occidentale. Da allora in poi, Washington si è regolarmente rivolta all’intervento militare per dominare le Americhe. L’esercizio dell’egemonia emisferica continuò durante la Guerra Fredda, con gli Stati Uniti determinati a cacciare l’Unione Sovietica ei suoi simpatizzanti ideologici dall’America Latina. Quando Mosca dispiegò missili a Cuba nel 1962, gli Stati Uniti lanciarono un ultimatum che portò le superpotenze sull’orlo della guerra. Dopo che la Russia ha recentemente lasciato intendere che potrebbe schierare nuovamente le sue forze armate in America Latina, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha risposto: “Se vediamo qualche movimento in quella direzione, risponderemo in modo rapido e deciso”. Data la propria esperienza, Washington avrebbe dovuto dare maggiore credito alle obiezioni di Mosca all’ingresso dell’Ucraina nella NATO.

Per quasi tre decenni, la NATO e la Russia si sono parlate l’una contro l’altra. Come ha scherzato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in mezzo alla raffica di diplomazia che ha preceduto l’invasione russa, “stiamo conversando da una persona muta con una persona sorda. È come se ci ascoltassimo, ma non ci ascoltassimo”.

L’invasione russa dell’Ucraina chiarisce che questa disconnessione tra Russia e Occidente è esplosa allo scoperto, finalmente per una serie di motivi. Mosca ha considerato l’ingresso nella NATO di una banda di paesi che si estende dai Baltici ai Balcani come una battuta d’arresto strategica e un insulto politico. L’Ucraina, in particolare, appare molto più grande nell’immaginario russo; nelle stesse parole di Putin, “Russi e ucraini sono un popolo. Kiev è la madre delle città russe”. La scissione nel 2019 della chiesa ortodossa ucraina dalla sua controparte russa è stata una pillola particolarmente amara; la chiesa ucraina era subordinata al patriarca di Mosca dal 1686. La Russia oggi è molto più capace di respingere di quanto non lo fosse all’inizio del dopoguerra, rafforzata dalla sua ripresa economica e militare e dalla sua stretta collaborazione con la Cina.

Eppure il Cremlino ha commesso diversi gravi errori di calcolo nel procedere con la sua invasione dell’Ucraina. Ha ampiamente sottovalutato la volontà e la capacità degli ucraini di reagire, producendo le prime battute d’arresto russe sul campo di battaglia. Mosca ha visto numerose fonti di debolezza occidentale – Brexit, il ritiro caotico dall’Afghanistan, la pandemia di COVID-19, l’inflazione, la polarizzazione in corso e il populismo – portando a una sottovalutazione della forza e della portata della risposta dell’Occidente. Nella mente di Putin, una combinazione di forza russa e fragilità occidentale ha reso il momento opportuno per lanciare la sfida in Ucraina. Ma Putin aveva torto; l’Occidente ha dimostrato una notevole fermezza poiché ha armato l’Ucraina e imposto severe sanzioni contro la Russia.

Questi errori di calcolo aiutano a far luce sul motivo per cui Putin ha scelto di affrontare le sue lamentele attraverso la guerra piuttosto che la diplomazia. In effetti, Putin ha avuto l’opportunità di dirimere le sue obiezioni all’adesione dell’Ucraina alla NATO al tavolo dei negoziati. L’anno scorso, il presidente Biden ha riconosciuto che se l’Ucraina si unirà all’alleanza ” resta da vedere “. In mezzo alla raffica di diplomazia che ha preceduto l’invasione russa, il presidente francese Emmanuel Macron ha lanciato l’idea di “finlandizzazione” per l’Ucraina – neutralità effettiva – e sono circolate proposte per una moratoria formale su un ulteriore allargamento. Lo ha ammesso il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyyche la prospettiva che l’Ucraina aderisca alla NATO possa essere “come un sogno”. Il suo ambasciatore nel Regno Unito ha indicato che Kiev voleva essere “flessibile nel tentativo di trovare la migliore via d’uscita” e che un’opzione sarebbe quella di abbandonare la sua offerta per l’adesione alla NATO. Il Cremlino avrebbe potuto raccogliere queste piste, ma invece ha optato per la guerra.

LA SAGA dell’allargamento della NATO mette in luce il divario tra le aspirazioni ideologiche dell’Occidente e le realtà geopolitiche che si è allargato dagli anni ’90. Durante l’entusiasmante decennio successivo alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti ei loro alleati erano fiduciosi che il trionfo del loro potere e del loro scopo avrebbe aperto la strada alla diffusione della democrazia, un obiettivo che l’allargamento della NATO avrebbe presumibilmente contribuito a garantire.

Ma fin dall’inizio, l’establishment della politica estera occidentale ha permesso al principio di oscurare gli aspetti negativi geopolitici dell’allargamento della NATO. Sì, l’adesione alla NATO dovrebbe essere aperta a tutti i paesi che si qualificano e tutte le nazioni dovrebbero essere in grado di esercitare il loro diritto sovrano di scegliere i propri allineamenti come meglio credono. E sì, la decisione di Mosca di invadere l’Ucraina è stata in parte informata dalle fantasie di ripristinare il peso geopolitico dei giorni sovietici, dalla paranoia di Putin su una “rivoluzione colorata” insorta in Russia e dalle sue delusioni sui legami indissolubili di civiltà tra Russia e Ucraina.

Eppure l’Occidente ha commesso un errore continuando a respingere le obiezioni della Russia all’allargamento in corso della NATO. Nel frattempo, la politica delle porte aperte della NATO ha incoraggiato i paesi dell’Europa orientale a sporgersi troppo dai loro sci strategici. Mentre il fascino dell’adesione all’alleanza ha incoraggiato gli aspiranti a realizzare le riforme democratiche necessarie per qualificarsi per l’ingresso, la porta aperta ha anche spinto i potenziali membri a impegnarsi in comportamenti eccessivamente rischiosi. Nel 2008, subito dopo che la NATO ha ignorato le obiezioni russe e ha promesso un’eventuale adesione alla Georgia e all’Ucraina, il presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, ha lanciato un’offensiva contro i separatisti filo-russi nell’Ossezia meridionale con cui il paese combatteva sporadicamente da anni. La Russia ha risposto prontamente prendendo il controllo di due parti della Georgia: l’Ossezia meridionale e l’Abkhazia.

In modo simile, la NATO ha esagerato incoraggiando l’Ucraina a aprire la strada verso l’alleanza. La rivoluzione di Maidan del 2014 ha rovesciato un regime pro-Mosca e ha portato l’Ucraina su una rotta verso ovest, provocando l’intervento della Russia in Crimea e nel Donbas. La porta aperta della NATO ha fatto cenno, spingendo gli ucraini nel 2019 a sancire le loro aspirazioni NATO nella loro costituzione, una mossa che ha fatto scattare nuovi campanelli d’allarme al Cremlino. Data la sua vicinanza alla Russia e la devastazione causata dall’ulteriore aggressione di Mosca, l’Ucraina avrebbe fatto meglio a giocare sul sicuro, costruendo in silenzio una democrazia stabile pur mantenendo lo status neutrale che aveva abbracciato quando è uscita dall’Unione Sovietica. In effetti, il potenziale ritorno dell’Ucraina alla neutralitàha avuto un ruolo di primo piano nei colloqui sporadici tra Kiev e Mosca per porre fine alla guerra.

La NATO ha saggiamente evitato il coinvolgimento diretto nei combattimenti per scongiurare la guerra con la Russia. Ma la riluttanza dell’alleanza a difendere militarmente l’Ucraina ha messo in luce un preoccupante disconnessione tra l’obiettivo dichiarato dell’organizzazione di rendere il paese un membro e il suo giudizio secondo cui proteggere l’Ucraina non vale il costo. In effetti, gli Stati Uniti ei loro alleati, anche se impongono severe sanzioni alla Russia e inviano armi all’Ucraina, hanno rivelato di non ritenere la difesa del Paese un interesse vitale. Ma se è così, allora perché i membri della NATO hanno voluto estendere all’Ucraina una garanzia di sicurezza che li obbligherebbe a entrare in guerra in sua difesa?

La NATO dovrebbe estendere le garanzie di sicurezza ai paesi che sono di importanza strategica intrinseca agli Stati Uniti e ai suoi alleati, non dovrebbe rendere i paesi strategicamente importanti estendendo loro tali garanzie. In un mondo che sta rapidamente tornando alla logica della politica di potenza, in cui gli avversari possono regolarmente mettere alla prova gli impegni degli Stati Uniti, la NATO non può permettersi di essere dissoluta nel fornire tali garanzie. La prudenza strategica richiede di distinguere gli interessi critici da quelli minori e di condurre di conseguenza l’arte di governo.

La PRUDENZA STRATEGICA richiede anche che l’Occidente si prepari al ritorno di una continua rivalità militarizzata con la Russia. Alla luce della stretta collaborazione emersa tra Mosca e Pechino e delle ambizioni geopolitiche della Cina, la nuova Guerra Fredda che sta prendendo forma potrebbe benissimo mettere l’Occidente contro un blocco sino-russo che si estende dal Pacifico occidentale all’Europa orientale. Come la Guerra Fredda, un mondo di blocchi rivali potrebbe significare divisione economica e geopolitica. Il grave impatto delle sanzioni imposte alla Russia sottolinea il lato oscuro della globalizzazione, portando potenzialmente a casa sia la Cina che le democrazie occidentali che l’interdipendenza economica comporta rischi piuttosto considerevoli. La Cina potrebbe prendere le distanze dai mercati globali e dai sistemi finanziari, mentre gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero scegliere di espandere il ritmo e la portata degli sforzi per disaccoppiare dagli investimenti, dalla tecnologia e dalle catene di approvvigionamento cinesi. Il mondo potrebbe entrare in un’era prolungata e costosa di de-globalizzazione.

Il ritorno di un mondo a due blocchi che gioca secondo le regole della realpolitik significa che l’Occidente dovrà ridurre i suoi sforzi per espandere l’ordine liberale, tornando invece a una strategia di paziente contenimento volta a preservare la stabilità geopolitica ed evitare una grande guerra di potere . Un nuovo conservatorismo strategico dovrebbe cercare di stabilire equilibri stabili di potere e deterrenza credibile nei teatri europei e dell’Asia-Pacifico. Gli Stati Uniti hanno un playbook per questo mondo: quello che gli ha permesso di prevalere nella prima Guerra Fredda.

Quello per cui Washington non ha uno stratagemma è navigare nella divisione geopolitica in un mondo che è molto più interdipendente di quello della Guerra Fredda. Anche se resiste alle autocrazie, l’Occidente dovrà superare le linee di divisione ideologiche per affrontare le sfide globali, tra cui l’arresto del cambiamento climatico, la prevenzione della proliferazione nucleare e il controllo degli armamenti, la supervisione del commercio internazionale, il governo della cybersfera, la gestione della migrazione e promuovere la salute globale. Il pragmatismo strategico dovrà temperare la discordia ideologica.

Washington manca anche di uno stratagemma per operare in un’era in cui l’Occidente deve affrontare minacce nostrane alla democrazia liberale che sono almeno altrettanto potenti delle minacce esterne poste da Russia e Cina. Durante la Guerra Fredda, l’Occidente era politicamente sano; le democrazie liberali su entrambe le sponde dell’Atlantico godevano di moderazione ideologica e centrismo, sostenute da una prosperità ampiamente condivisa. Un marchio fermo e mirato della grande strategia statunitense poggiava su solide fondamenta politiche e godeva di un sostegno bipartisan.

Ma l’Occidente oggi è politicamente malsano e il populismo illiberale è vivo e vegeto su entrambe le sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, il patto bipartisan dietro l’arte di governo statunitense è crollato, così come il centro politico della nazione. La moderazione ideologica e il centrismo hanno lasciato il posto a un’amara polarizzazione in mezzo a una prolungata insicurezza economica e a una disuguaglianza spalancata. La guerra in Ucraina non ha aiutato le cose; L’ambiziosa agenda di Biden per il rinnovamento interno, già ridimensionata a causa dell’ingorgo al Congresso, ha ulteriormente sofferto a causa dell’attenzione di Washington sul conflitto. E gli alti tassi di inflazione, alimentati in parte dalle perturbazioni economiche derivanti dalla guerra, stanno alimentando il malcontento pubblico, probabilmente costando ai Democratici il controllo del Congresso nel prossimo semestre di novembre.

In Europa, il centro politico ha tenuto largamente. I partiti tradizionali di centrosinistra e centrodestra hanno perso terreno rispetto ai partiti anti-establishment, ma sono rimasti ideologicamente centristi e, per la maggior parte, sono rimasti al potere. Eppure i populisti illiberali continuano a governare l’Ungheria e la Polonia, ei loro compagni di viaggio esercitano un’influenza politica nella maggior parte degli stati membri dell’Unione Europea (UE). In effetti, il governo centrista italiano è crollato a luglio e l’estrema destra potrebbe benissimo impennarsi in vista delle elezioni. Il Regno Unito si è impegnato in uno straordinario atto di autoisolamento e autolesionismo uscendo dall’UE: Londra rimane coinvolta in difficili negoziati con Bruxelles sui termini della Brexit. Il danno economico provocato dall’inflazione, dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla potenziale carenza di energia favorita dalle sanzioni occidentali alla Russia,

Mentre gli Stati Uniti ei loro alleati contemplano l’aumento della tensione con un blocco sino-russo, devono assicurarsi di continuare a correggere le vulnerabilità interne dell’Occidente. È vero che durante la Guerra Fredda, la disciplina che la minaccia sovietica imponeva alla politica americana contribuì a smorzare il conflitto partigiano sulla politica estera. Allo stesso modo, l’attuale prospettiva di una nuova era di rivalità militarizzata con Russia e Cina sta facendo rivivere la cooperazione bipartisan in materia di governo.

È tuttavia probabile che questo ritorno al bipartitismo sia di breve durata, proprio come è stato dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Gli americani non dovrebbero operare nell’illusione che un ambiente internazionale più competitivo ripristinerà di propria iniziativa il paese salute politica, soprattutto in mezzo al tasso di inflazione statunitense più alto degli ultimi quarant’anni. In modo simile, anche se l’Europa ha dimostrato unità e determinazione impressionanti durante la guerra in Ucraina, indubbiamente dovrà affrontare nuove sfide politiche mentre affronta un enorme afflusso di rifugiati ucraini e affronta ulteriori oneri economici, incluso lo svezzamento dall’energia russa .

Entrambe le sponde dell’Atlantico hanno quindi un duro lavoro da fare se vogliono mettere in ordine le proprie case e rinvigorire l’ancora dell’ordine liberale del globo. Dato il potenziale ritorno della politica del risentimento negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha urgente bisogno di continuare a portare avanti la sua agenda interna. Investire in infrastrutture, istruzione, tecnologia, assistenza sanitaria, soluzioni per il clima e altri programmi interni offre il modo migliore per alleviare il malcontento dell’elettorato e far rivivere il centro politico malato del paese . L’agenda di rinnovamento dell’Europa dovrebbe includere la ristrutturazione economica e gli investimenti, la riforma della politica di immigrazione e il controllo delle frontiere e una maggiore spesa e messa in comune della sovranità sulla politica estera e di difesa.

L’invasione russa dell’Ucraina annuncia il ritorno di un mondo più realistico, che richiede che le ambizioni idealistiche dell’Occidente cedano più regolarmente alle fredde realtà strategiche. Anche se la guerra ha certamente contribuito a rilanciare l’Occidente e la sua coesione, le minacce interne alla democrazia liberale che erano al centro prima della guerra richiedono ancora un’attenzione urgente. Sarebbe ironico se l’Occidente riuscisse a trasformare la scommessa di Putin in Ucraina in una clamorosa sconfitta, solo per vedere le democrazie liberali soccombere al nemico interiore.

Charles A. Kupchan è Professore di Affari Internazionali alla Georgetown University e Senior Fellow presso il Council on Foreign Relations. Il suo libro più recente è Isolationism: A History of America’s Efforts to Shield Itself from the World .

I POZZI ED IL PENDOLO, di Pierluigi Fagan

I POZZI ED IL PENDOLO. Era noto da anni che i fondali del Mediterraneo orientale fossero pieni di gas, basta vedere una cartina altimetrica delle profondità. Ma i trivellamenti davanti la costa di Egitto e poi davanti Israele hanno poi anche dato conferma probante. Ieri ENI ha confermato che assieme a Total (cartina nel primo commento), hanno trovato bei giacimenti al largo di Cipro. Altrettanti ce ne sono ancora di trivellare, anche davanti al Libano e Siria, nell’Egeo e nelle isole davanti la Turchia che però sono greche. La questione ucraina che ha imposto il nostro de-linking con la Russia accelera ora la ricerca e sfruttamento di questa ghiotta alternativa. Era tutto noto da tempo, ma si preferiva lasciare le cose come stavano anche perché nuovi giacimenti in zone condivise da sei stati, con di mezzo greci e turchi, ciprioti, siriani e libanesi (tra cui Hezbollah) con israeliani solo per parlare dei pozzi, poi si dovrebbe parlare delle condotte, dei diritti di trivellazione e di molto altro, promettevano conflitti certi. Ora ci siamo tolti il problema perché abbiamo un altro conflitto certo in Ucraina e quindi visto che abbiamo sdoganato il conflitto, diamoci sotto!
A me non va di scrivere un articolo di dettaglio, a voi probabilmente di leggerlo. Resto quindi sulle generali per dire una cosa più generale. Non dico su facebook e non dico a fini politici immediati, però direi che qualcuno tra gli studiosi di cose politiche dovrebbe forse rendersi conto della infondatezza degli attuali paradigmi entro i quali pensiamo.
Il mondo è sempre più complesso, imprevedibile, competitivo e rissoso. In questo scenario si muovono soggetti massivi (Stati grandi e potenti) di prima ed ormai anche di seconda potenza. Ogni questione con la quale abbiamo a che fare ci chiede o di esser interpretata a nostro modo, se ne abbiamo la forza (potenza) o di esser subita secondo convenienza altrui. Le questioni mondo sono analizzate e previste dai centri di intelligenza geo-strategica delle prime e seconde potenze. Noi non abbiamo nulla di tutto ciò.
Noi prendiamo il gas dai russi, poi qualcuno decide che no, allora scopriamo che “fortuna!” c’è un sacco di gas nel Mediterraneo. Che bello! Pensiamo ora, poi tra qualche anno quando ci saranno battaglie navali, colpi di stato qui e lì, migranti disperati, sofferenza e dolore per disputarsi i diritti sui nuovi giacimenti, diremo “che brutto!”. Segue donazione Save the Children e profluvio di articoli critici che criticano il perché piove mentre casca l’acqua. Noi ci stupiamo come bambini della pellicola di un film che qualcuno fa scorrere davanti a noi, gioendo, preoccupandoci, polemizzando, credendo di aver capito cose che non capiamo affatto. Noi pendoliamo emotivamente partecipando e giudicando eventi che però hanno noi dentro, non sullo schermo. Eventi che non spuntano fuori uno dopo l’altro come acqua da fontana sono serie di catene causative note e previste, a volte manipolate secondo altrui intenzione. La sola urgenza che molti sentono e giudicare, chi sono i cattivi, chi i buoni, chi quelli come me, chi quelli diversi e quindi contro di me. Noi non ci occupiamo di fatti ma di quello che altri pensano su quei fatti che siamo convinti di conoscere e non conosciamo affatto.
Trivelle, ecologia, nucleare, energia, produzione industriale, armi, fondi di ricerche, alleanze, sovranità, autonomie strategiche, culture strategiche, come tutto ciò va con “democrazia” sono speso argomenti che ci urtano, non ci piacciono, ci impongono studi che non sappiamo e vogliamo o possiamo fare. Soprattutto, ci imporrebbero il sacrificare valori per voleri. Eppure, è ciò che promana dalla realtà.
Il campo del pensiero ha una urgenza forte, riflettere sulle nostre categorie, sulle logiche, sugli strumenti, gli spazi ed i fondi necessari, l’organizzazione stessa visto che queste forme di pensiero invocano lavoro collettivo. Se non riformiamo il campo del pensiero, non avremo piani di azione realistica da condividere e senza questi non avremo massa critica per far cose che non sono facili affatto e sempre che siano anche solo possibili.
Se volete, potete senz’altro fare l’elenco dei desideri, via dall’UE, dall’euro, dalla NATO, dal neoliberismo, dal capitalismo, dall’Occidente brutto e cattivo, dalla Terra anche. Tanto più la realtà è brutta tanto più pendolerete verso le storie belle. Ma il “cosa” non vale nulla senza il “come” come disse quello …
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