Liberarsi dalla servitù volontaria nazionale ed europea, di Luigi Longo

Liberarsi dalla servitù volontaria nazionale ed europea

di Luigi Longo

 

 

La questione prioritaria sia nazionale sia europea è quella dell’uscita dalla servitù volontaria nei confronti degli Stati Uniti. Una servitù che dura da oltre settant’anni, cioè da quando gli Stati Uniti, dopo il secondo conflitto mondiale, sono diventati potenza egemone del mondo Occidentale debellando definitivamente la potenza mondiale inglese.

Credo che sulla servitù le riflessioni che faceva Etienne de La Boétie nel 1546-1550 (periodo in cui fu scritto il Discorso sulla servitù volontaria), di << […] capire, se è possibile, come questa ostinata volontà di servire si sia radicata così profondamente da far credere che lo stesso amore della libertà non sia poi così naturale >> che << Gli uomini nati sotto il giogo, poi nutriti e allevati nell’asservimento, sono paghi, senza guardare più lontano, di vivere così come sono nati e non pensano affatto di avere altri beni e altri diritti che non siano quelli che hanno trovato: prendono come stato di natura il proprio stato di nascita >> che << I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, gli animali esotici, le medaglie, i quadri e altre droghe di questo genere erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della libertà perduta, gli strumenti della tirannide >>, siano di grande attualità (1). Lo stesso Karl Marx, oltre tre secoli dopo, analizzando il nascente modo di produzione capitalistico, osservava che << […] Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (corsivo mio) […] >> (2).

Oggi, in fase multicentrica, la configurazione di potenze in grado di poter sfidare l’egemonia mondiale degli USA, divenuta tale dopo l’implosione della ex URSS, pone la questione della sovranità nazionale e della ri-fondazione di una Europa delle nazioni sovrane come condizione per svolgere un ruolo di confronto storico, sociale e culturale tra il mondo Occidentale e quello Orientale. Ricordo che l’attuale Europa è figlia del progetto ideato, pensato e attuato dagli agenti strategici statunitensi, imposto con il consenso e con la forza attraverso il Piano Marshall (1947-1948) e la NATO (1949), ed é modellata sull’idea della società statunitense in cui  il concetto di democrazia non rientra tra i valori fondanti il legame sociale: è la democrazia di chi detiene il potere e il dominio, i quali sono sempre espressione della interconnessione tra il sistema legale e il sistema illegale storicamente dati. Il Chi detiene il potere e il dominio va visto nella accezione marxiana di funzioni e ruoli nei rapporti sociali di una società data.

L’ Europa delle nazioni sovrane può avere un ruolo nel confronto tra Occidente e Oriente basato su relazioni di reciproco rispetto, dignità e benessere delle popolazioni e non su relazioni di potere e di dominio, per dirla con Federico Chabod, << Rispetto e indipendenza di ogni nazionalità: il limite razionale del diritto di ciascuna nazionalità è costituito da altre nazionalità; il principio di nazionalità << non può significare che la eguale inviolabilità e protezione di tutte >> e la formula dev’essere questa << coesistenza ed accordo delle Nazionalità libere di tutti i popoli >> >> (3)

L’Europa, inoltre, deve agevolare quelle potenze mondiali che sono per un mondo multicentrico (in questa fase Russia e Cina) e deve contrastare la potenza egemone degli Stati Uniti (in fase di inizio declino) che per loro natura storica e sociale sono inclini al dominio unilaterale delle relazioni mondiali.

Oggi in Europa non ci sono nazioni che esprimono avanguardie, élites, agenti strategici (non c’è nessuno spettro che si aggira per l’Europa, ahinoi!) in grado di pensare e attuare un progetto di sovranità nazionale ed europea. Abbiamo nazioni in piena servitù statunitense, sbandate dal conflitto interno agli agenti strategici degli Stati Uniti, con diverso livello gerarchico nella scala della servitù (Germania, Francia, Italia), che stupidamente stanno rompendo le relazioni con l’Oriente (Russia e Cina soprattutto) e seguono le strategie degli USA per il dominio mondiale senza accorgersi del vento storico che sta cambiando in direzione dell’Oriente. Non confondiamo le relazioni economiche (la sfera economica) delle nazioni europee che si svolgono con la Russia e la Cina con quelle politiche (la sfera politica), queste ultime, espressione di blocchi di dominio in equilibrio dinamico, sono in mano agli agenti strategici servili alle strategie statunitensi.

Prendiamo per esempio l’Italia in questo dopo elezione del 4 marzo scorso. Un Presidente della Repubblica, eletto da un parlamento fuorilegge decretato da uno dei contropoteri [il Mattarellum è stato abrogato dal Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta, uno dei cui membri era Sergio Mattarella! E poi blaterano della separazione dei poteri e dei contropoteri (Sic!)], si erge a tutore del potere dei sub-dominati europei e del dominio dei pre-dominati statunitensi condannando, mettendosi fuori dalla Costituzione (art.87), l’Italia ad una storica servitù con un livello di sviluppo economico, culturale e sociale degradante (la servitù tedesca e francese hanno un livello più elevato di sviluppo), altro che << […] La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione >> (art.1). E poi basta con questa teoria dei contropoteri, bisogna parlare di strumenti istituzionali, di luoghi istituzionali, di istituzioni di coordinamento dei poteri per imporre e gestire la propria egemonia. Preciso che coordinamento non significa separazione dei poteri che è una illusione storica, come ha dimostrato Louis Althusser rileggendo Montesquieu attraverso Charles Eisenmann (teorico del diritto) << […] in realtà Montesquieu non aveva parlato affatto di separazione, bensì di combinazione, di fusione e di collegamento di poteri […] >> (4).

Con questo non voglio dire che la Lega e il Movimento 5 Stelle hanno un progetto di sovranità italiana (non ci sono le condizioni oggettive e soggettive) a partire dal quale tessere relazioni internazionali capaci di uscire dalla servitù statunitense e di creare relazioni con le potenze mondiali e regionali orientali affinché venga neutralizzata la fase policentrica che significa guerra mondiale (forse l’ultima).

Riflettiamo sulle modalità spaziali e temporali del tentativo di formare un governo, qui non c’entra né la tattica né la strategia perché manca una idea, un piano di sviluppo della Nazione, né si può pensare che il Contratto per il governo del cambiamento (sic) della Lega e del Movimento 5 Stelle sia un programma di strategia per la sovranità nazionale e la ri-fondazione di una Europa sovrana: é un programma basato sul potere per il potere. Siamo seri, smettiamola di essere i buffoni della vita.

Eppure basta poco per dare reali segnali di cambiamento sia pure sistemico: per esempio, perché non inserire nel Contratto per il governo del cambiamento della Lega e del Movimento 5 Stelle l’abolizione delle leggi che hanno recepito illegalmente, perché in contrasto con la Costituzione, il patto di bilancio europeo (fiscal compact), il pareggio di bilancio, la riduzione del debito pubblico, basi di politiche economiche e sociali devastanti per lo sviluppo italiano e soprattutto per la maggioranza della popolazione? Ah, dimenticavo: nel 2012 la legge del pareggio di bilancio in Costituzione è stata votata all’unanimità alla Camera e da quasi tutte le forze politiche al Senato (compresi i giochi di astensione)!

Sveliamo la mistificante corrispondenza tra forma e sostanza nel diritto (inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali), l’ipocrisia dei contropoteri come equilibrio per garantire la libertà e la democrazia (sic) nella società cosiddetta capitalistica e lavoriamo a costruire una nuova forza politica, un moderno principe sessuato gramsciano, che ci faccia uscire dalla servitù volontaria e spazzare via questo pattume politico.

Concludo questo breve scritto con una lunga riflessione significativa di Mario Vegetti sul senso della storia << […] Porsi dal punto di vista del presente significa dunque rifiutare sia una storia come archivio del potere, sia una storia come favola del progresso certo e immancabile. Ma significa rifiutare anche un altro e più sottile modo di sclerotizzare la storia, di sottrarla all’esercizio della riflessione critica per riconsegnarla alla tradizione di cui si è detto: mi riferisco al mito della <<obiettività>>. Una storia obbiettiva sarebbe quella in cui lo storico rinuncia a porsi qualsiasi domanda sul senso degli eventi, a proporne qualsiasi valutazione critica: i fatti sono quelli che sono, vanno ricostruiti, insegnati e appresi come tali. Ma questa obbiettività non significa altro che porsi dal punto di vista del passato: subire passivamente il modo con cui il passato ha prodotto la propria storia, l’ha interpreta e ce l’ha tramandata; significa cioè leggere la storia con gli occhi del potere che l’ha voluta e di chi per suo conto l’ha raccontata. Questa obbiettività vuol dire accettare sulla storia dell’Egitto il punto di vista degli scribi del Faraone, o sulla schiavitù il parere dei proprietari degli schiavi. L’unica obbiettività possibile nella storia, che non sia acquiescenza alle memorie del potere, consiste invece nell’interrogarla secondo le domande e i problemi reali del presente. Questo non significa ovviamente rinunciare al rigore necessario per formulare le risposte a quelle domande; esse non possono che venire da uno studio critico dei documenti, delle fonti, delle interpretazioni complessive, in un arco che va dall’archeologia fino ai testi letterari antichi. Scrivere, per il presente, una storia priva di questo rigore equivarrebbe a consegnare a chi deve intraprendere un viaggio una mappa forse più gradevole, ma falsa. Il rigore è necessario, dunque; ma è altrettanto necessario non rinunciare – in nome di una falsa obbiettività – a pensare criticamente, e a far pensare.

Quale storia si può scrivere, dunque, muovendo da questo punto di vista? Una storia che chiarisca, ad esempio, gli effetti della rivoluzione agricola, alla fine del Neolitico, sulla condizione della donna, e che consenta quindi di comprendere le origi lontane di un problema che è nostro. Una storia, ancora, che indaghi la genesi dei sistemi di dominio e di sfruttamento di una classe sull’altra, mostrando l’intreccio che si stabilisce fra le forme del potere, i modi di produzione, il sapere scientifico e tecnologico, le istituzioni culturali, religiose ed educative. Una storia, infine, che si interroghi sulla posizione che nelle formazioni sociali occupano gli <<altri>> – gli schiavi, le donne, i giovani, i popoli marginali -, non per occultare la realtà del dominio e dell’oppressione ma per mostrare chi di questa realtà <<paga le spese>>.

Sono le risposte, queste, che la storia può dare alle Domande di un lettore operaio della famosa poesia di Bertolt Brecht:

<< Tebe dalle sette porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra? Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò? In quali case, di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori? Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori? Roma la grande è iena di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando aiuto ai loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?

Una vittoria in ogni pagina. Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo. Chi ne pagò le spese? Quante vicende tante domande>> (trad. F. Fortini, ed Einaudi) >> (5).

 

 

NOTE

 

  1. Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007, pp. 35, 49, 77.
  2. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo, pag. 907.
  3. Federico Chabod, L’idea di nazione, a cura di, Armando Saitta ed Ernesto Sestan, Editori Laterza, Bari, 1967, pag.82.

4.Louis Althusser, Montesquieu. La politica e la storia, Savelli editore, Roma, 1974, pag 94.

  1. Mario Vegetti, Storia delle società antiche. La parabola dei nuovi imperi: da Alessandro a Roma, Zanichelli, Bologna 1977, pp.XIV-XV.

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE, di Luigi Longo

NEL MONDO SIAMO SEMPRE IN DUE

(a cura di) Luigi Longo

Le donne sono strane creature, anche quelle provviste di molta intelligenza.

 

Karl Marx*

                            Il mio problema è capire come mai la donna non arriva al punto

                            di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo.

                            Siccome sento che le coscienze sono due, non è una, però poi di

                            fatto ce n’è solo una e quell’una va a ruota libera come se l’altra

                            non ci fosse e l’altra si comporta come se non ci fosse davvero.

Carla Lonzi**

                            Ma perché gli uomini che nascono

                            Sono figli delle donne

                            Ma non sono come noi

                            […] gli uomini che cambiano

                            Sono quasi un ideale che non c’è

                                                         Mia Martini***

 

Una piccola premessa

Quando con Giuseppe Germinario parlammo della impostazione del blog Italiaeilmondo e della sua grafica proposi che non si potesse più pensare a un blog senza tenere conto che in tutto il mondo siamo sempre in due (1) e che dovevamo far diventare possibilità ciò che oggi è necessità della relazione con il pensiero femminile, nelle sue diverse articolazioni (2), per capire, interpretare, trasformare e creare un senso della vita.

Posso affermare, in estrema sintesi, che nella tradizione marxiana e marxista non c’è traccia di relazione profonda con il pensiero femminile, e questo è un’assenza che va capita storicamente e va colmata per creare le condizioni per la costruzione, teorica e pratica, di un ordine simbolico sessuato che aprirebbe nuovi orizzonti e nuove visioni del legame sociale della società data. Parafrasando lo storico Carlo Maria Cipolla (che parla di un’epoca di grandi cambiamenti scaturiti dalla rivoluzione industriale) posso dire che qualunque sia il giudizio o la critica assunti, si trova in corrispondenza della creazione del soggetto sessuato della storia un salto che non ha precedenti nella storia: un salto che introduce a un mondo completamente nuovo (3).

Lo spirito di ricerca è quello descritto efficacemente sia da Karl Marx:<< Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti>> (4), sia di Gianfranco La Grassa:<< Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo [ periodo trascorso dalla pubblicazione del primo libro de Il Capitale curato direttamente da K. Marx,

1867-2017, precisazione e corsivo miei] di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare attestati alla fonda dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi del viaggio, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale rotta effettiva si sta seguendo. Si può consultare la bussola quanto si vuole; se gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito (5) […] Ovviamente, non ho visitato tutti i moli, tutti i docks e quant’altro ci sia. Ne ho solo tratteggiato uno schizzo e soprattutto mi sono concentrato sulla “insenatura” in cui è situato, per ben individuare quel rapporto sociale che è il capitale, secondo la nota formula marxiana. Se non si conosce questa insenatura, si salpa sbagliando rotta e ci s’incaglia fin da subito. E’ invece necessario, dopo un secolo e mezzo, prendere il mare; magari credendo di andare verso le Indie. Ci si augura che in seguito qualcun altro, assumendo il comando delle navi, si troverà magari nelle Americhe.>> (6).

 

Perché proporre un saggio di Nancy Fraser

Ho proposto il saggio di Nancy Fraser (7) perché è una buona base di discussione dove viene avanzata una analisi storica sul capitalismo liberale concorrenziale del XIX° secolo, sul capitalismo regolato dallo Stato nel XX° secolo e sul capitalismo finanziarizzato nell’epoca attuale. E’ un saggio che attraverso le lotte di confine tra economia e politica, tra società e natura, tra produzione e riproduzione propone una periodizzazione all’interno delle tre fasi storiche incentrate sulla casalinghizzazione, sul fordismo e salario familiare, sulle famiglie bireddito.

Di Nancy Fraser non condivido la lettura fondamentalmente economicistica nonchè la concezione dello stato, della finanza e del ruolo delle classi lavoratrici; non mi convince il suo saggio soprattutto perché non affronta il problema, fondante e di grande attualità, che invece si poneva Carla Lonzi cioè quello di capire come mai la donna non arriva al punto di soggettività che crei una duplicità di coscienza sul mondo con cui creare un’altra sintesi di ordine simbolico sessuato espressione di due soggettività differenti; per me questo scritto di Nancy Fraser resta una lettura stimolante finalizzata ad iniziare una relazione con il pensiero femminile critico (8).

Inoltre la pubblicazione del saggio di Nancy Fraser è propedeutica ai prossimi miei due scritti che riguarderanno a) Il conflitto strategico e la mossa del cavallo. Appunti di ricerca e b) Il conflitto strategico, una buona base per la costruzione dell’ordine simbolico sessuato. Tempo e spazio della ricerca.

 

 CHI E’NANCY FRASER

 Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista statunitense, è docente di filosofia e politica alla New School for Social Research, a New York, Einstein Fellow della città di Berlino e titolare della cattedra “Giustizia globale” al College d’ètudes mondiales di Parigi.

 EPIGRAFI

 * Karl Marx, Lettera a Engels del 28 gennaio 1863 in Marx-Engels, Carteggio, Volume quarto (1861-1866), Editori Riuniti, Roma, 1972, pag.158.

** Carla Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1980, p.13.

*** Mia Martini, Gli uomini che non cambiano, www.angolotesti.it ,1992.

 NOTE

 

  1. E’ il titolo del libro di Luce Irigaray, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006.
  2. Per una introduzione al pensiero femminista si veda Franco Restaino-Adriana Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999.
  3. Carlo Maria Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, il Mulino, Bologna, 2002, pag.419.
  4. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, pp.7-8.
  5. Gianfranco La Grassa, Il capitale non è cosa ma rapporto sociale, www.conflittiestrategie.it, 5/8/2011.
  6. Gianfranco La Grassa, Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015, pag.79.
  7. Nancy Fraser, Le contraddizioni del capitale e del lavoro di cura in www.ilrasoiodioccammicromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/12/11/contraddizioni-del-capitale-e-del-lavoro-di-cura .
  8. Per un approfondimento delle questioni trattate nel saggio si rimanda a Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre Corte, Verona, 2014; Idem, Oltre l’ambivalenza: la nuova sfida del femminismo in Scienza & Politica n.54/2016, pp.87-102.

 

LE CONTRADDIZIONI DEL CAPITALE E DEL ‘LAVORO DI CURA’

di NANCY FRASER*

Senza tutto quello che va comunemente sotto il nome di ‘lavoro di cura’ – mettere al mondo e crescere bambini, occuparsi di amici e familiari eccetera – non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Ma tutti questi processi di ‘riproduzione sociale’ – storicamente assegnati al lavoro delle donne – vivono oggi una profonda crisi. Una crisi che, secondo Nancy Fraser, autrice insieme ad Axel Honneth di Redistribuzione o riconoscimento?, è espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato, che da un lato dipende da questo lavoro di cura per la produzione economica e dall’altro tende a penalizzare quelle stesse capacità riproduttive di cui ha bisogno.

* * *

La «crisi della cura» è oggi un argomento centrale nel dibattito pubblico[1]. Spesso associata alle idee di «mancanza di tempo», «conciliazione lavoro-famiglia» e «impoverimento sociale», fa riferimento alle pressioni che, da più direzioni, stanno attualmente limitando un insieme fondamentale di capacità sociali: mettere al mondo e crescere bambini, prendersi cura di amici e familiari, sostenere famiglie e più ampie comunità, e più in generale mantenere legami[2]. Storicamente, questi processi di «riproduzione sociale» sono stati assegnati al lavoro delle donne, anche se gli uomini ne hanno sempre svolto una parte. Si tratta di un lavoro sia affettivo che materiale, spesso svolto senza retribuzione, indispensabile alla società. In sua assenza non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica. Nessuna società che indebolisca sistematicamente la riproduzione sociale può resistere a lungo. Oggi, tuttavia, una nuova forma di società capitalistica sta facendo proprio questo. Il risultato è una crisi profonda, non semplicemente della cura, ma della riproduzione sociale in senso lato.

Considero questa crisi come un aspetto di una «crisi generale» che include anche componenti economiche, ecologiche e politiche, le quali si intersecano e aggravano l’un l’altra. La componente relativa alla riproduzione sociale costituisce una dimensione importante di questa crisi generale, ma è spesso trascurata nelle discussioni attuali, che si concentrano soprattutto sui pericoli economici o ecologici. Questo «separatismo critico» è problematico; la componente sociale svolge un ruolo tanto centrale nella crisi più ampia che nessuna delle altre può essere compresa senza tenerne conto. Tuttavia, è vero anche il contrario. La crisi della riproduzione sociale non è indipendente e non può essere adeguatamente compresa da sola. Come intenderla allora? Ritengo che la «crisi della cura» sia meglio interpretata come espressione più o meno acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del capitalismo finanziarizzato. Ciò suggerisce due idee. In primo luogo, le attuali pressioni sulla cura non sono casuali, ma hanno profonde radici sistemiche nella struttura del nostro ordine sociale, che chiamo qui capitalismo finanziarizzato. Nonostante ciò, e questo è il secondo punto, l’attuale crisi della riproduzione sociale indica un che di viziato non solo nell’attuale forma finanziarizzata del capitalismo, ma nella società capitalistica in quanto tale.

La mia tesi è che ogni forma di società capitalistica nutra una profonda «tendenza alla crisi» o contraddizione sociale-riproduttiva: da un lato, la riproduzione sociale è una condizione di possibilità per l’accumulazione continua di capitale; dall’altro, la propensione del capitalismo all’accumulazione illimitata tende a destabilizzare i processi di riproduzione sociale da cui pure dipende. Questa contraddizione sociale-riproduttiva del capitalismo è alla radice della cosiddetta crisi della cura. Benché intrinseca al capitalismo in quanto tale, assume un carattere diverso e distintivo in ogni forma storicamente specifica di società capitalistica – nel capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo; nel capitalismo regolato dallo Stato del dopoguerra; e nel capitalismo neoliberale finanziarizzato del nostro tempo. I deficit di cura che oggi viviamo sono la forma che assume questa contraddizione nella sua terza, più recente fase dello sviluppo capitalistico.

Per sviluppare questa tesi, propongo in primo luogo un quadro della contraddizione sociale del capitalismo in quanto tale, nella sua forma generale. In secondo luogo, tratteggio le linee del suo dispiegamento storico nelle due fasi iniziali dello sviluppo capitalistico. Infine, suggerisco una lettura dei «deficit di cura» odierni come espressioni della contraddizione sociale del capitalismo nella sua fase finanziarizzata attuale.

Trarre vantaggio dal mondo della vita

Gran parte degli analisti della crisi contemporanea si concentrano sulle contraddizioni interne del sistema economico capitalistico. Nel suo cuore, sostengono, opera una tendenza radicata all’autodestabilizzazione, che si esprime periodicamente nelle crisi economiche. Fino a un certo punto, questa interpretazione è corretta; ma non prevede un quadro completo delle tendenze alla crisi intrinseche al capitalismo. Adottando una prospettiva economicistica, intende il capitalismo in modo troppo restrittivo, come un sistema economico simpliciter. Al contrario, intendo assumere una lettura più ampia del capitalismo, comprensiva sia dell’economia ufficiale sia delle sue condizioni «non-economiche» di sfondo. Una simile prospettiva ci consente di concettualizzare, e criticare, lo spettro complessivo delle tendenze alla crisi del capitalismo, incluse quelle riguardanti la riproduzione sociale.

Sostengo che il sottosistema economico capitalistico dipenda da attività sociali riproduttive esterne ad esso, le quali costituiscono una delle sue condizioni di possibilità fondamentali. Altre condizioni di sfondo comprendono le funzioni di governance dei pubblici poteri e la disponibilità della natura come fonte di «input produttivi» e come «canale di scarico» per gli scarti della produzione[3]. Qui, tuttavia, mi concentrerò sul modo in cui l’economia capitalistica dipende da – ma si potrebbe dire, approfitta di – attività di sostentamento, cura e interazione che producono e mantengono i legami sociali, benché non accordi loro alcun valore monetario e li tratti come se fossero gratuiti. Variamente denominata «cura», «lavoro affettivo» o «soggettivazione», quest’attività forma i soggetti umani del capitalismo, li sostiene come esseri naturali incarnati e li costituisce come esseri sociali, formando il loro habitus e l’ethos culturale in cui si muovono. Il lavoro di mettere al mondo e di socializzare i giovani svolge un ruolo centrale in questo processo, almeno quanto prendersi cura degli anziani, mantenere la sfera familiare, costruire la comunità e sostenere significati comuni, disposizioni affettive e orizzonti di valore che sono alla base della cooperazione sociale. Nelle società capitalistiche, gran parte di queste attività, benché non tutte, si svolge al di fuori del mercato – nelle case, nei quartieri, nelle associazioni della società civile, nelle reti informali e nelle istituzioni pubbliche come la scuola, e relativamente poche fra di esse prendono la forma del lavoro salariato. L’attività sociale-riproduttiva non pagata è necessaria all’esistenza del lavoro pagato, all’accumulazione di plusvalore e al funzionamento del capitalismo in quanto tale. Nulla di tutto questo potrebbe esistere in assenza del lavoro domestico, dell’educazione dei bambini, dell’istruzione scolastica, della cura affettiva e di una quantità di altre attività che servono a produrre nuove generazioni di lavoratori e a riprodurre le esistenti, nonché a mantenere legami sociali e visioni comuni. La riproduzione sociale è una condizione di sfondo indispensabile per la possibilità della produzione economica nella società capitalistica[4].

Tuttavia, almeno a partire dall’epoca industriale, le società capitalistiche hanno separato il lavoro di riproduzione sociale dal lavoro di produzione economica. Associando il primo alle donne e il secondo agli uomini, hanno ripagato le attività «riproduttive» con la moneta dell’«amore» e della «virtù», continuando a compensare il «lavoro produttivo» in denaro. In questo modo, le società capitalistiche hanno posto i fondamenti istituzionali per nuove, moderne forme di subordinazione delle donne. Separando il lavoro riproduttivo dal più vasto universo delle attività umane, in cui il lavoro delle donne occupava in precedenza un posto riconosciuto, lo hanno relegato in una «sfera domestica» di nuova istituzione, la cui importanza sociale è stata occultata. E in questo nuovo mondo, in cui il denaro è diventato il principale mezzo di potere, il carattere non remunerato del lavoro delle donne ne ha segnato il destino: chi svolge questo lavoro è in una posizione di subordinazione strutturale a chi guadagna salari in denaro, anche se soddisfa una precondizione necessaria per il lavoro salariato stesso – e viene saturato e mistificato con i nuovi ideali domestici di femminilità.

In generale, quindi, le società capitalistiche separano la riproduzione sociale dalla produzione economica, associando la prima alle donne e oscurando la sua importanza e il suo valore. Paradossalmente, tuttavia, esse rendono le loro economie ufficiali dipendenti proprio dagli stessi processi di riproduzione sociale il cui valore disconoscono. Questa peculiare relazione di separazione-dipendenza-disconoscimento è intrinseca fonte di instabilità: da un lato, la produzione economica capitalistica non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta all’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare gli stessi processi e le capacità riproduttive di cui il capitale – e tutti noi – abbiamo bisogno. Nel tempo, come vedremo, ciò può compromettere le condizioni sociali indispensabili all’economia capitalistica. Qui, in effetti, risiede una «contraddizione sociale» intrinseca alla struttura profonda del capitalismo. Come le contraddizioni economiche evidenziate dai marxisti, anche questa è alla base di una tendenza alla crisi. In questo caso, però, la contraddizione non si colloca «all’interno» dell’economia capitalistica, bensì sul confine che separa e al contempo unisce produzione e riproduzione. Né intra-economica né intra-domestica, si tratta di una contraddizione fra questi due elementi costitutivi della società capitalistica. Spesso, beninteso, questa contraddizione è sopita, e la connessa tendenza alla crisi rimane nascosta. Si fa acuta, tuttavia, quando la spinta del capitale all’accumulazione si rende avulsa dalle sue basi sociali, rivoltandosi contro di esse. In questo caso, la logica della produzione economica prevale su quella della riproduzione sociale, destabilizzando i processi da cui dipende il capitale – a risultarne compromesse sono allora le capacità sociali, sia domestiche che pubbliche, indispensabili per sostenere l’accumulazione nel lungo periodo. Distruggendo le condizioni della sua stessa esistenza, la dinamica accumulativa del capitale finisce di fatto per mangiarsi la coda.

Realizzazioni storiche

Questa è la struttura della generale tendenza alla crisi sociale del «capitalismo in quanto tale». Tuttavia, la società capitalistica esiste solo in forme o regimi di accumulazione storicamente specifici. Infatti, l’organizzazione capitalistica della riproduzione sociale ha subìto importanti mutazioni storiche, spesso come esito di contestazioni politiche – in particolare nei periodi di crisi, quando gli attori sociali lottano sui confini che delimitano l’«economia» dalla «società», la «produzione» dalla «riproduzione», il «lavoro» dalla «famiglia», talvolta riuscendo a ridisegnarli. Queste «lotte di confine», come le ho definite, sono tanto essenziali alle società capitalistiche quanto lo sono le lotte di classe analizzate da Marx, e i cambiamenti che producono segnano trasformazioni epocali[5]. Una prospettiva che ponga in primo piano questi cambiamenti può distinguere almeno tre regimi di articolazione della coppia «riproduzione sociale-produzione economica» nella storia del capitalismo.

  • Il primo è il regime del capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. Combinando sfruttamento industriale nel centro europeo ed espropriazione coloniale nella periferia, questo regime si è caratterizzato per la tendenza a lasciare i lavoratori riprodursi «autonomamente», al di fuori dei circuiti di valore monetizzato, mentre gli Stati si tenevano in disparte. Tuttavia, esso ha anche creato un nuovo immaginario borghese di vita domestica. Facendo della riproduzione sociale la provincia delle donne nella famiglia privata, questo regime ha elaborato l’ideale delle «sfere separate», proprio mentre ha privato gran parte delle persone delle condizioni necessarie alla sua realizzazione.
  • Il secondo regime è quello del capitalismo regolato dallo Stato del XX secolo. Basato su produzione industriale di massa e consumismo domestico al centro, e sostenuto dalla continua espropriazione coloniale e postcoloniale alla periferia, questo regime ha internalizzato la riproduzione sociale attraverso lo Stato e le prestazioni sociali aziendali. Modificando il modello vittoriano delle sfere separate, ha promosso l’ideale apparentemente più moderno del «salario familiare», anche se, ancora una volta, relativamente poche famiglie erano nelle condizioni di raggiungerlo.
  • Il terzo regime è il capitalismo finanziarizzato globale dell’epoca attuale. Questo regime ha delocalizzato la produzione manufatturiera in regioni a bassi costi salariali, ha reclutato le donne nelle forza lavoro pagata e incoraggiato il disinvestimento statale e aziendale dalla protezione sociale. Esternalizzando il lavoro di cura su famiglie e comunità, ha contemporaneamente diminuito la loro capacità di sostenerlo. In un contesto di crescente diseguaglianza, il risultato è un’organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, ricondotta al privato familiare per quelli che non possono – il tutto contornato dall’ideale ancora più moderno della «famiglia bireddito».

In ogni regime, dunque, le condizioni sociali-riproduttive per la produzione capitalistica hanno assunto una forma istituzionale e incarnato un ordine normativo differenti: prima le «sfere separate», poi «il salario familiare», ora la «famiglia bireddito». In ciascun caso, inoltre, la contraddizione sociale della società capitalistica ha assunto un profilo diverso, trovando espressione in un insieme eterogeneo di fenomeni di crisi. In ogni regime, infine, la contraddizione sociale del capitalismo ha provocato diverse forme di lotta sociale – lotte di classe, senz’altro, ma anche lotte di confine – le quali si sono intrecciate anche con altre lotte, per l’emancipazione di donne, schiavi e popoli colonizzati.

“Casalinghizzazione”

Consideriamo anzitutto il capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo. In quest’epoca, gli imperativi di produzione e riproduzione sembravano stare in aperta contraddizione l’uno con l’altro. Nei primi centri manufatturieri del nucleo capitalista, gli industriali costrinsero donne e bambini nelle fabbriche e nelle miniere, avidi di lavoro a basso costo e data la loro reputazione di docilità. Pagate una miseria e costrette a lavorare per molte ore in condizioni malsane, queste lavoratrici diventarono il simbolo del disprezzo del sistema capitalistico per le relazioni e le capacità sociali alla base della sua produttività[6]. Ne seguì una crisi su almeno due livelli: da un lato, una crisi della riproduzione sociale fra poveri e classi lavoratrici, le cui capacità di sostentamento e riproduzione giunsero al collasso; dall’altro, un senso di panico morale fra le classi medie, scandalizzate da quella che ai loro occhi era la «distruzione della famiglia» e la «de-sessuazione» delle donne della classe operaia. La situazione era grave al punto che anche critici tanto acuti come Marx ed Engels fraintesero questi primi conflitti frontali fra produzione economica e riproduzione sociale: credendo che il capitalismo fosse entrato nella sua crisi terminale, essi pensavano che, nel distruggere la famiglia proletaria, il sistema stesse anche sradicando le basi dell’oppressione delle donne[7]. Ma quel che stava accadendo era in realtà proprio il contrario: nel corso del tempo, le società capitalistiche trovavano risorse per gestire questa contraddizione – in parte creando «la famiglia» nella sua ristretta forma moderna, reinventando e intensificando le differenze di genere, e modernizzando il dominio maschile.

In Europa, il processo ebbe inizio con l’adozione di una legislazione protettiva. L’idea era di stabilizzare la riproduzione sociale limitando lo sfruttamento di donne e bambini nel lavoro di fabbrica[8]. Guidata dai riformisti della classe media in alleanza con le nascenti organizzazioni dei lavoratori, questa «soluzione» rifletteva un amalgama complesso di motivazioni eterogenee. Un obiettivo, descritto com’è noto da Karl Polanyi, consisteva nel difendere la «società» dall’«economia»[9]. Un altro obiettivo consisteva nel placare l’ansia per il «livellamento di genere». Ma queste ragioni si legavano anche a qualcos’altro: l’importanza assegnata all’autorità maschile su donne e bambini, in particolare all’interno della famiglia[10]. Di conseguenza, la lotta per garantire l’integrità della riproduzione sociale finì per intrecciarsi con la difesa del dominio maschile.

L’effetto voluto, tuttavia, era di mettere a tacere la contraddizione sociale nel centro capitalistico – proprio mentre la schiavitù e il colonialismo nella periferia la portavano all’estremo. Creando quella che Maria Mies ha chamato «casalinghizzazione» (housewifization), intesa come l’altra faccia della colonizzazione[11], il capitalismo liberale concorrenziale diede forma a un nuovo immaginario di genere incentrato sulle sfere separate. Rappresentando la donna come «l’angelo del focolare», i suoi sostenitori erano alla ricerca di un’àncora di stabilità che controbilanciasse la volatilità dell’economia. Lo spietato mondo della produzione andava affiancato da un «paradiso in un mondo senza cuore»[12]. Finché ogni lato si atteneva alla sua designata sfera, fungendo da complemento dell’altro, il loro potenziale conflitto sarebbe rimasto nascosto.

In realtà, questa «soluzione» si rivelò piuttosto precaria. La legislazione protettiva non poteva assicurare la riproduzione del lavoro se i salari rimanevano al di sotto del livello necessario a sostenere una famiglia, se le abitazioni affollate e immerse nell’inquinamento impedivano la vita privata e causavano malattie polmonari, se l’occupazione stessa (quando disponibile) era soggetta a fluttuazioni selvagge dovute a bancarotte, crolli di mercato e panico finanziario. Neanche i lavoratori erano soddisfatti di questo compromesso. Mobilitandosi per salari più alti e migliori condizioni di lavoro, formarono sindacati, organizzarono scioperi e aderirono a partiti socialisti e laburisti. Lacerato da un conflitto di classe sempre più acuto ed esteso, il futuro del capitalismo sembrava tutto fuorché garantito.

Le sfere separate si rivelarono anch’esse problematiche. Le donne povere e razzializzate della classe operaia non erano certo nella posizione per soddisfare gli ideali vittoriani di vita domestica; se la legislazione protettiva mitigava il loro sfruttamento diretto, non offriva loro alcun supporto materiale o compensazione per la perdita del salario. Neanche le donne della middle-class, che avevano i mezzi per conformarsi agli ideali vittoriani, erano soddisfatte della loro situazione, che combinava comodità materiale e prestigio morale con lo stato di minorità legale e dipendenza istituzionalizzata. Per entrambi i gruppi, la «soluzione» delle sfere separate si realizzava in gran parte a spese delle donne. Ma finì anche per metterle le une contro le altre – come testimoniano le lotte del XIX secolo sulla prostituzione, in cui le preoccupazioni filantropiche delle donne della middle-class vittoriana confliggevano con gli interessi materiali delle loro «sorelle perdute»[13].

Una dinamica diversa aveva luogo alla periferia. Lì, poiché il colonialismo estrattivo saccheggiava popolazioni soggiogate, né le sfere separate né la protezione sociale godevano di alcun credito. Lungi dal tentare di proteggere le relazioni locali di riproduzione sociale, i poteri delle metropoli incoraggiavano attivamente la loro distruzione. Le popolazioni rurali furono depredate e le loro comunità distrutte per fornire cibo a basso costo, tessuti, minerali ed energia, senza i quali lo sfruttamento dei lavoratori industriali delle metropoli non sarebbe stato redditizio. Nelle Americhe, intanto, le capacità riproduttive delle donne ridotte in schiavitù furono asservite ai calcoli di profitto dei piantatori, che regolarmente distruggevano le famiglie di schiavi vendendone i membri a più proprietari[14]. Anche i bambini nativi furono strappati dalle comunità, reclutati in scuole missionarie e sottomessi a discipline coercitive di assimilazione[15]. Quando si rendevano necessarie delle giustificazioni, lo stato «retrogrado, patriarcale» delle collettività parentali indigene pre-capitalistiche serviva alquanto bene allo scopo. Anche qui, fra i colonialisti, le donne filantrope fecero sentire pubblicamente la loro voce, esortando «gli uomini bianchi a salvare le donne scure dagli uomini scuri»[16].

Tanto al centro quanto alla periferia, i movimenti femministi si trovarono a negoziare un campo politico minato. Nel rifiutare la tutela maritale e le sfere separate e nel rivendicare il diritto di voto, il rifiuto del sesso, l’ accesso alla proprietà, il diritto a stipulare contratti, a svolgere professioni ed esercitare un controllo sui propri salari, le femministe liberali sembravano dare più valore all’aspirazione «maschile» all’autonomia che agli ideali «femminili» di cura. E su questo punto, come su poco altro, le loro controparti socialiste-femministe in effetti concordavano. Considerando l’ingresso delle donne nel lavoro salariato come la strada verso l’emancipazione, anche queste ultime preferivano i valori «maschili» della produzione a quelli legati alla riproduzione. Queste associazioni erano senz’altro ideologiche, ma celavano un’intuizione profonda: nonostante le nuove forme di dominio che portava con sé, l’erosione delle relazioni di parentela tradizionali da parte del capitalismo conteneva un momento di emancipazione.

Intrappolate in questa contraddizione, molte femministe trovarono scarsa consolazione su entrambi i lati del doppio movimento di Polanyi: quello della protezione sociale, con il suo corollario di dominio maschile, e quello della logica di mercato, con il suo disprezzo per la riproduzione sociale. Incapaci tanto semplicemente di rifiutare quanto di accettare l’ordine liberale, avevano bisogno di una terza alternativa, che chiamarono emancipazione. Nella misura in cui le femministe furono capaci di impersonare quel termine, fecero effettivamente saltare la figura dualistica polanyiana, sostituendola con quello che potremmo chiamare un «triplo movimento». In questo conflitto su tre fronti, le sostenitrici della protezione e della mercatizzazione si scontravano non solo fra di loro, ma anche con chi difendeva l’emancipazione: con le femministe, certo, ma anche con socialisti, abolizionisti e anticolonialisti, i quali si sforzavano di mettere le due forze polanyiane l’una contro l’altra, proprio mentre si scontravano fra di loro. Per quanto in teoria promettente, una simile strategia era difficile da realizzare. Finché gli sforzi di «proteggere la società dall’economia» si confondevano con la difesa della gerarchia di genere, l’opposizione femminista al dominio maschile poteva facilmente essere accusata di avallare le forze economiche che stavano distruggendo la classe operaia e le comunità della periferia. Queste associazioni si sarebbero rivelate sorprendentemente durevoli, molto tempo dopo il collasso del capitalismo liberale concorrenziale sotto il peso delle sue molteplici contraddizioni, nell’agonia di guerre inter-imperialistiche, depressioni economiche e caos finanziario internazionale – aprendo la strada a un nuovo regime nella metà del XX secolo, quello del capitalismo regolato dallo Stato.

Fordismo e salario familiare

Emergendo dalle ceneri della Grande Depressione e della seconda guerra mondiale, il capitalismo regolato dallo Stato disinnescava la contraddizione fra produzione economica e riproduzione sociale in un altro modo – affidandosi al potere dello Stato sul lato della riproduzione. Assumendosi qualche responsabilità pubblica per la «previdenza sociale», gli Stati di quest’epoca cercarono di contrastare gli effetti corrosivi sulla riproduzione sociale non solo dello sfruttamento, ma anche della disoccupazione di massa. Tale obiettivo fu perseguito dagli Stati socialdemocratici del centro capitalistico e dagli Stati in via di sviluppo della periferia da poco indipendenti – nonostante le diseguali capacità di realizzarlo.

Le ragioni erano, ancora una volta, eterogenee. Un gruppo di élite illuminate era giunto a credere che l’interesse a breve termine del capitale nello spremere massimi profitti andasse subordinato all’esigenza più a lungo termine di sostenere l’accumulazione nel corso del tempo. L’istituzione del regime regolato dallo Stato rispondeva all’esigenza di salvare il sistema capitalistico dalle sue stesse propensioni a destabilizzarsi – nonché dallo spettro della rivoluzione in un’epoca di mobilitazioni di massa. La produttività e la ricerca del profitto richiedevano la coltivazione «biopolitica» di una forza lavoro in salute e istruita dotata di un interesse nel sistema, in opposizione alla cenciosa folla rivoluzionaria[17]. L’investimento pubblico in sanità, istruzione, servizi per l’infanzia e pensioni, con la partecipazione finanziaria delle imprese, era percepito come una necessità in un’epoca in cui i rapporti capitalistici avevano penetrato la vita sociale al punto che le classi lavoratrici non avevano più i mezzi per riprodurre se stesse in modo autosufficiente. In una tale situazione, la riproduzione sociale andava internalizzata, portata sotto il dominio ufficiale dell’ordine capitalista.

Il progetto rispondeva anche alla nuova problematica della «domanda» economica. Mirando ad appianare i cicli endemici di espansione e contrazione del capitalismo, i riformatori economici cercarono di assicurare la crescita continua consentendo ai lavoratori nel centro capitalista di assolvere a un doppio dovere di produttori e consumatori. Accettando la sindacalizzazione, che portava salari più alti, e la spesa pubblica, che creava occupazione, i decisori politici reinventarono ora la casa come uno spazio privato per il consumo domestico di oggetti di uso quotidiano prodotti in serie[18]. Legando la catena di montaggio al consumismo familiare della classe operaia da un lato, e alla riproduzione sostenuta dallo Stato dall’altro, tale modello fordista diede forma a una nuova sintesi di mercatizzazione e protezione sociale – progetti che Polanyi aveva considerato antitetici.

Ma furono soprattutto le classi lavoratrici – sia donne che uomini – a guidare la lotta per i servizi pubblici, agendo per proprie ragioni. In questione per loro era la piena appartenenza alla società come cittadini e cittadine democratici – quindi dignità, diritti, rispettabilità e benessere materiale, tutti elementi che erano intesi richiedere una vita familiare stabile. Appoggiando la socialdemocrazia, allora, le classi lavoratrici stavano anche valorizzando la riproduzione sociale contro il dinamismo divorante della produzione economica. In effetti, i lavoratori votavano per famiglia, territorio e mondo-della-vita contro fabbrica, sistema e macchine. Diversamente dalla legislazione protettiva del regime liberale, la politica del capitalismo regolato dallo Stato era il frutto di un compromesso di classe e rappresentava un progresso democratico. Diversamente dal regime precedente, inoltre, questi nuovi compromessi servirono, almeno per alcuni e per un po’ di tempo, a stabilizzare la riproduzione sociale. Per i lavoratori delle nazionalità maggioritarie dei paesi nel centro capitalista, esse alleviarono le pressioni materiali sulla vita familiare e favorirono l’integrazione politica.

Ma prima di affrettarci a proclamare un’età dell’oro, dovremmo tenere conto delle esclusioni costitutive che resero possibili questi risultati. Come in precedenza, la difesa della riproduzione sociale al centro si intrecciava con il (neo)imperialismo; i regimi fordisti finanziavano i diritti sociali in parte attraverso la continuazione dell’espropriazione della periferia – inclusa la «periferia nel centro» – che persisteva in vecchie e nuove forme dopo la decolonizzazione[19]. Nel frattempo, gli Stati postcoloniali stretti nella morsa della Guerra fredda diressero gran parte delle loro risorse, già impoverite dalla predazione imperiale, verso progetti di sviluppo su larga scala, che spesso comportavano l’espropriazione dei «propri» popoli indigeni. Per la grande maggioranza nella periferia la riproduzione sociale rimaneva esterna, dal momento che le popolazioni rurali furono abbandonate a loro stesse. Come il regime che lo aveva preceduto, anche il regime regolato dallo Stato si intrecciava con le gerarchie razziali: le assicurazioni sociali statunitensi escludevano lavoratori domestici e agricoli, di fatto tagliando fuori molti afroamericani dalle prestazioni sociali[20]. E la divisione razziale del lavoro riproduttivo, cominciata durante la schiavitù, assunse una nuova forma sotto Jim Crow, considerato che le donne di colore trovavano lavoro mal pagato crescendo i bambini e facendo le pulizie nelle case delle famiglie «bianche», a scapito delle loro[21].

Neanche la gerarchia di genere mancava in questo compromesso. In un periodo – approssimativamente dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Cinquanta – in cui i movimenti femministi non godevano di molta visibilità pubblica, difficilmente qualcuno contestava l’idea che la dignità proletaria richiedesse «il salario familiare», un’autorità maschile in casa e un forte senso della differenza di genere. Di conseguenza, la tendenza generale del capitalismo regolato dallo Stato nei paesi del centro era di valorizzare il modello eteronormativo, maschio-capofamiglia e donna-casalinga, della famiglia basata sul genere. L’investimento pubblico nella riproduzione sociale rafforzava queste norme. Negli Stati Uniti, il sistema previdenziale assumeva una forma duale, divisa in assistenza per donne povere («bianche») e bambini senza accesso a un salario maschile, da un lato, e un’assicurazione sociale considerata rispettabile per quelli che venivano costruiti come «lavoratori», dall’altro[22]. Invece, i provvedimenti europei rafforzavano la gerarchia androcentrica in modo diverso, nell’opposizione fra sussidi destinati alle madri e diritti legati al lavoro salariato – promossa in molti casi attraverso programmi a favore delle nascite nati dalla concorrenza fra Stati[23]. Entrambi i modelli legittimavano, assumevano e incoraggiavano il salario familiare. Istituzionalizzando una visione androcentrica della famiglia e del lavoro, essi naturalizzavano l’eteronormatività e la gerarchia di genere, sottraendoli ampiamente alla contestazione politica.

Sotto tutti questi aspetti, la socialdemocrazia sacrificava l’emancipazione in nome di un’alleanza fra protezione sociale e mercatizzazione, nonostante per molti decenni avesse mitigato la contraddizione sociale del capitalismo. Tuttavia, il regime di Stato capitalistico cominciava a disfarsi; prima politicamente, negli anni Sessanta, quando la New Left globale fece irruzione denunciando, in nome dell’emancipazione, le sue esclusioni imperialistiche, di genere e razziali, nonché il suo paternalismo burocratico; e poi economicamente, negli anni Settanta, quando la stagflazione, la «crisi di produttività», e il calo dei tassi di crescita nella produzione manufatturiera rinvigorirono gli sforzi neoliberali di dare il via libera alla mercatizzazione. Ad essere sacrificata nell’unione delle forze di queste due fazioni, sarebbe stata la protezione sociale.

Famiglie bireddito

Come il precedente regime liberale, l’ordine del capitalismo regolato dallo Stato si è dissolto nel corso di una lunga crisi. A partire dagli anni Ottanta, alcuni osservatori potevano distinguere precocemente i primi tratti di un nuovo regime, che sarebbe diventato il capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Questo regime, globalizzato e neoliberale, promuove il disinvestimento pubblico e privato dalla protezione sociale mentre recluta le donne nella forza lavoro pagata – esternalizzando il lavoro di cura verso le famiglie e le comunità nell’atto stesso di indebolire la loro capacità di realizzarlo. Il risultato è una nuova organizzazione duale della riproduzione sociale, mercificata per quelli che possono pagare per averla, e ricondotta al privato familiare per quelli che non possono, considerato che alcuni membri della seconda categoria offrono lavoro di cura ad alcuni membri della prima, in cambio di (bassi) salari. Nel frattempo, l’azione congiunta della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente spogliato «il salario familiare» di ogni credibilità. Quell’ideale ha aperto la strada alla norma contemporanea della «famiglia bireddito».

Il principale motore di questi sviluppi, nonché tratto distintivo del regime, è la nuova centralità del debito. Il debito è lo strumento attraverso cui le istituzioni globali finanziarie premono sugli Stati per tagliare la spesa sociale, imporre l’austerità, e in generale colludere con gli investitori nell’estrazione di valore da popolazioni inermi. Di più, è soprattutto attraverso il debito che i contadini nel Sud Globale sono spossessati da un nuovo giro di appropriazioni private del suolo, finalizzato a monopolizzare l’offerta di energia, acqua, terra coltivabile e delle «compensazioni per l’emissione di anidride carbonica». È sempre più attraverso il debito che procede anche l’accumulazione nel nucleo storico del capitalismo: dal momento che il lavoro precario e malpagato nei servizi sostituisce il lavoro sindacalizzato industriale, i salari cadono al di sotto dei costi socialmente necessari di riproduzione; in questa «economia dei lavoretti» («gig economy»), la spesa costante per i consumi richiede un’espansione del volume dei crediti al consumatore, che cresce in modo esponenziale[24]. È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, disciplina gli Stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore da case, famiglie, comunità e natura.

L’effetto è quello di intensificare la contraddizione insita nel capitalismo fra produzione economica e riproduzione sociale. Mentre il regime precedente consentiva agli Stati di subordinare gli interessi a breve termine delle aziende private all’obiettivo a lungo termine dell’accumulazione, in parte stabilizzando la riproduzione con le prestazioni pubbliche, questo regime autorizza il capitale finanziario a subordinare Stati e istituzioni agli interessi immediati degli investitori privati, non ultimo chiedendo il disinvestimento pubblico dalla riproduzione sociale. Se il regime precedente alleava la mercatizzazione con la protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera una configurazione anche più perversa, in cui l’emancipazione si unisce alla mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.

Il nuovo regime è emerso dalla fatale intersezione fra due insiemi di lotte. Un insieme opponeva una fazione ascendente di sostenitori del libero mercato, decisi a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro i movimenti dei lavoratori in declino nei paesi del centro; se in passato erano la base più forte di supporto alla socialdemocrazia, sono adesso sulla difensiva, se non del tutto sconfitti. L’altro insieme di lotte opponeva i «nuovi movimenti sociali» progressisti, che contestavano le gerarchie di genere, sesso, «razza», etnia e religione, contro popolazioni intenzionate a difendere mondi-della-vita  stabiliti e privilegi, ora minacciati dal «cosmopolitismo» della new economy. Dalla collisione di questi due insiemi di lotte è emerso un risultato inatteso: un neoliberalismo «progressista», che celebra la «diversità», la meritocrazia e l’«emancipazione» mentre smantella le protezioni sociali e ri-esternalizza la riproduzione sociale. La conseguenza non è solo l’abbandono delle popolazioni inermi alle predazioni del capitale, ma anche  la ridefinizione dell’emancipazione in termini di mercato[25]. Alcuni movimenti per l’emancipazione hanno partecipato a questo processo. Tutti – compresi i movimenti antirazzisti, multiculturalisti, per la liberazione LGBT e per l’ecologia – hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato. Ma la traiettoria femminista si è rivelata particolarmente fatale, dato il legame capitalistico di lunga data fra genere e riproduzione sociale. Come i regimi precedenti, il capitalismo finanziarizzato istituzionalizza la divisione produzione-riproduzione su una base di genere. Diversamente dai regimi precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberale-individualista ed egualitarista rispetto al genere: le donne sono considerate uguali agli uomini in ogni sfera, meritevoli di uguali opportunità per realizzare i loro talenti, compreso – forse in modo particolare – nella sfera della produzione. La riproduzione, per contro, appare come un residuo arretrato, un ostacolo al progresso da eliminare, in un modo o nell’altro, nella strada verso la liberazione.

A dispetto o forse a causa della sua aura femminista, questa concezione incarna l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume una nuova intensità. Oltre a ridurre le prestazioni pubbliche e ad assumere donne nel lavoro salariato, il capitalismo finanziarizzato ha abbassato i salari reali, così portando i membri dei nuclei familiari ad aumentare il numero di ore di lavoro pagato necessario a sostenere una famiglia, e spingendo a una corsa disperata per trasferire ad altri il lavoro di cura[26]. Per colmare il «divario della cura» (care gap), il regime importa lavoratrici migranti dalle nazioni più povere a quelle più ricche. Tipicamente, si tratta di donne razzializzate, spesso donne rurali provenienti da regioni povere che si fanno carico del lavoro riproduttivo e di cura che prima era svolto da donne più privilegiate. Ma per poterlo fare, le migranti devono trasferire le proprie responsabilità familiari e comunitarie ad altre lavoratrici della cura ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso – e così via, in sempre più lunghe «catene globali della cura». Lungi dal colmare il divario della cura, l’effetto netto è di delocalizzarlo – dalle famiglie più ricche alle più povere, dal Nord globale al Sud globale[27]. Questo scenario incontra le strategie di genere degli Stati postcoloniali a corto di denaro e indebitati, soggetti ai programmi di regolazione strutturale dell’FMI. Alla disperata ricerca di valuta forte, alcuni fra loro hanno promosso attivamente l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero lavoro di cura pagato e così beneficiare delle rimesse, mentre altri hanno corteggiato l’investimento estero diretto creando zone di trasformazione per l’esportazione, spesso nelle industrie, per esempio tessili o di elettronica, che preferiscono impiegare lavoratrici donne[28]. In entrambi i casi, le capacità sociali-riproduttive sono ulteriormente colpite.

Due recenti sviluppi negli Stati Uniti offrono un esempio della gravità della situazione. Il primo è la crescente popolarità del «congelamento degli ovuli», una procedura che normalmente costa 10 mila dollari, ma adesso offerta gratuitamente dalle aziende IT come beneficio aggiuntivo alle impiegate più qualificate. Impazienti di attirare e trattenere queste lavoratrici, aziende come Apple e Facebook offrono loro un forte incentivo a rimandare la gravidanza, dicendo, di fatto: «Aspetta e abbi i tuoi bambini a quaranta, cinquanta, o anche sessant’anni; dedica a noi i tuoi anni più produttivi, quelli in cui hai più energia»[29].

Un secondo sviluppo negli Stati Uniti è ugualmente sintomatico della contraddizione fra riproduzione e produzione: la proliferazione di tiralatte meccanici molto costosi ad alta tecnologia, per la raccolta del latte materno. Questa è la «soluzione» a cui ricorrere in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, privo di congedo obbligatorio di maternità o parentale, e una relazione d’amore con la tecnologia. Questo è un paese, inoltre, in cui l’allattamento al seno è de rigueur, ma è cambiato radicalmente, più di quanto venga riconosciuto. Non si tratta più di allattare un bambino al seno, ora «si allatta» raccogliendo il proprio latte meccanicamente e depositandolo per l’alimentazione con il biberon in un secondo momento da parte della tata. In un contesto caratterizzato da cronica mancanza di tempo, i tiralatte a doppia coppa che non richiedono l’uso delle mani sono considerati preferibili, perché permettono di raccogliere il latte contemporaneamente da entrambi i seni durante la guida in autostrada per andare al lavoro[30].

Date simili pressioni, c’è forse da stupirsi se negli ultimi anni sono esplose le lotte sulla riproduzione sociale? Le femministe del Nord spesso descrivono il fulcro delle loro rivendicazioni in termini di «conciliazione lavoro-famiglia»[31]. Ma le lotte sulla riproduzione sociale includono molto di più: movimenti comunitari per la casa, le cure sanitarie, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; lotte per i diritti di migranti, lavoratrici domestiche e impiegati pubblici; campagne per sindacalizzare le lavoratrici del settore dei servizi in case di cura, ospedali e centri per l’infanzia privati; lotte per i servizi pubblici come asili e centri per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta, per un generoso congedo di maternità e parentale pagato. Considerate insieme, queste rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una massiccia riorganizzazione del rapporto fra produzione e riproduzione: per delle soluzioni sociali che possano mettere persone di ogni classe, genere, sessualità e colore, nelle condizioni di coniugare attività sociali-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.

Le lotte sui confini della riproduzione sociale sono tanto centrali nell’attuale congiuntura quanto lo sono le lotte di classe per la produzione economica. Esse rispondono prima di tutto a una «crisi della cura» radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziarizzato. Globalizzato e alimentato dal debito, questo capitalismo sta espropriando sistematicamente le capacità disponibili per sostenere i legami sociali. Annunciando il nuovo ideale della famiglia bireddito, esso attira a sé movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai sostenitori della mercatizzazione per opporsi ai partigiani della protezione sociale, ora diventati sempre più risentiti e sciovinisti.

Un’altra mutazione?

Cosa potrebbe emergere da questa crisi? Nel corso della sua storia, la società capitalistica ha reinventato se stessa molte volte. Specie nei momenti di crisi generale, quando molteplici contraddizioni – politica, economica, ecologica e sociale-riproduttiva – si intrecciano e inaspriscono l’un l’altra, le lotte di confine sono esplose nelle giunture delle divisioni istituzionali costitutive del capitalismo: dove l’economia incontra la politica, dove la società incontra la natura, e dove la produzione incontra la riproduzione. Gli attori sociali si sono mobilitati su questi confini per ridisegnare la mappa istituzionale della società capitalistica. I loro sforzi hanno alimentato il passaggio prima dal capitalismo liberale concorrenziale del XIX secolo al capitalismo regolato dallo Stato del XX, e in seguito al capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. Inoltre, la contraddizione sociale del capitalismo costituisce storicamente una componente essenziale nelle dinamiche che conducono alla crisi, dato che il confine che divide la riproduzione sociale dalla produzione economica si è rivelato come la sede e la posta in gioco fondamentale della lotta. Ogni volta, l’ordine di genere della società capitalistica è stato contestato, e l’esito è dipeso dalle alleanze formatesi fra i poli principali di un triplo movimento: mercatizzazione, protezione sociale, emancipazione. Queste dinamiche sono il motore della transizione, prima dalle sfere separate al salario familiare, poi alla famiglia bireddito.

Cosa aspettarsi dalla congiuntura attuale? Le contraddizioni odierne del capitalismo finanziarizzato sono tanto gravi da configurarsi come una crisi generale, e dovremmo aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica? L’attuale crisi alimenterà le lotte, con ampiezza e prospettiva tali da trasformare l’attuale regime? Una nuova forma di femminismo socialista potrebbe riuscire a rompere la storia d’amore fra mercatizzazione e movimento mainstream, creando una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E, se sì, a che fine? Come si potrebbe reinventare oggi la divisione riproduzione-produzione, e cosa potrebbe prendere il posto della famiglia bireddito?

Nulla di ciò che ho detto qui serve direttamente a rispondere a queste domande. Ma nel tracciare le basi che ci permettono di porle, ho provato a gettare un po’ di luce sulla congiuntura attuale. Più precisamente, ho suggerito che le radici della «crisi della cura» odierna risiedono nella contraddizione sociale insita nel capitalismo – o piuttosto nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziarizzato. Se questa interpretazione è corretta, allora la crisi non sarà risolta tentando di dare una ritoccata alle politiche sociali. Il percorso per la sua risoluzione può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Quel che è necessario, prima di tutto, è porre fine alla sottomissione rapace della riproduzione alla produzione compiuta dal capitalismo finanziarizzato – stavolta però senza sacrificare l’emancipazione o la protezione sociale. Ciò a sua volta richiede di reinventare la distinzione produzione-riproduzione e di reimmaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà del tutto compatibile con il capitalismo.

 

[* Questo saggio è uscito originariamente sulla New Left Review, n. 100/2016, con il titolo «Contradictions of Capital and Care» (goo.gl/wGYPFL). Su autorizzazione della NLR avrebbe dovuto essere pubblicato all’interno dell’Almanacco di filosofia di MicroMega in uscita il 14 dicembre ma la casa editrice Mimesis (chiedendo direttamente all’autrice che però non ha comunicato l’autorizzazione alla NLR), ha dato alle stampe una traduzione italiana che ci ha quindi indotti a scegliere di pubblicarlo sul sito anziché sul cartaceo.]

 

NOTE

[1] Una traduzione francese di questo saggio è stata presentata a Parigi il 14 giugno 2016 alla Marc Bloch Lecture dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales ed è disponibile sul sito dell’École. Ringrazio Pierre-Cyrille Hautcoeur per l’invito alla conferenza, Johanna Oksala per le discussioni stimolanti, Mala Htun ed Eli Zaretsky per gli utili commenti, e Selim Heper per l’assistenza nella ricerca.

[2] Si vedano, fra i molti altri esempi recenti, R. Rosen, «The Care Crisis», The Nation, 27/2/2007; C. Hess, «Women and the Care Crisis», Institute for Women’s Policy Research Briefing Paper n. 401/2013; D. Boffey, «Half of All Services Now Failing as UK Care Sector Crisis Deepens», The Guardian, 26/9/2015. Sulla «mancanza di tempo», cfr. A. Hochschild, The Time Bind, Henry Holt and Company, New York 2001; H. Boushey, Finding Time, Harvard University Press, Cambridge  2016. Sulla «conciliazione lavoro-famiglia», cfr. H. Boushey-A. Rees Anderson, «Work–Life Balance», Forbes, 26/7/2013; M. Beck, «Finding Work-Life Balance», The Huffington Post, 10/3/2015. Sull’«impoverimento sociale», cfr. S. Rai-C. Hoskyns- D. Thomas, «Depletion: The Cost of Social Reproduction», International Feminist Journal of Politics, n. 1/2013.

[3] Per un quadro sulle condizioni politiche di sfondo necessarie a un’economia capitalistica, cfr. N. Fraser, «Legitimation Crisis?», Critical Historical Studies, n. 2/2015. Sulle condizioni ecologiche, cfr. J. O’Connor, «Capitalism, Nature, Socialism: A Theoretical Introduction», Capitalism, Nature, Socialism, n. 1/1988; J. Moore, Capitalism in the Web of Life, Verso, London-New York 2015.

[4] Molte teoriche femministe hanno proposto delle versioni di questo argomento. Per formulazioni marxiste-femministe, cfr. L. Vogel, Marxism and the Oppression of Women, Pluto Press, London 1983; S. Federici, Revolution at Point Zero, PM Press, New York 2012 (trad. it. di A. Curcio, Il punto zero della rivoluzione, Ombre corte, Verona 2014); C. Delphy, Close to Home, University of Massachusetts Press, Amherst 1984. Un’altra potente elaborazione si trova in N. Folbre, The Invisible Heart, The New Press, New York 2002 (trad. it. di F. Pretolani, Il cuore invisibile, EGEA, Milano 2014). Per la «teoria della riproduzione sociale», cfr. B. Laslett-J. Brenner, «Gender and Social Reproduction», Annual Review of Sociology, vol. 15, 1989; K. Bezanson-M. Luxton (a c. di), Social Reproduction, Montréal 2006; I. Bakker, «Social Reproduction and the Constitution of a Gendered Political Economy», New Political Economy, n. 4/2007; C. Arruzza, «Functionalist, Determinist, Reductionist», Science & Society, n. 1/2016.

[5] Sulle lotte di confine e per una critica della visione del capitalismo come economia, cfr. N. Fraser, «Behind Marx’s Hidden Abode»New Left Review, 2/2014.

[6] L. Tilly-J. Scott, Women, Work, and Family, Methuen, London 1987 (trad. it. di A. Lamarra, Donne, lavoro e famiglia nell’evoluzione della società capitalistica, De Donato, Bari 1981).

[7] K. Marx-F. Engels, «Manifesto of the Communist Party», in The Marx-Engels Reader, W.W. Norton and Company, New York 1978, pp. 487–8 (trad. it. di P. Togliatti, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1980); F. Engels, The Origins of the Family, Private Property and the State, Charles H. Kerr & Co., Chicago 1902, pp. 90–100 (trad. it. di D. Della Terza, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma 2005).

[8] N. Woloch, A Class by Herself, Princeton University Press, Princeton 2015.

[9] K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston 2001, pp. 87, 138-9, 213 (trad. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2010).

[10] A. Baron, «Protective Labour Legislation and the Cult of Domesticity», Journal of Family Issues, n. 1/1981.

[11] M. Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale, Zed Books, London 2014, p. 74.

[12] E. Zaretsky, Capitalism, the Family and Personal Life, Harpercollins, New York 1986; S. Coontz, The Social Origins of Private Life, Verso, London-New York 1988.

[13] J. Walkowitz, Prostitution and Victorian Society, Cambridge University Press, Cambridge 1980; B. Hobson, Uneasy Virtue, University of Chicago Press, Chicago 1990.

[14] A. Davis, «Reflections on the Black Woman’s Role in the Community of Slaves», The Massachusetts Review, n. 2/1972 (trad. it. di M. Cartosio-L. Percovich, «Riflessioni sul ruolo della donna nera nella comunità degli schiavi», in A. Gordon et al., Donne bianche e donne nere nell’America dell’uomo bianco, La Salamandra, Milano 1975).

[15] D. W. Adams, Education for Extinction, University Press of Kansas, Kansas 1995; W. Churchill, Kill the Indian and Save the Man, City Lights Publishers, San Francisco 2004.

[16] G. Spivak, «Can the Subaltern Speak?» in C. Nelson-L. Grossberg (a c. di), Marxism and the Interpretation of Culture, Palgrave Macmillan, London 1988, p. 305 (trad. it. di A. D’Ottavio, in Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, p. 296).

[17] M. Foucault, «Governmentality», in G. Burchell-C. Gordon-P. Miller (a c. di), The Foucault Effect, The University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 87–104 (trad. it. di P. Pasquino, «Governamentalità», Aut Aut, n. 28/1978); Id., The Birth of Biopolitics, Lectures at the Collège de France 1978–1979, Picador, New York 2010, p. 64 (trad. it. di M. Bertani-V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2005).

[18] K. Ross, Fast Cars, Clean Bodies, The MIT Press, Cambridge, 1996; D. Hayden, Building Suburbia, Pantheon Books, New York 2003; S. Ewen, Captains of Consciousness, McGraw-Hill, New York 1976.

[19] A quest’epoca, il sostegno statale alla riproduzione sociale era finanziato dal gettito fiscale e da fondi dedicati cui contribuivano, in diverse proporzioni, sia i lavoratori delle metropoli che il capitale, a seconda dei rapporti di forza fra le classi di ogni Stato. Ma questi flussi di entrate lievitavano col valore sottratto alla periferia mediante i profitti dall’investimento estero diretto e il commercio basato su uno scambio diseguale: R. Prebisch, The Economic Development of Latin America and its Principal Problems, United Nations, Department of Economic Affairs, New York 1950; P. Baran, The Political Economy of Growth, Monthly Review Press, New York 1957; G. Pilling, «Imperialism, Trade and “Unequal Exchange”: The Work of Aghiri Emmanuel», Economy and Society, n. 2/1973; G. Köhler-A. Tausch, Global Keynesianism, Nova Publishers, New York 2001.

[20] J. Quadagno,  The Color of Welfare, Oxford University Press, Oxford 1994; I. Katznelson, When Affirmative Action Was White, W. W. Norton & Company, New York 2005.

[21] J. Jones, Labor of Love, Labor of Sorrow, Basic Books, New York 1985; E. Nakano Glenn, Forced to Care, Harvard University Press, Cambridge 2010.

[22] N. Fraser, «Women, Welfare, and the Politics of Need Interpretation», in Id., Unruly Practices, University of Minnesota Press, Minneapolis 1989; B. Nelson, «Women’s Poverty and Women’s Citizenship», Signs: Journal of Women in Culture and Society, n. 2/1985; D. Pearce, «Women, Work and Welfare», in K. Wolk Feinstein (a c. di), Working Women and Families, Sage Publications, Beverly Hills 1979; J. Brenner, «Gender, Social Reproduction, and Women’s Self-Organization», Gender & Society, n. 3/1991.

[23] H. Land, «Who Cares for the Family?», Journal of Social Policy, n. 3/1978; H. Holter (a c. di), Patriarchy in a Welfare Society, Universitetsforlaget, Oslo 1984; M. Ruggie, The State and Working Women, Princeton University Press, Princeton 1984; B. Siim, «Women and the Welfare State», in C. Ungerson, (a c. di), Gender and Caring, Hemel Hempstead: Harvester Wheatsheaf, New York 1990; A.S. Orloff, «Gendering the Comparative Analysis of Welfare States», Sociological Theory, n. 3/2009.

[24] A. Roberts, «Financing Social Reproduction», New Political Economy, n. 1/2013.

[25] Frutto di un’improbabile alleanza fra sostenitori del libero mercato e «nuovi movimenti sociali», il nuovo regime sta rimescolando tutti i consueti allineamenti politici, opponendo femministe «progressiste» neoliberali come Hillary Clinton a populisti autoritari nazionalisti come Donald Trump.

[26] E. Warren-A. Warren Tyagi, The Two-Income Trap, Basic Books, New York 2003 (trad. it. di P. Salerno, Ceti medi in trappola, Sapere 2000 Ediz. Multimediali, Roma 2004).

[27]A. Hochschild, «Love and Gold», in B. Ehrenreich-A. Hochschild (a c. di), Global Woman, Holt Paperbacks, New York 2002, pp. 15–30 (trad. it. di V. Bellazzi-A. Bellomi, Donne globali, Feltrinelli, Milano 2004); B. Young, «The “Mistress” and the “Maid” in the Globalized Economy», Socialist Register, n. 37/2001.

[28] J. Bair, «On Difference and Capital», Signs, n. 1/2010.

[29] «Apple and Facebook offer to freeze eggs for female employees», The Guardian, 15/10/2014. Significativamente, questo beneficio non è più riservato esclusivamente alla classe professionale-tecnica-manageriale. L’esercito degli Stati Uniti adesso rende gratuitamente disponibile il congelamento degli ovuli alle donne arruolate che hanno accettato di impegnarsi per lunghi periodi di servizio: «Pentagon to Offer Plan to Store Eggs and Sperm to Retain Young Troops», The New York Times, 3/2/2016. Qui la logica del militarismo prevale su quella della privatizzazione. A mia conoscenza, nessuno ha ancora affrontato l’impellente questione di cosa fare con gli ovuli di una donna arruolata che muore in guerra.

[30] C. Jung, Lactivism, Basic Books, New York 2015, in particolare pp. 130–1. L’Affordable Care Act (alias «Obamacare») adesso impone alle assicurazioni sanitarie di offrire questi tiralatte gratuitamente alle loro beneficiarie. Così persino questo beneficio non è più prerogativa esclusiva delle donne privilegiate. L’effetto è di creare un nuovo enorme mercato per produttori che realizzano i tiralatte nei grandi stabilimenti dei loro subappaltatori cinesi: S. Kliff, «The breast pump industry is booming, thanks to Obamacare», The Washington Post, 4/1/2013.

[31] L. Belkin, «The Opt-Out Revolution», The New York Times, 26/10/2003; J. Warner, Perfect Madness, Riverhead Books, New York 2006; L. Miller, «The Retro Wife», New York Magazine, 17/3/2013; A.M. Slaughter, «Why Women Still Can’t Have It All», The Atlantic, 7-8/2012; Id., Unfinished Business, Random House, New York 2015; J. Shulevitz, «How to Fix Feminism», The New York Times, 10/6/2016.

(11 dicembre 2017)

 

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA

 

di Luigi Longo

 

 

  1. La fase multicentrica sta avendo delle impennate per il dinamismo degli USA. Un dinamismo criminale, spregiudicato, delinquenziale e fuorilegge basato sulla forza militare che assume un peso specifico nelle relazioni interne ed esterne alla potenza mondiale USA nelle fasi multicentrica e policentrica.

Le suddette fasi mondiali tolgono il velo della ipocrisia e della falsa coscienza necessaria sulla democrazia e sulla libertà praticate in Occidente e portate a modello a livello mondiale [si pensi, per esempio, a quella democrazia esportata e difesa in tutto il mondo attraverso il bombardamento etico (è il titolo di un bel libro di Costanzo Preve), statunitense, con mandato divino (sic)] che ora si rivelano essere principi decisamente astratti, che poco hanno a che fare con la realtà nella quale gli agenti strategici dominanti, vettori del conflitto strategico tra le potenze mondiali, hanno bisogno di decisioni, con una filiera del comando accorciata all’essenziale duro e sbrigativo, attraverso le articolazioni istituzionali presenti sul peculiare e storico territorio nazionale che chiamiamo Stato. Il diritto, inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali e territoriali subisce così processi di ri-modulazione, ri-pensamento e re-invenzione. Lo stato di eccezione schmittiano diventa una eccezione regolare storicamente data che si ripresenta necessariamente nelle fasi multicentrica e policentrica del conflitto mondiale. E’ una costante storica che deve portarci a ri-considerare le relazioni e i rapporti sociali reali nelle diverse fasi della storia mondiale che definiamo monocentrica (la presenza di una potenza mondiale che funge da centro di coordinamento), multicentrica (la presenza di più potenze che fungono da coordinamento di diversi centri egemonici che si contengono l’egemonia mondiale), policentrica (il conflitto mondiale tra centri consolidati per il dominio mondiale).

 

 

  1. Gli USA sono una potenza egemone in declino che non riesce a trovare una sintesi intorno ad un gruppo strategico dominante (per i conflitti interni tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali) capace di frenare il proprio declino e rilanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale (alla Russia e alla Cina con le loro aree di influenza sempre più larghe e penetranti il territorio mondiale) che si basi su una nuova idea di società, di sviluppo, di rapporto sociale; va ricordato che non è nella storia statunitense la cultura multicentrica del mondo e la capacità di confronto tra nazioni e tra Occidente e Oriente.

La guerra in Siria, al contrario delle altre guerre nel Medio Oriente (Iraq), nei Balcani (ex Jugoslavia) e nel Nord Africa (Libia), può rappresentare il punto di svolta verso il consolidamento del polo di aggregazione intorno alla Russia e alla Cina [che già collaborano nella sfera economica (risorse energetiche, via della seta, trattati di area, accordi commerciali, eccetera)] capace di approntare una strategia tutta orientale che lancia un confronto tra nazioni eguali con una visione multicentrica del mondo e un nuovo rapporto tra Oriente e Occidente [senza dimenticare né l’influenza della sedimentazione storica del rapporto tra Russia ed Europa a partire dalla metà del XV secolo con lo zar Ivan III (1440-1505), né l’attrito storico tra Russia e Cina]. Non si tratta di un confronto basato sulla forza militare ma sul dialogo e sul confronto tra storie, culture, popoli diversi. Tale confronto non esclude affatto le questioni fondamentali quali i rapporti sociali basati sul potere e sul dominio che riguardano sia le logiche interne che esterne delle nazioni e delle relazioni con le nazioni divenute potenze mondiali [si pensi, per esempio, a quanta influenza ha l’egemonia USA nel decidere lo sviluppo e la politica delle nazioni europee e dell’Unione Europea (che è bene ricordarlo non è l’Europa della nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti)].

Gli USA devono bloccare con la forza militare la possibilità di formazione del polo Russia-Cina perché sanno che l’avverarsi di tale polo, unito alla loro incapacità di fermare il proprio declino egemonico e alla convinzione che l’unica strada percorribile sia quella della guerra (è attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale), non sarebbe altro che l’inizio della transizione egemonica con una diversa riorganizzazione sistemica. Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, due importanti protagonisti delle strategie di dominio statunitensi, hanno sempre combattuto e temuto la formazione di un polo sia euroasiatico (Europa-Russia) sia asiatico (Russia-Cina) perché vedevano in esso una seria minaccia alla egemonia mondiale statunitense.

La guerra USA, al contrario di quello che pensava Niccolò Macchiavelli (ne Il Principe) che la intendeva come portatrice di benessere, è solo distruzione di popoli, di territori e di nazioni per contenere la Russia e distruggere sul nascere il polo di formazione asiatico intorno a Russia e Cina.

Il declino egemonico mondiale degli USA sta nella perdita della capacità di un modello sociale di benessere interno ed esterno; gli Stati Uniti basano la loro resistenza egemonica solo sulla forza militare aggressiva e distruttrice senza creazione, senza consenso e senza confronto.

 

 

  1. L’Europa resta il teatro passivo del conflitto tra le potenze mondiali che si andrà sviluppando nelle surriportate fasi della storia mondiale. I sub agenti strategici, che dominano i luoghi istituzionali dell’Unione Europea, da tempo stanno accompagnando le diverse strategie USA di contenimento della Russia e di contrasto alla formazione del polo asiatico. Si pensi al ruolo dell’UE e delle singole nazioni europee all’interno della NATO, alla trasformazione della NATO da strumento di difesa contro la minaccia sovietica a strumento di attacco fuori area (la Nato Responce Force), alla militarizzazione tramite Nato del territorio europeo, alle infrastrutture civili da supporto a quelle militari della Nato, alla nascita della PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, agli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio europeo, all’americanizzazione del territorio europeo, eccetera; temi dei quali ho già trattato in precedenti scritti.

Il processo di americanizzazione europeo ha condizionato fortemente lo sviluppo e l’autonomia delle singole nazioni; ha ridotto l’Europa ad una espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi nelle diverse aree mondiali. Tutte le succitate guerre degli USA [di invasione e di violenza alla sovranità nazionale tramite ONU o tramite NATO o tramite coalizione internazionale o tramite attacco diretto con alleati), a partire dalla implosione dell’URSS (1991)] hanno visto la partecipazione di diverse nazioni europee che si sono ritagliate spazi nella sfera economica (gestione di risorse energetiche, allargamento di aree di influenza e di mercato per le imprese, eccetera), ma sotto stretta sorveglianza delle diverse strategie politiche della potenza imperiale statunitense sempre per contrastare le nascenti potenze mondiali (Russia e Cina) capaci di sfidare l’egemonia statunitense [ esempi recenti la guerra di Libia (iniziata nel 2011) e la guerra in Siria (iniziata nel 2011)].

La stessa storia si ripete oggi, in maniera diversa, con il recente attacco USA alla Siria, dopo sette anni di tentativi di smembramento di una nazione sovrana, con morti e sofferenze inenarrabili della popolazione, insieme agli alleati ufficiali europei (Francia e Regno Unito) interessati alla sfera economica, per contrastare l’egemonia dell’area della Russia e il consolidamento di una potenza regionale come l’Iran che minerebbe il ruolo di Israele come potenza regionale vassallo USA nella politica in Medio Oriente (senza dimenticare la questione storica, politica e territoriale della Turchia), area nevralgica del conflitto strategico mondiale. Il pretesto dell’uso di armi chimiche non regge: perché Bashar al-Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche sulla popolazione di Douma, nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della regione Ghouta orientale, quando ormai i ribelli erano pronti alla resa?

E’ emblematico che nessuna nazione europea abbia protestato duramente contro il criminale attacco degli USA e dei suoi alleati; anzi, è stato sostenuto dal Segretario della Nato Jens Stoltenberg e appoggiato dalla UE, dalla Germania (Angela Merkel: risposta “necessaria e appropriata” agli attacchi chimici), Giappone, Canada e Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha bocciato una bozza di risoluzione proposta dalla Russia che “condannava l’aggressione contro la Siria da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, in violazione delle leggi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite”.

 

 

  1. L’Italia è una drammatica espressione geografica a servizio degli USA che considerano il territorio italiano fondamentale per le loro strategie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, oltre ad ospitare basi Nato-USA di grande rilievo e importanza.

L’Italia, a partire dalla sua Unità sotto il coordinamento inglese fino alla direzione statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, può essere un laboratorio storico e politico per capire come l’egemonia inglese prima e quella degli Stati Uniti dopo, hanno piegato lo sviluppo del nostro Paese alle loro strategie di dominio, sia con la forza ( uccisioni di agenti strategici che pensavano alla sovranità e allo sviluppo del Paese), sia con il consenso (selezione di sub agenti strategici pronti a sacrificarsi per il bene del Paese alla servitù inglese e statunitense).

Qual è la reazione dell’Italia alla criminale aggressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla nazione sovrana della Siria fatta in questi giorni? E’ emblematica della stupidità della nostra classe dirigente ben selezionata per il bene del nostro Paese.

L’account Twitter ItaMilRadar, che monitora il traffico aereo militare sui cieli italiani e sul Mediterraneo, ha riferito che due aerei militari della US Navy sono decollati dalla base Sigonella. Il primo, per pattugliare l’area al largo del porto siriano di Latakia nei cui pressi si trova la base militare russa, il secondo per svolgere attività di pattugliamento verso Est. Un Boeing E-3 della Nato ha invece svolto attività di pattugliamento nei pressi del confine tra Turchia e Siria. Ovviamente è un pattugliamento di carattere ordinario! ( www.lasicilia.it, 11/4/2018).

Il 10 aprile scorso l’Agenzia Al Sura ha segnalato che una cisterna volante italiana KC-767 è entrata in Giordania dallo spazio aereo dell’Arabia Saudita.

Le basi Nato-Usa in Italia sono in piena allerta e pronte per gli interventi in Siria. Inoltre, l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Pasquale Preziosa, ci ha ricordato che la base Nato di Sigonella in Sicilia, dove sono ubicati i droni strategici RQ-4 Global Hawk, è importante sia geograficamente sia strategicamente per l’attacco USA in Siria (intervista di Paolo S. Orrù pubblicata su www.tiscali.it, 14/4/2018).

Bene. Cosa fanno i nostri leader politici? Silenzio: il silenzio della paura. L’unica dichiarazione ambigua e strumentale è stata quella di Matteo Salvini che ha criticato l’attacco USA e ha precisato comunque l’importanza di stare dentro l’alleanza atlantica e che il problema è Donald Trump, come se la qualità di un Presidente facesse venir meno la criminalità imperiale statunitense.

E i nostri parlamentari? I più intelligenti hanno chiesto al Governo di conferire in Aula per conoscere i fatti ed informare il Parlamento delle iniziative prese nelle sedi competenti per una inchiesta internazionale indipendente per far luce su quanto accaduto.

 

 

  1. 5. Questo ruolo di servitù volontaria ha impedito all’Europa di essere un soggetto politico espressione di una Sintesi delle Nazioni con una propria autonomia e con un proprio ruolo da giocare nello scambio sociale, economico, culturale e politico tra Occidente e Oriente: Perché? Quali le ragioni storiche e politiche? Quali le strategie per cambiare sguardo e guardare a Oriente per un mondo multicentrico che allontani sempre più la fase policentrica?

Occorrono nuovi agenti strategici in un mondo in forte movimento per il trapasso di epoca così come sosteneva Niccolò Macchiavelli, nella Mandragola la più bella commedia italiana scritta tra il 1513 e i primi mesi del 1514, :<< […] L’espressività di Nicia, il suo sputare motti popolari a raffica diventano emblematici di un attaccamento ottuso a una fiorentinità senza prospettive, in un’epoca in cui […] la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia richiederebbe uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile >>.

 

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI. (a cura di) Luigi Longo

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI.

(a cura di) Luigi Longo

 

E’ opportuno amplificare la pubblicazione del breve articolo di Ulson Gunnar (L’ingerenza politica USA: una tradizione consolidata, apparso sul blog www.controinformazione.info il 31 marzo 2018) perché evidenzia con chiarezza il fatto che parlare di ingerenza delle potenze mondiali è un non sense in quanto le relazioni ( chiamate superficialmente ingerenze) tra nazioni e tra nazioni e potenze mondiali, che è bene ricordarlo sono relazioni di potere e di dominio, sono parti fondanti del conflitto per l’egemonia mondiale; tutti gli strumenti del conflitto, come per esempio le comunicazioni a partire dal 1844 ( anno in cui fu inaugurata la prima linea telegrafica al mondo che univa, per dirla con il geografo Peter J. Hugill, la semplicità d’uso alla libertà di accesso per il pubblico), sono utili per la conquista del dominio mondiale.

Gli USA, bisogna riconoscerlo, sono maestri nelle relazioni di potere e di dominio e non a caso sono la potenza mondiale egemone, sia pure in fase di pericoloso declino.

 

 

L’INGERENZA POLITICA USA :UNA TRADIZIONE CONSOLIDATA

Impero usa finanza e armi

Usa l’ingerenza politica è molto reale e globale

di Ulson Gunnar (*)

Gli Stati Uniti hanno dedicato più di un anno alle accuse contro la Federazione Russa in merito a presunte interferenze politiche durante le elezioni americane del 2016 .

Mentre le accuse spaziano da tutto, comprese le “notizie false” diffuse su Internet per dirigere i legami con l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe utilizzato per assumere il potere, nessuna prova deve ancora emergere per dimostrare che la Russia si è intromessa negli affari politici interni dell’America .

E mentre la Russia certamente possiede una presenza ampia e crescente attraverso i media internazionali, gli attacchi concertati contro questa presenza derivano maggiormente dal fatto che i decenni di controllo incontrastato sull’opinione pubblica globale da parte dei media degli Stati Uniti e dell’Europa si stanno ora spostando verso un equilibrio multipolare del potere spazio dell’informazione .

In netto contrasto con i sussurri e le ombre citati dagli Stati Uniti e dall’Europa in merito alla Russia, per iniziare a comprendere la portata delle interferenze politiche statunitensi all’estero, basta visitare il Dipartimento di Stato americano e il sito Web National Endowment for Democracy’s (NED) finanziato dalle grandi società private.

 

Ingerenza su scala industriale

 

L’intromissione degli Stati Uniti è così ampia che NED è suddiviso in più filiali (National Democratic Institute (NDI), International Republican Institute (IRI) e Freedom House) che a loro volta sono affiancate da organizzazioni parallele come l’Open Society Foundation di George Soros, USAID, il DFID del Regno Unito e molti altri.

Il sito Web NED è suddiviso in diverse regioni, tra cui:

Africa;
Asia;
Europa centrale e orientale;
Eurasia;
Globale;
America Latina e Caraibi e;
Medio Oriente e Africa settentrionale.

All’interno di ogni regione, NED elenca i suoi ampi finanziamenti per organizzazioni e fronti in oltre 100 diverse nazioni in tutto il mondo.

All’interno di ogni nazione, ci sono fondi NED destinati a un gruppo costituito da decine di organizzazioni che si presentano come società legali, piattaforme mediatiche, fondazioni, gruppi ambientalisti e ONG per la difesa dei diritti umani. Tutte queste creano collettivamente le componenti di una macchina politica usata per far pressione sui governi in carica, per prestare attenzione agli interessi degli Stati Uniti, o per il cambio di regime se questi falliscono.

 

NED ONG made in USA

 

Poiché il NED e i destinatari dei suoi finanziamenti sono sempre più esposti come una forma di sovversione politica, la NED ha deciso di elencare i suoi finanziamenti in alcune nazioni in termini molto generali, senza mai rivelare le organizzazioni o gli individui che ricevono denaro dagli Stati Uniti.

Molte organizzazioni in nazioni bersaglio rifiutano di rivelare i loro finanziamenti al pubblico. Molti hanno persino il coraggio di sollecitare donazioni pubbliche nonostante abbiano ricevuto (e nascosto) ampi finanziamenti dal governo degli Stati Uniti.

 

Medio Oriente

 

È un dato di fatto, ammesso da importanti piattaforme mediatiche statunitensi come il New York Times , che l’intera primavera araba del 2011 sia stata il risultato di vasti preparativi diretti dal NED, dai suoi partner e dalle sue filiali.

Dopo aver contribuito a creare i conflitti che attualmente consumano il Medio Oriente, la NED finanzia ora una serie di attività in nazioni come la Siria per contribuire a prolungare i conflitti. Questo viene fatto aiutando e favorendo i miliziani jihadisti che combattono il governo di Damasco con il pretesto di fornire aiuti umanitari. Include anche l’assistenza nell’amministrazione del territorio sequestrato dai miliziani dal controllo di Damasco.

La nazione iraniana, ancora da sobillare con le stesse violenze che attraversano la Siria, lo Yemen, la Libia e l’Iraq, ospita reti di gruppi finanziati dal NED e dalla CIA che vanno dai presunti attivisti, ai gruppi di miliziani (terroristi) diretti al rovesciamento violento del governo di Teheran.

 

 

 

 

 

 

 

Europa orientale

 

Fu nell’Europa dell’Est che la NED perfezionò quella che oggi viene chiamata la “rivoluzione dei colori”. È ora ammesso che il NED statunitense e altre agenzie statunitensi giocarono un ruolo fondamentale nel rovesciare i governi di Georgia, Ucraina e Serbia. È stato infatti il rovesciamento del governo serbo sostenuto dagli Stati Uniti nel 2000 che il Kem Sokha della Cambogia ha citato come modello da replicare nel sud-est asiatico con l’assistenza degli Stati Uniti.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le rivoluzioni colorate del NED spazzarono l’Europa orientale come una piaga, consumando la sovranità nazionale e piegando i territori ex sovietici a nuovi padroni a Washington, Londra e Bruxelles.

Più recentemente, mentre la Russia ha iniziato a riaffermarsi e a prendere decisioni in tribunale sia nell’Europa orientale che in quella occidentale, la NED si è nuovamente impegnata a rovesciare i leader che rifiutano di ridurre o eliminare i legami economici, militari e diplomatici con la Russia per volere di Washington.

Un primo esempio di questo include le proteste dell’Euromaiden 2013-2014 in Ucraina. Durante il periodo 2013-2014, i senatori statunitensi, incluso John McCain, avrebbero letteralmente preso parte alle fasi di protesta a Kiev per offrire un sostegno politico diretto ai disordini guidati dai circoli politici neo-nazisti.

US President Donald Trump (C-L) and Saudi Arabia’s King Salman bin Abdulaziz al-Saud

 

Russia

 

Sorprendentemente, mentre Washington accusa la Russia di ingerenza politica all’interno degli Stati Uniti, il NED elenca apertamente quasi 100 attività sovversive o organizzazioni che stanno finanziando all’interno della stessa Russia .

Oltre a ciò che è elencato sul sito Web di NED, gli Stati Uniti e l’Europa stanno fornendo figure di opposizione impopolari come Alexei Navalny, l’ormai defunto Boris Nemtsov, Yevgeniya Chirikova (Strategia 31 finanziata dal NED), Lev Ponomarev (Mosca, Helsinki, gruppo finanziato dal NED), Liliya Shibanova (GOLOS finanziato dal NED) e molti altri che sono stati ripetutamente arrestati per aver cospirato con diplomatici e finanzieri americani che sostengono le loro attività sovversive.

Se esistessero prove per dimostrare che la Russia ha fatto una delle forme di ingerenza sopra elencate, incluso il mantenimento di intere scuderie di personaggi dell’opposizione che filtrano regolarmente dentro e fuori dall’Ambasciata russa in una nazione bersaglio, questa azione sarebbe categoricamente condannata da Washington. Eppure Washington si impegna palesemente in sovversione politica palese, non solo in Russia, ma in (almeno) altre 100 nazioni in tutto il mondo, incluse le nazioni che gli Stati Uniti stanno attualmente occupando militarmente in modo aperto.

Per l’impero, ciò che è più temibile è la competizione. L’Impero anglo-USA cerca di essere l’unico potere egemone con tutto quello che ne consegue. Gli Stati Uniti non si oppongono all’intromissione politica negli affari di una nazione sovrana, si oppongono all’ostruzione della propria ingerenza mondiale e cercano di eliminare altri che offrono alternative migliori alla sottomissione coercitiva di Washington, quindi si agitano perché hanno individuato nazioni come la Russia, la Cina e altre che hanno sempre più successo nel fare proprio questo.

Per quei paesi tentati di unirsi al carrozzone nel condannare le nazioni come la Russia e la Cina per intromissione politica, in primo luogo quelle stesse nazioni devono riconoscere e rendere conto del livello industriale con cui gli Stati Uniti interferiscono con i propri partner europei.

Per coloro che stanno portando denaro ella NED in tutto il mondo nella convinzione che stiano facendo avanzare in qualche modo un’agenda progressista liberale, in particolare di “democrazia”, questi devono chiedersi come giudicare di una nazione straniera che fa interferenza negli affari politici della propria nazione e se questo sia “democratico” o se sia costruito in modo favorevole ai principi di auto-determinazione della democrazia.

Non si può onestamente concludere che il denaro del NED sia destinato a sostenere la capacità di una nazione di determinare il proprio destino quando risulta chiaramente che Washington sta investendo queste enormi quantità di denaro per determinare in base ai propri interessi l’assetto politico di quella nazione.

 

* Ulson Gunnar, analista geopolitico e scrittore di New York, in particolare per la rivista online ” New Eastern Outlook ”

SIRIA! ELOGIO DELLE SORELLE TRAPPISTE, di Luigi Longo

ELOGIO DELLE SORELLE TRAPPISTE IN SIRIA

di Luigi Longo

 

Chiedo la pubblicazione della lettera aperta delle sorelle trappiste in Siria apparsa sul blog: www.oraprosiria.com del 4 marzo 2018.

E’ una analisi e una denuncia lucida, materiale e spirituale della pesante e drammatica situazione in Siria.

E’ un pensiero critico femminile che si pone nelle contraddizioni reali della vita ben sapendo che il bene e il male fanno parte della storia umana sessuata.

Soltanto la ricerca del senso della vita può tracciare e progettare la strada del bene: il pensiero critico femminile è fondante per la ricerca di un’altra strada sessuata e sensata della vita.

 

Lettera aperta delle Monache siriane: Chiamare le cose con il loro nome, è questo l’inizio della pace

 

Quando taceranno le armi ? E quando tacerà tanto giornalismo di parte ?

Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.

Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Goutha, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?

Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?

Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.

A Damasco, è dalla zona del Goutha che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Goutha dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Goutha: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…

Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?

La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.

La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.

Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?

In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.

Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .

Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato).

Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…

Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria.

Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..

Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.

Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.

Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.

“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.

Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…

 

Le sorelle Trappiste in Siria

 

OLTRE MACERATA. SEI DOMANDE, SEI TRACCE DI LAVORO, di Luigi Longo

LE DOMANDE DI MACERATA

di Luigi Longo

 

Lo scritto di Pino Germinario su La particolare gestione politica dei fatti di Macerata, apparso sul blog Italiaeilmondo del 18 febbraio 2018, stimola delle domande per capire quei fatti oltre ciò che appare. Una piccola premessa a mò di riflessione.

 

Una piccola premessa

 

La riflessione che propongo riguarda la questione dello Stato e quello della criminalità organizzata che si fa soggetto politico.

Le problematiche da affrontare sarebbero molte [ dalla conoscenza dei luoghi di potere e dominio allo svelamento dell’interesse generale e di un astratto luogo di potere dei dominanti, dalle relazioni geo-politiche, geo-economiche, geo-territoriali al ruolo delle potenze mondiali con le aree di influenza (regioni, poli), eccetera], qui interessa evidenziare l’attenzione sullo Stato, con le sue articolazioni di funzionamento (parlamento, governo, eccetera) e le sue articolazioni territoriali (enti locali, enti intermedi, eccetera), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto per l’egemonia della società data.

Il potere vero, quello che produce dominio, è sempre ben nascosto, non appare. Tant’è che lo respiriamo e non ce ne accorgiamo. Gli strumenti statali, con le loro articolazioni territoriali, diventano sempre più macchine complesse per gestire e organizzare il dominio dell’intera società. Il dominio per realizzarsi ha bisogno di emergere attraverso processi istituzionali e produrre ordine simbolico della società data: è un processo di lunga durata, vedasi i vari modelli egemonici mondiali espressi dalle potenze predominanti nelle diverse fasi della storia mondiale. A questo proposito diventa fondamentale capire quali sono gli agenti strategici dominanti. Mi permetto una precisazione: non faccio distinzione tra agenti strategici dominanti nella sfera privata e quelli nella sfera pubblica, tra quelli che delinquono legalmente e quelli che delinquono illegalmente perché l’intreccio è tale che non ha senso la distinzione (gli esempi sono infiniti).

 

Le domande

 

Il problema non è quello dell’uso esclusivo della forza dello Stato ( quella c’è eccome!), quanto piuttosto riflettere su cosa è lo Stato e perchè non interviene a contrastare le forme di violenza organizzata della cosiddetta criminalità nostrana e mondiale. L’intreccio tra il potere legale e quello criminale è molto forte. Per capirlo dobbiamo considerare l’innervamento tra il soggetto politico legittimato dalle regole sociali per svolgere le sue strategie e il potere criminale che così si fa soggetto politico. Esempi sono infiniti in tutte le sfere sociali, in tutti i luoghi istituzionali, in tutte le città, in tutti i territori.

La prima domanda: a partire dai fatti di Macerata ( lascio perdere l’antifascismo che è roba da basagliati) perché i sub-agenti dominanti nostrani non sono in grado di contrastare il potere della criminalità organizzata in generale e in particolare quella nigeriana che si sta consolidando sul territorio nazionale? (rilevo che i Servizi Segreti creano allarmi sull’attività jihadista del Daesh e non si accorgono dei villaggi abusivi gestiti dalla mafia nigeriana vicino ai CARA).

La seconda domanda: perché i nostri sub-decisori intervengono malamente solo a livello di omicidi, cioè solo a livello di repressione militare per ristabilire il cosiddetto ordine pubblico?

La terza domanda: perché la criminalità organizzata si combatte sopratutto con la sfera militare, che è fondamentale ma non è incisiva perché l’accumulo di potere del soggetto politico criminale passa attraverso altre sfere sociali (politiche, economico-finanziarie, culturali, istituzionali, eccetera) che valorizzano il capitale accumulato con strategie criminali, tramite la violenza delle armi, investendolo nei settori legali? (un grande pensatore ha spiegato molto bene che se il capitale accumulato non viene valorizzato non produce potere e dominio).

La quarta domanda: Qual è il ruolo che la criminalità organizzata svolge nel gestire i flussi migratori che si coordina con quello assegnato dalla UE all’Italia? (ricordo che l’Unione Europea (sic) ha chiuso i suoi confini e ha lasciato aperto solo quello italiano).

La quinta domanda: la gestione dei flussi migratori hanno a che fare con le strategie statunitense nel Nord Africa e nel Vicino Oriente? (rammento che gli USA sono maestri nelle relazioni con la criminalità organizzata, orientano la loro creatura, il Daesh, e ri-posizionano gli jihadisti dopo la sconfitta del Califfato e la dispersione degli jihadisti di Daesh così come fecero per il ri-collocamento delle SS dopo la fine del secondo conflitto mondiale).

La sesta domanda: parafrasando William Shachespeare posso chiedermi/vi che ammasso di immondizie, pattume e rifiuti è l’Italia, se serve da vile materia per illuminare una cosa indegna quale sono i nostri agenti sub-decisori? E perché il popolo italiano dovrebbe partecipare alla farsa delle elezioni politiche per eleggere una cosa tanto indegna?

Le infrastrutture militari nella fase multicentrica di Luigi Longo

 

Le infrastrutture militari nella fase multicentrica

di Luigi Longo

 

 

Non gli animali, ma senz’altro gli uomini e soltanto gli uomini conducono gli uni contro gli altri << guerre terrestri e marittime >>. Sempre, quando l’ostilità tra grandi potenze ha raggiunto il culmine, la contrapposizione bellica si svolge contemporaneamente sia nell’uno

che nell’altro ambito, sicché da entrambe le parti la guerra si trasforma in << guerra terreste e marittima >> […] Se poi si aggiunge l’aria come terza dimensione, la guerra si  trasforma per entrambi i contendenti anche in guerra aerea.

                                                                                                                                  Carl Schmitt*

 

L’esercito, nel proprio paese, avrà bensì linee di comunicazioni proprie, organizzate a tal fine, ma non è affatto obbligato a valersi di esse sole; e può, in caso di necessità, scostarsene e scegliere qualsiasi altra strada esistente […] Le strade principali attraversanti le città più ricche e le province più importanti sono le migliori linee di      comunicazioni. Esse meritano la preferenza anche se producono percorsi molto maggiori e hanno, nella maggior parte dei casi, carattere determinante per lo schieramento dell’esercito.

                                                                                                                                  Clausewitz**

 

1. Le potenze mondiali, gli Stati Uniti (potenza egemone in relativo declino), la Russia e la Cina (potenze emergenti in relativo consolidamento), protagoniste in questa fase multicentrica che sta diventando sempre più visibile e determinata, vengono attraversate da conflitti interni tra gli agenti strategici delle sfere sociali per la configurazione, in equilibrio dinamico, del blocco egemone dominante (emblematico è l’esempio in questa fase del conflitto interno statunitense). All’interno di questo conflitto assumono rilevanza i comandanti della sfera militare che hanno un peso specifico nelle decisioni sugli investimenti per le infrastrutture militari e civili finalizzate alle diverse strategie territoriali sia nelle nazioni alleate sia nelle varie aree o regioni di influenza per preparare il campo [terreste, acquatico e aereo (1)] del conflitto per il dominio mondiale che non necessariamente deve passare per la fase policentrica (la guerra) anche se la storia mondiale dimostra la inevitabilità della guerra (2). Quindi i suddetti comandanti formano, insieme agli agenti strategici delle altre sfere sociali (politiche, economiche, istituzionali, culturali, eccetera), il blocco egemone dominante di ogni singola potenza mondiale con una propria visione politica del mondo: dominio assoluto gli USA, dominio multicentrico la Russia e la Cina. In sintesi, per quanto suddetto, introduco il seguente schema del conflitto strategico che ha come punto di partenza il nascente paradigma di Gianfranco La Grassa (approfondirò lo schema nel prossimo scritto su Il conflitto strategico e la mossa del cavallo).

 

Nell’attuale fase multicentrica gli USA, consapevoli di essere una potenza egemone in relativo declino, ri-lanciano la loro sfida per il dominio mondiale assoluto poggiandosi prevalentemente sulla indiscussa (ancora per molto, ahinoi) supremazia mondiale della forza militare (3) e non su una diversa visione dello sviluppo e delle relazioni sociali mondiali perché hanno la fissazione storica di essere la nazione indispensabile per mandato divino [il Popolo Eletto (4)] per assicurare la libertà, la pace, la democrazia, i diritti sulla Terra. In virtù di tale fissazione << gli Stati Uniti avanzavano la pretesa di decidere, al di là della distinzione tra emisfero occidentale ed emisfero orientale, sulla liceità o illiceità di ogni mutamento territoriale in tutta la terra. Tale pretesa riguardava l’ordinamento spaziale della terra. Ogni avvenimento in qualsiasi punto della terra poteva riguardare gli Stati Uniti >>(5). << Nel settembre 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: “la nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo”. E’ un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo “La nostra missione è senza tempo”. Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy […] >> (6). Nella continuità della fissazione storica, Donald Trump sostiene che è fondamentale per << mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera >> avere << la forza e la volontà di esercitare la leadership Usa nel mondo >> (7).

Le basi aeree, le basi navali, le basi dell’esercito degli USA hanno circondato la Terra: guardate con coscienza dell’occhio (8) le carte seguenti ben sapendo che la cartografia sacrifica le relazioni sociali o il corpo vivente della terra, dello spazio, del territorio ed evidenzia i segni e i simboli del dominio (9).

E’ sulla Terra che si vivono i rapporti sociali, lo spazio aereo li sorvola, lo spazio acquatico li limita, lo spazio nucleare li estingue. Essi sono spazi fondanti per le strategie degli agenti dominanti delle potenze mondiali per la egemonia e per la configurazione o ri-configurazione dei nuovi rapporti sociali e territoriali storicamente dati. Stiamo entrando in una fase storica di esplosione degli spazi che distrugge e costruisce un nuovo ordine mondiale. Per dirla con Neil Brenner << […] Nelle condizioni geografiche e storiche attuali, tuttavia, il processo di urbanizzazione si struttura sempre più su scala mondiale. L’urbanizzazione non si riferisce più solo all’espansione delle “grandi città” (Friedrich Engels) del capitalismo industriale, all’estendersi di centri di produzione metropolitani, alle configurazioni di reticoli di insediamenti suburbani e di infrastrutture regionali tipiche del capitalismo fordista-keynesiano, o all’anticipata espansione lineare della popolazione umana nelle megalopoli mondiali che finisce per creare un “pianeta di slum”. Invece […] questo processo si sviluppa oggi sempre di più attraverso lo sviluppo ineguale [ corsivo mio]di un “tessuto urbano” composto da diversi tipi di strutture d’investimento, di spazi di insediamento, di matrici di uso del suolo e di reti di infrastrutture, attraverso l’intera economia mondiale […] Noi stiamo assistendo, in breve, all’intensificazione e all’estensione dei processi di urbanizzazione su tutte le scale spaziali e attraverso l’intera superficie dello spazio planetario >> (10).

Fonte: Limes n.11/2016

Fonte: Limes n9/2016

Fonte: Limes n.11/2016

 

Gli Stati Uniti, parafrasando Tacito letto da Concetto Marchesi, appena diventati Nazione dopo un lungo periodo storico che va dalla guerra di indipendenza (1775-1783) alla guerra di secessione (1861-1865) (11), sono costretti a combattere per vivere; poi seguitano a combattere per accrescere il loro dominio e la loro ricchezza. La guerra è per loro prima una necessità di vita, poi una incessante necessità di grandezza e di arricchimento (12). E’ attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale.

 

2. Tratterò, in estrema sintesi, le suddette infrastrutture militari e civili in Europa, attraverso la PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, non come conseguenza di scelte politiche di un soggetto unitario ed autonomo, che non c’è e che non è mai esistito storicamente, ma come un continente che per la prima volta nella storia non sarà protagonista mondiale del conflitto ma sarà campo di battaglia e spazio importante per le strategie statunitensi, con conseguenti trasformazioni, modificazioni, ri-configurazioni, organizzazioni e ruoli di territori e di aree.

Inoltre tratterò degli investimenti che il Pentagono sta realizzando, a spese nostre, sul territorio italiano nelle basi militari e nelle infrastrutture civili ad esse collegate, soprattutto ferroviarie [alta velocità (AV) e alta capacità(AC)] e stradali (corridoi nazionali ed europei) (13).

Infine, un accenno ai ruoli importanti che potrebbero avere le due città della Puglia, Taranto e Foggia [già protagoniste nella seconda guerra mondiale con le loro infrastrutture militari e civili (14)] nelle strategie statunitensi nel Mediterraneo, nel Vicino Oriente e nei Balcani.

 

3. Riporto una sintesi chiara sulla nascita e sul ruolo della PeSCO avanzata da Manlio Dinucci << Dopo 60 anni di attesa, annuncia la ministra della Difesa Roberta Pinotti, sta per nascere a dicembre la Pesco, «Cooperazione strutturata permanente» dell’Unione europea nel settore militare, inizialmente tra 23 dei 27 stati membri.

Che cosa sia lo spiega il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Partecipando al Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea, egli sottolinea «l’importanza, evidenziata da tanti leader europei, che la Difesa europea debba essere sviluppata in modo tale da essere non competitiva ma complementare alla Nato [corsivo mio]».

Il primo modo per farlo è che i paesi europei accrescano la propria spesa militare: la Pesco stabilisce che, tra «gli impegni comuni ambiziosi e più vincolanti» c’è «l’aumento periodico in termini reali dei bilanci per la Difesa al fine di raggiungere gli obiettivi concordati». Al budget in continuo aumento della Nato, di cui fanno parte 21 dei 27 stati della Ue, si aggiunge ora il Fondo europeo della Difesa attraverso cui la Ue stanzierà 1,5 miliardi di euro l’anno per finanziare progetti di ricerca in tecnologie militari e acquistare sistemi d’arma comuni. Questa sarà la cifra di partenza, destinata a crescere nel corso degli anni.

Oltre all’aumento della spesa militare, tra gli impegni fondamentali della Pesco ci sono «lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione a partecipare insieme ad operazioni militari». Capacità complementari alle esigenze della Nato che, nel Consiglio Nord Atlantico dell’8 novembre, ha stabilito l’adattamento della struttura di comando per accrescere, in Europa, «la capacità di rafforzare gli Alleati in modo rapido ed efficace».

Vengono a tale scopo istituiti due nuovi comandi. Un Comando per l’Atlantico, con il compito di mantenere «libere e sicure le linee marittime di comunicazione tra Europa e Stati uniti, vitali per la nostra Alleanza transatlantica». Un Comando per la mobilità, con il compito di «migliorare la capacità di movimento delle forze militari Nato attraverso l’Europa» [ corsivo mio].

Per far sì che forze ed armamenti possano muoversi rapidamente sul territorio europeo, spiega il segretario generale della Nato, occorre che i paesi europei «rimuovano molti ostacoli burocratici». Molto è stato fatto dal 2014, ma molto ancora resta da fare perché siano «pienamente applicate le legislazioni nazionali che facilitano il passaggio di forze militari attraverso le frontiere». La Nato, aggiunge Stoltenberg, ha inoltre bisogno di avere a disposizione, in Europa, una sufficiente capacità di trasporto di soldati e armamenti, fornita in larga parte dal settore privato.

Ancora più importante è che in Europa vengano «migliorate le infrastrutture civili – quali strade, ponti, ferrovie, aeroporti e porti – così che esse siano adattate alle esigenze militari della Nato» [corsivo mio]. In altre parole, i paesi europei devono effettuare a proprie spese lavori di adeguamento delle infrastrutture civili per un loro uso militare: ad esempio, un ponte sufficiente al traffico di pullman e autoarticolati dovrà essere rinforzato per permettere il passaggio di carrarmati.

Questa è la strategia in cui si inserisce la Pesco, espressione dei circoli dominanti europei che, pur avendo contrasti di interesse con quelli statunitensi, si ricompattano nella Nato sotto comando Usa quando entrano in gioco gli interessi fondamentali dell’Occidente messi in pericolo da un mondo che cambia [neretto mio]. Ecco allora spuntare la «minaccia russa», di fronte alla quale si erge quella «Europa unita» che, mentre taglia le spese sociali e chiude le sue frontiere interne ai migranti, accresce le spese militari e apre le frontiere interne per far circolare liberamente soldati e carrarmati >> (15).

 

4. Riprendo gli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio italiano da una descrizione puntuale di Manlio Dinucci << Grandi opere sul nostro territorio, da nord a sud. Non sono quelle del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di cui tutti discutono, ma quelle del Pentagono di cui nessuno discute. Eppure sono in gran parte pagate con i nostri soldi e comportano, per noi italiani, crescenti rischi.

All’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) parte il progetto da oltre 60 milioni di euro, a carico dell’Italia, per la costruzione di infrastrutture per 30 caccia Usa F-35, acquistati dall’Italia, e per 60 bombe nucleari Usa B61-12.

Alla base di Aviano (Pordenone), dove sono di stanza circa 5000 militari Usa con caccia F-16 armati di bombe nucleari (sette dei quali sono attualmente in Israele per l’esercitazione Blue Flag 2017), sono stati effettuati altri costosi lavori a carico dell’Italia e della Nato.

A Vicenza vengono spesi 8 milioni di euro, a carico dell’Italia, per la «riqualificazione» delle caserme Ederle e Del Din, che ospitano il quartier generale dell’Esercito Usa in Italia e la 173a Brigata aviotrasportata (impegnata in Europa orientale, Afghanistan e Africa), e per ampliare il «Villaggio della Pace» dove risiedono militari Usa con le famiglie.

Alla base Usa di Camp Darby (Pisa/Livorno) inizia in dicembre la costruzione di una infrastruttura ferroviaria, del costo di 45 milioni di dollari a carico degli Usa più altre spese a carico dell’Italia, per potenziare il collegamento della base con il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa, opera che comporta l’abbattimento di 1000 alberi nel parco naturale. Camp Darby è uno dei cinque siti che l’Esercito Usa ha nel mondo per lo «stoccaggio preposizionato» di armamenti (contenente milioni di missili e proiettili, migliaia di carrarmati e veicoli corazzati): da qui vengono inviati alle forze Usa in Europa, Medioriente e Africa, con grandi navi militarizzate e aerei cargo.

A Lago Patria (Napoli) il nuovo quartier generale della Nato, costato circa 200 milioni di euro di cui circa un quarto a carico dell’Italia, comporta ulteriori costi a carico dell’Italia, tipo quello di 10 milioni di euro per la nuova viabilità attorno al quartier generale Nato.

Alla base di Amendola (Foggia) sono stati effettuati lavori, dal costo inquantificato, per rendere le piste idonee agli F-35 e ai droni Predator statunitensi, acquistati dall’Italia.

Alla Naval Air Station Sigonella, in Sicilia, sono stati effettuati lavori per oltre 100 milioni di dollari a carico di Stati uniti e Nato, quindi anche dell’Italia. Oltre a fornire appoggio logistico alla Sesta Flotta, la base serve a operazioni in Medioriente, Africa ed Europa orientale, con aerei e droni di tutti i tipi e forze speciali. A tali funzioni si aggiunge ora quella di base avanzata dello «scudo anti-missili» Usa, in funzione non difensiva ma offensiva soprattutto nei confronti della Russia: se fossero in grado di intercettare i missili, gli Usa potrebbero lanciare il first strike nucleare neutralizzando la rappresaglia.

A Sigonella sta per essere installata la Jtags, stazione di ricezione e trasmissione satellitare dello «scudo», non a caso mentre, con il lancio del quinto satellite, sta per divenire pienamente operativo il Muos, il sistema satellitare Usa che ha nella vicina Niscemi una delle quatto stazioni terrestri.

Il generale James Dickinson, capo del Comando strategico Usa, in una audizione al Congresso il 7 giugno 2017 ha dichiarato: «Quest’anno abbiamo ottenuto l’appoggio del Governo italiano a ridislocare, in Europa, la Jtags alla Naval Air Station Sigonella».

Era al corrente il Parlamento italiano di una decisione di tale portata strategica, che porta il nostro paese in prima linea nel sempre più pericoloso confronto nucleare? Se ne è almeno parlato nelle commissioni Difesa? >> (16).

 

5. In Puglia, due città, Taranto e Foggia, stanno subendo trasformazioni territoriali finalizzate all’approntamento di una rete di infrastrutture che apparentemente nulla hanno a che fare con il loro utilizzo ai fini militari. In realtà esse sono ben velate sotto l’uso civile delle infrastrutture (logistica, ferroviarie, aeroportuali, portuali) per lo sviluppo economico dei territori e delle città, ma nella sostanza esse sono fondanti come nodi di una rete nazionale (ed europea) che fa dell’Italia una espressione geografica al servizio delle strategie statunitensi.

Taranto, una città storicamente rilevante per la funzione militare e strategica sin dalla più remota antichità fino ai giorni nostri (17), è attraversata, dal 2012 anno di intervento della Magistratura tarantina, da una fase complessa di trasformazione da polo siderurgico a polo strategico della Nato (18). Un polo Nato che incorporerà città e territori interscalari (dal mondiale al locale con differenza qualitativa in relazione “alla specificità storica delle morfologie scalari associate ai processi sociali e alle forme istituzionali”) riconfigurandoli e riorganizzandoli alle esigenze di uno sviluppo imperniato sulle strategie USA-Nato. Un territorio logistico che formalmente è progettato per diventare un hub dell’area mediterranea destinato ad aggregare iniziative nazionali ed internazionali a sostegno della ricerca, sviluppo, sperimentazione e certificazione di soluzioni integrate tra trasporto aereo e industria aerospaziale, ma sostanzialmente piegato alle esigenze del conflitto USA-Nato per contrastare le emergenti potenze mondiali (Russia e Cina). E’ qui che si sta realizzando un progetto tra USA ed Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) per l’utilizzo di Droni con una compressione di tempo e di spazio impressionante: si parla di 100 minuti da Los Angeles a Roma attraverso un corridoio nella stratosfera (19), ovviamente per il trasporto merci di uno sviluppo pacifico e non di uno sviluppo finalizzato agli scenari di guerra. Tutto questo a partire dal 2012 (l’anno serve solo per indicare il punto di svolta dei processi sociali storicamente dati) in un luogo istituzionale di medio potere, quale è la regione Puglia, con un Presidente, Nichi Vendola, l’uomo della famosa risata servile verso i poteri dell’ILVA (20).

Foggia, una città storicamente rilevante per la posizione geografica (un nodo di collegamento tra la via Adriatica, la via Tirrenica e la via interregionale) sin dai tempi di Federico II fino ad oggi (21). Il territorio logistico è in fase di progettazione: una riconversione dello storico aeroporto “Gino Lisa” (22) (è stato nel periodo tra le due guerre mondiali una scuola per piloti di importanza mondiale, qui si sono formati i primi piloti statunitensi comandati dal Maggiore Fiorello La Guardia) in sede della Protezione Civile regionale che è il cavallo di troia per nascondere il vero obiettivo di un aeroporto di merci e mezzi militari (unica ragione per tenere in vita un aeroporto economicamente insostenibile); una riconfigurazione della base Amendola come base di fatto a comando USA-Nato così come da interventi progettati dal Pentagono; una grande area logistica ingiustificata tenendo conto del basso livello dello sviluppo economico della città e del territorio; un collegamento stradale e ferroviario tra area logistica, nodi territoriali e aerea portuale di Manfredonia ( antico porto di scambi con l’altra sponda adriatica) (23); una rete ferroviaria ad alta capacità in fase di realizzazione di collegamento tra Roma-Bari, facente parte della rete Scandinavia-Mediterraneo (Helsinki-Valletta) una delle linee strategiche europee e uno degli obiettivi della programmazione a lungo termine per lo sviluppo del settore ferroviario (24).

Posso dire con Ennio Flaiano che la situazione politica in Italia è grave ma non è seria se si pensa che la struttura del Libro Bianco del Ministero della Difesa (25) è tutta interna alla logica funzionale Nato ad egemonia USA. Tutto questo la dice lunga sull’autonomia e sul ruolo della sfera militare italiana frammentata e incapace di esprimere agenti strategici per un disegno, per una idea di una nazione autonoma e sovrana nelle relazioni mondiali (26).

 

6. Io non vedo nessun ruolo che l’Italia possa avere nel Mediterraneo così come non vedo nessun ruolo che la Francia e la Germania possano avere per un processo di costruzione di autonomia europea.

La divisione del lavoro tra una Francia (leader militare) e una Germania (leader economica) per costruire un asse su cui pensare una futura Europa è una utopia irrealizzabile (27).

Il problema vero è l’assenza di agenti strategici autonomi in tutte le nazioni europee (a diverse sfumature considerata la storia e la cultura peculiari di ogni singolo popolo) in grado di liberarsi dalle strategie e dalla occupazione militare statunitensi sul continente Europa. L’autonomia e le relazioni tra nazioni sono processi storici che non si costruiscono nel breve periodo.

Se non si avvierà questa costruzione di soggetti di trasformazione non dati dalla Storia ma costruiti nella Storia che pensano un progetto di coordinamento europeo per rilanciare un ruolo significativo del continente Europa tra Occidente e Oriente e soprattutto nuove relazioni con le potenze mondiali che lottano per un mondo multicentrico, dispiace dirlo scivoleremo tutti in quella che Gyorgy Lukacs ha definito :<< La stupidità e la disonestà si manifestano anzitutto nell’adattamento dei sentimenti e delle idee alla infamia della realtà sociale [ad egemonia statunitense, mia aggiunta]>> (28).

EPIGRAFI

 

* Carl Schmitt, Dialogo sul potere, Adelphi, Milano, 2012, pp. 58-59.

**Clausewitz, Dalla guerra, Mondadori, Milano, 2011, pp. 429 e 432.

 

NOTE

 

1. Ad ulteriore conferma del ruolo importante dei comandanti militari nelle relazioni internazionali si legga Manlio Dinucci, Italia-Israele: la << diplomazia dei caccia >> in www.voltairenet.org, 14/12/2017; sulle rivoluzioni spaziali mondiale si veda Carl Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio in Carl Schmitt, Dialogo sul potere, op.cit., pp. 49-93; Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2006; Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino, 2017.

2. Il termine comandante è riferito non solo alla sfera militare, ma può essere allargato anche alle altre sfere sociali perché è da intendere come espressione di dominio della gerarchia del mondo << Per i greci il mondo era fatto soltanto di rapporti di forza, di gerarchie, di livelli di autorità. Il mondo era composto da chi stava sopra e da chi stava sotto, da chi comandava e da chi ubbidiva. >> in Franco Farinelli, L’invenzione della terra, Sellerio, Palermo, 2016, pag. 38.

3. Sugli Stati Uniti come prima potenza militare oltre ai rapporti SIPRI (www.sipri.org) si rimanda a Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore, Roma, 2016, pp.272-312; Manlio Dinucci, Geopolitica di una <<guerra globale>> in AaVv, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Derive Approdi, Roma, 2005, pp. 11-112; Wesley K. Clark, Vincere le guerre moderne, Iraq, terrorismo e l’impero americano, Bompiani, Milano, 2004. A mio avviso, non sono convincenti le analisi di The Saker (per esempio, Pensi che la sua valutazione sia accurata ?, www.sakeritalia.it, 9/11/2017) e di Paul Craig Roberts (per esempio, Un giorno non ci sarà un domani, www.comedonchisciotte.org, 28/10/2017) sulla debolezza della sfera militare USA.

4. Sul popolo eletto si rimanda a Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008, pp.156-160.

5. Cal Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello << jus pubblicum europaeum >>, Adelphi, Milano, 1991, pag.407.

6. Domenico Losurdo, Rivoluzione d’Ottobre e democrazia, www.marx21.it, 30/8/2017.

7. Donald J. Trump, National Security Strategy of the United States of America in www.whitehouse.gov./…/NSS-Final-12-18-2017-0905.pd; Si legga anche Manlio Dinucci, Il vero libro esplosivo è a firma di Trump, www.ilmanifesto.it, 9/1/2018.

8. Richard Sennet, La coscienza dell’occhio, Feltrinelli, Milano, 1992.

9. Franco Farinelli, L’invenzione, op.cit., pp. 55-62; si legga il capitolo secondo dell’interessante libro di Matteo Vegetti, L’invenzione del globo, op.cit., pp.31-76. 10.Neil Brenner, Stato, spazio, urbanizzazione, Edizioni Guerini e Associati, Milano, 2016, pp.35-36.

11. Per la guerra di indipendenza si rimanda a Gino Luzzatto, L’evoluzione economica e sociale mondiale negli ultimi due secoli, Storia Universale, vol. VII, Casa Editrice Francesco Vallardi, 1970, pp.3-116; per la guerra di secessione si veda Raimondo Luraghi, La guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, BUR-Rizzoli, Milano, 2013.

12. Concetto Marchesi, Tacito, Casa editrice Giuseppe Principato, Milano-Messina, 1942, pp.129-170.

13. Per un primo svelamento sull’uso della infrastrutture, tramite la Nato e l’Unione Europea, in funzione delle strategie degli Stati Uniti di penetrazione ad Est dell’Europa per contrastare soprattutto la potenza mondiale emergente come la Russia, si rimanda a Luigi Longo, Tav, Corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 23/12/2012.

14. Mario Gismondi, Taranto: La notte più lunga. Foggia: la tragica estate, Dedalo, Bari, 1968.

15.Manlio Dinucci, Nasce la Pesco costola della Nato, www.voltairenet.org, 28/11/2017; si veda anche Alessandro Marrone, UE: difesa, parte Pesco, cooperazione strutturata permanente, www.affarinternazionali.it, 14/11/2017.

16. Manlio Dinucci, Le grandi opere del Pentagono a spese nostre, www.voltairenet.org, 5/12/2017.

17.G.C.Speziale, Storia militare di Taranto. Negli ultimi cinque secoli, Laterza, Bari, 1930.

18. Luigi Longo, Dalla trappola capitale/lavoro – capitale/ambiente al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 7/8/2012; Idem, Taranto, da polo siderurgico a polo strategico della Nato, www.conflittiestrategie.it, 20/7/2013.

19. Franco Giuliano, Aerei senza pilota la Puglia è nel futuro, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 15/4/2014.

20. Domenico Palmiotti, La Puglia investe nell’aerospazio, www.ilsole24ore.com, 20/4/2014; Marolla, L’aeroporto di Grottaglie piattaforma logistica dell’area mediterranea, www.impresametropolitana.it, 16/3/2016; Leo Spalluto, Taranto, smontare aerei e navi nuovo spazio per le imprese, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 15/6/2017; Redazione Repubblica, Aeroporto di Taranto-Grottaglie, iniziati lavori potenziamento infrastrutture, https://finanza,repubblica.it/News/2017/12/27/aeroporto_di_taranto_grottaglie_iniziati_lavori_infrastrutture-161/, 27/12/2017.

21. Macry Paolo, L’area del Mezzogiorno in Storia d’Italia, Volume Sesto, Atlante, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1976; J.-M. Martin-E. Cuozzo, Federico II. Le tre capitali del Regno di Sicilia: Palermo-Foggia-Napoli, Procaccini Editore, Napoli, 1995.

22. Luigi Iacomino, L’aeronautica militare a Foggia e in Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia, 2002; Idem, Storia dell’aviazione in Capitanata, Grenzi Editore, Foggia, 2006;.

23. Si veda il Piano Strategico di area vasta “Capitanata 2020” in www.capitanata2020.eu.

24. RFI, Audizione senato, VIII Commissione permanente, Lavori Pubblici, Comunicazione, Contratto di Programma 2012-2016, Parte Investimenti, Aggiornamento 2015, www.senato.it/…commissione/…/Memoria_RFI-Audizione_del_24_maggio_2016.

25. www.difesa.it/Primo_Piano/Documents/2015/04_Aprile/LB_2015.pdf

26. Fabio Mini, Usa-Italia comunicazione di servizio, Limes n.4/2017; Gianfranco La Grassa, La nostra italietta, www.conflittiestrategie, 3/1/2018.

27. Il ruolo dell’Eni e dell’Invitalia che emerge dalle interessanti analisi di Alberto Negri non può essere condiviso perché ignora il fatto che dietro alle grandi imprese (sia pubbliche sia private) non esiste uno Stato, inteso come luogo di potere degli agenti sub-sub-dominanti italiani, in grado di proteggere il loro ruolo e le loro strategie di penetrazione nelle aree di interesse (la Libia, l’Egitto, l’Iran, solo per fare alcuni esempi, non insegnano niente?). Così dicasi per un ruolo ancora più di peso, impegnativo e qualificato quale quello di un intervento nell’area Mediterranea avanzato da Fabio Falchi e da Pierluigi Fagan. Si vedano: Alberto Negri, L’Italia alla conquista del gas, è l’unica arma per contare nel mondo, www.tiscali.it, 17/12/2017; Alberto Negri, L’Italia fa grandi affari con l’Iran e se ne infischia delle sanzioni di Trump. Cinque miliardi di euro sono solo l’inizio, www.tiscali.it, 12/1/2018; Fabio Falchi, L’Italia, il Mediterraneo e il futuro dell’Europa, www.eurasia.com, 1/12/2017; Pierluigi Fagan, Propositi per il nuovo anno: torniamo a pensare un piano B per l’Europa, www.pierluigifagan.wordpress.com, 2/1/2018.

28.Gyorgy Lukacs, Tolstoj e l’evoluzione del realismo, www.gyorgylukacs.wordpress.com, 30/8/2016.

PALESTINA INFELIX, di Luigi Longo

Si pubblicano due brevi articoli, il mio di un paio di anni fa, sulla distruzione del popolo palestinese per rafforzare e rilanciare la potenza regionale di Israele come contrafforte delle altre due potenze emergenti regionali come l’ Iran e la Turchia. Sullo sfondo l’attacco USA al nascente asse Russia-Cina  probabili  poli di potenze mondiali che hanno la visione di un ordine mondiale multicentrico. Luigi Longo

Una riflessione e una domanda a proposito di << due popoli due stati>>.

di Luigi Longo

La riflessione che pongo necessiterebbe di un lungo racconto sull’uso del territorio ( meglio sarebbe spazio) nel conflitto tra Israele e la Palestina, a partire dal 1948 anno di proclamazione formale dello stato di Israele. Mi limito qui a constatare che si tratta di un conflitto tra un aggressore, Israele, che sta malvagiamente ridimensionando un popolo palestinese che cerca di resistere e di difendere legittimamente i residui territori a propria disposizione che non possono più formare una nazione.

La questione avanti posta va vista nei giochi strategici che le potenze mondiali (soprattutto gli USA) hanno fatto, fanno e continueranno a fare per ottenere l’egemonia dell’area mediorientale, tutto storicamente dato.

La riflessione è: non ci sono più le condizioni territoriali per la creazione di due popoli e due stati. La politica territoriale di Israele, con lo strumento delle colonie e con tutta la sua strumentazione scientifica e tecnica (che non è mai neutrale, è bene ricordarlo), di fatto non permette più di parlare di due stati e di due popoli, ma bensì di uno stato per gli israeliani e di enclave per i palestinesi. Usando un linguaggio lagrassiano direi che storicamente gli agenti sub-dominanti della sfera politica, della sfera religiosa, della sfera militare e della sfera istituzionale-territoriale hanno avuto un ruolo fondamentale nel concentrare il popolo palestinese in enclave e distruggere l’idea stessa di una loro nazione con un territorio, una istituzione, delle risorse, una storia e una cultura propri.

Esiste un popolo israeliano con uno stato, gestito da agenti strategici sub dominanti spietati e insaziabili di potere e di egemonia, che è una pedina fondamentale (fino a poco tempo fa) degli USA e delle loro strategie mediorientali nella scacchiera del conflitto per l’egemonia mondiale.

Esiste un popolo palestinese rinchiuso in enclave le cui condizioni di vita sono sempre più difficili e al limite della sopravvivenza (almeno per la maggioranza della popolazione).

Una domanda ora sorge spontanea: perché si continua a lanciare missili innocui su Israele sapendo delle conseguenze inenarrabili sulla popolazione palestinese (donne, bambini e anziani, i numeri dei morti della guerra in atto lo stanno a dimostrare)?.

Avanzo un dubbio: siamo sicuri che i gruppi dominanti del popolo palestinese ( con le loro articolazioni in forze politiche: OLP, Hamas, eccetera) non utilizzano ideologicamente l’obiettivo dei << due popoli due stati >> per le loro strategie di potere e di egemonia per meglio posizionarsi, sia negli accordi di pace sia nelle strategie complessive delle potenze mondiali, con i gruppi strategici egemonici sub dominanti (israeliani e non solo) e dominanti ( USA e non solo) in questa crisi d’epoca di chiaro avvio della fase multipolare?

Se rimaniamo nella dialettica << due popoli due stati >> non riusciamo a capire i rapporti sociali e le trasformazioni sociali che avvengono in quell’area nevralgica del medioriente. E non riusciremo mai a capire perchè si lanciano missili innocui su Israele, ritorsivi e autodistruttivi per la maggioranza dei palestinesi.

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Italia costruirà gasdotto a Israele (per rubare il greggio palestinese)
www.maurizioblondet.it/italia-costruira-gasdotto-israele-aiutarla-rubare-greggio-palestinese/
“Non esiste ancora una pipeline così lunga e così profonda”, esulta il ministro dell’energia sionista Juval Steinitz. L’Italia e la Grecia (ma soprattutto l’Italia) gli costruiranno il gasdotto che costerà 6 miliardi e sarà completato nel 2025, che pomperà gas e greggio del grande giacimento davanti a Gaza, che ovviamente i sionisti si sono accaparrati, rubandolo ai palestinesi, in condominio con Cipro (che ha perfettamente diritto, perché il giacimento è nelle sue acque territoriali). Il memorandum in questo senso è stato firmato martedì a Nicosia, fra l’ambasciatore italiano a Cipro, e i ministri dell’energie di Israele, Cipro, Grecia. Benediceva l’operazione il commissario europeo all’energia Miguel Arias Cañete. E’ probabile che sarà la UE a pagare il progetto, perché l’eurocrazia persegue instancabilmente la strategia di svincolare l’Europa dalla “dipendenza energetica da Mosca” (oltre a quella di fare regali allo Stato razziale mediterraneo). Il tubo, chiamato EastMed che approderà in Italia nel 2025, trasporterà fino a 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, pari a circa il 5% del consumo annuale in Europa, secondo quanto riferito da EUObserver. Si è costituita allo scopo una joint venture fra Edison e la consorella greca Depa.
Lasciamo perdere la presunta “polemica” e “presa di distanza” dell’Europa dalla decisione trumpiana di dichiarare Gerusalemme capitale indivisa di Sion, lo “scontro” di Netanyahu con Macron, i “disaccordi” di costui coi ministri degli esteri della UE che sa per incontrare a Bruxelles. Quello è teatro per la scena. La realtà è che gli europei restano legati a filo doppio, anzi sempre più soggetti, agli interessi israeliani.

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI. (a cura di) Luigi Longo

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI.

(a cura di) Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Federico Dezzani su Assalto all’Eurasia: la Corea del Nord è solo l’antipasto, apparso sul blog: www.federicodezzani.altervista.org il 26 ottobre m.s., è interessante perché fa riflettere sulle strategie di attacco a tutto mondo degli Stati Uniti d’America.

La prima riflessione. Gli USA minacciano ritorsioni contro la Corea del Nord perché si è dotata della prima bomba termonucleare per la difesa della propria indipendenza. Le minacce non riguardano tanto la Corea del Nord, quanto la Cina e la Russia (l’Heartland) perché osano mettere in discussione gli attuali equilibri statunitensi nell’area pacifica (per non parlare nell’area mediorientale e africana) e indebolire i nodi strategici del Rimland (che va dall’Europa all’estremo Oriente).

La seconda riflessione. L’Europa delle regioni, che avanza sulle rovine delle nazioni, renderà impossibile qualsiasi ruolo da protagonista, nelle fasi multicentrica e policentrica, sia delle nazioni sovrane sia di una futura Europa delle nazioni sovrane.

La terza riflessione. Gli USA vogliono evitare qualsiasi ipotetica alleanza tra la Cina (attuale potenza economica) e la Russia (attuale potenza militare) che possa mettere in discussione il loro dominio mondiale in declino, che essi rilanciano con la forza delle armi perché non accettano un mondo multicentrico. Questo, a prescindere dal conflitto interno tra i loro agenti strategici: la potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza, oltre ad una missione speciale da compiere ed essere pertanto, l’unica nazione indispensabile del mondo (Progetto Messianico).

Non so se le potenze mondiali sono già delineate all’interno dello scontro tra Terra e Mare: i giochi sono aperti e la fase multicentrica sta delineando i centri delle potenze mondiali che saranno definite con le loro alleanze nella fase policentrica. Resta da capire bene le strategie e le percezioni del mondo della Cina sia in relazione alla Russia sia in relazione agli USA (senza dimenticare l’India).

Le relazioni cinesi e russe a livello mondiale, in questa fase, sono orientate rispettivamente l’una dalle sfere economico- finanziaria e politica, l’altra dalle sfere militare e politica: ciò è insufficiente per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Quindi parlo di due potenze mondiali emergenti che si difendono dall’attacco degli USA e lottano per un mondo multicentrico nel rispetto delle proprie differenze.

L’Europa? Essa è uno spazio americanizzato e occupato da basi militari USA-NATO (qui la Nato è intesa prevalentemente come strumento militare dell’agire statunitense) e non sarà protagonista nelle diverse fasi della storia mondiale. E’ sempre più un continente in mano agli USA per le loro strategie di dominio.

 

 

ASSALTO ALL’EURASIA: LA COREA DEL NORD È SOLO L’ANTIPASTO

di Federico Dezzani

Crescono le tensioni tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti d’America: la determinazione di Pyongyang a sviluppare il proprio deterrente nucleare si scontra con la convinzione di Washington che l’atomica nordcoreana abbia una natura offensiva. È ormai chiaro che, qualsiasi amministrazione occupi la Casa Bianca, la strategia di fondo non cambia: la potenza marittima americana ed i suoi alleati mirano a circondare il blocco euroasiatico su ogni lato. L’arsenale atomico di Pyonyang è solo un pretesto per militarizzare la regione e contenere la potenza navale cinese. Un’eventuale attacco alla Nord Corea anticiperebbe soltanto una guerra già ben delineata: l’ennesimo scontro tra terra e mare.

 

L’Heartland (Cina e Russia), il Rimland (la Corea) e le potenze marittime (USA)

Marx ed Engels definivano “struttura” l’economia e il sistema produttivo, “sovrastruttura” la politica, la cultura e la religione. La storia universale sarebbe quindi, secondo i due filosofi tedeschi trapiantati a Londra, questione di lavoro e capitale. Sbagliarono e, probabilmente, furono anche consapevoli del loro errore. “Struttura” è la volontà di potenza degli Stati e la geopolitica, la scienza che studia questa volontà di potenza, è il miglior strumento per capire ed interpretare la storia. In particolare, la storia è basata sulla volontà del “mare” di sottomettere la “terra” e sull’opposto desiderio della “terra” di domare il “mare”. Atene contro Sparta, Cartagine contro Roma, i Saraceni contro Bisanzio, Olanda contro Spagna, Inghilterra contro Francia, Londra contro Berlino, Washington contro Mosca.

Di fronte a questo scontro plurisecolare, mosso da forze telluriche che trascendono il contingente, tutto è “sovrastruttura”: tutto è accessorio, superfluo, quasi scontato. Le ideologie, le religioni, le singole personalità politiche. Tutto si muove perché la terra ed il mare bramano la guerra, in attesa della battaglia finale (se mai verrà).

È più utile, per chi volesse capire lo scenario internazionale, lo studio di “The Geographical Pivot of History”, pubblicato nel 1904 da Halford John Mackinder che la lettura di tutta la stampa specializzata attuale. Mackinder, esponente di spicco della talassocrazia per eccellenza, il Regno Unito, osserva il mappamondo ed individua nel cuore dell’Eurasia, zona inaccessibile alle potenze marittime, “l’area pivot” del globo terrestre: quell’area che, se debitamente organizzata dal punto di vista militare, logistico, economico e sociale, può schiudere, per chi la controlla, l’egemonia mondiale. Mackinder, in particolare, osserva con timore la costruzione delle ferrovie russe, capaci di spostare merci e soldati nelle sconfinate pianure come navi sul mare. Guai, dice Mackinder, se la Russia si alleasse alla Germania. Con un’incredibile preveggenza, Mackinder, chiude il suo pensiero con uno scenario ancora più preoccupante: l’integrazione tra la Cina ed il retroterra russo.

Seguiranno due guerre mondiali, che consentiranno agli angloamericani di annichilire la Germania e insediarsi in Europa (NATO-CEE/UE) e in Oriente (CENTO e SEATO, poi sciolte).

Durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale, lo stratega olandese, naturalizzato americano, Nicholas J. Spykman (1893-1943), pubblica un’opera (America’s Strategy in World Politics) che vuole aggiornare ed integrare il lavoro di Mackinder, per adattarlo alla prossima realtà geopolitica: poco importa, dice Spykman, chi controlla l’Heartland (URSS e la Cina che diverrà presto comunista), l’importante è che le potenze marittime “contengano” il nemico, circondandolo con una serie di Stati-satelliti così di depotenziarlo. A fianco dell’Heartland, nasce così il “Rimland”, rappresentato da tutti quegli appigli (dall’Italia al Giappone, passando per l’India) con cui le talassocrazie possono aggrapparsi alla masse terrestre. Non è, in realtà, un pensiero nuovo: già Mackinder, infatti, aveva evidenziato l’importanza di queste “teste di ponte”, indispensabili per le potenze marittime. Tra le teste di ponte citate da Mackinder nel 1904… c’è anche la Corea!

Iosif Stalin, ben consapevole dell’importanza di questo lembo di terra lungo 950 km, piuttosto brullo ed inospitale, decide di sfrattare gli americani dal condominio che si è creato dopo la sconfitta del Giappone: sovietici ed americani, infatti, si incontrano al 38esimo parallelo ed ognuno, nella propria metà, ha installato un governo amico. All’alba del 25 giugno 1950, l’esercito nordcoreano attraversa il 38esimo parallelo, travolgendo le difese sudcoreane. Caduta Seul, il 30 giugno, il presidente Truman autorizza il generale Douglas MacArthur ad intervenire: comincia così la guerra che si protrarrà fino al 1953 e si concluderà con un sostanziale pareggio (il confine tra le due Coree rimane fissato al 38esimo parallelo), grazie al massiccio intervento della Cina. Il regime di Kim Il Sung (1912-1994) supererà la Guerra Fredda senza altri particolari colpi di scena, grazie al costante appoggio cinese.

Simpatico aneddoto: l’ex-agente del SISMI, Francesco Pazienza, incontra i nordcoreani negli anni ‘80 alle isole Seychelles, dove gestiscono il servizio informazioni del presidente Ti France René. Propongono a Pazienza di eliminare un agente CIA, di cittadinanza italiana, che gira per le isole facendo troppe domande: il suo nome è Antonio Di Pietro1.

Nel 1991 collassa l’URSS e le potenze marittime riprendono la loro marcia verso l’Heartland (allargamento ad est della NATO, Georgia, Asia Centrale, etc. etc.). In questo contesto, la Corea del Nord è una potenza ostile situata nella fascia intermedia, il suddetto Rimland: il suo destino dovrebbe essere lo stesso quello della Jugoslavia. L’amministrazione Clinton, che apre le porte del WTO della Cina, ha però scarso interesse a scatenare una guerra a poca distanza dall’area in cui le imprese americane stanno delocalizzando. L’amministrazione Bush valuta il cambio di regime nel 2003, ma il pantano iracheno raffredda l’ardore bellico di Donald Rumsfeld e soci.

Resta il fatto che qualsiasi Stato ostile agli USA e privo di arsenale atomico può essere rovesciato in qualsiasi momento: Pyongyang accelera quindi il proprio programma nucleare bellico, usando uranio locale, e nel 2006 effettua con successo il primo test atomico. Nel caos dell’Ucraina post-Euromaidan2 (2014), i nordcoreani acquistano i missili balistici SS-18; il 29 agosto 2017 lanciano il primo vettore che sorvola il Giappone per inabissarsi nel Pacifico; il 3 settembre 2017 testano la prima bomba termonucleare.

La Nord Corea è ora nel ristretto club atomico: dispone di un arsenale che, in teoria, dovrebbe dissuadere qualsiasi aggressore. Il celebre “deterrente nucleare”.

La storia finirebbe qui se, come però sottolineato in precedenza, la penisola coreana non fosse parte di quel “Rimland” con cui le potenze marittime circondano, contengono e, all’occorrenza, attacco “l’Heartland”: è proprio quest’ultimo, non la piccola Corea del Nord, che ossessiona le talassocrazie.

L’intero continente euroasiatico, dal Mar Meridionale Cinese al Mar Baltico, si sta coprendo di ferrovie ad alta velocità ed alta capacità, anno dopo anno. Cina e Russia conducono esercitazioni navali congiunte nel Pacifico come nel Mediterraneo. Gasdotti ed oleodotti attraversano i due Paesi. Pechino costruisce linee ferroviarie capaci di raggirare lo Stretto di Malacca (attraverso la Birmania) o di raggiungerlo in poche ore (attraverso la Malesia), indebolendo così la funzione di Singapore. “L’area pivot” di Mackinder non è mai stata così viva e dinamica, ponendo le talassocrazie di fronte ad un bivio: la capitolazione o l’attacco.

È in questa cornice che va collocata la tensione tra angloamericani e nordcoreani: poco importa a Washington dell’arsenale di Kim Jong-un, molto invece della crescente potenza navale cinese (nell’aprile del 2017 i cantieri di Dalian hanno varato la prima portaerei Made in China) e della cooperazione con quella russa. Sia Mosca che Pechino ne sono coscienti ed è per questo che a settembre hanno votato in sede ONU le sanzioni contro Pyongyang, sebbene edulcorate quanto basta da non portare il regime al collasso3: il nucleare nordcoreano è soltanto un pretesto utile alle talassocrazie per tentare di strangolare il blocco continentale.

Un comodo espediente per il dispiegamento dei missili THAAD in Sud Corea4, duramente contestato dalla Cina, per il riarmo del Giappone (che gioca oggi un ruolo identico al Giappone filo-britannico ed anti-cinese di inizio Novecento), per la riesumazione della SEATO: sono questi gli obbiettivi che interessano a Washington e Londra, resi possibili dall’arsenale atomico nordcoreano. Il presidente Donald Trump, sempre più avvinghiato nella ragnatela di Washington, lancerà un attacco preventivo contro la Nord Corea? Se così fosse, significherebbe soltanto anticipare al 2017 una guerra già ben delineata. L’ennesimo scontro tra terra e mare.

1Francesco Pazienza, il Disubbidiente, Longanesi, 1999, pg. 460

2https://www.nytimes.com/2017/08/14/world/asia/north-korea-missiles-ukraine-factory.html

3https://www.vox.com/world/2017/9/12/16294020/russia-china-water-un-sanction-north-korea

4http://edition.cnn.com/2017/09/07/asia/south-korea-thaad-north-korea/index.html

L’IMPORTANZA DI DIFENDERE LA NAZIONE, (a cura di) Luigi Longo

 

Propongo due letture: una di Manlio Dinucci (Bipartisan il riarmo USA anti Russia) apparsa sul il Manifesto il 18/10/17, l’altra una dichiarazione di diversi studiosi (Una Europa in cui possiamo credere) pubblicata sul sito https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/, ottobre 2017.

Le due letture apparentemente non sono connesse, ma riflettendo più a fondo ci si accorge che sono innervate su due questioni fondamentali che interessano la fase attuale del multicentrismo: la prima riguarda la sfera militare per l’aumento sempre più vistoso della spesa per gli armamenti e per l’importanza dello spazio italiano per le strategie statunitensi in funzione anti Russia (lo spettro dei decisori USA);

la seconda concerne il recupero di una Europa delle nazioni e l’importanza che assume in questa fase la sovranità nazionale, sia per contrastare l’Europa delle regioni sia per un’Europa protagonista tra Occidente e Oriente, per costruire una relazione tra i popoli rispettosa delle differenze.

 

BIPARTISAN IL RIARMO USA ANTI-RUSSIA

di Manlio Dinucci

I Democratici, che ogni giorno attaccano il repubblicano Trump per le sue dichiarazioni bellicose, hanno votato al Senato insieme ai Repubblicani per aumentare nel 2018 il budget del Pentagono a 700 miliardi di dollari, 60 miliardi in più di quanto richiesto dallo stesso Trump. Aggiungendo i 186 miliardi annui per i militari a riposo e altre voci, la spesa militare complessiva degli Stati uniti sale a circa 1000 miliardi, ossia a un quarto del bilancio federale. Decisivo il voto all’unanimità del Comitato sui servizi armati, formato da 14 senatori repubblicani e 13 democratici.

Il Comitato sottolinea che «gli Stati uniti devono rafforzare la deterrenza all’aggressione russa: la Russia continua ad occupare la Crimea, a destabilizzare l’Ucraina, a minacciare i nostri alleati Nato, a violare il Trattato Inf del 1987 sulle forze nucleari a raggio intermedio, e a sostenere il regime di Assad in Siria». Accusa inoltre la Russia di condurre «un attacco senza precedenti ai nostri interessi e valori fondamentali», in particolare attraverso «una campagna diretta a minare la democrazia americana». Una vera e propria dichiarazione di guerra, con cui lo schieramento bipartisan motiva il potenziamento dell’intera macchina bellica statunitense.

Queste alcune delle voci di spesa nell’anno fiscale 2018 (iniziato il 1° ottobre 2017):
10,6 miliardi di dollari per acquistare 94 caccia F-35, 24 in più di quanti richiesti dall’amministrazione Trump;
17 miliardi per lo «scudo anti-missili» e le attività militari spaziali, 1,5 in più della cifra richiesta dall’amministrazione;
25 miliardi per costruire altre 13 navi da guerra, 5 in più di quante richieste dall’amministrazione.

Dei 700 miliardi del budget 2018, 640 servono principalmente all’acquisto di nuovi armamenti e al mantenimento del personale militare, le cui paghe vengono aumentate portando il costo annuo a 141 miliardi; 60 miliardi servono alle operazioni belliche in Siria, Iraq, Afghanistan e altrove. Vengono inoltre destinati 1,8 miliardi all’addestramento e l’equipaggiamento di formazioni armate sotto comando Usa in Siria e Iraq, e 4,9 miliardi al «Fondo per le forze di sicurezza afghane».

Alla «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa», lanciata nel 2014 dall’amministrazione Obama dopo «l’aggressione revanscista russa all’Ucraina», vengono destinati nel 2018 4,6 miliardi: essi servono ad accrescere la presenza di forze corazzate statunitensi e il «preposizionamento strategico» di armamenti Usa in Europa. Vengono inoltre stanziati 500 milioni di dollari per fornire «assistenza letale» (ossia armamenti) all’Ucraina.

L’aumento del budget del Pentagono traina quelli degli altri membri della Nato sotto comando Usa, compresa l’Italia la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100.

Allo stesso tempo il budget del Pentagono prospetta che cosa si prepara per l’Italia.

Tra le voci di spesa minori, ma non per questo meno importanti, vi sono 27 milioni di dollari per la base di Aviano, a riprova che continua il suo potenziamento in vista dell’installazione delle nuove bombe nucleari B61-12, e 65 milioni per il programma di ricerca e sviluppo di «un nuovo missile con base a terra a raggio intermedio per cominciare a ridurre il divario di capacità provocato dalla violazione russa del Trattato Inf».

In altre parole, gli Stati uniti hanno in programma di schierare in Europa missili nucleari analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta, questi ultimi installati allora anche in Italia a Comiso. Ce lo annuncia dal Senato degli Stati uniti, con il suo unanime voto bipartisan, il Comitato sui servizi armati.

LA DICHIARAZIONE DI PARIGI

UN’EUROPA IN CUI POSSIAMO CREDERE

1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

L’Europa è nostra casa.

2. L’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere la realizzazione della nostra civiltà, ma in verità sta requisendo la nostra casa. Si appella alle esagerazioni e alle distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa, e resta cieca di fronte ai propri vizi. Smerciando con condiscendenza caricature a senso unico della nostra storia, questa Europa falsa nutre un pregiudizio invincibile contro il passato. I suoi fautori sono orfani per scelta e danno per scontato che essere orfani ‒ senza casa ‒ sia una conquista nobile. In questo modo, l’Europa falsa incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatrice di una comunità universale che però non è né universale né una comunità.

Una falsa Europa ci minaccia.

3. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

La falsa Europa è utopica e tirannica.

4. Siamo in un vicolo cieco. La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive. I nostri Paesi e la cultura che condividiamo vengono svuotati da illusioni e autoinganni su ciò che l’Europa è e deve essere. Noi c’impegniamo dunque a resistere a questa minaccia diretta contro il nostro futuro. Noi difenderemo, sosterremmo e promuoveremo l’Europa vera, l’Europa a cui in verità noi tutti apparteniamo.

Dobbiamo difendere la Europa vera.

5. L’Europa vera si aspetta e incoraggia la partecipazione attiva al progetto di una vita politica e culturale comuni. Quello europeo è un ideale di solidarietà basato sull’assenso a un corpo di leggi che si applica a tutti, ma che è limitato nelle pretese. Questo assenso non ha sempre assunto la forma della democrazia rappresentativa. Ma le nostre tradizioni di lealtà civica riflettono un assenso fondamentale alle nostre tradizioni politiche e culturali, quali che ne siano le forme. Nel passato, gli europei hanno combattuto per rendere i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare e di questa storia andiamo giustamente orgogliosi. Pur facendolo, talora con modi apertamente ribelli, hanno vigorosamente affermato che, malgrado le ingiustizie e le mancanze, le tradizioni dei popoli di questo continente sono le nostre. Questo zelo riformatore rende l’Europa un luogo alla costante ricerca di una giustizia sempre maggiore. Questo spirito di progresso è nato dall’amore e dalla lealtà verso le nostre patrie.

La solidarietà e la lealtà civica incoraggiano la partecipazione attiva.

6. È uno spirito europeo di unità che ci permette di fidarci pubblicamente gli uni degli altri, anche tra stranieri. Sono i parchi pubblici, le piazze centrali e i grandi viali delle città e dei borghi europei a esprimere lo spirito politico europeo: noi condividiamo una vita e una res publica comuni. Riteniamo nostro dovere assumerci la responsabilità del futuro delle nostre società. Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Non siamo soggetti passivi.

7. L’Europa vera è una comunità di nazioni. Abbiamo lingue, tradizioni e confini propri. Eppure ci siamo sempre riconosciuti affini, anche quando siamo arrivati al contrasto, o persino alla guerra. A noi questa unità nella diversità sembra naturale. Tuttavia è una realtà notevole e preziosa poiché non è né naturale né inevitabile. La forma politica più comune di questa unità nella diversità è l’impero, che i re guerrieri europei hanno cercato di ricreare per secoli dopo la caduta dell’impero romano. L’attrattiva esercitata dal modello imperiale è perdurata, ma ha prevalso lo Stato-nazione, la forma politica che unisce l’essere popolo alla sovranità. Lo Stato-nazione è quindi diventato il tratto caratteristico della civiltà europea.

Lo Stato-nazione è un segno distintivo dell’Europa.

8. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Noi non sosteniamo un’unione imposta o forzata.

9. L’Europa vera è stata segnata dal cristianesimo. L’impero spirituale universale della Chiesa ha portato l’unità culturale all’Europa, ma lo ha fatto senza un impero politico. Questo ha permesso che entro una cultura europea condivisa fiorissero lealtà civiche particolari. L’autonomia di ciò che chiamiamo società civile è dunque diventata una peculiarità della vita europea. Inoltre, il Vangelo cristiano non consegna all’uomo una legge divina esaustiva da applicare alla società, e questo rende possibile affermare e onorare la varietà delle legislazioni positive delle diverse nazioni senza recare minaccia alla nostra unità europea. Non è un caso che il declino della fede cristiana in Europa sia stato accompagnato da sforzi sempre maggiori per raggiugerne l’unità politica: ovvero l’impero monetario e regolatorio, ammantato dai sentimenti di universalismo pseudoreligioso, che l’Unione Europea sta costruendo.

Il cristianesimo incoraggiava l’unità culturale.

10. L’Europa vera afferma la pari dignità di qualsiasi persona, senza fare differenze di sesso, di rango o di razza. Anche questo proviene dalle nostre radici cristiane. Le nostre virtù nobili hanno un’ascendenza inequivocabilmente cristiana: l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità. Il cristianesimo ha rivoluzionato le relazioni tra gli uomini e le donne, dando valore all’amore e alla fedeltà reciproca come mai era stato fatto prima. Il legame del matrimonio consente sia agli uomini sia alle donne di prosperare in comunione. La maggior parte dei sacrifici che compiamo sono a vantaggio dei nostri coniugi e dei nostri figli. Anche questo spirito di donazione di sé è un altro contributo cristiano all’Europa che amiamo.

Le radici cristiane nutrono l’Europa.

11. L’Europa vera trae ispirazione altresì dalla tradizione classica. Noi ci riconosciamo nella letteratura della Grecia e di Roma antiche. Da europei, ci sforziamo per raggiungere la magnificenza, gemma sulla corona delle virtù classiche. A volte questo ha condotto alla competizione violenta per la supremazia. Ma al suo meglio è l’aspirazione all’eccellenza che ispira gli uomini e le donne dell’Europa a creare opere musicali e artistiche d’ineguagliata bellezza o a compiere svolte straordinarie nella scienza e nella tecnologia. Le virtù profonde dei Romani che sapevano come dominare se stessi, nonché l’orgoglio nel partecipare alla vita civica e lo spirito dell’indagine filosofica dei Greci non sono mai stati dimenticati nell’Europa vera. Anche queste eredità sono nostre.

Le radici classiche incoraggiano l’eccellenza.

12. L’Europa vera non è mai stata perfetta. I fautori dell’Europa falsa non sbagliano nel proporre sviluppi e riforme, e tra il 1945 e il 1989 molte di apprezzabile e di onorevole è stato fatto. La nostra vita condivisa è un progetto che continua, non un’eredità sclerotizzata. Ma il futuro dell’Europa riposa in una lealtà rinnovata verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé. L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

L’Europa è un progetto condiviso.

13. L’Europa vera è a rischio. I risultati ottenuti dalla sovranità popolare, dalla resistenza all’impero, dal cosmopolitismo capace di amore civico, il retaggio cristiano di una vita autenticamente umana e dignitosa, l’impegno vivo nei confronti della nostra eredità classica stanno tutti scemando. I padrini dell’Europa falsa costruiscono la loro fasulla Cristianità di diritti umani universali e noi perdiamo la nostra casa.

Stiamo perdendo la nostra casa.

14. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Sta prevalendo una libertà falsa.

15. Per le generazioni europee più giovani, invece, la realtà è molto meno dorata. L’edonismo libertino conduce spesso alla noia e a un profondo senso d’inutilità. Il vincolo matrimoniale si è indebolito. Nel mare torbido della libertà sessuale, il desiderio profondo dei giovani di sposarsi e di formare famiglie viene spesso frustrato. Una libertà che frustra le ambizioni più profonde del nostro cuore diventa una maledizione. Sembra che le nostre società stiano cadendo nell’individualismo, nell’isolamento e nell’inanità. Al posto della libertà, siamo condannati al vuoto conformismo di una cultura guidata dai consumi e dai media. È quindi nostro dovere dire la verità: la generazione del 1968 ha distrutto, ma non ha costruito. Ha creato un vuoto ora riempito dai social media, dal turismo di massa e dalla pornografia.

L’individualismo, l’isolamento e l’astuzia sono diffusi.

16. E mentre ascoltiamo i vanti di questa libertà senza precedenti, la vita dell’Europa si fa sempre più globalmente regolamentata. Ci sono regole ‒ spesso predisposte da tecnocrati senza volto legati a interessi forti ‒ che governano le nostre relazioni professionali, le nostre decisioni nel campo degli affari, i nostri titoli di studio, i nostri mezzi d’informazione e d’intrattenimento, la nostra stampa. E ora l’Europa cerca di restringere ancora di più la libertà di parola, una libertà che è stata europea sin dal principio e che equivale alla manifestazione della libertà di coscienza. Ma gli obiettivi di queste restrizioni non sono l’oscenità e le altre aggressioni alla decenza nella vita pubblica. Al contrario, la classe dirigente europea vuole manifestamente restringere la libertà di parola. Gli esponenti politici che danno voce a certe verità sconvenienti sull’islam e sull’immigrazione vengono trascinati in tribunale. La correttezza politica impone tabù così forti da squalificare in partenza qualsiasi tentativo di sfidare lo status quo. In realtà, l’Europa falsa non incoraggia la cultura della libertà. Promuove una cultura dell’omogeneità guidata da criteri mercantili e della conformità imposta da logiche politiche.

Siamo regolati e gestiti.

17. L’Europa falsa si vanta pure di un impegno senza precedenti a favore dell’eguaglianza. Pretende di promuovere la non-discriminazione e l’inclusione di tutte le razze, di tutte le religioni e di tutte le identità. In questo campo sono stati effettivamente compiuti progressi veri, ma il distacco utopistico dalla realtà ha preso il sopravvento. Negli ultimi decenni, l’Europa ha perseguito un grandioso progetto multiculturalista. Chiedere o figuriamoci promuovere l’assimilazione dei nuovi arrivati musulmani alle nostre usanze e ai nostri costumi, peggio ancora alla nostra religione, è stata giudicata un’ingiustizia triviale. L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

Il multiculturalismo è impraticabile.

18. In quest’idea c’è una grande misura di malafede. La maggior parte degli esponenti dei nostri mondi politici è senza dubbio convinta che la cultura europea sia superiore, ma non lo può dire in pubblico perché offenderebbe gl’immigrati. Stante questa superiorità, pensano che l’assimilazione avverrà in modo naturale e rapido. Riecheggiando ironicamente l’antica idea imperialista, le classi dirigenti europee presumono infatti che, in qualche modo, in obbedienza alle leggi della natura o della storia, “loro” diventeranno necessariamente come “noi”; e non concepiscono che possa accadere invece l’inverso. Nel frattempo, s’impiega la dottrina multiculturalista ufficiale come strumento terapeutico per gestire le incresciose ma “temporanee” tensioni culturali.

Cresce la fede falsa.

19. Ma vi è una malafede ancora maggiore, di un genere più oscuro. Negli ultimi decenni, una parte sempre più ampia della nostra classe dirigente ha riposto i propri interessi nell’accelerazione della globalizzazione. I suoi esponenti mirano a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. È sempre più chiaro che il “deficit di democrazia” di cui soffre l’Unione Europea non è solo un problema tecnico che si può risolvere con mezzi tecnici, ma un impegno basilare difeso con zelo. Legittimati da presunte necessità economiche o attraverso l’elaborazione autonoma di una nuova legislazione internazionale dei diritti umani, i mandarini sovranazionali delle istituzioni comunitarie europee confiscano la vita politica dell’Europa, rispondendo alle sfide in modo tecnocratico: non esiste alternativa. È questa la tirannia morbida ma concreta che abbiamo oggi di fronte.

Aumenta la tirannia tecnologica.

20. Nonostante i migliori sforzi profusi dai suoi partigiani per cercare di tenere in piedi un castello d’illusioni confortanti, l’arroganza dell’Europa falsa sta però ora diventando del tutto evidente. Soprattutto, l’Europa falsa si sta rivelando più debole di quanto chiunque avrebbe mai immaginato. L’intrattenimento popolare e il consumo materiale non alimentano la vita civica. Depauperate d’ideali nobili e inibite dall’ideologia multiculturalista a esprimere orgoglio patriottico, le nostre società hanno difficoltà a trovare la volontà di difendersi. In più, non sono certo la retorica dell’inclusione o l’impersonalità di un sistema economico dominato da gigantesche società internazionali per azioni a poter ridare vigore al senso civico e alla coesione sociale. Dobbiamo essere franchi ancora una volta: le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale. Non è solo il terrorismo islamico a portare soldati pesantemente armati nelle nostre strade. Per domare le contestazioni antisistema e persino le folle ubriache dei tifosi di calcio oggi sono necessari poliziotti in tenuta antisommossa. Il fanatismo delle tifoserie sportive è un segno disperato nel bisogno profondamente umano di solidarietà, un bisogno che d’altra parte l’Europa falsa disattende.

La Europa falsa è fragile e impotente.

21. In Europa, i ceti intellettuali sono, purtroppo, fra i principali partigiani ideologici della boria dell’Europa falsa. Senza dubbio, le nostre università sono una delle glorie della civiltà europea. Ma laddove un tempo esse cercavano di trasmettere a ogni nuova generazione la sapienza delle epoche passate, oggi per i più il pensiero critico equivale alla semplicistica ricusazione del passato. La stella polare dello spirito europeo è stata la rigorosa disciplina dell’onestà e dell’obiettività intellettuali. Ma da due generazioni questo nobile ideale è stato trasformato. L’ascetismo che un tempo cercava di liberare la mente dalla tirannia dell’opinione dominante si è mutata in un’animosità spesso compiaciuta e irriflessiva contro tutto ciò che ci appartiene. Questo atteggiamento di ripudio culturale è un modo semplice e a buon mercato per atteggiarsi a “critici”. Negli ultimi decenni, è stato sperimentato nelle sale da convegno, diventando una dottrina, un dogma. E l’unirsi a questo credo viene preso come segno di elezione spirituale da “illuminati”. Di conseguenza, le nostre università sono diventate agenti attivi della distruzione culturale.

Si è sviluppata una cultura del ripudio.

22. Le nostri classi dirigenti promuovono i diritti umani. Combattono i cambiamenti climatici. Progettano una economia di mercato più globalmente integrata e l’armonizzazione delle politiche fiscali. Supervisionano i passi compiuti verso l’eguaglianza di genere. Fanno così tanto per noi! Che importa dunque dei meccanismi con cui sono arrivati ai loro posti? Che importa se i popoli europei sono sempre più scettici delle loro gestioni?

Le èlite esibiscono in modo arrogante le loro virtù.

23. Lo scetticismo crescente è pienamente giustificato. Oggi l’Europa è dominata da un materialismo privo di obiettivi incapace di motivare gli uomini e le donne a generare figli e a formare famiglie. La cultura del ripudio defrauda le generazioni future del senso d’identità. In alcuni dei nostri Paesi vi sono zone intere in cui i musulmani vivono informalmente autonomi rispetto alle leggi vigenti, quasi fossero dei coloni invece che dei nostri connazionali. L’individualismo ci isola gli uni dagli altri. La globalizzazione trasforma le prospettive di vita di milioni di persone. Quando le si sfida, le nostre classi dirigenti dicono che la loro è semplicemente la gestione dell’inevitabile e la sistemazione delle necessità più impellenti. Nessun’altra strada è possibile, e resistere è irrazionale. Le cose non possono andare altrimenti. Chi si oppone, soffre di nostalgia, e per questo merita di essere moralmente condannato come razzista e fascista. Man mano che le divisioni sociali e la sfiducia civica si fanno evidenti, la vita pubblica europea diviene più rabbiosa, più rancorosa, e nessuno sa dove questo potrà condurre. Dobbiamo smettere di camminare lungo questa strada. Dobbiamo liberarci della tirannia dell’Europa falsa. Un’alternativa c’è.

Un’alternativa c’è.

24. L’opera di rinnovamento inizia con l’autocoscienza teologica. Le pretese universaliste e multiculturaliste dell’Europa falsa si rivelano essere surrogati della religione, con tanto di impegni di fede e pure di anatemi. È l’oppio potente che paralizza politicamente l’Europa. Noi dobbiamo quindi sottolineare che le aspirazioni religiose appartengono al mondo della religione, non a quello della politica, meno ancora a quello dell’amministrazione burocratica. Per ricuperare la nostra capacità di agire nella politica e nella storia, è imperativo risecolarizzare la vita politica dell’Europa.

Dobbiamo rifiutare i surrogati della religione.

25. Quest’impresa esigerà che ognuno di noi rinunci al linguaggio bugiardo che evita le responsabilità e che favorisce la manipolazione ideologica. I discorsi sulla diversità, sull’inclusione e sul multiculturalismo sono vuoti. Spesso è un linguaggio utilizzato per travestire i nostri fallimenti da conquiste: la dissoluzione della solidarietà sociale viene “in realtà” presa come un segnale di benvenuto, di tolleranza e d’inclusione. Ma questo è linguaggio da marketing, inteso a oscurare la realtà invece che a illuminarla. Dobbiamo allora ricuperare il rispetto profondo per la realtà. Il linguaggio è uno strumento delicato, e usandolo come un randello lo si degrada. Dobbiamo farci fautori del decoro linguistico. Il ricorso alla denuncia è il segno della decadenza che ha aggredito il nostro tempo. Non dobbiamo tollerare l’intimidazione verbale, men che meno le minacce di morte. Dobbiamo proteggere chi parla in modo ragionevole anche quando pensiamo che sbagli. Il futuro dell’Europa dev’essere liberale nel senso migliore del termine, ovvero garante di discussioni pubbliche appassionate, libere da ogni minaccia di violenza e di coercizione.

Dobbiamo ripristinare un vero e proprio liberalismo.

26. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Abbiamo bisogno di statisti responsabili.

27. Riconoscendo il carattere particolare dei Paesi europei, e la loro impronta cristiana, non dobbiamo lasciarci confondere dalle affermazioni pretestuose dei multiculturalisti. L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta. Ci attendiamo giustamente che chi migra nelle nostre terre divenga parte dei nostri Paesi, adottando le nostre usanze. Quest’aspettativa deve però essere sostenuta da una politica solida. Il linguaggio del multiculturalismo è stato importato dagli Stati Uniti d’America. Ma l’età d’oro dell’immigrazione negli Stati Uniti è stata all’inizio del secolo XX, un periodo di crescita economica notevolmente rapida in un Paese sostanzialmente privo di Welfare State e caratterizzato da un forte senso d’identità nazionale che ci si attendeva gl’immigrati assimilassero. Dopo avere accolto numeri enormi d’immigrati, gli Stati Uniti hanno poi praticamente sigillato le porte per due generazioni. L’Europa deve imparare da quell’esperienza americana invece che adottare le ideologie americane contemporanee. Quell’esperienza dice che il lavoro è un potente forza di assimilazione, che un Welfare State indulgente può invece impedire l’assimilazione e che a volte la prudenza politica impone di ridurre le cifre dell’immigrazione, anche in modo drastico. Non dobbiamo permettere che l’ideologia multiculturalista deformi la nostra capacità di valutare in sede politica quale sia il modo migliore per servire il bene comune, cosa che peraltro esige che comunità nazionali sufficientemente unite e solidali considerino il proprio bene come comune.

Dobbiamo rinnovare l’unità nazionale e la solidarietà.

28. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa Occidentale ha saputo far crescere sistemi democratici vitali. Dopo il crollo dell’impero sovietico, i Paesi dell’Europa Centrale hanno ricuperato la propria vitalità civica. Sono due delle conquiste più preziose cui l’Europa sia mai giunta. Ma andranno perdute se non affrontiamo il nodo dell’immigrazione e dei cambiamenti demografici in atto nei nostri Paesi. Solo gl’imperi possono essere multiculturali, ed è esattamente un impero ciò che l’Unione Europea diventerà se non riusciremo a fare di una nuova unità civica solidale il criterio per valutare le politiche sull’immigrazione e le strategie per l’assimilazione.

Solo gli imperi sono multiculturali.

29. Molti pensano erroneamente che l’Europa sia scossa solo dalle controversie sull’immigrazione. In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Una giusta gerarchia nutre il benessere sociale.

30. La dignità umana è più del diritto a essere lasciati in pace e le dottrine dei diritti umani internazionali non esauriscono la sete di giustizia, meno ancora la sete del bene. L’Europa deve riorganizzare il consenso attorno alla cultura morale di modo che le gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa. Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Dobbiamo ripristinare la cultura morale.

31. Mentre riconosciamo gli aspetti positivi delle economie di libero mercato, dobbiamo resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato. Non possiamo permettere che tutto sia in vendita. I mercati che funzionano bene esigono che sia il diritto a precedere e a presiedere (rule of law) e il nostro diritto che tutto precede e presiede deve puntare più in alto della mera efficienza economica. Del resto i mercati funzionano meglio quando sono inseriti in istituzioni sociali forti organizzate sui princìpi autonomi non mercantili. La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali. Oggi il gigantismo aziendale minaccia persino la sovranità politica. I Paesi debbono cooperare per dominare l’arroganza e l’irragionevolezza delle forze economiche globali. Noi ci riconosciamo quindi in un uso prudente del potere esercitato dai governi per sostenere beni sociali non economici.

I mercati devono essere ordinati verso fini sociali.

32. Noi crediamo che l’Europa abbia una storia e una cultura degne di essere difese. Troppo spesso, però, le nostre università tradiscono la nostra eredità culturale. Dobbiamo riformare i programmi scolastici per incoraggiare la trasmissione della nostra cultura comune invece che indottrinare i giovani con una cultura del ripudio. Gl’insegnanti e i mentori di ogni livello hanno il dovere della memoria. Dovrebbero essere orgogliosi del ruolo di ponte fra le generazioni passate e future che hanno. Dobbiamo ricuperare anche il senso della cultura europea alta, usando il bello e il sublime come norma comune e rigettando la degradazione delle arti a una fattispecie della propaganda politica. Questo esigerà che si allevi una nuova generazione di mecenati. Le società per azioni e le burocrazie si sono rivelate essere custodi davvero poveri delle arti.

L’istruzione deve essere riformata.

33. Il matrimonio è il fondamento della società civile e la base dell’armonia fra gli uomini e le donne. È il legame intimo tra un uomo e una donna che si organizza per il sostentamento della famiglia e per la crescita dei figli. Noi affermiamo che i ruoli più fondamentali che abbiamo sia nella società sia in quanto esseri umani sono quelli di padri e di madri. Il matrimonio e i figli sono parte integrante di qualsiasi prospettiva di prosperità umana. A coloro che li hanno generati al mondo i figli richiedono sacrificio. È un sacrificio nobile cui deve essere reso onore. Noi pertanto auspichiamo politiche sociali prudenti che incoraggino e rafforzino il matrimonio, la maternità e l’educazione dei figli. Una società che non accoglie i figli non ha futuro.

Il matrimonio e la famiglia sono essenziali.

34. L’Europa di oggi è attraversato da grande preoccupazione per il sorgere di quello che viene chiamato “populismo”, anche se il significato del termine non viene mai definito ed è usato per lo più solo come invettiva. Sul tema abbiamo le nostre riserve. L’Europa deve attingere alla sapienza profonda delle proprie tradizioni piuttosto che affidarsi a slogan semplicistici e a richiami emotivi divisivi. Eppure ci rendiamo conto che molti elementi di questo nuovo fenomeno politico possono rappresentare una sana ribellione contro la tirannia dell’Europa falsa, che etichetta come “antidemocratica” qualsiasi realtà ne minacci il monopolio della legittimità morale. Il cosiddetto “populismo” sfida la dittatura dello status quo, il “fanatismo del centro”, e lo fa giustamente. È un segno che persino nel mezzo della nostra cultura politica degradata e impoverita è possibile ridare vita all’agire storico dei popoli europei.

Il populismo dovrebbe essere combattuto.

35. Rifiutiamo perché falsa la pretesa di dire che non esiste alternativa responsabile alla solidarietà artificiale e senz’anima di un mercato unificato, di una burocrazia transnazionale e di un intrattenimento dozzinale. L’alternativa responsabile è l’Europa vera.

Il nostro futuro è la Europa vera.

36. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

Dobbiamo assumerci la responsabilità.

Philippe Bénéton – Università di Rennes-(Francia)

Rémi Brague – Università di Parigi I Pantheon – Sorbonne– (Francia) Chantal Delsol – Istituto di ricerca Hannah Arend, Accademia delle Scieze morali e politiche – (Francia)

Roman Joch – Università di Praga – (Repubblica Ceca)

Lánczi András – Università Corvinus di Budapest – (Ungheria)

Ryszard Legutko – Università Jagiellonian di Cracovia (Polonia)

Roger Scruton – Università di Buckingham – (Regno Unito)

Robert Spaemann – Università di Monaco – (Germania)

Bart Jan Spruyt – Fondazione Edmund Burke – L’Aia – (Olanda)

Matthias Storme – Università cattolica di Leuven – (Belgio)

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