EUTANASIA DI UNA RIVOLUZIONE?_di Teodoro Klitsche de la Grange

EUTANASIA DI UNA RIVOLUZIONE?

Sono fioccati abbondantemente i commenti all’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD. Molti lieti, altri perplessi, altri ancora (meno) per lo più profetizzanti un compito in salita per l’esordiente leader.

Qualche mese fa scrivevo, sull’insuccesso di Letta, che questo, più che alle proposte (ed alla “immagine”) del medesimo, era causato dal “ciclo” storico-politico. Per cui tra Repubblica “nata dalla resistenza” (ma con l’utero in affitto a Yalta) e comunismo (imploso nel 1989-1991) cioè padre e madre del PCI e, in genere, parenti stretti della sinistra italiana il PD si trovava con il secondo morto, ma anche la prima stava tutt’altro che bene.

Per cui, nuotando controcorrente, era molto difficile trovare un capo con le qualità personali volte a invertire un andamento (generale) consolidato.

E il tutto va confermato per la Schlein; anzi, l’ “immagine” della stessa può accelerare il destino del PD. Vediamo perché.

Ne Il suicidio della Rivoluzione, Del Noce scriveva che “l’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”. Profezia avverata perché oggi il postmarxismo è quel “partito radicale di massa” che riceve il sostegno della grande finanza internazionale; la conseguenza è che il vecchio PCI sarebbe finito “nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”.

A distanza di quasi cinquant’anni occorre riconoscere che la profezia di Del Noce si è realizzata, e la scelta della segretaria ne è l’ennesima conferma. Anzi l’incarnazione perché riassume in sé  tutti i connotati dell’ “ideologia” del PD: si dice sia LGBT, è sicuramente di buona famiglia borghese, ha tre passaporti, ha compiuto parte degli studi all’estero. Partecipa quale primo atto alla manifestazione antifascista. È inutile ricordare quanto scriveva Del Noce sull’antifascismo, citando Bordiga: che Gramsci “sostituendo” all’opposizione capitale/proletariato quella fascismo/antifascismo  aveva dato “vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”. E questa borghesia che Gramsci credeva di arruolare (e invece ha arruolato il PD) non è quella di Marx e neppure di altri pensatori, ma è quella in cui lo spirito borghese si manifesta finalmente allo stato puro; “in cui realizza pienamente quel che già aveva fatto per la natura, abolendo il mistero e la qualità, e sostituendoli con dati misurabili, quantitativi. L’ideologia spontanea della borghesia è il materialismo puro, il positivismo attento unicamente ai nudi fatti”; e il cui dominio  si esercita in una forma totalitaria che agisce più col condizionamento/indottrinamento culturale (l’egemonia) che con la coazione (anche se dissimulata, ma non del tutto assente).

In secondo luogo la Schlein, come ogni segretaria che il PD avesse scelto, dovrebbe far dimenticare il fallimento di tanti anni di potere (e di governo) della Seconda Repubblica, così deludenti in particolare per i ceti medi e popolari. Ma nulla dell’immagine della Schlein induce a suggerire un’identificazione dei suddetti ceti con la leader. È così difficile perché – e questo è il terzo aspetto – negli ultimi 8 anni si è concretizzato in Italia un blocco sociale tra ceti medi e popolari che è largamente maggioritario e anche coeso. La coesione dipende prevalentemente dal fatto di percepire come avversari coloro che costituiscono il blocco “globalista”.

L’unica speranza è, come normale in politica, dissolvere il blocco avverso, applicare il divide et impera (cioè la riduzione del numero e della potenza dell’avversario).

Ma questa è la manovra più difficile, perché la sostituzione dell’opposizione amico/nemico è cosa che attiene più al zeitgeist che alle manovre di palazzo. In queste il PD e il sui personale politico era (ed è) maestro: in quella non c’è un Principe che la possa fare.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Guerra russo-ucraina: l’offensiva di Schrödinger, di Big Serge

Guerra russo-ucraina: l’offensiva di Schrödinger

Una divagazione sulla struttura delle forze, sulla Moldavia e su una fortezza nella steppa

di Big Serge

https://bigserge.substack.com/p/russo-ukrainian-war-Schrödingers

1 Guerra invernale nella steppa

 

Dov’è la grande offensiva russa? Questa è, al momento, la domanda da un milione di dollari che inevitabilmente si intromette in qualsiasi discussione sull’attuale corso della guerra. Probabilmente non è sorprendente (almeno per coloro che conoscono la natura umana) che questa domanda diventi un test di Rorschach in cui ognuno legge le sue proprie ipotesi sull’esercito russo.

 

Le risposte a questa domanda sono in effetti molto diverse. Da un lato, c’è chi crede che centinaia di migliaia di truppe russe siano pronte a lanciare un’enorme offensiva, una “grande freccia sulla mappa” in qualsiasi momento. Lo dicono sia commentatori come il colonnello statunitense in pensione Douglas MacGregor sia alcune fonti ucraine, che probabilmente cercano di fomentare un senso di urgenza per ottenere maggiori aiuti dall’Occidente. All’estremo opposto, c’è chi sostiene che le forze armate russe sono talmente esaurite che non ci sarà alcuna offensiva. Ci sono anche alcuni esponenti dell’intellighenzia occidentale del Ministero dell’Illuminazione Pubblica e della Propaganda del Reich, come l’Istituto Nuland per lo Studio della Guerra o Michael Koffman, che sostengono che l’offensiva sia già iniziata, ma che sia così debole e zoppa che nessuno se n’è accorto.

Ok. Quindi, o un’offensiva gigantesca avverrà da un momento all’altro (potrebbe essere appena iniziata mentre scrivo), o non avverrà mai, o è già avvenuta, o forse è in uno stato di sovrapposizione quantistica in cui è sia riuscita che fallita, almeno finché non apriamo la scatola.

 

Una questione davvero spinosa. Al momento si stanno svolgendo molti combattimenti importanti e intensi in diversi settori del fronte – ma che relazione hanno queste operazioni con qualsiasi azione da “grandi frecce sulla mappa” da parte dei russi? Si tratta di un antipasto o di un’entrée poco soddisfacente?

 

Vorrei suggerire un’alternativa a tutte queste teorie, perché ciò di cui il mondo ha più bisogno in questo momento sono più opinioni.

 

Al momento, la Russia ha l’iniziativa su tutto il fronte. Le riserve dell’Ucraina sono in uno stato precario (soprattutto in considerazione del mandato politicamente imposto di cercare di accumulare forze per un’offensiva contro il ponte di terra verso la Crimea) e la Russia sta conducendo combattimenti ad alta intensità in settori importanti.

 

Queste operazioni, a mio avviso, servono contemporaneamente a tre scopi diversi. In primo luogo, sono operazioni di modellamento del campo di battaglia di per sé preziose, che hanno importanti implicazioni per il lancio di operazioni future. In secondo luogo, funzionano essenzialmente come attacchi di disturbo, in quanto mantengono alto il tasso di combustione al fronte e degradano la capacità dell’Ucraina di formare riserve. Come in una sorta di metafora, già si vocifera che alcuni dei nuovi carri armati Leopard ucraini saranno inviati in combattimento intorno a Bakhmut piuttosto che tenuti in riserva per una futura offensiva. Che la voce sui Leopard sia vera o meno, in termini di uomini l’Ucraina continua a pompare unità a Bakhmut, in uno spreco di uomini inconcepibile. In terzo e ultimo luogo, tutti i combattimenti a est si svolgono sotto un ombrello in cui le linee di rifornimento e l’ISR della Russia sono robusti, creando condizioni in cui l’Ucraina continua a operare con un rapporto di perdite abissale, rispetto ai russi.

 

La sintesi di tutti questi punti è che la Russia sta attualmente conducendo il logoramento dell’esercito ucraino e negando all’Ucraina qualsiasi possibilità di riguadagnare l’iniziativa operativa, perseguendo allo stesso tempo importanti obiettivi di modellamento del campo di battaglia. Ritengo che ciò avvenga sullo sfondo di un moderato, ma non catastrofico, disordine organizzativo e di una ristrutturazione delle forze armate russe, che stanno ritardando la disponibilità russa a lanciare un’offensiva su larga scala. In altre parole, l’attuale ritmo delle operazioni russe ottiene il logoramento generale delle truppe ucraine e implica che non sia necessario affrettare un’operazione ambiziosa fino a quando i problemi organizzativi non saranno risolti.

 

Nel resto di questo spazio, vorrei esaminare quali sono queste considerazioni organizzative ed esaminare due delle operazioni russe in corso (sugli assi Ugledar e Kreminna), esaminandole su una scala abbastanza ravvicinata. Accenneremo anche brevemente alle bizzarre voci di un imminente allargamento della guerra verso la Moldavia.

 

Mi scuso per il tempo che a volte trascorre tra un articolo e l’altro, ma come vedrete la mia scrittura spesso va in metastasi e queste voci diventano molto più lunghe di quanto inizialmente previsto, e potrebbero tecnicamente qualificarsi come novelle, in base al numero di parole. In ogni caso, spero che il volume e la qualità dei contenuti possano compensare l’intervallo, e in caso contrario la sezione dei commenti è aperta per esprimere il vostro disappunto e le vostre polemiche anti-Serge.

 

Organizzare un esercito

Per i giovani uomini, il fascino della guerra attraversa fasi distinte. Nella maggior parte dei casi inizia con l’equipaggiamento e la visione delle battaglie con “grandi frecce sul campo di battaglia”. Le dimensioni dei cannoni dei carri armati della Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, rivestono probabilmente un interesse sproporzionato, tra i ragazzi di 8-16 anni. Loro vogliono soprattutto sapere delle grandi battaglie, dei grandi schemi di movimento e dei grandi cannoni.

 

Col tempo, però, si arriva alla conclusione ineluttabile che gli eserciti hanno una spina dorsale intensamente burocratica e che fattori apparentemente banali come la composizione delle unità, la logistica delle retrovie e gli organigrammi hanno enormi implicazioni sul campo di battaglia. È qui che entrano in gioco le temute tabelle dell’ordine di battaglia e i diagrammi delle unità, e inevitabilmente si deve iniziare a memorizzare il significato di quella miriade di piccoli simboli. Alla fine ci si rende conto che la costruzione delle unità e altri fattori organizzativi sono, entro i limiti del ragionevole, molto più importanti delle minuzie dell’equipaggiamento e degli armamenti, e che avreste dovuto contemplare gli aspetti burocratici per tutto il tempo, e che (tragicamente) la dimensione del cannone del carro armato Sherman Firefly non è stata in realtà un fattore particolarmente decisivo nella storia del mondo.

 

Per la cronaca, è ancora bello.

 

La Russia sta attualmente risolvendo i problemi organizzativi creati dal modello unico di servizio misto del Paese (che mescola soldati a contratto e soldati di leva), e in particolare il logorante Gruppo Tattico di Battaglione (BTG).

 

Ho parlato a lungo del Gruppo tattico di battaglione in un precedente articolo, ma ricapitoliamo brevemente. L’esercito russo utilizza un modello misto di soldati professionisti a contratto e di leva, e questi due tipi di personale hanno un’importante differenziazione legale. I soldati di leva non possono essere impiegati in combattimento al di fuori della Russia senza una dichiarazione di guerra. Ciò significa che una data unità russa (usiamo una brigata come esempio standard) ha una forza completa (“sulla carta”) composta da personale misto e un nucleo di soldati a contratto che può essere schierato all’estero. La questione per la leadership russa diventa quindi come progettare queste unità per combattere senza i loro soldati di leva. La risposta a questo problema è stata il Gruppo tattico di battaglione, una formazione derivata che si stacca (se vogliamo) dalla brigata. La progettazione di queste unità ha naturalmente altre considerazioni, ma la preoccupazione di base che ha spinto alla creazione del BTG è stata la necessità di creare una forza che potesse combattere senza i suoi coscritti.

 

Il BTG, come è stato notato, è pesante in termini di potenza di fuoco, con un forte complemento organico di pezzi d’artiglieria e veicoli corazzati, ma eccezionalmente leggero in termini di fanteria. Questo ha implicazioni sia per le operazioni offensive che per quelle difensive, come abbiamo visto molto chiaramente nei primi nove mesi di guerra in Ucraina.

 

In difesa, il BTG (essendo povero di fanteria) deve combattere da dietro un sottile schermo e infliggere sconfitte al nemico con il suo fuoco a distanza. Non si tratta di un’unità in grado di combattere con tenacia per mantenere le posizioni avanzate, ma di un’unità costruita per sbriciolare l’attaccante. Più in generale, tuttavia, i BTG sono unità fragili, nel senso che perdite relativamente basse di fanteria o carri armati li rendono inadatti a ulteriori compiti di combattimento. Questo rende l’unità una specie di cannone di vetro: capace di erogare una potenza di fuoco enorme, ma non in grado di sostenere le operazioni dopo perdite moderate. Essendo un’unità fondamentalmente “dimagrita”, fatica a sostenere e recuperare la capacità di combattimento senza ruotare nelle retrovie per ricevere rimpiazzi o cannibalizzare altre unità.

 

In un certo senso, questo è ciò che ci si aspetterebbe dati i vincoli del modello di coscrizione e contratto, che per sua stessa natura ha costretto i russi a progettare un’unità ridotta e leggera dal punto di vista degli effettivi rispetto alle loro brigate a piena forza. Questo è il motivo per cui la Russia aveva una generale scarsità di truppe che ha iniziato a compromettere la sua efficacia operativa complessiva nell’estate del 2022, quando la mobilitazione ucraina e gli aiuti occidentali hanno portato a un enorme vantaggio numerico dell’esercito ucraino. All’apice, la prima fase della guerra ha visto probabilmente non più di 80.000 effettivi russi regolari in Ucraina, e anche con la DNR, la LNR e il gruppo Wagner che fornivano un cuscinetto di fanteria, la forza russa totale era in inferiorità numerica di almeno 3 a 1. Il BTG poteva ancora infliggere danni enormi, ma la strutturazione delle forze in Ucraina era semplicemente insufficiente per l’ampiezza del teatro d’operazioni, il che portò a svuotare un’enorme sezione del fronte a Kharkov. Da qui la mobilitazione.

2Il BTG si è rivelato un’unità potente ma fragile.

È qui che cominciano ad apparire i segni di problemi organizzativi. Era giunto il momento, con la mobilitazione che finalmente forniva alla Russia le truppe schierabili di cui aveva bisogno, di abbandonare i BTG poveri di fanteria e iniziare a condurre operazioni con grandi unità, ma è chiaro che il processo organizzativo per incorporare il personale mobilitato nell’esercito e assemblare grandi unità (brigate e superiori) non è stato efficiente. I mobilitati sembrano essere stati inizialmente utilizzati in vari modi. Alcuni sono stati inviati alle unità esistenti nella zona di operazioni come rimpiazzi, altri sono stati inseriti in nuove unità composte interamente da personale mobilitato. Il risultato è un’accozzaglia di unità variegate che devono ancora essere organizzate in grandi unità per le operazioni offensive.

 

Probabilmente c’era da aspettarsi un po’ di caos, dato che nessuno oggi in vita ha esperienza nel condurre una mobilitazione generale per una guerra continentale, e l’intero processo per la Russia è un po’ complicato a causa delle molte classi diverse di personale e della barriera legale all’utilizzo dei coscritti. In generale, tuttavia, sembra chiaro che il processo di ritorno dall’esercito di spedizione con BTG ridotti a formazioni madri più grandi è stato inefficiente, e che la Russia sta ancora attraversando la fase di formazione di grandi unità. Inoltre, permane un certo ritardo nella consegna di veicoli da combattimento di fanteria aggiornati (soprattutto BMP) alle unità di fucilieri motorizzati in formazione.

 

In questo contesto, il Ministro della Difesa russo Sergei Shoygu ha annunciato un nuovo programma di riorganizzazione militare. Forse il punto più significativo della lista dei cambiamenti è la decisione di iniziare a convertire le brigate esistenti in divisioni. Può sembrare una vanità burocratica, ma non è così. Discutiamone.

 

Alla fine della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica disponeva dell’esercito più grande e potente del mondo, in grado di schierare milioni di uomini, armati fino ai denti e con scorte ineguagliabili di ogni tipo di equipaggiamento pesante. Il fatto che questo potente apparato militare non abbia visto praticamente nessun ammutinamento o rottura alla fine, e che non sia stato impiegato per preservare il sistema comunista, è una delle grandi curiosità della storia moderna, ma questa è una storia per un’altra volta.

 

In ogni caso, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia ha ereditato la maggior parte dell’eredità militare sovietica, ma tra le turbolenze economiche e il disagio generale della società, non poteva permettersi di mantenere attiva questa forza massiccia (né aveva gli uomini, avendo perso l’accesso a gran parte del bacino di reclutamento sovietico). Questo portò Mosca a convertire gran parte dell’esercito sovietico in quelle che sono note come “formazioni di quadri”: in sostanza, una particolare divisione sarebbe stata ridotta a uno scheletro di personale (poche centinaia di persone, per lo più ufficiali e sottufficiali) che avrebbe costituito il nucleo attorno al quale la divisione sarebbe stata riportata alla forza di combattimento. In questo modo, le enormi divisioni sovietiche potevano essere ridotte a magazzini pieni di equipaggiamento e a un piccolo gruppo di quadri, mettendo più o meno in ibernazione la divisione per un uso futuro.

 

Nel 2008, la Russia ha intrapreso un’importante ristrutturazione militare sotto la guida dell’ex ministro della Difesa Anatoly Serdyukov. Le riforme del 2008 sono state un tentativo tardivo di abbandonare l’esercito sovietico. Gli elementi della riorganizzazione comprendevano l’eliminazione delle divisioni di quadri e la conversione di tutte le divisioni esistenti in brigate. In questo modo la Russia si allontanò dalla struttura delle divisioni sovietiche per passare a un modello di brigata più occidentale.

 

Il duplice effetto dell’eliminazione delle formazioni di quadri e del ridimensionamento delle divisioni in brigate fu quello di snellire un corpo ufficiali troppo gonfio e di creare una forza più snella. Sebbene siano state mantenute alcune divisioni, queste erano l’eccezione piuttosto che la regola. In generale, una brigata russa è grande forse il 40-50% di una divisione di tipo equivalente: ad esempio, una divisione di fucilieri motorizzati può essere forte di 8.500 uomini, ma una brigata di fucilierimotorizzati può essere di circa 3.500-4.000 uomini.

 

Il ridimensionamento delle divisioni in brigate è stato vantaggioso in tempo di pace, in quanto ha ridotto i costi di un corpo ufficiali gonfio e sovraccarico, e in generale ha sostenuto il regime di austerità della Russia. Gli eserciti, tuttavia, sono costruiti per la guerra.

 

La leadership russa ha chiaramente concluso che l’esercito ridotto, con pochi uomini, non è adeguato per una guerra ad alta intensità. Ciò corrisponde alla lezione generale appresa da tutte le parti coinvolte: la guerra è ancora un’impresa industriale e il successo richiede la massa – grandi unità che sparano molti proiettili. Pertanto, l’ammissione da parte della NATO che la spesa per le munizioni supera di gran lunga la loro capacità produttiva e la decisione della Russia di espandere l’esercito sono due facce della stessa medaglia.

3 Sergej Shoigu, MInistro della Difesa della Federazione Russa

Questo ci riporta all’annuncio di Shoigu che le brigate esistenti saranno riconvertite in divisioni, annullando di fatto un elemento chiave delle riforme del 2008. L’esperienza russa in Ucraina ha dimostrato che le unità ridotte non sono abbastanza robuste (soprattutto in termini di uomini) per sostenersi adeguatamente in combattimento.

 

Il quadro che emerge è quello di un esercito russo che cerca di gestire tre diverse transizioni contemporaneamente. Vale a dire: (1) l’ingresso di un gran numero di personale mobilitato che deve essere organizzato in grandi unità capaci di operazioni offensive, (2) un’espansione complessiva e la riorganizzazione dell’esercito in una struttura divisionale, e (3) una massiccia espansione della produzione di armamenti, con il complesso militare-industriale russo che si riattrezza per produrre un mix di sistemi basati sull’esperienza di combattimento in Ucraina.

 

Sembra che il verdetto più probabile sia che, al momento, queste sfide organizzative non siano completamente risolte, limitando l’attività immediata russa alle operazioni di modellamento del campo di battaglia e al mantenimento di battaglie d’attrito in fosse della morte (come Bakhmut) sotto la copertura dell’ombrello ISR e della potenza di fuoco della Russia a est. Questo continuerà fino a quando le unità regolari di fucilieri e carri armati non saranno pronte per le operazioni di attacco.

 

Per questo motivo, al momento, gran parte dei compiti offensivi della Russia sono gestiti da unità che si trovano all’estremità alta e bassa dello spettro delle unità, ovvero unità d’élite come i VDV (aviotrasportati) e i Marines, o unità irregolari come i Wagner e la DNR/LNR. Il gradino intermedio della scala – le unità regolari di fucilieri motorizzati – sono per lo più visibili in posizioni difensive.

 

Questo non vuol dire che la mobilitazione non abbia già avuto un effetto importante sul campo di battaglia. Le condizioni che hanno permesso l’offensiva ucraina nell’oblast di Kharkov lo scorso autunno sono state corrette. Non ci sono più sezioni di fronte assottigliate e le posizioni della Russia sono ora adeguatamente presidiate. A tutt’oggi l’Ucraina non è ancora riuscita a sfondare una posizione russa fortemente presidiata, e la mobilitazione ha permesso alla Russia di presidiare finalmente in modo adeguato l’enorme fronte. Tuttavia, non ha portato a un aumento visibile della generazione di forze offensive, e sembra che ciò sia dovuto in larga misura al caos organizzativo associato al ritorno dai BTG alle brigate e alle divisioni.

 

Dal punto di vista russo, questa è la cattiva notizia. La buona notizia è che, anche se gran parte dell’esercito mobilitato è ancora in uno stato di flusso organizzativo, la forza di combattimento russa è più che sufficiente per sostenere i combattimenti sugli assi esistenti, interrompendo i tentativi dell’Ucraina di accumulare riserve e di perseguire importanti obiettivi di formazione.

 

Persi nei boschi

Mentre il mondo discute all’infinito sull’offensiva di Schrödinger, qualcosa di significativo si sta perdendo. A prescindere dall’assenza, ora o in futuro, di “grandi frecce” che facciano bella figura su una mappa, i combattimenti in corso nel Donbass sono molto importanti dal punto di vista operativo. Restringiamo il campo d’azione e guardiamo a un piccolo tratto di fronte poco amato e pensiamo a ciò che sta accadendo in quel momento. In particolare, vorrei esaminare l’asse di Kreminna.

 

Kreminna è una piccola città di non più di 20.000 abitanti (prima della guerra) con una posizione alquanto fortunata. Si trova vicino al confine tra gli oblast di Lugansk e Donetsk, e in particolare occupa il punto in cui una linea ferroviaria critica si avvicina all’elemento geografico dominante della zona, che è il fiume Donets (alternativamente chiamato fiume Severodonetsk).

 

I fiumi sono sempre importanti, ma il Donets lo è in modo particolare, perché le sue sponde – in particolare quella settentrionale – sono sede di una fitta cintura forestale (in parte naturale, ma in gran parte costituita da piantagioni). Questa foresta è diventata un elemento critico dei combattimenti in questo settore.

4 Foresta di Donets

Nell’estate del 2022, zone boschive come questa sono diventate uno dei primi segnali della necessità per la Russia di aumentare il proprio dispiegamento di forze in Ucraina. Sia in questa fascia lungo il Donets che in una zona forestale simile intorno a Izyum, le forze russe hanno avuto difficoltà a sigillare completamente il fronte e a mettere in sicurezza le foreste. Ciò è dovuto in gran parte a due fattori. In primo luogo, le foreste fitte indeboliscono necessariamente l’ISR (Intelligence, Surveillance, & Reconnaissance) russo oscurando la visibilità. Il secondo fattore (strettamente correlato) era la scarsità di fanteria della Russia. Poiché le forze russe iniziali erano decisamente sotto organico per quanto riguarda la fanteria, l’esercito russo preferiva combattere con uno schermo leggero di fanteria dietro il quale si poteva dirigere il fuoco a distanza – uno schema generale che si rompe nei boschi, dove l’ISR è debole e non ci sono fanterie sufficienti per presidiare linee continue.

 

Tutto questo per dire che nell’estate del 2022 queste fasce boschive erano un ambiente problematico per le forze russe. Ora, però, hanno posto rimedio alle loro carenze di uomini e si trovano in una posizione in cui la sicurezza della cintura forestale del Donets è un’alta priorità operativa. Questo perché la fascia corre orizzontalmente (cioè in direzione est-ovest) sotto l’asse di avanzata della Russia verso Lyman.

 

Kreminna è diventato un settore di combattimenti ad alta intensità negli ultimi mesi, essendo forse l’unico asse in cui l’Ucraina aveva qualche prospettiva realistica di ottenere un risultato decisivo dal punto di vista operativo, con la linea ferroviaria per Lysychansk apparentemente a portata di mano. Questo ha fatto precipitare una serie di attacchi ucraini falliti sulla stessa Kreminna, che sono crollati con pesanti perdite di vite umane, prima che la Russia iniziasse a spingersi verso ovest sull’asse di ritorno verso Lyman.

 

La foresta, tuttavia, complica le cose. L’Ucraina ha libero accesso all’attraversamento della foresta perché controlla la riva meridionale del fiume Donets. Potendo rinforzare e sostenere i gruppi di combattimento nella fascia di foresta, l’Ucraina è in grado di fare pressione sul fianco di qualsiasi attacco russo prolungato verso ovest, in direzione di Lyman. È per questo che nelle ultime settimane gli sforzi russi verso ovest si sono affievoliti a favore di attacchi verso sud, nei boschi stessi.

 

È chiaro che sigillare questa foresta è un compito critico che deve essere raggiunto prima di poter continuare l’offensiva verso Lyman (a sua volta un obiettivo operativo intermedio cruciale prima dell’assalto alla linea di Slavyansk). Fortunatamente per la Russia, essa ha un modo per raggiungere questo obiettivo che sarà più facile di una lotta prolungata nei boschi. Il sostegno ucraino nella cintura forestale si basa sul controllo della riva meridionale del fiume Donets, ma le linee russe sono attualmente a soli cinque chilometri di distanza a Zolotarivka.

L’intero fronte diventa una lezione istruttiva sull’interconnessione di tali operazioni e sulla natura cruciale di queste battaglie, che spesso vengono liquidate come semplici “operazioni di modellamento”, combattute per obiettivi piccoli e insignificanti.

Un attacco russo su direttrice nord-occidentale verso la riva meridionale del fiume Donets punterebbe a piccoli insediamenti dai nomi dimenticabili come Serebryanka e Grygorivka. Di certo, la cattura di tali villaggi difficilmente incuterà il timore di Dio nei Jake Sullivan e nelle Victoria Nuland del mondo – temo che nulla di terreno possa farlo. Tuttavia, una spinta russa verso la sponda meridionale del fiume interromperà le rotte utilizzate per sostenere le forze ucraine nella fascia forestale sulla sponda *nord* del fiume. Questo, a sua volta, permetterebbe alle forze russe uscite da Kreminna di mettere in sicurezza la fascia forestale e di neutralizzare la minaccia sul loro fianco sinistro, mentre riprendono le azioni di attacco a ovest verso Lyman. Non hanno nemmeno bisogno di catturare Lyman stessa nel breve termine, perché raggiungere il villaggio di Yampil sarebbe sufficiente per tagliare l’ultima arteria di rifornimento rimasta a Siversk (le vie meridionali sono state interrotte dalle forze russe intorno a Bakhmut) e creare le condizioni per la Russia di liquidare l’intero saliente di Siversk.

 

In breve, questa zona forestale e il corridoio da Kreminna a Lyman fungono da cerniera tra i fronti di Lugansk e Donetsk, e ancora più specificamente questa fascia forestale direttamente lungo il fiume Donets funge da cerniera tra Kreminna e Siversk. Nel 2022, questo era il tipo di terreno che l’Ucraina riusciva a sfruttare grazie alla composizione della fanteria leggera russa. Ora che questo problema è stato risolto, la Russia ha le forze per proteggere adeguatamente queste foreste e può accelerare questo processo interrompendo i passaggi fluviali su cui l’Ucraina fa affidamento per sostenere le sue unità nella fascia forestale.

Ugledar: Anatomia di una battaglia

Al momento, il fronte in Ucraina è attivo in molti punti, con misurati avanzamenti russi sulla linea fluviale del fiume Oskil, una costante serie di pesanti combattimenti nella zona forestale tra Lyman e Kreminna e, naturalmente, il pozzo della morte wagneriano di Bakhmut. Si tratta di aree di combattimento importanti e ad alta intensità, ma al momento non si sta sviluppando nulla che possa essere razionalmente definito una “grande freccia”.

 

Alla luce di questa situazione generale, ho pensato che questa potesse essere una buona occasione per esaminare una particolare sezione del fronte e riflettere sulla battaglia in corso in alta risoluzione. Più specificamente, voglio esaminare da vicino la battaglia in corso nel settore di Ugledar – discutiamo non solo perché è importante, ma vediamo anche i dettagli ravvicinati dell’assalto russo, le contromisure ucraine e i potenziali progressi futuri.

 

Ugledar (alcune mappe possono usare la formulazione ucraina “Vuhledar”) è una cittadina piuttosto curiosa, con una popolazione che prima della guerra probabilmente non ha mai superato i 15.000 abitanti. La città stessa è un denso agglomerato di condomini in cemento che si affacciano su una distesa di steppa notevolmente piatta – piatta anche per gli standard ucraini.

5 Ugledar e i suoi dintorni

Ugledar ha un’importanza operativa fuori scala per l’Ucraina, sia per scopi offensivi che difensivi. L’attuale linea del fronte vede le forze ucraine tenere un rigonfiamento, o saliente, a sud-ovest della città di Donetsk. Questo rigonfiamento è caratteristico in quanto è la posizione ucraina più vicina alla linea ferroviaria principale che collega Donetsk a Mariupol e al ponte terrestre per la Crimea (e quindi rappresenta la minaccia ucraina più immediata per la logistica russa a sud). I fianchi di questo rigonfiamento sono ancorati da Ugledar e Marinka – e dietro Ugledar, in particolare, non ci sono buoni posti per l’Ucraina per ancorare la difesa del saliente.

6 Ugledar e il saliente di Donetsk (Mappa di Military Land)

Finché gli ucraini terranno Ugledar, terranno questo saliente e avranno una posizione da cui minacciare il traffico ferroviario russo. Se perdono Ugledar, l’arrotolamento dell’intero saliente sarà una conclusione scontata. È quindi banalmente ovvio perché questa posizione è una priorità sia per la Russia che per l’Ucraina.

 

Questo ci porta a Ugledar stessa e alla battaglia in corso per il suo controllo. È immediatamente evidente perché la città sarebbe difficile da conquistare. È caratterizzata da blocchi di appartamenti in cemento, densamente stipati ed estremamente robusti, e la piattezza del terreno in avvicinamento offre ai difensori ucraini un campo visivo pulito. Si tratta di una posizione fisicamente resistente con una vista dominante sull’area circostante.

7 Vista aerea di Ugledar da nordovest

Lo spazio di battaglia qui è piccolo e facile da parametrare. Ugledar è a circa un miglio di distanza dalle città di Pavlivka e Mykils’ke, in mano ai russi. Il campo in avvicinamento è estremamente piatto, il che rende l’attraversamento allo scoperto un pericolo estremo. La linea di avvicinamento più praticabile è invece verso la caratteristica nota colloquialmente come “dacia” – un gruppo di case sul bordo sud-orientale di Ugledar vera e propria.

 

Le dacie sono un elemento importante per due motivi. In primo luogo, offrono l’unico vero riparo alla periferia di Ugledar stessa, diventando così l’unico vero punto di sosta o di appoggio al di fuori della città. In secondo luogo, sono la destinazione naturale per chiunque cerchi di avanzare in modo intelligente, cioè attraverso le linee degli alberi. I campi di questa zona sono separati l’uno dall’altro da linee di alberi molto sottili e molto dritte. Questi costituiscono l’unica copertura all’avvicinamento e sono quindi un terreno caldo. Le forze ucraine scavano abitualmente le loro trincee proprio sotto questo tipo di linee di alberi, che creano le vie di avanzata anche per le forze russe. Nel caso di Ugledar, seguire le linee di alberi porta direttamente alle dacie, che diventano quindi il punto focale naturale di qualsiasi tentativo di avanzata su Ugledar stesso.

 

L’altra caratteristica molto rilevante è una grande miniera di carbone situata a circa un miglio e mezzo a nord-est di Ugledar, lungo la strada. Questa miniera di carbone (anche se non è il pozzo in sé, quanto il complesso di edifici industriali che la circondano) è una posizione ucraina sussidiaria con una propria guarnigione ed elementi logistici.

Così, otteniamo uno spazio di battaglia che si presenta in questo modo:

Con questa comprensione degli aspetti spaziali e geografici, possiamo esaminare la battaglia in corso per Ugledar. Il 25 gennaio, le forze russe sono uscite da Pavlivka e Mykils’ke e hanno preso d’assalto Ugledar, raggiungendo rapidamente le dacie e sgomberandole in gran parte. A questo punto sono stati confermati i combattimenti all’interno di Ugledar stessa, anche se è probabile che l’intenzione russa non fosse quella di assaltare la città blocco per blocco, ma piuttosto di tagliarla fuori (ci sono in realtà solo due strade che portano a Ugledar sotto il controllo ucraino) e costringere gli UA a ritirarsi attraverso un rapido avvolgimento.

 

Questa ondata iniziale russa sembra aver colto di sorpresa gli ucraini, vista la velocità con cui sono riusciti a liberare le dacie e ad avanzare fino alla periferia orientale di Ugledar. Un ufficiale del 105° Reggimento DNR, che ha partecipato a questo primo assalto, ha dichiarato ai corrispondenti russi di ritenere che il gruppo ucraino a Ugledar potesse essere terminato con una forte spinta durante la notte e che sarebbe stato lanciato un ultimatum alla resa (indicando che prevedevano di avvolgere la città).

A questo punto gli ucraini hanno risposto rapidamente e con grande forza. Qui sono entrati in gioco alcuni fattori. In primo luogo, il comando ucraino considera Ugledar una posizione prioritaria e ha inviato quasi immediatamente riserve nella città (fonti ucraine affermano che le riserve destinate all’asse di Kreminna sono state reindirizzate).

 

In secondo luogo, l’Ucraina beneficia di batterie di artiglieria a Kurakhove, una quindicina di chilometri a nord. Questo spinge all’estremo le gittate di alcuni sistemi, ma Kurakhove è una posizione di tiro forte perché permette all’Ucraina di coprire sia il settore di Ugledar che quello di Marinka. Se ricordate il rigonfiamento della linea che abbiamo notato in precedenza, Kurakhove è una sorta di punto di fuoco girevole che consente all’artiglieria ucraina di raggiungere il perimetro del rigonfiamento.

 

Infine, e forse la cosa più importante, la forza d’assalto russa ha trascurato di attaccare o almeno sopprimere la miniera di carbone a nord-est di Ugledar. Le forze ucraine sono state in grado di organizzare un rapido contrattacco, che è arrivato con un angolo obliquo verso le dacie. Una volta che le riserve arrivarono a Ugledar e contrattaccarono anch’esse, le truppe russe furono costrette a combattere per la loro posizione nelle dacie.

Il rapido contrattacco dell’Ucraina, la copertura dell’artiglieria da Kurakhove e l’arrivo delle riserve hanno messo fine alla possibilità della Russia di sopraffare Ugledar nella prima ondata, e la battaglia si è ora trasformata in un affare molto più grande, con più forze impegnate da entrambe le parti. La lotta si è concentrata in gran parte sulle dacie e, naturalmente, sulle linee di alberi che costituiscono le vie di avanzamento per entrambe le parti. Le immagini satellitari mostrano che i bombardamenti si sono concentrati lungo queste linee di alberi.

8 Immagini satellitari Maxar degli impatti del bombardamento

Ancora più incisivi, forse, sono stati gli sforzi intensivi degli ucraini per minare gli avvicinamenti, anche con mine posate a distanza (in sostanza, i proiettili di artiglieria vuoti vengono riempiti con una pila di mine e spargono le piccole bestiole dappertutto). Data la difficoltà di avvicinarsi a Ugledar in campo aperto, anche in assenza di mine, e la natura limitata e lineare dei percorsi di avvicinamento, un assalto diretto a Ugledar è a questo punto una follia, e sembra che la Russia non ci stia più provando.

 

La battaglia sembra subire un netto cambiamento. Due elementi in particolare spiccano: in primo luogo, le forze ucraine non solo sono avanzate attraverso le dacie, ma sono persino riuscite ad attraversare il campo verso Pavilvka e Mykils’ke, tenute dai russi. In secondo luogo, però, le forze russe stanno mantenendo le posizioni e si stanno spingendo verso il margine orientale delle dacie e hanno portato rinforzi attraverso Mykils’ke.

 

Ciò suggerisce il seguente schema, a grandi linee. Gli sforzi russi sembrano ora spostarsi da Ugledar verso la miniera di carbone. Questo isolerebbe ulteriormente la guarnigione di Ugledar e posizionerebbe le forze russe per avvolgerla da est. Contemporaneamente, però, le forze russe sembrano aver rinunciato all’avvicinamento a Ugledar, permettendo agli ucraini di uscire.

 

Qualche giorno fa, alcune fonti ucraine affermavano trionfalmente di aver raggiunto il fiume Kashlahach. Questo mi ha sorpreso immensamente: avanzare così tanto è una pessima idea per gli ucraini. È estremamente improbabile che l’Ucraina possa attaccare con successo in questa direzione: Pavlivka e Mykils’ke sono entrambe sotto il controllo consolidato dei russi e, cosa forse più importante, l’autostrada principale che rifornisce queste città è dietro il fiume. Se l’Ucraina sceglie di attaccare, tutte le difficoltà del terreno sopra menzionate giocano a favore dei russi, e saranno gli ucraini a tentare di proiettare una forza attraverso il campo lungo quelle strette linee di alberi, senza modo di schermare o tagliare.

Inoltre, la via di accesso per gli ucraini si trova tra le due città tenute dai russi. Qualsiasi attacco ucraino di successo richiederebbe quindi di forzare un fiume sotto la minaccia di essere avvolti. In definitiva, la decisione migliore per gli ucraini sarebbe quella di non andare oltre le dacie e di rimanere al sicuro all’ombra di Ugledar. Ma se vogliono uscire dal campo in una zona di morte, sospetto che i russi siano felici di lasciarli fare mentre preparano i lavori alla miniera di carbone.

 

Ugledar si è presentata finora come una battaglia affascinante e ferocemente combattuta. L’ondata iniziale russa verso la città non è stata caratteristica di un esercito russo che ha dimostrato di preferire un movimento metodico e lento. Allo stesso tempo, non si può negare che l’Ucraina abbia contestato l’attacco russo in modo deciso e intelligente. I media e la propaganda hanno cercato di dipingere la battaglia come la scena di orribili perdite russe. È stato affermato, ad esempio, che l’intera 155a Brigata dei Marines è stata distrutta. Questo, inutile dirlo, è un po’ difficile da credere, dato che la 155a Brigata dei Marines sta ancora combattendo attivamente in questo settore e continuano a emergere filmati di combattimento. Curiosamente, anche questa brigata sarebbe stata distrutta a novembre in un presunto tentativo fallito di catturare Pavlivka, ma alla fine né la distruzione della brigata né il fallimento dell’attacco si sono rivelati veri. Oh, bene.

 

Detto questo, le perdite russe sono reali – probabilmente dell’ordine di 300-400 uomini e qualche decina di veicoli assortiti, ma questa è semplicemente la realtà di un combattimento ad alta intensità. Le perdite ucraine in questo settore sono altrettanto intense, e il successo della stabilizzazione del fronte ha costretto il comando ucraino a distrarre le proprie riserve da altri settori critici del fronte. Forse ancora più importante, l’afflusso di forze ucraine in questo settore ha cambiato completamente il calcolo della battaglia, con la Russia che ha portato più armi pesanti e ha creato un’altra fossa della morte.

 

Il futuro di Ugledar rimane nebuloso. Questa mattina (24 febbraio) sono stati diffusi nuovi filmati che mostrano gli attacchi aerei russi sulle posizioni ucraine intorno alla miniera di carbone, suggerendo che potrebbero effettivamente procedere con un tentativo di assalto alla miniera e di avvolgere Ugledar da est. È anche possibile che Ugledar diventi l’ennesima battaglia posizionale, che potrebbe essere annullata per gli ucraini da un’avanzata russa altrove. Se, ad esempio, i russi rompono la linea ucraina a Marinka e avanzano per minacciare Kurakhove, Ugledar potrebbe perdere il vitale ombrello di artiglieria che ha reso possibile il successo della difesa.

 

Per ora, questa battaglia è affascinante perché riduce l’intero dramma della guerra a una scala molto piccola. Decine di migliaia di uomini si sono sfidati coraggiosamente in un’arena di non più di quindici miglia quadrate, e in molti casi la vita e la morte sono state decise dal controllo di uno stretto sentiero sterrato sotto una fila di alberi.

 

In mezzo alle dichiarazioni altisonanti della leadership politica e all’infinito agitarsi per le grandi frecce disegnate sulla mappa, ci fa bene ricordare che il destino del mondo è costruito sugli sforzi individuali accumulati da questi coraggiosi soldati. Indifferenti alle infinite chiacchiere sugli obiettivi di guerra e alle inani chiacchiere sull'”ordine internazionale basato sulle regole”, sul multipolarismo e sui banali interessi geopolitici, gli eventi sul campo sono portati avanti da uomini i cui obiettivi di guerra sono davvero molto semplici. Nelle steppe pontiche innevate intorno a Ugledar, ciò che il guerriero desidera più di ogni altra cosa è non essere colpito.

Cicatrici dell’Impero: Moldavia e Transnistria

Forse uno degli sviluppi più notevoli delle ultime settimane è stato l’emergere simultaneo di due presunti complotti per allargare il conflitto. Il 21 febbraio, il governo ucraino ha affermato di essere in possesso di informazioni di intelligence secondo le quali la Russia avrebbe pianificato di perpetrare un “colpo di Stato” in Moldavia sequestrando l’aeroporto della capitale Chișinău e inserendovi truppe tramite un ponte aereo. Nel giro di 24 ore, la Russia ha replicato affermando che l’Ucraina si stava preparando a invadere il territorio interstiziale e giuridicamente ambiguo noto come Transnistria.

 

Probabilmente tutto questo è molto confuso per gli osservatori occasionali. Se la storia e/o la politica dell’Europa orientale non sono la vostra tazza di tè, allora probabilmente avrete sentito parlare della Moldavia solo di sfuggita e forse non avrete mai sentito parlare della Transnistria, quindi potrebbe essere utile una breve incursione nel contesto storico.

9 Un nido russo di detriti imperiali

La Moldavia è uno di quei piccoli Stati predestinati a essere una scheggia geopolitica. I moldavi stessi (come ethnos o popolo) sono in realtà un derivato dei rumeni – la supermaggioranza del Paese parla rumeno e la religione dominante è l’ortodossia orientale in rumeno liturgico. Dal punto di vista genetico, i moldavi sembrano avere più ascendenze slave dei romeni propriamente detti, ma questo forse esula dallo scopo di questo piccolo saggio.

 

In ogni caso, la domanda che sorge spontanea è: perché la Moldavia è una cosa, invece di essere semplicemente una bella provincia costiera della Romania? La risposta, in breve, è che lo Stato si trova contemporaneamente in due importanti punti di convergenza, uno politico e uno geografico.

 

Dal punto di vista politico (cioè storico), la Moldavia si trovava in una sorta di tessuto connettivo in cui tre grandi imperi si fronteggiavano: l’impero russo, quello ottomano e quello austriaco. In particolare, per gran parte della storia moderna il territorio dell’attuale Moldavia si trovava direttamente al confine tra l’Impero russo e quello ottomano ed era quindi molto ambito. L’appetibilità di questa piccola regione litosferica era ulteriormente rafforzata dalle sue qualità geografiche. Molto semplicemente, la Moldavia occupa un territorio storico noto come Bessarabia, che comprendeva il divario facilmente attraversabile tra i Carpazi e il Mar Nero.

 

La Bessarabia (la futura Moldavia) è stata oggetto di continue brame e passaggi di mano, con le potenze russa e ottomana che desideravano controllare quel corridoio cruciale tra le montagne e il mare. L’emergere di uno Stato rumeno indipendente nell’Ottocento complicò ulteriormente le cose, con un’altra parte che desiderava questo appezzamento strategico. Alla fine, la Seconda guerra mondiale pose fine alla controversia, con l’Unione Sovietica vittoriosa che piantò la falce e il martello sul Varco di Bessarabia con la creazione della Repubblica Socialista Sovietica Moldava. La questione moldava era risolta… per un certo periodo.

 

Il muro di Berlino cadde. L’Unione Sovietica cominciò a dissolversi e il futuro politico della Moldavia divenne di nuovo una questione aperta. Nel giugno 1990, la Repubblica moldava divenne una delle tante a voler lasciare l’Unione, ma non tutti erano d’accordo. I lealisti sovietici e i russi etnici che vivevano in Moldavia si ribellarono al pensiero di lasciare l’Unione e di essere lasciati soli in uno Stato a maggioranza rumena, e in risposta dichiararono la formazione della Repubblica Socialista Sovietica Moldava Pridnestroviana, che presto sarebbe stata meglio conosciuta come Transnistria.

 

Il nome Transnistria è in realtà molto utile e descrittivo. Derivato da “Trans-Dniester”, si riferisce letteralmente a una striscia di terra tra il fiume Dniester e il confine moldavo, che si è staccata dalla Moldavia nel 1990 e ha dichiarato un impegno costante nei confronti dell’URSS. Sorge quindi una domanda piuttosto singolare: la Transnistria è un’entità lealista o separatista? Dal punto di vista di Mosca, le autorità della Transnistria sono lealisti che hanno rifiutato di aderire all’uscita della Moldavia dall’URSS. Per i moldavi, ovviamente, i transnistriani sono separatisti. Il modo in cui saranno considerati dalla storia sarà quasi certamente determinato da chi vincerà o perderà la lotta per il potere nell’Europa orientale.

 

Tutto questo per dire che ora ci sono due staterelli sul litorale del Mar Nero che rappresentano dei detriti imperiali. La Moldavia è uno Stato di etnia rumena che occupa la maggior parte dello spazio tra i Carpazi e il Mar Nero, mentre la Transnistria è uno pseudo-Stato filo-russo che si è staccato dalla Moldavia durante il crollo sovietico. Ora, nel febbraio 2023, l’Ucraina e la Russia si accusano a vicenda di complottare per invadere questi piccoli lembi di schegge geopolitiche.

 

Cominciamo con la questione della Transnistria. Due sono le domande più importanti: perché l’Ucraina vorrebbe invadere la Transnistria e se tale tentativo avrebbe successo.

 

Il motivo dell’invasione della Transnistria da parte dell’Ucraina è alquanto confuso. Molti hanno suggerito che l’Ucraina potrebbe essere motivata a impadronirsi del contenuto del deposito di munizioni Cobasna della Transnistria – un tempo supporto logistico per la 14a Armata della Guardia sovietica che era di stanza nella regione. Oggi, il deposito di Cobasna è una delle più grandi discariche di munizioni in Europa, con fino a 20.000 tonnellate di munizioni di epoca sovietica ancora presenti. Poiché è stato riferito che l’Ucraina è disperatamente a corto di munizioni, la struttura di Cobasna è forse un bersaglio sufficientemente attraente da solleticare lo stato maggiore ucraino, anche se è improbabile che l’intero contenuto del deposito sia utilizzabile. Molte delle munizioni sono probabilmente obsolete a causa dell’età e dell’incuria, ma è probabile che ci sia ancora una scorta significativa di ordigni utilizzabili. Il fatto che il deposito di munizioni si trovi a meno di tre miglia dal confine ucraino fa salire il fascino a livelli forse irresistibili.

10 L’impianto di Cobasna

La Transnistria, ovviamente, non è esattamente indifesa. Essendo più o meno uno staterello formatosi attorno ai resti dell’Armata Rossa, è molto più militarizzata di quanto ci si aspetterebbe da una regione con meno di mezzo milione di abitanti. In effetti, la Transnistria ha più equipaggiamento pesante della Moldavia e può schierare una manciata di brigate di fanteria motorizzata passabili. In Transnistria è presente anche una guarnigione di soldati russi, anche se questi sono relativamente poco equipaggiati e sono stati dispiegati soprattutto come forza di interdizione in tempo di pace.

 

Il verdetto sulla Transnistria è che è combatte di sopra della sua categoria di peso, e probabilmente è una noce molto più difficile da rompere di quanto si possa pensare inizialmente, ma è isolata e non sarebbe in grado di resistere a un attacco ucraino determinato in circostanze normali, anche se a questo punto non è chiaro che tipo di risorse Kiev potrebbe dedicare a quello che equivarrebbe a un raid armato per rubare munizioni.

11 Le gloriose e invincibili armate della Transnistria

Detto questo, dobbiamo ricordare che il deposito di munizioni di Cobasna si trova molto vicino al confine ucraino e la sua messa in sicurezza non richiederebbe la pacificazione di tutta la Transnistria. L’esercito ucraino dovrebbe semplicemente proteggere un saliente a pochi chilometri di profondità e schermare il deposito dalla vicina città di Ribnita mentre trasferisce il suo contenuto in Ucraina. Sarebbe difficile per le forze della Transnistria contestare un obiettivo così vicino al confine ucraino, ed è quindi molto probabile che siano già state prese misure per distruggere il deposito di munizioni in caso di incursione ucraina – un atto che potrebbe produrre un’esplosione delle dimensioni della bomba atomica di Hiroshima, anche se senza le fastidiose radiazioni.

 

Questo suggerisce un paradosso. Il deposito di Cobasna è così vulnerabile a un’incursione ucraina che cessa di diventare un obiettivo realistico, poiché verrebbe semplicemente fatto esplodere nel momento in cui gli ucraini vi si avvicinano. L’Ucraina si troverebbe quindi ad affrontare un nuovo inutile fronte nelle sue retrovie, che quasi certamente richiederebbe unità regolari ucraine (non solo di difesa territoriale) per essere pacificato.

 

Questo ci riporta alla Moldavia. La questione della Transnistria è delicata per la Moldavia, che vede il piccolo staterello transnistriano come una provincia separatista moldava e tende a considerarla come un meccanismo russo per dispiegare truppe in avanti e fare pressione sul governo moldavo. Non è del tutto corretto considerare la Transnistria come una sorta di complotto russo, semplicemente perché la creazione della Transnistria è stata il risultato di un’azione spontanea nella regione stessa e non diretta centralmente da Mosca, ma è senza dubbio un punto dolente per la Moldavia.

 

Per questo motivo l’Ucraina ha costantemente inquadrato la questione della Transnistria come “di competenza della Moldova”. In altre parole, l’Ucraina probabilmente esiterà a muoversi in Transnistria nel nudo tentativo di rubare le scorte di Cobasna – vorrebbe invece dipingere il suo intervento come una richiesta del governo moldavo – “questa è terra della Moldova, e noi interveniamo su loro richiesta per aiutarli a riprendersela“. Questo è probabilmente il motivo per cui l’Ucraina ha affermato che esiste un presunto piano russo per rovesciare il governo moldavo – vorrebbero creare un ambiente politico in cui la Moldavia dia il via libera a un intervento in Transnistria e partecipi con le proprie forze.

 

Facciamo il punto della situazione e cerchiamo di capire cosa sta succedendo con queste voci. L’allargamento della guerra alla Moldavia e alla Transnistria non risponde agli interessi russi. Qualsiasi operazione che avvenga sull’asse della Transnistria sarebbe molto difficile da gestire per la Russia, poiché dovrebbe essere sostenuta interamente da trasporti aerei, e ancora più specificamente da sorvoli del territorio ucraino o moldavo.

 

Nel frattempo, la Moldavia vuole quasi certamente mantenere la sua neutralità (che è codificata nella costituzione del Paese ed è il motivo per cui il Paese non è membro della NATO) ed è quindi altamente improbabile che dia il via libera a una mossa ucraina in Transnistria in assenza di una qualche precedente provocazione russa.

 

In definitiva, l’unica parte che sembrerebbe trarre vantaggio dall’allargamento del conflitto allo spazio moldavo sarebbe l’Ucraina, sia perché brama il deposito di Cobasna, sia perché l’allargamento del conflitto è generalmente un obiettivo ucraino – nel loro calcolo grossolano, qualsiasi escalation che aumenti la probabilità di un intervento occidentale diretto è vantaggiosa. La Moldavia, ovviamente, non è un membro della NATO, ma senza dubbio l’Ucraina vorrebbe innescare un’espansione a spirale del teatro e vedere se, ad esempio, la Romania può essere trascinata in guerra. Detto questo, Kiev dovrebbe probabilmente aspettarsi che il deposito di Cobasna venga semplicemente fatto esplodere nel momento in cui si muove su di esso, rendendo l’intero progetto uno spreco di risorse mal concepito.

 

Nel complesso, sono scettico che si verifichi qualcosa su questo fronte. Il puntare contemporaneamente il dito da parte di Mosca e Kiev ricorda molto il periodo dell’anno scorso in cui entrambe le parti hanno iniziato ad accusare simultaneamente l’altra di complottare per far esplodere una bomba sporca. L’Ucraina cerca di fabbricare una crisi per aumentare l’urgenza in Occidente e fomentare il panico e la distrazione in Russia, e la Russia risponde con controaccuse e gestione dell’escalation. Soprattutto, questo ci ricorda che per l’Ucraina – che dipende interamente dai suoi benefattori occidentali per sostenere la sua attività bellica – questa guerra si combatte davanti a un pubblico.

 

Sono stato abbastanza coerente fin dall’inizio nel dire che mi aspetto che la guerra in Ucraina venga combattuta fino alla sua conclusione e che rimanga un conflitto convenzionale contenuto – vale a dire, non mi aspetto né l’uso di armi nucleari né l’entrata in guerra di altri belligeranti, siano essi la Bielorussia, la Polonia, la Moldavia o la NATO vera e propria. Credo che abbiamo già visto l’entità qualitativa del coinvolgimento esterno nella guerra – la NATO che fornisce addestramento, ISR, armi, manutenzione e supporto, la Bielorussia che viene utilizzata per gli schieramenti russi e gli alleati russi come la Cina e l’Iran che forniscono principalmente armi di distanza. Per ora, nessuno degli sviluppi intorno alla Transnistria sembra sconvolgere in modo credibile questo calcolo. Per ora, aspettiamo di vedere se la carenza di munizioni degli ucraini diventerà così grave che non potranno fare a meno di fare un salto al deposito Cobasna.

Sommario: La vita nella fossa della morte

Per chi siede al sicuro nella propria casa lontano dal Donbass, è facile banalizzare i combattimenti in corso come poco importanti, semplicemente perché luoghi come Ugledar, Bakhmut e la fascia forestale a sud di Kreminna non sembrano particolarmente importanti. Questo, ovviamente, è piuttosto sciocco. Ciò che rende importante un luogo, in quel contesto unico e nell’ambito della nuova logica strategica della guerra, è il fatto che due corpi ostili di uomini armati vi si scontrano. La storia è piena di ricordi di questo tipo: Gettysburg, Stalingrado e Điện Biên Phủ non erano particolarmente importanti di per sé, ma hanno assunto un’importanza spropositata perché lì si trovava il nemico.

 

La vittoria in Ucraina sarà conquistata quando l’uno o l’altro esercito avrà perso la capacità di opporre resistenza armata – a causa della rottura della volontà politica, della distruzione di equipaggiamenti pesanti, della distruzione dei mezzi di sostentamento o delle perdite di uomini. La parola “logoramento” è diventata piuttosto comune e viene abitualmente usata in riferimento all’attuale approccio russo, ma pochi vogliono contemplare cosa significhi veramente – perché implica, soprattutto, l’uccisione di un gran numero di soldati ucraini, la caccia e la distruzione di sistemi critici come l’artiglieria e la difesa aerea, e la messa fuori uso delle retrovie ucraine. Dove combattere meglio che a Bakhmut, dove la fanteria ucraina sopravvive per poche ore in prima linea?

 

Il comando russo potrebbe forse parafrasare il tenente colonnello americano Hal Moore, che notoriamente disse del Vietnam: “Per Dio, ci hanno mandato qui per uccidere i comunisti ed è quello che stiamo facendo”.

 

Una delle grandi peculiarità di questa guerra è il grado di dipendenza di Kiev dall’aiuto occidentale per sostenere la sua azione bellica. Questo è per certi versi sia un vantaggio che uno svantaggio per la Russia. Gli svantaggi sono evidenti, in quanto mettono la maggior parte dell’ISR, della produzione di armamenti e del sostegno dell’Ucraina al di fuori della portata della Russia. Mosca non può certo iniziare ad abbattere gli aerei AWAC americani o a bombardare le strutture della Lockheed Martin, quindi da questo punto di vista la dinamica della guerra conferisce all’Ucraina una resilienza strategica unica. Ma il rovescio della medaglia è che l’Ucraina non è veramente sovrana, come lo è la Russia con la sua produzione bellica interamente interna.

 

Poiché l’Ucraina dipende dall’assistenza straniera per continuare la sua guerra, deve essere costantemente in una modalità performativa e sotto pressione per ottenere successi visibili. Per questo si prevede che l’Ucraina utilizzerà i veicoli attualmente in consegna per lanciare una controffensiva contro il ponte di terra verso la Crimea. Non ha davvero scelta. Al contrario, la Russia non è sottoposta ad alcuna pressione temporale intensa, se non quella che si impone da sola, e questa libertà d’azione le consente il lusso (fintanto che gli eventi sul campo di battaglia non la interrompono) di mettere a punto una revisione organizzativa e di resistere alla tentazione di muoversi prematuramente.

 

Naturalmente sarebbe molto meglio non avere problemi organizzativi, ma il discernimento rimane la parte migliore del valore. E per ora non c’è molta fretta, perché l’intero fronte è diventato una fossa della morte che assorbe uomini ed equipaggiamento ucraino, e priva gli ucraini di riserve e di iniziativa.

 

Il mondo vano che abitiamo in Occidente viene messo a nudo dalla realtà della vera potenza. Dopo l’ennesimo impotente voto di condanna alle Nazioni Unite e la visita a Kiev del gerontocrate preferito dagli americani, l’interesse dei chierici occidentali per la guerra d’Ucraina non mostra segni di cedimento, ma forse stanno gradualmente prendendo coscienza che si tratta di un piano dell’esistenza che non possono comprendere, né tanto meno influenzare. Possono solo osservare.

 

Nella foresta intorno al Donets, nella steppa di Ugledar e nella trappola mortale di Bakhmut, le parole contano poco. In effetti, il potere distruttivo ora all’opera è così grande che anche le azioni dei singoli possono fare ben poco per modificare il corso della battaglia – eppure, da entrambe le parti, uomini di volontà superiore continuano a eseguire i loro compiti, dimostrando disciplina e coraggio al cospetto della costante possibilità di morire. Questi uomini di ferro sono forse al di là della comprensione delle culture postmoderne, ma sono loro che determineranno il destino dell’Ucraina e della Russia.

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StElly nel paese dei balocchi, di Giuseppe Germinario

Così Elly Schlein, a sorpresa, almeno per chi ama farsi sorprendere, è la nuova segretaria del Partito Democratico.

Niente di originale. Una clonazione, un pollo da batteria come tanti altri, tutti identici, che avrebbero potuto emergere dal brodo di coltura sorosiano ormai coltivato da anni in quegli ambienti progressisti e nella sua città di adozione. Elly avrebbe potuto assurgere indifferentemente a Primo Ministro in Finlandia e Moldova, Ministro degli Esteri in Germania; le è capitato invece di conquistare il posto di segretario di partito in una fase a dir poco avventurosa di quella realtà politica.

Un possibile trampolino di lancio per lei a futura gloria e soddisfazione; molto probabilmente, il contestuale de profundis di un partito dalle lontane radici gloriose ormai disperse.

Una nemesi amara per il vecchio gruppo dirigente dalle lontane origini approssimativamente comuniste, in realtà in buona parte socialdemocratiche, impersonate per ultimo dal buon Stefano Bonaccini.

Agli “illuminati sulla via di Damasco” l’elettorato più o meno interessato, non si sa bene se alla resurrezione o alla dipartita, delle primarie ha preferito le certezze dell’originale, mi si perdoni l’ossimoro, clonato nel laboratorio filantropico di grandi propositi e inconfessabili misfatti.

In tempi così incerti e smarriti, l’alea del buon governo non è evidentemente più sufficiente a conservare e nemmeno a rimanere aggrappati alle leve.

Ad una lettura anche superficiale delle mozioni congressuali, gli argomenti del documento del neosegretario sono i più conformi allo spirito della carta dei valori del partito da poco resa pubblica. Ne pare di fatto una scopiazzatura più estesa della quale si tratterà a margine a parte una anticipazione irrefrenabile di tre amenità difficili da concettualizzare pur con ogni buona volontà:

  • la nozione di “giustizia climatica” se non associandola a quella biblica di “diluvio universale”

  • l’asserzione del nesso causale diretto e univoco tra la crisi climatica e la disuguaglianza sociale, quando in realtà, se proprio si vuol sottilizzare, è da una concezione elitaria e di ceto della crisi climatica, confusa per altro con quella ambientale, che si dipana il nesso causale diretto con le disuguaglianze

  • l’asserzione della formazione sociale italiana retta da un regime patriarcale.

L’aspetto dirimente di questa fase politica di quel partito è un altro.

Elly Schlein è stata eletta segretario in piena fase costituente del partito.

L’avvio di una fase “costituente” o “ricostituente” dovrebbe quantomeno prevedere una analisi rigorosa, se non proprio una revisione impietosa dell’approccio culturale, delle scelte politiche fondamentali adottate a partire almeno dagli anni ‘90 e delle ragioni della attuale condizione del paese e della nazione.

Nella carta e nelle mozioni congressuali non c’è niente di tutto questo se non qualche rara riga di adesione fideistica alla Unione Europea, di sostegno a scatola chiusa alla resistenza ucraina, di rappresentazione dello scontro geopolitico tra una democrazia assediata e un autoritarismo prevalente, di auspicio di un ritorno ad un multilateralismo a trazione statunitense.

Una rigidità dogmatica e una superficialità che fa apparire le prese di posizione dell’attuale leadership statunitense un esempio di flessibilità.

Sarebbe improprio pretendere dal Partito Democratico un ripensamento radicale o un ribaltamento delle sue ragioni costitutive. Trasformerebbe la lenta e soporifera agonia che sta percorrendo in un trauma esistenziale esiziale.

Un atto di lucidità ed onestà compatibile con le ragioni fondative del partito sarebbe però una carta dei valori che tracciasse degli orientamenti di fondo e ponesse degli interrogativi da offrire alle mozioni come traccia per risposte che giustificassero le diverse candidature.

  • La Carta avrebbe dovuto quindi contenere una riflessione critica sulla narrazione agiografica del processo di globalizzazione, sull’interpretazione del ruolo degli stati nazionali in esso, sulla funzione di collante delle dinamiche esercitata dalla condizione egemonica emersa con l’implosione del blocco sovietico e indurre quindi i candidati, con le rispettive mozioni di tentare almeno di tracciare quantomeno obbiettivi e comportamenti autonomi ed attivi, sia pure in una logica “entrista” propria della natura di quel partito. Del resto l’azione di classi dirigenti di un numero sempre maggiore di paesi, a cominciare dalla Turchia e dall’Ungheria, ma anche a modo loro della Polonia, ha evidenziato l’agibilità all’interno delle logiche di schieramento. Cosa è, del resto, alla fine, il perseguimento di obbiettivi politici interni alla Unione Europea, più ancora che nella NATO, se non una continua contrattazione e un continuo aspro confronto e conflitto tra centri decisori nazionali e statuali in una dinamica di asservimento alla forza egemone! Se sono reali l’intenzione e l’obbiettivo politico, ammesso e non concesso che sia realizzabile, di una politica estera e di difesa europea autonome, le mozioni dovrebbero essere indotte a delimitare quantomeno i livelli massimi compatibili di integrazione degli eserciti della NATO e dei complessi militari-industriali.

  • A scalare la Carta avrebbe dovuto spingere a riflettere sul trentennio di politica interna a cominciare dalle privatizzazioni e dismissioni o quantomeno nelle loro modalità di esecuzione, per poi risalire alla atavica incapacità del capitale privato di sostenere il peso politico ed organizzativo di una grande industria ed impresa strategica e sul ruolo conseguente del capitale pubblico, magari a gestione privatistica nelle sue varie modalità e possibilità; come pure a giustificare e, quindi, porre rimedio al fatto che l’ancora importante saldo attivo del risparmio nazionale non riesca ad essere reinvestito in gran parte nel territorio e a tutela e sviluppo dell’industria e delle attività nazionali. Potrebbe finalmente emergere qualche seria considerazione sulla necessità di ripristino di una serie di agenzie di supporto tecnico allo sviluppo di attività di produzione ed infrastrutturali completamente distrutto in quei decenni fatali e della cui mancanza si sente persino nella attuazione del cavallo di battaglia, di nome PNRR, del fronte più ottusamente europeista. In pratica la Carta dei Valori avrebbe dovuto porre il quesito fondamentale sui motivi del progressivo stallo e degrado del paese e della nazione negli ultimi quarant’anni, coincisi con la trasformazione del PCI e della DC e la fondazione del PD.

  • Ci sarebbe da sindacare sulla adeguatezza della Carta ad avviare una seria fase costituente su altri temi: la gestione manipolatoria ed arru(a)ffona della crisi pandemica come pure la tematica fondativa legata al cosiddetto transumanesimo. Quest’ultima introdotta in ritardo ed in forma puramente imitativa e parodistica, ma con la possibilità di arrecare altrettanti, se non peggio, danni di quanto indotti negli Stati Uniti. Un culto della singolarità, del determinismo culturale rispetto alle leggi della natura, della tecnocrazia scientifica che meriterebbero assoluta attenzione e precauzione, ma che si vedono introdotte di soppiatto nella Carta e nelle mozioni, probabilmente anche in maniera scontata ed inconsapevole. Sarebbe, forse, pretendere troppo ad una classe dirigente di questo livello.

La sorprendente incapacità di impostare correttamente, quantomeno, un percorso congressuale non è, quindi, un mero incidente in un partito dalle gloriose tradizioni organizzative.

È la conseguenza della cieca miseria intellettuale di una intera classe dirigente; della sua autoreferenzialità e della sua incapacità a porsi a rappresentare un qualsiasi modello di blocco sociale in grado di garantira una minima coesione ed una minima capacità di pesare nelle dinamiche geopolitiche per quanto deleterie e limitative.

Più che una fase costituente, si sta rivelando sempre più una sua parodia, destinata rapidamente a spegnersi nella continuità e nell’esaurimento di un processo iniziato almeno quaranta anni fa, ma dall’esito allora non interamente segnato.

Non è un caso che gli aneliti di rinnovamento e di allargamento della platea dai quali attingere i futuri gruppi dirigenti si riducano alla fine, leggendo attentamente le mozioni, ad attingere al serbatoio degli amministratori locali.

Una parodia dall’esito scontato ma attraverso un processo che richiederà, paradossalmente, il sacrificio della componente più pragmatica, ma culturalmente del tutto omologata o passiva, la quale ha saputo, nelle proprie esperienze di gestione amministrativa, almeno approfittare di qualche margine di azione consentito da questo appiattimento ed allineamento.

La sconfitta di Bonaccini rappresenta esattamente questo.

Non sarà l’unico fìo da pagare e nemmeno il più pesante.

La mozione di Elly, più delle altre, è soprattutto l’appello che con più fervore urla alla riduzione e al superamento delle disuguaglianze, al raggiungimento dell’equità fiscale, alla rivendicazione dei diritti.

Una enfasi che ha indotto gran parte dei commentatori ad attribuirle audacemente una impronta “socialdemocratica” più che “radical chic”.

Nell’economia di questo scritto si deve purtroppo glissare sull’approfondimento sulle varie accezioni attribuibili al termine di lotta alle disuguaglianze e al conseguimento dei diritti; come pur sulla mancata associazione del termine di equità fiscale a quello di vessazione, attraverso il quale il sistema fiscale colpisce indistintamente dipendenti ed autonomi e sulla mancata associazione al problema della tutela dei salari più bassi di quello dell’appiattimento dei livelli salariali normati e del basso livello di quasi tutte le retribuzioni.

Una connotazione socialdemocratica storicamente più attendibile ad un documento e ad una formazione politica dovrebbe avere il carattere specifico di un nesso stretto e inscindibile tra una politica di normazione dei diritti sociali ed il sostegno ad una politica economica in generale, industriale in particolare, fondata sulla impresa, in particolare la grande impresa e sul ruolo pubblico diretto in economia sul quale plasmare la coesione e il dinamismo di una formazione sociale. Un indirizzo, ma con modalità diverse, riconducibile anche alla connotazione comunista di un movimento.

Nelle mozioni congressuali, in particolare in quello della Schlein, non c’è niente di tutto questo, non ostante le crepe all’ortodossia liberista aperti nella fase trumpiana ed anche nel recente documento sulla sicurezza strategica (NSS) varato da Biden e trattato recentemente su questo blog.

Niente se non la caricatura dell’aperto ed acritico sostegno al piano di riconversione ecologica ed energetica e digitale che si risolve in realtà, nel suo dogmatismo e catastrofismo, in un vero e proprio programma di destrutturazione ed indebolimento non solo del residuo apparato industriale e tecnologico avanzato europeo, ma anche di altri ambiti strategici come l’agricoltura.

Tutta l’enfasi che ammanta le parole d’ordine della redistribuzione, del lavoro sicuro, dell’equità fiscale non porteranno a niente di buono; nel migliore e improbabile dei casi a qualche successo temporaneo, tipico del rivendicazionismo sindacale radicale o sedicente tale.

Si potranno regolare più rigidamente i contratti individuali di lavoro, stabilire per legge i livelli minimi salariali e magari gli standard sanitari, rendere ancora più draconiane, sulla lettera, le normative e le sanzioni fiscali, ma le dinamiche socio-economiche, la struttura economico-industriale e dei servizi, il sistema politico-amministrativo troveranno innumerevoli e fantasiose nuove vie per perpetuare una condizione di sottosalario, di basso reddito e di mercato nero, magari in una condizione di apparente legalità. Potrei citarne io stesso decine di modalità.

Rimarrà l’enorme implicazione politica di una simile impostazione. In mancanza di una questione nazionale e, soprattutto, di una politica di difesa di interesse nazionale unificante, nel migliore dei casi non farà che spingere singoli settori alla autotutela in una visione potenzialmente corporativa e intaccare ulteriormente il già precario tasso di interconfederalità delle politiche sindacali magari sotto la nobile veste di un radicalismo del quale abbiamo conosciuto già, assieme al collaborazionismo, gli esisti sterili e nefasti.

La dirigenza sindacale, con tutto il peggio di cui è capace, navigata com’è e desiderosa di non disperdere l’attuale principale legittimazione legata al riconoscimento reciproco con Confindustria, è in grado di cogliere il pericolo, ma non di contrastare efficacemente l’inerzia innescata da questi indirizzi; un ulteriore passo verso un sindacato compassionevole è ormai maturo.

L’unico aspetto positivo è che la gestione piddina della Schlein, dovesse durare, metterà a nudo l’imbroglio politico che è stato e si è rivelato il M5S (Movimento Cinque Stelle); al prezzo di portarsi, però, la serpe in casa, ma con minori infingimenti.

L’unico fattore che potrebbe prolungarne indefinitamente l’agonia, è il processo accellerato di omologazione del centrodestra ed il suo pericolosissimo avvicinamento politico e diplomatico all’ordine statunitense e all’avventurismo ottuso delle classi dirigenti polacche e baltiche.

Peggio dell’azzardo cialtrone della “buonanima”, ottanta anni fa.

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/Bonaccini_Mozione_A4-1.pdf

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/mozione_schlein_def.pdf

https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/PromessaDemocratica-GIANNI-CUPERLO-2023-v8_WEB_paginedoppie.pdf

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Ucraina, il conflitto 29a puntata. Guerra e terrorismo_ con Stefano Orsi e Max Bonelli

Il regime di Kiev, per la verità i suoi mentori, si sta rivelando un vero maestro nella narrazione mediatica e nella coltivazione degli strumenti, anche i più ibridi, di guerra. Gli episodi di arbitrio verso i prigionieri, l’utilizzo di armi proibite, l’indifferenza e l’utilizzo della popolazione civile come strumento di guerra fanno ormai parte dell’armamentario utilizzato. Questa volta, però, la soglia dell’esplicito attacco terroristico è stata oltrepassata ampiamente con l’incursione in due villaggi russi al confine e la deliberata uccisione di civili. Elementi idonei a trascinare la giunta e i comandi ucraino verso quel tribunale di guerra che gli occidentali vorrebbero costruire su misura su Putin. Il regime di Kiev è ormai alle strette e solo l’incapacità e l’impossibilità statunitense di poter uscire dal vicolo cieco in cui l’amministrazione di Biden si è cacciata, se non a rischio di un confronto diretto su larga scala, sta impedendo la mala sorte per personaggi tragicomici ed aguzzini senza scrupoli. La novità è che piuttosto che scompaginare l’area dissidente o indifferente all’esorcismo russofobo, l’oltranzismo atlantista sta polarizzando sempre più le dinamiche geopolitiche in schieramenti sempre più delineati. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Potere dell’innovazione Perché la tecnologia definirà il futuro della geopolitica Di Eric Schmidt

Tralascio le ovvie considerazioni riguardanti le autonome capacità operative del regime ucraino che consentono di sostenere il confronto militare con la Russia. E’ indubbio, comunque, che la competenza tecnologica sia stato uno degli ambiti fondamentali di addestramento dell’esercito ucraino sulla base del retroterra accumulato nel periodo sovietico. L’autore omette un aspetto importante delle modalità di svolgimento della competizione tecnologica: la capacità di determinare gli standard, di regolare il mercato e di intervenire politicamente su di esso. Il predominio tecnologico statunitense è zeppo di esempi di predazioni, sabotaggi, interventi costrittivi sui mercati ai danni indifferentemente di avversari ed alleati. Anche in questo ambito la competizione tra il bene e il male non ha fondamento reale. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Quando le forze russe marciarono su Kiev nel febbraio 2022, pochi pensavano che l’Ucraina potesse sopravvivere. La Russia aveva più del doppio dei soldati dell’Ucraina. Il suo bilancio militare era più di dieci volte superiore. La comunità di intelligence statunitense stimava che Kyiv sarebbe caduta nel giro di una o due settimane al massimo.
Messa alle strette con le armi e gli equipaggiamenti, l’Ucraina si rivolse a un settore in cui aveva un vantaggio sul nemico: la tecnologia. Poco dopo l’invasione, il governo ucraino ha caricato tutti i suoi dati critici sul cloud, in modo da poter salvaguardare le informazioni e continuare a funzionare anche se i missili russi avessero ridotto in macerie gli uffici ministeriali. Il Ministero per la Trasformazione Digitale del Paese, istituito dal Presidente ucraino Volodymyr Zelensky solo due anni prima, ha riutilizzato la sua applicazione mobile di e-government, Diia, per la raccolta di informazioni open-source, in modo che i cittadini potessero caricare foto e video delle unità militari nemiche. Con l’infrastruttura di comunicazione in pericolo, gli ucraini si sono rivolti ai satelliti Starlink e alle stazioni di terra fornite da SpaceX per rimanere in contatto. Quando la Russia ha inviato droni di fabbricazione iraniana oltre il confine, l’Ucraina ha acquistato i propri droni appositamente progettati per intercettare i loro attacchi, mentre i suoi militari hanno imparato a usare armi sconosciute fornite dagli alleati occidentali. Nel gioco del gatto e del topo dell’innovazione, l’Ucraina si è semplicemente dimostrata più agile. E così quella che la Russia aveva immaginato come un’invasione facile e veloce si è rivelata tutt’altro.
Il successo dell’Ucraina può essere attribuito in parte alla determinazione del popolo ucraino, alla debolezza dell’esercito russo e alla forza del sostegno occidentale. Ma è anche merito di una nuova forza determinante della politica internazionale: il potere dell’innovazione. Il potere di innovazione è la capacità di inventare, adottare e adattare nuove tecnologie. Contribuisce sia al potere duro che a quello morbido. I sistemi d’arma ad alta tecnologia aumentano la potenza militare, le nuove piattaforme e gli standard che le regolano forniscono una leva economica e la ricerca e le tecnologie all’avanguardia aumentano il fascino globale. Esiste una lunga tradizione di Stati che sfruttano l’innovazione per proiettare potere all’estero, ma ciò che è cambiato è la natura auto-perpetuante dei progressi scientifici. Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, in particolare, non solo aprono nuove aree di scoperta scientifica, ma accelerano anche questo stesso processo. L’intelligenza artificiale potenzia la capacità di scienziati e ingegneri di scoprire tecnologie sempre più potenti, favorendo i progressi dell’intelligenza artificiale stessa e di altri campi, e rimodellando così il mondo.

La capacità di innovare più velocemente e meglio – la base su cui poggia oggi il potere militare, economico e culturale – determinerà l’esito della competizione tra grandi potenze tra Stati Uniti e Cina. Per ora, gli Stati Uniti restano in testa. Ma la Cina sta recuperando terreno in molti settori e ha già fatto passi da gigante in altri. Per uscire vittoriosi da questa competizione che segna un secolo, non basterà fare le solite cose. Il governo degli Stati Uniti dovrà invece superare i suoi impulsi burocratici ottusi, creare condizioni favorevoli all’innovazione e investire negli strumenti e nei talenti necessari a innescare il circolo virtuoso del progresso tecnologico. Deve impegnarsi a promuovere l’innovazione al servizio del Paese e della democrazia. In gioco c’è niente di meno che il futuro delle società libere, dei mercati aperti, dei governi democratici e del più ampio ordine mondiale.

LA CONOSCENZA È POTERE
Il nesso tra innovazione tecnologica e dominio globale risale a secoli fa, dai moschetti che il conquistador Francisco Pizarro brandì per sconfiggere l’Impero Inca alle navi a vapore che il commodoro Matthew Perry comandò per forzare l’apertura del Giappone. Ma la velocità con cui l’innovazione sta avvenendo non ha precedenti. Questo cambiamento è più evidente che in una delle tecnologie fondamentali del nostro tempo: l’intelligenza artificiale.

I sistemi di intelligenza artificiale di oggi possono già fornire vantaggi chiave in ambito militare, dove sono in grado di analizzare milioni di input, identificare modelli e avvisare i comandanti dell’attività nemica. L’esercito ucraino, ad esempio, ha utilizzato l’intelligenza artificiale per analizzare in modo efficiente i dati di intelligence, sorveglianza e ricognizione provenienti da diverse fonti. Sempre più spesso, tuttavia, i sistemi di IA non si limiteranno ad assistere il processo decisionale umano, ma inizieranno a prendere decisioni in prima persona. John Boyd, stratega militare e colonnello dell’aeronautica statunitense, ha coniato il termine “OODA loop” (osservare, orientare, decidere, agire) per descrivere il processo decisionale in combattimento. L’intelligenza artificiale sarà in grado di eseguire ogni parte del ciclo OODA molto più velocemente. Il conflitto può avvenire alla velocità dei computer, non a quella delle persone. Di conseguenza, i sistemi di comando e controllo che si affidano a decisori umani – o, peggio, a complesse gerarchie militari – perderanno terreno rispetto a sistemi più veloci ed efficienti che affiancano le macchine agli uomini.

Nelle epoche precedenti, le tecnologie che hanno plasmato la geopolitica – dal bronzo all’acciaio, dall’energia a vapore alla fissione nucleare – erano in gran parte singolari. Esisteva una chiara soglia di padronanza tecnologica e, una volta raggiunta, il campo di gioco era livellato. L’intelligenza artificiale, al contrario, è di natura generativa. Presentando una piattaforma per la continua innovazione scientifica e tecnologica, può portare a un’ulteriore innovazione. Questo fenomeno rende l’era dell’intelligenza artificiale fondamentalmente diversa dall’età del bronzo o dell’acciaio. Piuttosto che la ricchezza di risorse naturali o la padronanza di una determinata tecnologia, la fonte del potere di un Paese risiede ora nella sua capacità di innovare continuamente.

Questo circolo virtuoso sarà sempre più veloce. Una volta che l’informatica quantistica sarà diventata maggiorenne, i computer superveloci permetteranno di elaborare quantità sempre maggiori di dati, producendo sistemi di intelligenza artificiale sempre più intelligenti. Questi sistemi di intelligenza artificiale, a loro volta, saranno in grado di produrre innovazioni rivoluzionarie in altri campi emergenti, dalla biologia sintetica alla produzione di semiconduttori. L’intelligenza artificiale cambierà la natura stessa della ricerca scientifica. Invece di fare progressi uno studio alla volta, gli scienziati scopriranno le risposte a domande antiche analizzando serie di dati enormi, liberando le menti più intelligenti del mondo per dedicare più tempo allo sviluppo di nuove idee. In quanto tecnologia di base, l’IA sarà fondamentale nella corsa al potere dell’innovazione, essendo alla base di innumerevoli sviluppi futuri nella scoperta di farmaci, nella terapia genetica, nella scienza dei materiali, nell’energia pulita e nell’IA stessa. Gli aerei più veloci non hanno aiutato a costruire aerei più veloci, ma i computer più veloci aiuteranno a costruire computer più veloci.

Ancora più potente dell’intelligenza artificiale di oggi è una tecnologia più completa – per ora, data l’attuale potenza di calcolo, ancora ipotetica – chiamata “intelligenza artificiale generale” o AGI. Mentre l’intelligenza artificiale tradizionale è progettata per risolvere un problema specifico, l’intelligenza artificiale generale dovrebbe essere in grado di eseguire qualsiasi compito mentale che un essere umano può svolgere e anche di più. Immaginate un sistema di intelligenza artificiale in grado di rispondere a domande apparentemente intrattabili, come il modo migliore per insegnare l’inglese a un milione di bambini o per curare un caso di Alzheimer. L’avvento dell’Intelligenza Artificiale è ancora lontano anni, forse addirittura decenni, ma il Paese che svilupperà per primo questa tecnologia avrà un enorme vantaggio, in quanto potrebbe utilizzare l’Intelligenza Artificiale per sviluppare versioni sempre più avanzate dell’Intelligenza Artificiale, guadagnando così un vantaggio in tutti gli altri settori della scienza e della tecnologia. Una svolta in questo campo potrebbe inaugurare un’era di predominio non dissimile dal breve periodo di superiorità nucleare di cui godettero gli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta.

Mentre molti degli effetti più trasformativi dell’intelligenza artificiale sono ancora lontani, l’innovazione nei droni sta già sconvolgendo il campo di battaglia. Nel 2020, l’Azerbaigian ha utilizzato droni di fabbricazione turca e israeliana per ottenere un vantaggio decisivo nella sua guerra contro l’Armenia nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, ottenendo vittorie sul campo di battaglia dopo oltre due decenni di stallo militare. Allo stesso modo, la flotta di droni dell’Ucraina – molti dei quali sono modelli commerciali a basso costo riutilizzati per la ricognizione dietro le linee nemiche – ha giocato un ruolo fondamentale nei suoi successi.

I droni offrono vantaggi distinti rispetto alle armi tradizionali: sono più piccoli e più economici, offrono capacità di sorveglianza senza pari e riducono l’esposizione al rischio dei soldati. I marines in guerra urbana, ad esempio, potrebbero essere accompagnati da microdroni che fungono da occhi e orecchie. Col tempo, i Paesi miglioreranno l’hardware e il software dei droni per superare i loro rivali. Alla fine, i droni autonomi armati – non solo i veicoli aerei senza equipaggio, ma anche quelli a terra – sostituiranno del tutto i soldati e l’artiglieria con equipaggio. Immaginate un sottomarino autonomo in grado di spostare rapidamente i rifornimenti in acque contese o un camion autonomo in grado di trovare il percorso ottimale per trasportare piccoli lanciamissili su terreni accidentati. Sciami di droni, collegati in rete e coordinati dall’intelligenza artificiale, potrebbero sopraffare le formazioni di carri armati e fanteria sul campo. Nel Mar Nero, l’Ucraina ha usato i droni per attaccare le navi e i rifornimenti russi, aiutando un Paese con una marina minuscola a contrastare la potente flotta russa del Mar Nero. L’Ucraina offre un’anteprima dei conflitti futuri: guerre che saranno combattute e vinte da uomini e macchine che lavorano insieme.

Come dimostrano gli sviluppi dei droni, il potere dell’innovazione è alla base del potere militare. Innanzitutto, il dominio tecnologico in settori cruciali rafforza la capacità di un Paese di fare la guerra e quindi la sua capacità di deterrenza. Ma l’innovazione plasma anche il potere economico, dando agli Stati un’influenza sulle catene di approvvigionamento e la capacità di stabilire le regole per gli altri. I Paesi che dipendono dalle risorse naturali o dal commercio, soprattutto quelli che devono importare beni rari o fondamentali, devono affrontare vulnerabilità che altri non hanno.

Si pensi al potere che la Cina può esercitare sui Paesi a cui fornisce hardware per le comunicazioni. Non sorprende che i Paesi che dipendono dalle infrastrutture fornite dalla Cina – come molti Paesi africani, dove i componenti prodotti da Huawei costituiscono circa il 70% delle reti 4G – siano stati restii a criticare le violazioni cinesi dei diritti umani. Il primato di Taiwan nella produzione di semiconduttori, inoltre, costituisce un potente deterrente contro l’invasione, dal momento che la Cina ha poco interesse a distruggere la sua principale fonte di microchip. L’influenza è anche per i Paesi pionieri delle nuove tecnologie. Gli Stati Uniti, grazie al loro ruolo nella fondazione di Internet, hanno goduto per decenni di un posto a sedere al tavolo della definizione dei regolamenti di Internet. Durante la Primavera araba, ad esempio, il fatto che gli Stati Uniti fossero sede di aziende tecnologiche che fornivano la spina dorsale di Internet ha permesso a tali aziende di rifiutare le richieste di censura dei governi arabi.

Meno ovvio ma altrettanto cruciale, l’innovazione tecnologica rafforza il soft power di un Paese. Hollywood e aziende tecnologiche come Netflix e YouTube hanno creato una serie di contenuti per una base di consumatori sempre più globale, contribuendo nel contempo a diffondere i valori americani. Questi servizi di streaming proiettano lo stile di vita americano nei salotti di tutto il mondo. Allo stesso modo, il prestigio associato alle università statunitensi e le opportunità di creazione di ricchezza create dalle aziende americane attraggono gli aspiranti da tutto il mondo. In breve, la capacità di un Paese di proiettare potere nella sfera internazionale – militarmente, economicamente e culturalmente – dipende dalla sua capacità di innovare più velocemente e meglio dei suoi concorrenti.

CORSA AL VERTICE
Il motivo principale per cui oggi l’innovazione offre un vantaggio così massiccio è che genera altra innovazione. In parte, ciò avviene grazie alla dipendenza dal percorso che deriva dai gruppi di scienziati che attraggono, insegnano e formano altri grandi scienziati nelle università di ricerca e nelle grandi aziende tecnologiche. Ma lo fa anche perché l’innovazione si costruisce da sola. L’innovazione si basa su un ciclo di invenzione, adozione e adattamento, un ciclo di feedback che alimenta ancora più innovazione. Se un anello della catena si rompe, si rompe anche la capacità di un Paese di innovare in modo efficace.

Un vantaggio nell’invenzione si basa in genere su anni di ricerca precedente. Si pensi al modo in cui gli Stati Uniti hanno guidato il mondo nell’era delle telecomunicazioni 4G. L’introduzione delle reti 4G in tutto il Paese ha facilitato lo sviluppo di applicazioni mobili come Uber, che richiedevano connessioni dati cellulari più veloci. Grazie a questo vantaggio, Uber ha potuto perfezionare il suo prodotto negli Stati Uniti per poterlo diffondere nei Paesi in via di sviluppo. Questo ha portato ad avere molti più clienti e molti più feedback da incorporare, mentre l’azienda adattava il suo prodotto a nuovi mercati e a nuove versioni.

Ma il fossato attorno ai Paesi che godono di vantaggi strutturali nella tecnologia si sta riducendo. Grazie anche alla ricerca accademica più accessibile e all’ascesa del software open-source, le tecnologie si diffondono più rapidamente in tutto il mondo. La disponibilità di nuovi progressi ha aiutato i concorrenti a recuperare a velocità record, come ha fatto la Cina con il 4G. Sebbene alcuni dei recenti successi tecnologici della Cina derivino dallo spionaggio economico e dal mancato rispetto dei brevetti, gran parte di essi sono dovuti a sforzi innovativi, piuttosto che derivativi, per adattare e implementare le nuove tecnologie.

In effetti, le aziende cinesi hanno avuto un successo clamoroso nell’adottare e commercializzare le scoperte tecnologiche straniere. Nel 2015, il Partito Comunista Cinese ha definito la sua strategia “Made in China 2025” per raggiungere l’autosufficienza in settori ad alta tecnologia come le telecomunicazioni e l’IA. Nell’ambito di questa strategia, ha annunciato un piano economico di “doppia circolazione”, con il quale la Cina intende incrementare la domanda interna ed estera dei suoi prodotti. Attraverso partenariati pubblico-privato, sovvenzioni dirette alle aziende private e sostegno alle aziende statali, Pechino ha versato miliardi di dollari per assicurarsi di essere in vantaggio nella corsa alla supremazia tecnologica. Finora i risultati sono contrastanti. La Cina è in vantaggio rispetto agli Stati Uniti in alcune tecnologie, ma è in ritardo in altre.

È difficile dire se la Cina prenderà il comando nel campo dell’IA, ma gli alti funzionari di Pechino pensano che lo farà. Nel 2017, Pechino ha annunciato l’intenzione di diventare il leader mondiale dell’intelligenza artificiale entro il 2030 e potrebbe raggiungere questo obiettivo anche prima del previsto. La Cina ha già raggiunto il suo obiettivo di diventare leader mondiale nella tecnologia di sorveglianza basata sull’IA, che non solo utilizza per controllare i dissidenti in patria, ma vende anche ai governi autoritari all’estero. La Cina è ancora indietro rispetto agli Stati Uniti nell’attrarre le migliori menti nel campo dell’IA, con quasi il 60% dei ricercatori di alto livello che lavorano nelle università statunitensi. Ma le leggi sulla privacy poco rigorose, la raccolta obbligatoria di dati e i finanziamenti governativi mirati danno al Paese un vantaggio fondamentale. Infatti, è già leader nella produzione di veicoli autonomi.

Per ora, gli Stati Uniti sono ancora in vantaggio nel calcolo quantistico. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, la Cina ha investito almeno 10 miliardi di dollari nella tecnologia quantistica, circa dieci volte di più del governo statunitense. La Cina sta lavorando per costruire computer quantistici così potenti da poter facilmente decifrare la crittografia odierna. Il Paese sta anche investendo molto nelle reti quantistiche – un modo di trasmettere informazioni sotto forma di bit quantistici – presumibilmente nella speranza che tali reti siano impermeabili al monitoraggio di altre agenzie di intelligence. Ancora più allarmante è il fatto che il governo cinese potrebbe già archiviare le comunicazioni rubate e intercettate con l’obiettivo di decriptarle una volta in possesso della potenza di calcolo necessaria per farlo, una strategia nota come “archivia ora, decripta dopo”. Quando i computer quantistici diventeranno sufficientemente veloci, tutte le comunicazioni criptate con metodi non quantistici saranno a rischio di intercettazione, il che aumenta la posta in gioco per raggiungere per primi questa svolta.

La Cina sta anche cercando di recuperare il ritardo accumulato dagli Stati Uniti nel campo della biologia sintetica. Gli scienziati in questo campo stanno lavorando su una serie di nuovi sviluppi biologici, tra cui il cemento prodotto da microbi che assorbe l’anidride carbonica, le colture con una maggiore capacità di sequestrare il carbonio e i sostituti della carne a base vegetale. Queste tecnologie sono molto promettenti per combattere il cambiamento climatico e creare posti di lavoro, ma dal 2019 gli investimenti privati cinesi nella biologia sintetica hanno superato quelli statunitensi.

Anche per quanto riguarda i semiconduttori, la Cina ha piani ambiziosi. Il governo cinese sta finanziando sforzi senza precedenti per diventare leader nella produzione di semiconduttori entro il 2030. Attualmente le aziende cinesi creano i cosiddetti chip a “sette nanometri”, ma Pechino si è spinta oltre, annunciando l’intenzione di produrre internamente la nuova generazione di chip a “cinque nanometri”. Per ora, gli Stati Uniti continuano a superare la Cina nella progettazione di semiconduttori, così come Taiwan e la Corea del Sud. Nell’ottobre del 2022, l’amministrazione Biden ha compiuto l’importante passo di bloccare le vendite in Cina delle principali aziende statunitensi produttrici di chip per computer di intelligenza artificiale, nell’ambito di un pacchetto di restrizioni pubblicato dal Dipartimento del Commercio. Tuttavia, le aziende cinesi controllano l’85% della lavorazione dei minerali di terre rare che entrano in questi chip e in altri componenti elettronici critici, offrendo un importante punto di forza rispetto ai loro concorrenti.

UNA BATTAGLIA DI SISTEMI
La competizione tra Stati Uniti e Cina è una competizione tra sistemi, oltre che tra Stati. Nel modello cinese di fusione civile-militare, il governo promuove la competizione interna e finanzia i vincitori emergenti come “campioni nazionali”. Queste aziende svolgono un duplice ruolo, massimizzando il successo commerciale e promuovendo gli interessi della sicurezza nazionale cinese. Il modello americano, invece, si basa su un insieme più eterogeneo di attori privati. Il governo federale finanzia la scienza di base, ma lascia in gran parte l’innovazione e la commercializzazione al mercato.

Per molto tempo, la triplice collaborazione tra governo, industria e università è stata la fonte principale dell’innovazione americana. Questa collaborazione ha portato a molte scoperte tecnologiche, dallo sbarco sulla Luna a Internet. Ma con la fine della Guerra Fredda, il governo degli Stati Uniti è diventato restio a stanziare fondi per la ricerca applicata e ha persino ridotto l’importo destinato alla ricerca fondamentale. Sebbene la spesa privata sia decollata, nell’ultimo mezzo secolo gli investimenti pubblici si sono stabilizzati. Nel 2015, la quota di finanziamenti pubblici per la ricerca di base è scesa sotto il 50% per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo essersi aggirata intorno al 70% negli anni Sessanta. Nel frattempo, la geometria dell’innovazione – il ruolo rispettivo degli attori pubblici e privati nel guidare il progresso tecnologico – è cambiata dai tempi della Guerra Fredda, in modi che non sempre hanno prodotto ciò di cui il Paese ha bisogno. L’ascesa del capitale di rischio ha contribuito ad accelerare l’adozione e la commercializzazione, ma ha fatto poco per affrontare problemi scientifici di ordine superiore.

Le ragioni della riluttanza di Washington a finanziare la scienza che è alla base del potere innovativo sono strutturali. L’innovazione richiede rischi e, a volte, fallimenti, cosa che i politici sono restii ad accettare. L’innovazione può richiedere investimenti a lungo termine, ma il governo degli Stati Uniti opera su un ciclo di bilancio di un solo anno e, al massimo, su un ciclo politico di due anni. Nonostante questi ostacoli, la Silicon Valley (insieme ad altre zone calde degli Stati Uniti) è riuscita a incoraggiare l’innovazione. La storia del successo americano si basa su un potente mix di ambizione stimolante, regimi legali e fiscali favorevoli alle startup e una cultura di apertura che consente a imprenditori e ricercatori di iterare e migliorare le nuove idee.

Il sistema di immigrazione degli Stati Uniti, ormai obsoleto, impedisce a troppe persone di talento di venire.
Tuttavia, questo potrebbe non essere sufficiente. Il sostegno del governo ha svolto a lungo un ruolo cruciale nell’avviare l’innovazione negli Stati Uniti, e la ricerca in tecnologie che oggi sembrano stravaganti potrebbe rivelarsi fondamentale in un futuro non troppo lontano. Nel 2013, ad esempio, la Defense Advanced Research Projects Agency ha investito in vaccini a RNA messaggero, collaborando con l’azienda biotecnologica Moderna, che in seguito avrebbe sviluppato e consegnato un vaccino COVID-19 in tempi record. Ma questi esempi sono più rari di quanto dovrebbero.

La competizione con la Cina richiede una rivitalizzazione dell’interazione tra governo, settore privato e università. Proprio come la Guerra Fredda portò alla creazione del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’odierna competizione tecnologica dovrebbe stimolare un ripensamento delle strutture politiche esistenti. Come ha raccomandato la Commissione per la Sicurezza Nazionale sull’Intelligenza Artificiale (da me presieduta), un nuovo “Consiglio per la competitività tecnologica”, ispirato all’NSC, potrebbe aiutare a coordinare l’azione degli attori privati e a sviluppare un piano nazionale per far progredire le tecnologie emergenti cruciali. Un segnale promettente: il Congresso sembra aver riconosciuto la necessità di un sostegno decisivo. Nel 2022, con un voto bipartisan, ha approvato il CHIPS and Science Act, che prevede un finanziamento di 200 miliardi di dollari per la R&S scientifica nei prossimi dieci anni.

INVESTIRE NEL FUTURO
Nell’ambito degli sforzi per rimanere una superpotenza dell’innovazione, gli Stati Uniti dovranno investire miliardi di dollari in settori chiave della competizione tecnologica. Per quanto riguarda i semiconduttori, forse la tecnologia più vitale oggi, il governo americano dovrebbe raddoppiare i suoi sforzi per le catene di approvvigionamento onshore e “friend shore”, trasferendole negli Stati Uniti o in Paesi amici. Per quanto riguarda le energie rinnovabili, il governo dovrebbe finanziare la ricerca e lo sviluppo nel campo della microelettronica, accumulare i minerali di terre rare (come il litio e il cobalto) necessari per le batterie e i veicoli elettrici e investire in nuove tecnologie in grado di sostituire le batterie agli ioni di litio e di compensare il dominio cinese sulle risorse. Nel frattempo, la diffusione del 5G negli Stati Uniti è stata lenta, in parte perché le agenzie governative, in particolare il Dipartimento della Difesa, controllano la maggior parte dello spettro radio ad alta frequenza utilizzato dal 5G. Per recuperare il ritardo rispetto alla Cina, il Pentagono dovrebbe aprire una parte maggiore dello spettro agli attori privati.

Gli Stati Uniti dovranno investire in tutte le fasi del ciclo dell’innovazione, finanziando non solo la ricerca di base ma anche la commercializzazione. Un’innovazione significativa richiede sia l’invenzione che l’implementazione, la capacità di eseguire e commercializzare le nuove invenzioni su scala. Questo è spesso il principale ostacolo. La ricerca sulle auto elettriche, ad esempio, ha aiutato General Motors a portare il suo primo modello sul mercato nel 1996, ma ci sono voluti altri due decenni prima che Tesla producesse in serie un modello commercialmente valido. Ogni nuova tecnologia, dall’IA all’informatica quantistica alla biologia sintetica, deve essere perseguita con il chiaro obiettivo della commercializzazione.

Oltre a investire direttamente nelle tecnologie che alimentano la forza dell’innovazione, gli Stati Uniti devono investire nel fattore che sta alla base dell’innovazione: il talento. Gli Stati Uniti vantano le migliori startup, aziende storiche e università del mondo, che attirano i migliori e i più brillanti da tutto il mondo. Tuttavia, troppe persone di talento non possono venire negli Stati Uniti a causa del sistema di immigrazione obsoleto. Invece di creare un percorso facile verso la green card per gli stranieri che conseguono lauree STEM in scuole americane, il sistema attuale rende inutilmente difficile per i migliori laureati contribuire all’economia statunitense.

Gli Stati Uniti hanno un vantaggio asimmetrico quando si tratta di assumere immigrati altamente qualificati, e il loro invidiabile tenore di vita e le abbondanti opportunità spiegano perché il Paese ha attratto la maggior parte delle menti più brillanti del mondo nel campo dell’IA. Più della metà dei ricercatori di IA che lavorano negli Stati Uniti proviene dall’estero e la domanda di talenti di IA supera ancora di gran lunga l’offerta. Se gli Stati Uniti chiudono le porte agli immigrati di talento, rischiano di perdere il loro vantaggio innovativo. Così come il Progetto Manhattan è stato guidato in gran parte da rifugiati ed emigrati dall’Europa, la prossima scoperta tecnologica americana si baserà quasi certamente sugli immigrati.

LA MIGLIORE DIFESA
Nell’ambito dei suoi sforzi per tradurre l’innovazione in hard power, gli Stati Uniti devono ripensare radicalmente alcune delle loro politiche di difesa. Durante la Guerra Fredda, il Paese ha progettato diverse strategie di “compensazione” per controbilanciare la superiorità numerica sovietica attraverso la strategia militare e le innovazioni tecnologiche. Oggi Washington ha bisogno di quella che lo Special Competitive Studies Project ha definito una strategia “Offset-X”, un approccio competitivo attraverso il quale gli Stati Uniti possono mantenere la superiorità tecnologica e militare.

Dato che i militari e le economie moderne si basano sulle infrastrutture digitali, è probabile che qualsiasi futura guerra tra grandi potenze inizi con un attacco informatico. Le difese informatiche degli Stati Uniti, quindi, hanno bisogno di un tempo di risposta più veloce del tempo di reazione degli esseri umani. Avendo affrontato continui attacchi informatici anche in tempo di pace, gli Stati Uniti dovrebbero armarsi di ridondanza, creando sistemi di backup e percorsi alternativi per i flussi di dati.

Ciò che inizia nel cyberspazio potrebbe facilmente degenerare nel regno fisico, e anche in questo caso gli Stati Uniti dovranno affrontare nuove sfide. Per contrastare eventuali attacchi di droni a sciame, devono investire in sistemi di artiglieria e missili difensivi. Per migliorare la consapevolezza del campo di battaglia, le forze armate statunitensi dovrebbero concentrarsi sul dispiegamento di una rete di sensori poco costosi alimentati dall’intelligenza artificiale per monitorare le aree contese, un approccio che spesso è più efficace di un singolo sistema squisitamente realizzato. Poiché l’intelligence umana diventa sempre più difficile da ottenere, gli Stati Uniti dovranno fare sempre più affidamento sulla più grande costellazione di sensori di qualsiasi Paese, che va dal mare allo spazio. Dovranno inoltre concentrarsi maggiormente sull’intelligence open-source, dato che oggi la maggior parte dei dati del mondo è disponibile pubblicamente. Senza questa capacità, gli Stati Uniti rischiano di essere sorpresi dai loro fallimenti di intelligence.

Nella sfida del secolo – la rivalità degli Stati Uniti con la Cina – il fattore decisivo sarà il potere dell’innovazione.
Quando si tratta di combattere davvero, le unità militari dovrebbero essere collegate in rete e decentralizzate per superare meglio gli avversari. Di fronte ad avversari con gerarchie militari rigide, gli Stati Uniti potrebbero ottenere un vantaggio utilizzando unità più piccole e connesse, i cui membri sono abili nel prendere decisioni in rete, utilizzando gli strumenti dell’intelligenza artificiale a loro vantaggio. Ad esempio, una singola unità potrebbe riunire capacità di raccolta di informazioni, attacchi missilistici a lungo raggio e guerra elettronica. Il Pentagono deve fornire ai comandanti sul campo di battaglia tutte le informazioni migliori e permettere loro di fare le scelte migliori sul campo.

L’esercito americano deve anche imparare a integrare le nuove tecnologie nel processo di approvvigionamento, nei piani di battaglia e nel combattimento. Nei quattro anni in cui ho presieduto il Defense Innovation Board, sono rimasto sbalordito da quanto fosse difficile farlo. Uno dei principali colli di bottiglia è rappresentato dall’oneroso processo di approvvigionamento del Pentagono: i principali sistemi d’arma richiedono più di dieci anni per essere progettati, sviluppati e distribuiti. Il Dipartimento della Difesa dovrebbe ispirarsi al modo in cui l’industria tecnologica progetta i prodotti. Dovrebbe costruire i missili come le aziende costruiscono le auto elettriche, utilizzando uno studio di progettazione per sviluppare e simulare il software, alla ricerca di innovazioni dieci volte più veloci ed economiche rispetto ai processi attuali. L’attuale sistema di approvvigionamento è particolarmente inadatto a un futuro in cui la supremazia del software si rivelerà decisiva sul campo di battaglia.

Gli Stati Uniti spendono quattro volte di più di qualsiasi altro Paese per l’acquisto di sistemi militari, ma il prezzo è un parametro insufficiente per giudicare la forza innovativa. Nell’aprile 2022, le forze ucraine hanno lanciato due missili Neptune contro la Moskva, una nave da guerra russa di 600 piedi, affondandola. La nave è costata 750 milioni di dollari; i missili, 500.000 dollari l’uno. Allo stesso modo, il missile ipersonico antinave all’avanguardia della Cina, l’YJ-21, potrebbe un giorno affondare una portaerei statunitense da 10 miliardi di dollari. Il governo americano dovrebbe pensarci due volte prima di impegnare altri 10 miliardi di dollari e dieci anni per una nave del genere. Spesso ha più senso acquistare molti prodotti a basso costo invece di investire in pochi progetti di prestigio ad alto costo.

GIOCARE PER VINCERE
Nella gara del secolo – la rivalità degli Stati Uniti con la Cina – il fattore decisivo sarà il potere dell’innovazione. I progressi tecnologici dei prossimi cinque-dieci anni determineranno quale Paese avrà la meglio in questa competizione mondiale. La sfida per gli Stati Uniti, tuttavia, è che i funzionari governativi sono incentivati a evitare i rischi e a concentrarsi sul breve termine, lasciando il Paese cronicamente sottoinvestito nelle tecnologie del futuro.

Se la necessità è la madre dell’invenzione, la guerra è la levatrice dell’innovazione. Parlando con gli ucraini durante una visita a Kiev nell’autunno del 2022, ho sentito dire da molti che i primi mesi di guerra sono stati i più produttivi della loro vita. L’ultima guerra veramente globale degli Stati Uniti – la Seconda Guerra Mondiale – ha portato all’adozione diffusa della penicillina, a una rivoluzione nella tecnologia nucleare e a una svolta nell’informatica. Ora gli Stati Uniti devono innovare in tempo di pace, più velocemente che mai. Non riuscendo a farlo, stanno erodendo la loro capacità di dissuadere e, se necessario, di combattere e vincere la prossima guerra.

L’alternativa potrebbe essere disastrosa. I missili ipersonici potrebbero lasciare gli Stati Uniti senza difese e i cyberattacchi potrebbero paralizzare la rete elettrica del Paese. Forse ancora più importante, la guerra del futuro prenderà di mira gli individui in modi completamente nuovi: Stati autoritari come la Cina e la Russia potrebbero essere in grado di raccogliere dati individuali sulle abitudini di acquisto degli americani, sulla loro posizione e persino sui profili del DNA, consentendo campagne di disinformazione su misura e persino attacchi biologici e assassinii mirati. Per evitare questi orrori, gli Stati Uniti devono assicurarsi di essere all’avanguardia rispetto ai loro concorrenti tecnologici.

I principi che hanno definito la vita negli Stati Uniti – libertà, capitalismo, impegno individuale – erano quelli giusti per il passato e lo saranno anche per il futuro. Questi valori fondamentali sono alla base di un ecosistema dell’innovazione che è ancora l’invidia del mondo. Hanno permesso di realizzare innovazioni che hanno trasformato la vita quotidiana in tutto il mondo. Gli Stati Uniti hanno iniziato la corsa all’innovazione in pole position, ma non possono essere certi di rimanervi. Il vecchio mantra della Silicon Valley vale non solo per l’industria ma anche per la geopolitica: innovare o morire.

ERIC SCHMIDT è presidente dello Special Competitive Studies Project ed ex amministratore delegato e presidente di Google. È coautore, con Henry Kissinger e Daniel Huttenlocher, di The Age of AI: And Our Human Future.

https://www.foreignaffairs.com/united-states/eric-schmidt-innovation-power-technology-geopolitics

Proposte di pace, propositi di guerra_con Antonio de Martini

Il mondo occidentale, patrocinato dagli Stati Uniti, continua a offrire la propria rappresentazione come quella del mondo intero. Il conflitto in Ucraina non fa eccezione. La novità consiste proprio nel fatto che la verità che ci viene offerta in Europa e negli Stati Uniti questa volta è radicalmente diversa da quella accettata nel resto del mondo. L’amministrazione statunitense rivendica a buon diritto la compatezza conseguita, al momento, nel blocco di alleanze costruito nei decenni pur con qualche crepa; glissa nervosamente sulla neutralità e sulla aperta opposizione di un gran numero di stati nazionali e della gran parte della popolazione nel mondo al suo avventurismo. Dopo la Turchia, iniziano ad emergere nuovi attori di primo piano pronti ad esercitare una azione di mediazione. Lo stesso conflitto ucraino da essere l’oggetto univoco delle attenzioni si sta trasformando con il tempo nella leva per ridefinire le relazioni geopolitiche. La proposta impropria di mediazione della Cina assume questo significato. Nelle more, ancora una volta, i soggetti che vedranno restringere il proprio campo di azione saranno i centri politici europei. La direzione obbligata sarà quella dell’Africa. Ma in una condizione di estrema debolezza e con un retaggio coloniale e neocoloniale pesante come un fardello. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO? – di Violetta Piccolo   

GEOPOLITICA DELLA LINGUA: IL CASO DEGLI ISTITUTI CONFUCIO. ASCESA O DECLINO?

 

– di Violetta Piccolo

Foto: di WU Hong, European Pressphoto Agency

tratta da New York Times, 26 settembre 2014.

Il nome degli Istituti viene direttamente dall’antico saggio Maestro Confucio, con una statua memoriale presso l’Università Qingdao, provincia dello Shandong

A cosa servono gli Istituti Confucio? E cos’è lo Hanban, o forse meglio dovremmo dire l’ex Hanban? Perché tra il 2013-14 e il 2022-23 si sono verificate tutte queste ansietà, molti dubbi e perfino chiusure di  centri culturali che vengono considerati “anomalie” che progressivamente hanno subìto un’accelerazione? Queste le domande con cui iniziamo, dunque, il presente articolo. Solo alcune semplici veloci domande a bruciapelo per poter sollevare fin da subito la questione degli Istituti Confucio e definire il contorno di questo scritto, nel quale si discute di come  esista una sottile e intelligente strategia da parte del governo cinese, che potremmo chiamare una sorta di Geopolitica della lingua, o se si vuole, usando un’espressione di più facile ed immediato intendimento, che si riferisce al politologo Joseph Nye (che più che coniarne una nuova la va dimostrando nei suoi lavori sul potere a partire dal suo testo del 1990 “Bound to Lead: The Changing Nature of American Power”), un soft power mirato all’uso e alla conoscenza di lingua e cultura cinesi che possano aprire a un lungo e durevole dominio, ma anche che convergono verso un conflitto a livello internazionale a causa dell’interesse più ampio che questi Istituti rivestono verso la politica e altri settori, o per il modus operandi con cui si legano i rapporti e motivi di partnership coi governi stranieri che ospitano i finanziamenti cinesi di questi stessi, inglobando in essi aspetti di influenza strategica di tipo politico-economico-commerciale, velata soprattutto da una esigenza culturale[1]. Sì, soprattutto l’aspetto culturale (come dimostra un paper di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali visitabile online, che riporta le cifre fino al 2020 delle connessioni e dei vari accordi stipulati tra la Cina e l’Italia come caso esclusivo di apertura quasi senza limitazioni, a differenza di altri paesi europei e in particolare a differenza di Stati Uniti e UK, dove alcuni progetti si sono arenati o sono stati chiusi per motivi di sicurezza nazionale, parlando di una Silk Road o Via della Seta di Connessioni – financo concessioni- Accademiche per il caso dell’Italia) è l’esempio di quello che a livello di influenza internazionale la Cina è ora capace di dimostrare e imporre: la sua versione del Beijing Consensus si basa proprio sull’internazionalizzazione della lingua cinese comune o meglio definita putonghua 普通话, ovvero la lingua standardizzata che viene insegnata come lingua ufficiale e che il Partito usa e sfrutta come simbolo nuovo di potenza acquisita sul piano internazionale e diplomatico. Per poter esercitare questo potere “soft” e quindi essere appetibile e attrarre a sé sul piano globale il consenso mondiale, nell’interesse nazionale, ha attivato sul piano della strategia di lungo termine un tipo di sponsorizzazione o marketing della sua cultura, ed attraverso l’intento educativo avvia, così, da decenni il programma dello scambio interculturale attraverso gli Istituti Confucio. Sul magazine statunitense Politico[2] del 16 gennaio 2018 viene citato per questo aspetto strategico degli Istituti proprio una frase riportata dall’ex membro del Politburo nonché responsabile della propaganda Li Changchun, durante un briefing tenutosi a Pechino nel novembre del 2011 in cui ha esplicitamente dichiarato la natura degli Istituti, dicendo “L’Istituto Confucio è un marchio accattivante per l’espansione della nostra cultura all’estero. Ha dato un importante contributo al miglioramento del nostro soft power. Il marchio “Confucio” possiede una naturale attrattiva. Usando la scusa dell’insegnamento della lingua cinese, tutto appare più ragionevole e logico”. L’articolo poi continua affermando della comprensibile esultanza dell’allora ex membro del Politburo dicendo che, come viene riportato al 2018, oltre 500 erano allora gli Istituti presenti nel mondo e oltre un centinaio quelli con base negli Stati Uniti (più corsi di lingua e cultura ad essi collegati anche nelle scuole primarie e secondarie), di fatto i più rilevanti alla George Washington University, la Michigan University e la Iowa University, fra i college più noti. Davvero un risultato notevole, e per di più con tutto rispetto dell’obiettivo centrale progressivamente realizzato: lo shift/passaggio graduale di consegne dal Washington Consensus al Beijing Consensus. Si parla di un crescente interesse fra gli studenti che vi si iscrivono, ed inoltre di problemi e questioni che questa importante crescita esponenziale di adesioni ha portato con sé, tra cui si cita quello dell’appartenenza dei presenti centri culturali all’organizzazione dei campus (di solito la condizione in cui si ritrovano gli Istituti Confucio è embedded, ovvero “incorporata” e dipendente dall’università che la accoglie, pur dovendo dipendere ed essere sostenuti dal governo cinese facendo riferimento al Ministero dell’Educazione, dovrebbero restare indipendenti ed esterni alle università a cui si appoggiano, ma in realtà si impiantano in esse), i quali sono soliti come statuto professare la libertà di ricerca e esercitare il pensiero critico. Ma qui si pone subito il problema da affrontare: gli Istituti Confucio insegnano una versione loro propria della storia e civiltà cinesi, appunto quella della cultura cinese che viene influenzata dalle direttive del governo e non è indipendente ma piuttosto di tipo strettamente collegata alla versione politica che ne dà nei programmi il governo centrale di Pechino, essendo promanazione dell’Ufficio Hanban, ovvero si tratta di una versione della cultura generale decisa e approvata in seno al Ministero dell’Educazione da cui dipende il Quartier generale dell’Istituto Confucio, anche nominato Ufficio del Consiglio Internazionale per la Lingua cinese (in cinese, Hanban[3]汉办, che è l’abbreviazione di guojia Hanyu guoji tuiguang lingdao xiaozu bangongshi 国家汉语国际推广领导小组办公室, anche se l’origine viene da guojia duiwai Hanyu jiaoxue lingdao xiaozu 国家对外汉语教学领导小组, ovvero l’Ufficio nazionale per l’insegnamento della lingua cinese, fondato nel 1987). Il fulcro principale dello Hanban è lo sviluppo dei vari Istituti Confucio, ma ad esso viene collegato anche un altro progetto, ovvero il Chinese Bridge o Hanyu qiao 汉语桥,una specie di competizione per le abilità linguistiche dei non madrelingua. Quindi, in teoria, non dovrebbero esserci conflitti di interessi tra Istituti Confucio e i governi che li ospitano all’estero, ma non è proprio così, poiché il Ministero degli Esteri e delle Finanze cinesi hanno anch’essi un ruolo di indiretto collegamento –quindi, sotto il piano delle influenze anche il governo centrale- con gli Istituti che vengono diretti dallo Hanban e il suo Board. Lo Hanban è formato da numerose suddivisioni, le 3 principali delle quali sono le divisioni degli Istituti Confucio per macroaree di regione, Asia/Africa, America/Oceania e Europa. Lo Hanban,di cui oggi non è più possibile reperire dati online data la chiusura temporanea del sito dovuta alla sua riorganizzazione, nel suo statuto diceva di occuparsi, come istituzione non-profit e organizzazione non governativa (ONG) alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione, di divulgare la cultura e la lingua cinese per contribuire col suo servizio a favorire “la formazione della cultura della diversità e dell’armonia nel mondo”, e lavora con anche le istituzioni straniere a cui si appoggia per contribuire a sviluppare corsi di lingua e cultura cinese all’estero. Dunque, queste le parole chiave che ritroviamo nei suoi intenti statutari: armonia e diversità. Teniamo bene a mente questi due concetti, perché ci serviranno per comprendere dei brevi passaggi, dal concetto millenario antico di potere secondo la tradizione cinese, fino a quello che si costituisce oggi con la creazione del soft power cinese moderno per mezzo delle realizzazioni dei piani di Xi Jinping. Sebbene, oramai, tutti i report che arrivano dal 2017-18 in avanti, soprattutto negli Stati Uniti e in buona parte delle Università europee che contano (o che hanno dipartimenti di lingua e cultura orientale interessati), abbiano chiaramente messo in evidenza una buona dose di mancanze, disorganizzazione e rigida disarmonia, per non parlare di vere e proprie forme di censura/autocensura in particolare su temi sensibili come ad esempio le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan), più che di una vera dedizione alla ricerca di pensiero critico e libertà di ricerca, gli Istituti Confucio sembrano –specialmente in Italia- godere di buona salute. Tuttavia, le ingerenze della Cina e in particolare di questo organo promanazione indiretta di governo che sono gli Istituti Confucio, hanno sollevato problemi fin dal loro iniziale insediamento, nel 2005: problemi che vanno dalle perplessità alle aspre critiche, fino alle chiusure permanenti dei centri di lingua e cultura allora come oggi. O almeno queste sono le lamentele che provengono da una parte dell’accademia europea e americana in generale, a dire il vero non meno direzionata in alcuni ambiti, che si è rivolta a queste istituzioni accogliendole nel proprio alveo. A dare un paio di esemplificazioni della spendibilità del “marchio Confucio” e della commistione di interessi tra il Ministero dell’Educazione, delle Finanze e degli Esteri cinesi per la costituzione dell’organo direttivo Hanban e della diffusione degli Istituti Confucio come dei veri e propri academic malware[4], come li ha definiti il professore emerito di antropologia Marshall Sahlins dell’Università di Chicago, Illinois, sono alcuni report che vengono pubblicati dal GAO[5] (U.S. Government Accountability Office) e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (U.S. Congressional Research Service)[6]. Nel suo lungo articolo pubblicato il 30 ottobre del 2013 per The Nation, il professor emerito di antropologia, dottor Sahlins, dice apertamente che gli IC frenano il libero scambio di idee e censurano il dibattito politico, e dunque si pone la seguente domanda: per quale motivo le università americane li adottano e sponsorizzano? I suoi punti decisivi sugli IC che sono stati installati in USA e in particolare quello dell’Università di Chicago, che mette in luce nel lungo articolo, sono i seguenti:

  • L’IC, che viene installato presso la UChicago e in un certo numero di altre scuole, fornisce finanziamenti per progetti di ricerca dei membri della facoltà afferente su temi riguardanti la Cina (ma sono le università tenute a non usare mai soggetti di tipo controverso su cui dibattere)
  • L’IC presso la UChicago così come in altre università o scuole ad esso afferenti è un’istituzione finanziata e supervisionata dal governo centrale cinese. Mentre il Goethe-Institut in Germania o il British Council in UK o Alliance Française in Francia sono organismi indipendenti e che si pongono al di fuori delle università, l’IC è un’entità embedded, cioè incorporata all’interno dell’Università che ha una sua vera e propria autonomia didattica, e unendosi coi suoi privati programmi a quelli dell’ente ospitante, ne influisce su quella che è la finale decisione delle scelte curricolari
  • Un altro punto centrale è che gli IC non sono indipendenti, ma direttamente gestiti dal governo centrale che in accordo ne decide i crismi, in particolare seguendo la sua costituzione e altre regole dello statuto, viene a dipendere direttamente dal Quartier generale di Pechino dello Hanban (il Chinese Language Council International)
  • Sebbene lo Hanban si sia dichiarato alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione cinese, in realtà è presieduto e governato da ufficiali di alto rango del governo centrale che afferiscono a vari dipartimenti oltre che essere presieduto da membri del Politburo (l’ex vice premier del Politburo, l’allora capo dello Hanban LIU Yandong, era quindi a sovrintendere un consorzio di 12 ministeri e commissioni che indirettamente influenzavano il Consiglio direttivo dello Hanban)
  • Lo Hanban è per così dire per sua natura “un’organizzazione pedagogica internazionale che si rivela strumento di operatività del Partito unico della Rep. Popolare cinese
  • Nelle università più accreditate e grandi che ospitano degli IC, lo Hanban diviene responsabile di una parte del curriculum sugli studi cinesi, e nelle realtà più piccole la maggior parte se non tutta la didattica offerta resta sotto il suo controllo. Oltre a fornire tutto il materiale necessario, spesso lo Hanban in questi casi nomina anche direttamente i condirettori della parte cinese dei locali IC
  • I progetti di ricerca sulla Cina che vengono assunti dagli specialisti con i fondi destinati dallo Hanban devono essere approvati da Pechino
  • Gli insegnanti nominati dallo Hanban, così come i programmi accademici e quelli extracurricolari degli IC, vengono periodicamente valutati per essere approvati da Pechino, e le università ospitanti sono costrette ad accettare la loro estrinseca supervisione.
  • Lo Hanban si riserva di punire con azioni legali qualsiasi attività condotta sotto il nome degli IC senza suo permesso o autorizzazione. Anche se lo Hanban ha sottoscritto accordi che ne garantiscono un’eccezione, tuttavia lo fa solo per le università che vuole avere nella lista per motivi di nomea, quelle più prestigiose come Stanford o Chicago all’interno del progetto IC nel mondo.

Poi il professore continua dicendo che lo stabilire questi criteri per una vera indagine giornalistica o etnografica su come si possano studiare dal di dentro gli IC è difficile, in quanto “(n)onostante tutta l’attenzione che gli Istituti Confucio hanno attirato negli Stati Uniti e altrove, non c’è stata praticamente nessuna seria indagine giornalistica o etnografica sui loro particolari, su come vengono formati gli insegnanti cinesi o come vengono scelti i contenuti dei corsi e dei libri di testo. Una difficoltà è stata che gli IC sono una specie di bersaglio mobile. Non solo i funzionari cinesi sono disposti a essere flessibili nei loro negoziati con le istituzioni d’élite, ma anche la strategia generale Hanban è cambiata negli ultimi anni. Nonostante la sua portata globale, il programma dell’IC apparentemente non sta raggiungendo gli obiettivi politici di dare lustro all’immagine e aumentare l’influenza della Repubblica popolare. A differenza del Libretto rosso di Mao nell’era della liberazione del Terzo mondo, l’attuale regime cinese è difficile da vendere. Avere l’apparenza di un sistema politico attraente è una condizione necessaria per il successo del “soft power”, come ha scritto Joseph Nye, che ha coniato la frase. L’iniziativa rinnovata dell’Istituto Confucio è quella di impegnarsi meno nella lingua e nella cultura e più nell’insegnamento e nella ricerca di base dell’università ospitante. Tuttavia, i principi di funzionamento del programma IC rimangono quelli della sua costituzione e regolamento, insieme agli accordi modello negoziati con le università partecipanti. Di routine e assiduamente, Hanban vuole che gli Istituti Confucio tengano eventi e offrano istruzione sotto l’egida delle università ospitanti che mettono in buona luce la RPC, confermando così l’osservazione spesso citata del membro del Politburo Li Changchun secondo cui gli Istituti Confucio sono “un importante parte del sistema di propaganda all’estero della Cina””. Quindi, dal suo scritto si evince proprio quella che lui chiama una condizione di Trojan horse accademici, i quali come unico scopo hanno quello di imbellirsi con l’associarsi e il compenetrarsi negli atenei più prestigiosi, a volte persino creando casi di intelligence e spionaggio, poiché specialmente complicata viene a delinearsi la loro funzione vera. D’altronde, come lamenta non solo lui ma hanno lamentato anche altri docenti qui in Italia – tra tutti forse l’unica voce dissonante e contraria a continuare la partnership con gli IC è stata quella dell’illustre sinologo ex direttore del Dipartimento di Lingue orientali a Ca’Foscari, Maurizio Scarpari- , è molto più che probabile che gli Istituti Confucio si servano delle loro ingenti somme di finanziamento per stuzzicare in modo allettante le università ad accettare una collaborazione (di fatto, con i finanziamenti che lo Hanban mette a disposizione per gli IC, questi ultimi possono garantire di conseguenza di finanziare vari progetti insieme all’università, andando meno ad impattare sulle finanze dirette delle accademie). Questo ovviamente viene direzionato dallo Hanban, di modo che l’università resti impigliata in un vincolo esterno a cui difficilmente può rispondere direttamente o che può  integrare, cioè le direttive del governo centrale, quelle del regime cinese, che non sono assimilabili alla direzione e al modo in cui si governa l’università di riferimento. Più o meno in linea in seguito, nel 2017-18 fino al 2020-22 saranno le indagini fatte negli Stati Uniti, e che, come abbiamo detto, coinvolgono gli IC: sono alcuni dei maggiori casi di investigazione redatti, che provengono principalmente dal GAO e dalla Commissione investigativa del Senato USA, nonché dal Servizio di Ricerca del Congresso USA (Congressional Research Service).La domanda che sorge piuttosto spontanea, quindi, è: a chi rendono davvero servizio, infine, questi centri culturali? Spendiamo qui due parole utili per capire di cosa stiamo parlando e inquadrare gli avvenimenti che hanno portato a questo diretto conflitto. Di fatto, negli Stati Uniti la questione della diffidenza e la minaccia di chiusura degli Istituti Confucio è sempre stata presente fin dal loro concepimento, avvenuto nel 2004 con l’installazione del primo istituto presso l’Università del Maryland, e mai del tutto sopita. Ma una decina di anni dopo, nel settembre del 2014, scoppia il caso: all’Università di Chicago, Illinois, vengono fatte diverse rimostranze e si decide di chiudere e ritirare la partecipazione con l’Istituto Confucio a loro riferito, dato che l’Università era ormai entrata in conflitto aperto con la censura di temi quali la storia di Taiwan e in un caso specifico con la censura da parte della ex direttrice dello Hanban  di allora, la signora XU Lin, in occasione di una conferenza tenutasi presso un’università a Braga in Portogallo pochi mesi prima, e poi successivamente nell’aprile dello stesso anno, altre vive contestazioni per l’anniversario dei dieci anni dall’installazione in USA del primo Istituto. Tematica quella di Taiwan ritenuta dalla direttrice “troppo sensibile” anche solo per il semplice fatto di nominarla, attraverso la partecipazione al convegno della Foundation Jiang Jingguo di Taiwan, quindi, non discutibile o presentabile in alcun caso, secondo la visione specifica data dal governo di Pechino,  seguendo i dettami di governo per i suoi curriculum e programmi educativi  definiti, di fatto dando avvio ad una lunga serie di polemiche e di frustrazioni all’interno delle Università coinvolte (le quali hanno sempre sostenuto, secondo il principio della libertà accademica didattica, di esercitare il dibattito aperto secondo il pensiero critico e democratico). Questo caso ha aperto la via per una petizione da parte dell’Università di Chicago, provocando l’inizio del primo di una serie di scontri che poi si verificherà anche da noi in Europa, ed è emblematico di come viene ormai trattato il problema degli Istituti Confucio e della sua diretta influenza nelle questioni di libera proposta didattica degli atenei, che entra non poche volte in aperto conflitto con quanto la propaganda di regime vuole difendere e diffondere: ciò ha portato in definitiva alla ribalta la questione a livello internazionale, suggerendo un atteggiamento di rifiuto e totale chiusura. Un altro caso che spiega e risponde alle nostre domande iniziali in apertura del presente articolo è quello riferito all’Università di Vrije a Bruxelles: il professor SONG Xinning docente presso l’IC della stessa università e a capo dell’Istituto Confucio in essa dislocato, si ritrova coinvolto alla fine del 2019 e fino agli inizi del 2020 in un caso di accusa di spionaggio, e per lui si richiede la revoca del visto internazionale per tutti i 26 Paesi dell’UE. L’accusa è tanto forte da scomodare addirittura il diritto internazionale, e infatti il caso finisce in Tribunale, ma ai primi mesi dell’anno 2020, come riporta il South China Morning Post verrà assolto[7] per mancanza di prove fondate dal Council for Alien Law Litigation sito sempre a Bruxelles, in Belgio. Nel frattempo che l’IC dell’università veniva chiuso, però, e il professore, che ha sempre sostenuto di non avere mai avuto nulla a che fare con lo spionaggio o il reclutamento di elementi tra gli studenti per recare danno alla comunità belga, pur riuscendo a venire assolto per il dettaglio che le indagini fatte non hanno trovato abbastanza prove schiaccianti del suo coinvolgimento in questo affaire, tuttavia l’Università di Vrije (VUB) prendeva la decisione di sospenderlo dato che il Belgio non gli garantiva più il visto d’ingresso per alcuni anni. Il professore è comunque stato assolto anche da questa condanna, in quanto il ban di otto anni del suo visto per l’ingresso in Belgio non si poteva applicare secondo un cavillo della legge belga vigente. Questi spiacevoli incidenti, se così li vogliamo chiamare, sono la dimostrazione cristallina che la difficoltà di integrare gli IC nel contesto del mondo liberale è effettivo, così come effettiva è l’incapacità delle università stesse di prendere decisioni e provvedimenti prima che questi eventuali episodi si manifestino. In ogni caso, è evidente una notevole carenza di reciprocità. Non è facile in Cina poter godere degli stessi eventuali benefici di cui gode qui in Occidente la compagine degli Istituti Confucio, né come nel caso del professor SONG potersi avvalere di una legislazione equa ed equilibrata da vedere tanto agilmente ritirare un’accusa diffamatoria vincendo la causa contro lo Stato belga. Oltre  a questa considerazione, potremmo farne un’altra di molto semplice e logica, ovvero il fatto che lo Hanban, esattamente come nel caso del professor SONG, attraverso degli escamotage oppure attraverso la propria capacità di risoluzione del conflitto con l’intervento di tribunali ad hoc o leggi speciali o comunque per mezzo della sua rinomata influenza, è in grado di rigenerarsi facendo un’opera di riorganizzazione al suo interno e rinominandosi sotto altre forme. E difatti, proprio questo è quello che è accaduto ultimamente con gli IC che hanno subìto questo sciame di chiusure, costringendo lo Hanban a sospendere momentaneamente la propria pagina online e, come messo in luce da un articolo dello storico Edward Lee per l’Heritage Foundation o quello di Lin Yang per VOA News citando Rachelle Peterson come co-autrice dell’aggiornamento del rapporto del NAS del 2021, rinominandosi e nel corso del 2022 riapparendo sotto la dicitura di Ministry of Education Center for Language Exchange and Cooperation[8] (quindi tentanto un rebranding all’americana del suo marchio Hanban cinese iniziale), secondo quanto riportato dallo stesso NAS, la National Association of Scholars degli Stati Uniti. Questo è quanto viene riportato da VOA News nelle parole della ricercatrice e docente Rachelle Peterson:  “Rachelle Peterson, ricercatrice senior presso la National Association of Scholars e co-autrice del rapporto, ha affermato in una discussione del 21 giugno ospitata dalla Heritage Foundation che la chiusura degli Istituti Confucio è “una storia di successo perché gli Stati Uniti hanno riconosciuto la minaccia posta dagli Istituti Confucio e hanno affrontato quella minaccia”. Tuttavia, ha detto, “È anche una storia di avvertimento perché in questo momento il governo cinese sta cercando di eludere queste politiche. In termini militari, questa sarebbe chiamata una “manovra di aggiramento”. Il governo cinese scommette che se toglie il nome, Istituto Confucio, e modifica la struttura di un programma, nessuno si renderà conto che l’influenza del governo cinese rimane viva e vegeta nell’istruzione superiore americana”.Il 1° luglio 2021, un giorno dopo la chiusura del suo Istituto Confucio, il College of William and Mary ha istituito la W&M-BNU Collaborative Partnership con la Beijing Normal University, secondo la scuola. L’università cinese era l’ex partner dell’Istituto Confucio della scuola americana, fornendo i programmi che l’Istituto Confucio offriva. Secondo Peterson, non è cambiato nulla tranne il nome.” Nel merito della questione pertanto rimaniamo dello stesso avviso ugualmente dei professori Perry Link e Jonathan Sullivan citati nell’articolo di VOA News, rispettivamente il primo docente emerito di lingua cinese all’Università di Princeton e della California presso Riverside e il secondo politologo nonché specialista di studi cinesi all’Università di Nottingham, UK, che si distinguono tra le molte voci fuori dal coro dei pro-chiusura quanto agli Istituti Confucio, dimostrando che per quanto possibile andrebbe fatto un lavoro diverso di contrattazione con le università e non la scelta d’emblée di chiudere degli indispensabili centri che forniscono , per quanto limitatamente nelle loro clausole di tipo censorio, l’unico punto di riferimento a cui attingere per conoscere e davvero venire a contatto con la cultura e la civilizzazione cinese, altrimenti molto difficilmente reperibile quand’anche fornita nelle università. Il grado di miglioramento interno alle università non sempre consente di fare a meno di queste strutture addende che di fatto in buona parte anche le finanziano.Come nasce quindi questa storia di infinite aperture e chiusure e riaperture o camuffamenti? Da dove proviene questo bailamme e come si è giunti a tutto ciò?

Entrando per un momento nel merito del caso, si deve ricordare che il New York Times, attraverso il suo sito online e blog sulla Cina “Sinosphere. Dispatches from China”, racconta così l’accaduto iniziale incidente del 2014[9], quello che ha dato avvio a tutto questo, come lo abbiamo definito, “sciame” di chiusure, alla volta del decimo anniversario dalla apertura dell’Istituto Confucio negli Stati Uniti presso la suddetta Università del Maryland nel 2004 e la scelta di quella di Chicago di poter chiudere l’Istituto sospendendo le negoziazioni per il rinnovo del contratto presso l’università:

“L’Università di Chicago  ha sospeso le negoziazioni per il rinnovo dei suoi accordi e del contratto con L’Istituto Confucio, che è il centro di lingua e cultura  parte di un network globale affiliato al governo cinese, in una battuta d’arresto in seguito al controverso programma in vista del suo [dell’Istituzione dei primi centri Confucio in USA, nda] decimo anniversario, sabato scorso.

Secondo una dichiarazione rilasciata martedì riguardo l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago, stabilitosi nel 2010, l’università afferma che esso e i suoi partner cinesi “si sono intrattenuti per diversi mesi in uno sforzo collettivo di buona fede e fermo progresso verso un nuovo accordo per il contratto.”

“Tuttavia, i commenti pubblicati di recente sull’Università di Chicago in un articolo riguardante il direttore generale dello Hanban –l’organizzazione sotto cui il Ministero dell’Educazione cinese sorveglia l’Istituto- “sono incompatibili con una equa e continuata partnership con esso”, afferma la  stessa dichiarazione. Questo è un riferimento all’intervista con XU Lin, la direttrice dello Hanban e capo esecutivo del Quartier generale dell’Istituto Confucio. La signora XU è classificata in qualità di viceministro del governo centrale.”

E poi il NYT così continua:

“Negli ultimi anni, un crescente numero di intellettuali e studiosi negli Stati Uniti e in Europa hanno espresso viva preoccupazione per il fatto che gli Istituti Confucio dislocati in giro per il mondo riflettano troppo da vicino l’ideologia del Partito comunista cinese, dichiarando che gli istituti non devono avere parte in nessun modo al tipo di programmazione centrale educativa svolta nelle università che tengono in conto della libertà accademica”. […] “Nel 2007, la missione dello Hanban era stata definita da LI Changchun, l’allora capo della propaganda del Partito a quel tempo, come “una parte importante del modello di propaganda cinese all’estero”, una frase che include l’educazione e la cultura tanto quanto l’ideologia politica e riflette la spinta cinese in questi recenti anni a proiettare all’esterno la sua crescente potenza. L’Istituto Confucio risponde di essere meramente impegnato ad insegnare la lingua e la cultura cinese al mondo. L’intervista con la signora XU è apparsa in un articolo pubblicato il 19 Settembre [dell’anno 2014, nda] nel quotidiano cinese Jiefang Daily, che è diretto dall’Ufficio per le News del Comitato del Partito comunista di Shanghai. L’articolo a tutta pagina, intitolato “La Difficoltà della Cultura Riposa in una Carenza di Consapevolezza”, descrive un incidente che si dice occorso nel tardo mese di Aprile, dopo che oltre 100 membri della facoltà dell’università hanno chiesto attraverso una petizione che la collaborazione con l’Istituto Confucio presso l’Università di Chicago venisse interrotta.

L’istituto aveva troppa influenza nel determinare “quello che valeva la pena insegnare, e quello che valeva la pena ricercare” nonché “quel che conta in quanto vera conoscenza”, come nel mese iniziale di Maggio riportò al giornale dell’università, il Chicago Maroon, il professore di Storia delle Religioni presso il dipartimento Divinity School e uno degli organizzatori della petizione, Bruce Lincoln.

“Molti hanno percepito la durezza di XU Lin”, ha scritto in modo ammirato il Jiefang Daily, citando quella che si dice essere la lettera che la signora XU ha inviato al rettore dell’Università di Chicago in risposta alla petizione. “Con una sola frase ha sentenziato ‘Dovesse il vostro college decidere di ritirarsi, sarei d’accordo’”, ha dichiarato l’articolo. In cinese la frase contiene connotazioni di sfida. E così continua: “Il suo [della sig.ra XU, nda] atteggiamento ha reso nervosa la controparte. Il college ha risposto sbrigativamente che continuerà a gestire in modo appropriato l’Istituto Confucio”. L’articolo [del Jiefang Daily, nda] riporta che la signora Xu ha dichiarato le stesse cose in una conversazione telefonica con l’ufficio del presidente dell’università a Pechino. La portavoce dell’Università di Chicago, Sarah Nolan, ha declinato l’invito a commentare con una email. HU Zhiping, il vice capo dell’Istituto Confucio, ha dichiarato in una email il venerdì: “Lo Hanban esprime il suo disappunto per la decisione dell’Università di Chicago, che è stata presa prima che i veri fatti in merito alla questione venissero stabiliti. L’Istituto Confucio è un programma condiviso sino-americano, entrambe le parti hanno il diritto di fare una scelta”.

Il New York Times, infine, conclude riportando che XU Lin, l’allora direttrice dell’Istituto Confucio, aveva anche in passato già attratto delle critiche e dei nervosismi presso la UChicago. Nel luglio dello stesso 2014, infatti, aveva deciso di rimuovere da una conferenza fatta presso l’Università di Minho in Portogallo diverse pagine delle proposte al meeting della European Association of Chinese Studies, secondo il report sul sito web della stessa Associazione, in quanto la signora XU obiettava che il testo menzionasse la Fondazione Jiang Jingguo di Taiwan come co-sponsor della suddetta conferenza, e questo ha creato l’incidente che ha acceso la miccia sul caso e le seguenti rimostranze e chiusure nei confronti degli Istituti Confucio, anche nei confronti dell’UChicago. Come infatti riprende anche il NYT, la Cina ha un problema di censura su argomenti sensibili come Taiwan, in quanto isola “ribelle” mai rientrata finora come provincia alla madrepatria e di fatto non ha mai previsto di non poter usare la forza, il suo potenziale hard power militare, per forzarla a essere riconquistata. Questa mossa della signora XU è stata definita come “azione arbitraria” e “non autorizzata”, quindi un atto di censura che l’Associazione Europea riporta come atto sgradito in quanto ordinato deliberatamente dall’ex direttrice, facendo rimuovere dal suo entourage tutto il materiale usato nella conferenza e facendolo portare in un appartamento di uno degli insegnanti dell’Istituto Confucio dell’Università di Minho, in Portogallo. L’incidente è stato risolto solo allorché Roger Greatrex, dell’Università di Lund e presidente dell’Associazione, ha ordinato che le copie degli originali della conferenza venissero ristampati e redistribuiti, secondo quanto affermato dalla stessa Associazione. Quello che è più rimarcabile sono le parole usate per spiegare l’accaduto da questa ex direttrice dell’Istituto, che ha apertamente dichiarato nell’articolo del Jiefang Daily che l’Istituto Confucio ha come missione la necessità di “costruire un treno spirituale ad alta velocità, usando la cultura come percorso definito”, facendo ricorso, dunque, con una espressione idiomatica alla metafora del treno ad alta velocità fiore all’occhiello delle recenti costruzioni e infrastrutture cinesi. Usando, dunque, un linguaggio simbolico, ha apertamente dichiarato quelle che sono le reali capacità del soft power cinese o wenhua ruan shili 文化软实力, ovvero un parallelo tra cultura e altri settori collegati ad esso, come le infrastrutture. Tutto questo perché in Cina oramai oltre allo sviluppo economico enorme che da 30-40anni ha reso possibile intorno al 2014-15 con lo sforzo cinese il sorpasso del PPP (ovvero, l’indice Purchasing Power Parity) americano, la grande conquista operata dall’era di Xi Jinping e la sua dottrina è quella di aver dato vita ad una pratica concreta del soft power in salsa cinese. Ovviamente, questo comporta che siamo sempre costretti a soffermarci un istante a definire di preciso di volta in volta cosa sia, in base a come vengono letti i messaggi tra le righe, e cosa rappresenti questo soft power; ma è imprescindibile sapere due cose generali: la prima e più importante è che la cultura e la lingua sono i veicoli determinanti e preferiti per ottenere un potere di attrazione verso la Cina dall’esterno e quindi il consenso verso la sua potenza, cosa che determina fortemente dunque la strategia geopolitica cinese in base al terzo aspetto più di livello immateriale, che invera i classici primi due fondanti aspetti della teoria del soft power di tipo più direttamente concreto anche secondo la descrizione di Nye, ovvero la supremazia economico-finanziaria e quella politico-diplomatica; la seconda è che così facendo, in fondo, è logico immaginare il motivo per cui così si declina la strategia del soft power cinese, nel senso che si determina di volta in volta a seconda delle opportunità e delle occasioni, non esistendo una teoria definita precisa ad esso afferente, ma essendo comunque pur assimilabile in certi aspetti a quella generica teoria del soft power di Nye, ne viene influenzata più direttamente da una versione che ripercorre la strada della cultura millenaria cinese con il suo focus centrato nei tempi classici antichi. Studiare quindi il soft power cinese comporta il grande sforzo di conoscerne quantomeno il più possibile se non a menadito la lingua e la cultura moderne, nonché quella più elitista basata sui classici. Se volessimo usare quindi questa espressione idiomatica finale della ex direttrice dello Hanban cinese, che ha concluso l’articolo del NYT che riportava “Solo la cultura può introdurre allo spirito. Non si può usare solo l’educazione per entrare nello spirito di qualcuno”,  potremmo definire meglio attraverso la spiegazione dei classici il suo significato più preciso. Perché questa signora ha dichiarato che solo la cultura può introdurre davvero allo spirito di qualcuno o qualcosa? Ebbene, poiché le radici profonde di questo spirito cinese, e quindi l’essenza del significato e della portata delle sue strategie, riposano sulla grande cultura e conoscenza – come detto- dei classici, quantomeno ma non solo quelli delle “Cento scuole” filosofiche antiche o in cinese 百家 baijia.
Di fatto, noi che qui trattiamo l’assetto dei citati Istituti e della loro quasi scomparsa o progressivo declino, potremmo anche dare ragione ad un passo del Laozi (opera mistica ma di fatto prettamente rivolta alla conduzione del potere o potenza, al sovrano, all’uomo di governo) citato proprio in un testo del Nye, il quale tuttavia mantiene una prospettiva di ricerca sul potere insita nella tradizione dei termini differenziati tipicamente occidentale e non in quella tradizionalmente sinica, per quanto comparativamente assimilabile al concetto espresso qui, in cui il Maestro Lao Dan definisce la regola celeste e cosa comporti essere un vero sovrano ed esercitare il potere (o meglio il vero attributo del saggio) col tipico adagio poetico che nel testo si lascia così intendere: “Il governante più alto è quello della cui esistenza i sudditi si accorgono appena. Poi viene quello che amano e stimano. Poi quello che temono. Infine quello che disprezzano”. In questo senso, Laozi o Lao Dan individua al primo posto il vero saggio o sovrano, invertendo, seppur in modalità complementare, i termini A e B dialettici e contrapposti tipici della tradizione logocentrica occidentale, che è ribaltata ed assente in quella taoista cinese come insegna l’illustre Angus C. Graham, nel suo monumentale “Disputers of the Tao. Philosophycal Argument in Ancient China”: ovvero, colui che si pone al di fuori dell’esistente apparire, dell’esserci (il termine B), quello è il vero sovrano; mentre, al contrario, il più basso dei termini, ovvero A, viene attribuito al peggior sovrano, quello che non riesce veramente a servire il popolo a causa della sua presenza “forte”, entrante. Infatti, secondo la regola taoista, il pieno è vuoto, così come vuoto è ciò che è pieno; quindi il potere deve essere “soft” per potersi esercitare nella maniera che più è efficace, poiché l’efficace è il sottile, anche quando la strategia posta in essere deve ammetterne una qualificazione “diminuita” per potersi “accrescere” e verificarsi, innalzando al più alto livello, pertanto, ciò che non è visibile o apparentemente più rozzo e insignificante/debole, ma almeno al suo massimo della potenza percepibile[10]. Una tal concezione pervade quasi tutta la tradizione filosofica e il pensiero o la mentalità sinica da millenni. Tornano utili, quindi, le raccomandazioni iniziali quanto al modo sinico di esprimere consenso e potere, tanto più se i concetti chiave come vedremo a breve hanno a che fare con armonia e integrazione degli opposti/delle diversità. Non solo in Laozi, ma anche nel Xunzi, il famoso Trattato sull’Arte della guerra, possiamo rintracciare vari rimandi ai concetti di “inganno” centrali per l’esercizio di un potere pacifico e soprattutto per poter quindi vincere guerre senza troppi spargimenti di sangue, o quantomeno il meno possibile facendo ricorso all’hard power, risparmiando così le energie e le armi. Infatti, come riporta The Diplomat in un articolo risalente al 31 marzo del 2015[11], il caso classico dell’Arte della guerra è stato usato dalla Chinese Academy of Military Science per ospitare il nono simposio internazionale del 2014 sull’Arte della Guerra di Xunzi, dal titolo “L’Arte della Guerra di Xunzi e la Pace, la Cooperazione e lo Sviluppo”. Questo mostra che la tendenza che sta maturando da tempo nell’élite, poiché la descrizione della conferenza era che l’opera di Xunzi dimostrava “(che) la ricerca dello sviluppo attraverso la sicurezza, la cooperazione e la crescita a sommatoria win-win è la strada giusta per giungere alla pace nel mondo”, sta diventando in questi ultimi tempi la via realizzata dei progetti strategici messi in atto da lungo corso da Pechino. In particolare la diffusione della sua millenaria cultura e lo sviluppo di strategie e policy ad esse collegate. Infatti, oggi effettivamente il testo del Xunzi potrebbe  bene rappresentare e descrivere la politica di sviluppo pacifico perseguita dal PCC finora, tanto che la sua figura potrebbe essere assimilata quasi ad un ufficiale dell’odierna compagine governativa, come rileva lo stesso quotidiano. In effetti, come viene puntualmente riferito, lo stesso allora ambasciatore cinese in UK, LIU Xiaoming, vedeva nell’uso dell’Arte della Guerra l’opera di riferimento del pensiero strategico cinese in grado di creare una fiducia reciproca e un collegamento con lo UK Joint Services Command and Staff College, e durante un discorso rilasciato nel 2012 per un meeting con questa istituzione accademica militare britannica diceva che “la Cina detiene il potere di deterrenza e la saggezza sufficiente a vincere senza dover combattere. Ma se necessario, la Cina avrà anche il coraggio e le capacità di vincere attraverso la battaglia. Questa è l’essenza dell’Arte della Guerra e l’odierno spirito della strategia militare cinese”. Questo è un rimando importante, dato che lo stesso HU Jintao nell’incontro col Presidente George W. Bush nel 2006 gli aveva regalato una copia di seta del Trattato e dato che nel 2011, durante una visita, la Beijing Renmin Daxue 北京人民大学o Università del Popolo di Pechino ha donato una copia di questo all’Ammiraglio Michael Mullen. Di fatto, non sono solo i cinesi gli unici ad aver analizzato e visto nel Xunzi un Trattato che può essere usato in tal maniera: a proposito di soft power e descrizione della strategia politica da adottare, il Xunzi rimane un testo spesso citato anche fra gli Occidentali come prettamente strategico, infatti riportando un estratto del quotidiano possiamo comprendere bene che:

“(Nel suo libro “The Power to Lead”) Joseph Nye descrive Xunzi come un brillante guerriero che ha compreso l’importanza di attrazione del soft power. Un altro esempio proviene dall’ex Primo Ministro australiano Kevin Rudd, il quale ha tenuto un discorso durante la Conferenza su Xunzi del 2014 a Qingdao. Nel suo discorso, Rudd sollecitava la Cina e gli Stati Uniti incoraggiandoli ad evitare la trappola di Tucidide del conflitto tra potenza in ascesa e potenza dello status quo e piuttosto a formare un nuovo tipo di relazione tra grandi potenze basato su comuni interessi, cooperazione e costruzione di mutua fiducia nel lungo periodo. Per delineare questa richiesta alla mutua fiducia e cooperazione tra Stati Uniti e Cina con l’uso dell’Arte della Guerra, le conclusioni del discorso riportavano l’ammonimento di Xunzi secondo cui “L’arte della guerra è di vitale importanza per lo stato. È una questione di vita o di morte, la via della salvezza o della rovina. Pertanto è una materia di indagine che non può mai in nessun caso venire meno”, e in seguito suggeriva che in questi tempi moderni la parola stato venisse sostituita con quella di mondo”.

D’altro canto, quanto a esposizione del soft power e all’attiva adesione al servire il popolo o wei renmin fuwu 为人民服务di tradizione maoista che riprende il motto per un’arte del governo così come nel Xunzi si trova quella della guerra a difesa dello Stato, altrettanto avviene nella linea filosofica del confucianesimo nel più classico dei sensi, anche se in parte distintamente dalla visione mistico-poetica taoista, con un accento focalizzato più nettamente sull’arte del buon governo in senso morale, dell’educazione e della benevolenza all’attivo servizio del bene del popolo. Non stupisce,dunque, se per parlare degli Istituti Confucio ci accingiamo a citare un passo del Maestro che ne chiarifica aspetti essenziali. D’altronde, come poter inquadrare contestualmente il concetto del soft power cinese tanto quanto le recenti vicende accadute tra il 2019 e queste prime fasi del 2023 per la grande quantità di chiusure (soprattutto negli Stati Uniti) o decise manifestazioni di insofferenza che in Occidente (in Europa sono stati chiusi diversi centri soprattutto in Svezia, Finlandia, Belgio, Portogallo e ora se ne minaccia la chiusura in UK) hanno subìto i centri culturali dedicati dallo Hanban, contrariamente alla diffusione capillare degli Istituti Confucio che aveva inizialmente preso piede, è cosa di trattazione presente in vari giornali esteri e disvelato in base a due principali traiettorie o sommari punti di vista: il solito, tipico o pro o contro, che noi qui vorremmo cautamente evitare; eppure sta avvenendo con grande velocità nel mondo sia accademico che politico una difficile battaglia, esponendoci forse per la prima volta dopo l’inizio della guerra in Ucraina a quella versione realizzata della visione multipolare integrata che i cinesi da decenni vanno inseguendo per il loro ideale nuovo ordine mondiale. Ma a quanto pare non corrisposto da un vero dibattito in Italia, dove attualmente vige un riserbo assoluto e un silenzio quasi tombale sulla questione, in particolare quella degli IC. In Italia questi Istituti sembrano non essere stati toccati da questo fenomeno, o almeno apparentemente. Anzi, pare che ai 12 centri già presenti se ne possano aggiungere degli altri, quindi nuove aperture. Eppure, nel 2019 il caso scoppiò con una serie di pubblicazioni in forma di botta e risposta tra accademici e sinologi delle università italiane, nello specifico a prendere la parola furono per loro stessa iniziativa Stefania Stafutti, Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, rispettivamente delle Università di Torino e Ca’Foscari di Venezia. Inizialmente con una presa di posizione verso le rivolte degli studenti represse duramente ad Hong Kong a partire dal marzo-aprile del 2019 contro la decisione del governo hongkonghese di creare una nuova legge sull’estradizione dei latitanti dopo il caso dell’uccisione di Poon Hiu-ala da parte del suo fidanzato Chan Tong-kai a Taiwan, per i Paesi verso cui Hong Kong non ha questi accordi (nella fattispecie nessun accordo con la Cina continentale né con Taiwan, nda), la sinologa docente dell’Università di Torino e a capo dell’Istituto Confucio ad essa collegato Stafutti faceva appello diretto al Presidente Xi Jinping per una mediazione di pace tra le fazioni, invocando la missione culturale democratica svolta dalle istituzioni accademiche che si occupano di Cina e la studiano da vicino. Da quel momento ad intervenire nel dibattito tra accademici è sorta la preoccupazione sollevata dall’ex docente del Dipartimento di Lingue orientali di Ca’Foscari e sinologo Maurizio Scarpari per una deriva dovuta all’influenza negativa su temi sensibili da parte degli Istituti Confucio radicati nelle Università italiane che non ammettono per quanto attiene la politica estera visioni difformi da quella indirizzata dal governo centrale, ponendo seri problemi di interferenza con il corso dell’insegnamento curricolare e dello svolgimento delle tesi di laurea nelle stesse università ospitanti, tanto da far parlare per la prima volta in Italia di autocensura verso questo tipo di tematiche anche in  seno alle istituzioni accademiche italiane. Il professor Scarpari ha continuato spesso ad intervenire cercando di farsi comprendere dalle istituzioni accademiche italiane, e soprattutto avviando un serio dibattito iniziale tra docenti e studiosi della materia, ma a quanto pare le sue sollecitazioni sono state lasciate cadere nel vuoto. Particolari, per il modo sferzante, puntuale e incisivo, sono i suoi interventi al Corriere della Sera, su Formiche.net e sul blog Sinosfere[12], pur essendo un sostenitore dell’avvio verso la chiusura di questi centri, lo abbiamo voluto citare per l’ovvia ragione che la loro influenza sarebbe deleteria per la continua interferenza nell’attività di ricerca e didattica e, come unico motivo, il professore adduce la necessità di un limite del loro finanziamento nelle università, di fatto lasciate in mano a personale non abbastanza preparato per gestire le contrattazioni coi centri a loro collegati. Il professore sostiene, inoltre, che se non fosse per gli ingenti finanziamenti che gli IC portano con sé, difficilmente ci sarebbe tutta questa facile e spinta operazione di attirare a sé un IC nella propria università, e che questo avviene sulla base proprio delle competenze che il direttore di riferimento dell’IC preposto ha nei confronti della materia e di come sa o meno gestire l’Istituto. In gran parte in Italia gli IC se più o meno buoni nella loro qualità e scelta dei programmi dipende molto da chi all’interno dell’università collegata li gestisce, questo in definitiva è ciò che fa qui la differenza. Ma da noi, a quanto pare, governo e dibattito si sono arenati sul tema da tempo. In altre parti del Continente europeo, però, la musica cambia, come in UK ad esempio. Che detiene il primato insieme agli Stati Uniti di numero di Istituti sul suo suolo. In Francia sono 18, in Gran Bretagna sono 30. Il caso in specie poi si riferisce qui alle recenti prese di posizione del governo britannico[13] con la decisione (ancora da confermare) da parte del nuovo PM  Rishi Sunak di voler chiudere tutti e 30 i centri di lingua e cultura cinesi. Ma per quale motivo? E perché questo declino apparente tanto repentino? Secondo il recente (ottobre del 2022) articolo del The Telegraph, perché un report britannico ha messo in luce nelle sue investigazioni che solo 4 su 30 fra gli istituti rende davvero un servizio di tipo linguistico e culturale. Per districare la situazione della partnership con gli IC in UK si sta considerando una nuova legislazione con un emendamento alla legge sull’ Higher Education (Freedom of Speech) Bill, ma a quanto pare sembra una scelta arbitraria. Al contrario, una soluzione più sbrigativa e permanente pare sia all’ordine del giorno, ovvero la scelta fatta dal Primo Ministro Rishi Sunak di mettere ai voti un totale scioglimento dei vari IC. Dopo aver tacciato la Cina come “minaccia numero uno” per la sicurezza interna e globale, ha promesso di “cacciare fuori dalle nostre università il PCC”. Con le seguenti parole “Quando è troppo, è troppo. Per troppo tempo i politici britannici e nel mondo hanno steso il tappeto rosso e chiuso gli occhi di fronte alle ambizioni e alle nefande attività cinesi. E questo cambierà dal giorno uno a partire da quando sarò Primo Ministro”, ha promesso di mettere un freno e congelare la situazione cogli IC in Gran Bretagna, quindi la cosiddetta “cattiva influenza” di Pechino pare avere i giorni contati in UK. Questa tuttavia, ci sembra geopoliticamente parlando la tattica peggiore, proprio perché come già evidenziato gli IC verranno comunque rinominati e gli interessi verso questo Beijing Consensus difficilmente avrà termine a breve, date le ingenti poste in gioco.

Cosa di meglio, dunque, per introdurre il nostro punto sulla questione geopolitica della lingua come strumento di diffusione e veicolo della millenaria civiltà e del complesso della cultura cinese attraverso la creazione degli Istituti Confucio se non partire dalle parole medesime del “filosofo” o meglio Maestro di quel pensiero che più ha influenzato e condizionato questa parte di mondo nei successivi secoli a venire per poi ai giorni nostri giungere fino a noi? Di fatto questo scopo – ecco il motivo per cui si parla qui di geopolitica della lingua, cercando di rintracciare la complessità e le difficoltà del rapporto tra la diffusione della cultura cinese e le strategie messe in atto dal governo cinese come sforzo per la sua implementazione e influenza nel mondo dando loro spazio attraverso il finanziamento di queste istituzioni da parte del Ministero dell’Educazione e lo Hanban- sono stati chiamati a perseguire tali centri culturali, a partire dalla loro fondazione nel non troppo lontano 2004, anno in cui il primo Istituto Confucio sotto l’era di Hu Jintao fece la sua comparsa a Seoul, Corea del sud, e per primo ospite presso l’Università del Maryland negli Stati Uniti.[14] Nota è la posizione del Maestro su cosa debba appartenere all’uomo nobile o 君子 junzi e quali siano le primarie qualità che gli appartengono sia per educazione acquisita, il wen, che per naturale inclinazione, ovverosia il zhi, e come di conseguenza si debba comportare. Di fatti così si narra in un noto passo del Lunyu o Dialoghi, uno dei più noti tra i 13 Classici confuciani: 7.“Zigong domandò in che cosa consistesse l’arte del governo. Il Maestro disse: “Viveri a sufficienza, un esercito adeguato e la fiducia del popolo”. Zigong domandò: Dovendo rinunciare a una delle tre condizioni, a quale rinuncereste?” “All’esercito”.”Dovendo anche rinunciare a una delle due rimanenti, a quale rinuncereste?” “Ai viveri. Fin dai tempi antichi la morte è parte di noi, ma se non vi fosse la fiducia del popolo, mancherebbe ogni fondamento”. 8. “Ji Zicheng domandò: “L’uomo nobile di animo (君子) è tale per inclinazione naturale (), che necessità avrebbe dell’educazione ()? Zigong replicò: “Ahimè, come potete pronunciare simili parole sull’uomo nobile di animo! Nemmeno una quadriga di cavalli riuscirebbe a fermare la vostra lingua! L’educazione è importante  quanto l’inclinazione naturale! L’inclinazione naturale è importante quanto l’educazione! Proprio come la pelle di una tigre o di un leopardo sono preziosi quanto la pelle di un cane o di una capra!”[15] Per la summa del pensiero confuciano, pertanto, si può notare come siano di rilevante importanza sia l’innata predisposizione naturale che l’educazione/la cultura nel rendere l’uomo nobile d’animo, di alto valore: questo è il concetto di Principe a cui si rimanda anche in altri testi di filosofi successivi suoi discepoli (come Mencio all’interno del Mengzi) e che dimostra inevitabilmente come siano condizioni sine qua non un uomo possa essere in grado di gestire il buon governo. Saper governare, dunque, significa essere in possesso delle qualità del Principe. Non solo: di vitale importanza è per la sua stessa sopravvivenza il saper ottenere la fiducia del popolo, attraverso il 仁ren o benevolenza, pena la revoca del mandato o tianxia*geming天下革命 (*geming è un termine da cui deriva la parola moderna di “rivoluzione”). Dunque, per quale motivo abbiamo dovuto citare questo passaggio dei Lunyu e a quale scopo questa digressione sui termini confuciani più importanti nella concezione del “servire il popolo”, ovvero servirlo attraverso la conoscenza e l’educazione per ottenerne la fiducia (questo implica il conferimento o la revoca del Mandato Celeste o 天命 tianming per un sovrano o per chi svolge cariche governative, ancora oggi molto presente nella mentalità cinese), dovrebbe esserci di una qualche utilità? Presto detto: oltre ad essere nello specifico una summa che bene rappresenta il pensiero confuciano, in cui risiede la centralità dei concetti di Principe e di creazione dell’armonia cosmica che stiamo discutendo per il suo uso in seno alle nuove concezioni del soft power cinese o wenhua ruanshili 文化软实力, la formula è la metafora con cui sarebbe stato bello si fossero avverati i migliori auspici per una lunga vita degli stessi Istituti Confucio nel mondo, ma è stato davvero possibile tutto ciò? In parte di sicuro, perché lo straordinario lavoro di diffusione e finanziamento ingente da parte del governo (esperti stimano una cifra che si aggira intorno ai 10 mld di dollari all’anno di spesa complessiva) ha portato alle seguenti cifre: al 2019-20, c’erano dai 525 ai 550 Istituti Confucio e all’incirca 1.113 classi per i corsi alle scuole primarie e secondarie nel mondo, in particolare concentrate tra Europa e Stati Uniti, per un totale di oltre 150 Paesi coinvolti nel progetto con circa all’attivo 8-9 milioni stimabili di discenti in tutto il globo. Se si guarda ai soli USA (oltre 100 IC complessivamente), citando l’ultimo report del Servizio di Ricerca del Congresso americano, le cifre al 2020 salgono, per poi decrescere sensibilmente a causa delle progressive chiusure: si parla di oltre 160 Paesi coinvolti nel mondo (le stime sono diverse poiché se da una parte alcune sedi vengono chiuse, da altre se ne aprono rapidamente), e dell’impatto di queste istituzioni sul sistema educativo negli States che al 2019 includeva poco meno di 100 di questi Istituti su suolo americano. Questo fino a  una progressiva ma decisa decrescita nel periodo afferente al 2020-22. Il caso viene dibattuto dal report effettuato dal già citato GAO[16], ovvero lo United States Government Accountability Office, organo del Senato USA, attraverso testimonianze redatte per la Sottocommissione permanente alle investigazioni del Comitato sulla Sicurezza nazionale e gli Affari governativi, rilasciata a fine febbraio del 2019. Nel rapporto si sottolinea che, come in quello di Rachelle Peterson del 2017, vanno ricercate le cause della disaffezione e poca fiducia verso questi centri nei contratti stipulati dalle università con essi. In tutto, il rapporto GAO riuscirà a rintracciarne una novantina su tutte le oltre 100 sedi presenti. Nel rapporto si contestano agli Istituti di essere parte di una rete quasi “aggressiva”, di poter arrivare a minacciare o silenziare personale e studenti, di interferire nella didattica delle università e scuole ad essi collegati e di non informare su buona parte delle clausole che i contratti con essi stipulati comportano, o di tenerli perfino secretati mantenendo il totale riserbo all’esterno, di reclutare personale o metterne parte di esso a disposizione per compiere atti di spionaggio. Inoltre, questa continua pratica di sabotaggio della credibilità e fiducia, ha reso difficile il reperimento delle informazioni e della redazione del report finale che è stato presentato in audizione al Senato USA (le stesse preoccupazioni e difficoltà erano state accertate dalla stessa Rachelle Peterson nel suo rapporto del 2017, poi aggiornato al 2021, per il NAS). Tuttavia, potremmo anche azzardare l’ipotesi che in parte questi auspicati risultati non si sono verificati o non più come durante gli entusiasmi nell’iniziale fase dell’apertura delle sedi, perché a quanto pare a causa delle più recenti (ma, in realtà, le questioni risalgono a partire già dall’incidente accaduto presso l’Università di Chicago nel settembre del 2014, e di cui si è discusso sopra in questo nostro articolo, nda) manifestazioni di insofferenza verso queste istituzioni viene quasi da dire che per certo non sono più congeniali o ben viste da numerose istituzioni accademiche e dai governi che in generale hanno preso parte a questa diffusione culturale in Europa e negli Stati Uniti: eppure, sarebbe ingiustificato non ammettere, al di là delle revoche e chiusure, anche il ruolo di prestigio e di divulgazione culturale associato e promosso attraverso di essi tra le migliori realtà istituzionali  e universitarie presenti nel mondo. Questo è anche quello che viene dibattuto nel recente podcast dell’inserto al quotidiano britannico The Spectator, nel quale il ventennale responsabile diplomatico in Cina e RUSI think tank Senior fellow Charles Parton, esperto di spionaggio internazionale in UK, afferma ,quanto agli Istituti Confucio, che questi siano comunque una necessità per i paesi che vengono coinvolti dal progetto di scambio, che non ci sia bisogno di un’eccessiva critica nei confronti di queste istituzioni fino alla loro dismissione completa o alla loro rappresentazione come il “male assoluto”, ma piuttosto che rimangano importanti per conoscere meglio, quand’anche divulgassero della propaganda di regime, il senso generale della cultura da cui derivano e a cui si dedicano, che pur sempre vada compresa nella sua complessità e non debba essere per forza l’unica fonte a cui attingere informazioni sulla Cina, visto che in Cina e al suo esterno esistono ormai oggi svariate fonti diverse di cui beneficiare per l’approccio di tanti temi sulla sua stessa cultura, perfino quelli sensibili come la questione del Tibet o la storia dell’Incidente (come viene definito sbrigativamente e propagandisticamente in Cina) o Massacro (come viene etichettato più enfaticamente e altrettanto in maniera propagandistica in dissenso con la visione di Beijing qui da noi) di Tian’An Men. Possono, al contrario, essere considerati delle vere “mine vaganti” in quanto al loro vero scopo, soprattutto in seno alle Università e le Accademie di più alto livello e prestigio, il che diviene sempre più ampio e difficile da controllare, dato che svolgono un’attività connessa direttamente con l’Ufficio di Propaganda e il Ministero dell’Educazione cinese, quindi alle dirette dipendenze del governo centrale e non come tutti gli altri soggetti non-profit tra i centri culturali che popolano il resto d’Europa in qualità di “istituti culturali” per la diffusione delle lingue, anche quando in parte fornitori degli stessi interessi nazionali direttamente ad essi collegati, come ad esempio promozioni del Paese che servono ad ottenere legami anche diplomatici, ma che diversamente non sono promanazione diretta del governo. Nel caso degli Istituti Confucio, invece, si ha un intento meno esclusivamente limitato alla sola questione dell’insegnamento o della semplice sponsorizzazione nazionale, che resta piuttosto velata da un travestimento in incognito come già riportato dalle parole dell’ex membro del Politburo LI Changchun. Il loro servizio si amplia e non di poco, arrivando a scambi anche in seno alle attività accademiche connesse con le università e i college a cui si interfacciano, svolgendo attività di tipo disciplinare complesse, che possono variare dalla tecnologia alla medicina, alla scienza, e condurre quindi a spionaggio o altre forme di interferenza come quelle sulla proprietà intellettuale. Parton illustra come non siano esattamente uguali ai nostri centri culturali, per quanto per una parte ne svolgano una stessa funzione e siano comunque legati al governo di riferimento, come nel caso del British Council o di Alliance Française o dell’Istituto Cervantes o della Società Dante Alighieri. E, in base a questo principio del servizio, la Cina lo ha fin dall’inizio usato e tenuto in gran conto, spingendo verso un’intensa opera di lobby e integrazione. Forse perfino troppa integrazione, soprattutto poiché – e questa è la parte più preoccupante- gli Istituti Confucio sono parte della più ampia strategia facente capo allo United Front Strategy o in cinese lianhe chenxian zhanlue 联合陈线战略. La Strategia del Fronte Unito è una strategia politica del PCC che coinvolge reti di gruppi e di individui chiave che sono influenzati o direttamente controllati dal Partito, ed utilizzati per promuovere i propri interessi. Alcuni suoi elementi possono essere fatti infiltrare nelle università esattamente come quanto già accaduto per la CIA nelle università degli Stati Uniti. Storicamente è stato un fronte popolare a partire dalla fondazione della Repubblica popolare nel 1949 ed ha incluso anche gli altri otto partiti legalmente autorizzati dal Parlamento cinese, ovvero l’Assemblea nazionale del popolo, e organizzazioni popolari che hanno una rappresentanza nominale all’interno della stessa e nella Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC). Sotto il segretario generale del PCC Xi Jinping il Fronte Unito e i suoi obiettivi di influenza si sono espansi in dimensione e portata. La principale strategia in questo momento è segnata dall’identificazione di un principale nemico a cui mirare (ovvero gli USA, che sono attualmente il principale nemico sul fronte internazionale e diplomatico delle relazioni internazionali), e renderlo in effetti neutralizzato o diminuito formando intorno ad esso un “vuoto” diplomatico di consenso, utilizzando la leva dei satelliti o paesi più neutrali nei confronti del PCC e del governo cinese e spostando il loro asse da quello gravitante intorno gli USA a quello che aderisce o si allinea alla sfera e linea del PCC. Perché? Per i motivi adotti all’inizio di questo articolo, ovvero la sua politica interna tutta strenuamente indirizzata verso il文化软实力wenhua ruan shili, ovvero il Soft Power cinese per la conquista del primato internazionale nel centenario dalla fondazione del PCC e della Repubblica popolare. Infatti, il governo cinese sotto Xi Jinping ha come obiettivo quello di raggiungere il massimo della potenza entro il 2050 (il centenario della fondazione della Rep.Popolare sarà nel 2049) e in particolare in questo primo secolo del millennio; e per raggiungere l’obiettivo di accumulare conoscenze di tipo scientifico e tecnologico atte a mostrarne la supremazia politica interna e esterna a livello internazionale, pertanto, come già detto, attraverso il Ministero dell’Educazione, ha programmato e finanziato un metodo per infiltrarsi, in oltre 500 diverse realtà accademiche e culturali, con questi istituti integrandoli nel comparto educativo di prestigiose realtà accademiche, soprattutto di lingua inglese e dunque americane e britanniche, per cui  –all’incirca tra i 535  e i 550 al momento di massimo picco della loro diffusione nel periodo 2019-20 – poter, secondo la loro stessa definizione, svolgere alcuni punti chiave della missione di influenza culturale (o come afferma lo stesso Parton perfino per compiere dello spionaggio a livello accademico su mandato dello United Front), che secondo il seguente report, Outsourced to China (2017), di Rachelle Peterson[17] e altre fonti ad esso assimilabili, riporta attraverso lo Hanban a questi sommari punti chiave:

  • Sulla Libertà Intellettuale si deve ricordare che gli insegnanti vengono reclutati e pagati dal PCC, in quanto gli IC sono afferenti al Ministero dell’educazione attraverso lo Hanban, che li ritiene responsabili del programma svolto e del tipo di insegnamento tanto da definire fin da subito censurati i temi sensibili che toccano le 3T (Tibet, Tian’An Men, Taiwan) o la Rivoluzione Culturale e punibili o perseguibili quelli che ne trattano
  • Quanto ai contratti tra università e strutture afferenti allo Hanban, per quanto attiene alla trasparenza, raramente vengono resi pubblici e consultabili. Questo crea un grosso problema per poter raccogliere anche dati sensibili per le ricerche sul campo sugli IC e il loro finanziamento
  • Quanto alle connessioni tra strutture e all’esercizio del pensiero critico, gli IC coprono tutte le spese collegate alla fornitura del materiale didattico e offrono anche borse di studio agli studenti americani per studiare all’estero. Ma con tali incentivi finanziari, piuttosto ingenti, le università ad essi collegate spesso fanno difficoltà a potersi porre in una condizione di libero pensiero, libero dibattito e di libera critica
  • Quanto a soft power gli IC evitando di trattare argomenti sensibili, censurano la possibilità di intervenire su argomenti scomodi quali il trattamento delle minoranze uigure e le violazioni dei diritti umani. Inoltre, presentano come territori indiscussi Taiwan e la regione del Tibet , di conseguenza, trattando così gli argomenti suddetti, sviluppano una generazione di studenti americani che ha conoscenze selettive riguardo un grande paese e un maggior avversario.

 

  • Gli IC pretendono di essere assimilabili a centri culturali tipicamente in attività nel mondo, quali il British Council o l’Alliance Française, ma pur fingendo di esserlo, in realtà sono una macchina della propaganda di regime finanziata e diretta dal governo centrale cinese.  Il report del NAS raccomanda prudenza, quindi, per non aprire più su suolo americano IC affiliati alle università.

Tuttavia, al contrario, nell’ex pagina dedicata allo Hanban, si poteva leggere che la missione degli Istituti Confucio erano strettamente collegati al loro Statuto o Costituzione con queste principali finalità:

  • Fondazione del NOCFL o “China National Office for Teaching Chinese as a Foreign Language” nel 1987(Hanban Directorate), al fine di attivare la mutua conoscenza e amicizia, nonché promuovere una migliore comprensione tra il popolo cinese e i popoli nel mondo, attraverso lo studio della lingua, e per promuovere la cooperazione tra questi a livello economico-commerciale, così come per quella scientifica, tecnologica e culturale.
  • Il gruppo a capo dell’Ufficio del Direttorio  è composto dai membri di 12 ministeri di Stato più le commisisioni, incluso il Ministero dell’Educazione, il Ministero delle Finanze, il Ministero degli Esteri, ecc. Il Consigliere di Stato Chen Zhili è il presidente di questo gruppo. L’OCLCI o “Office of Chinese Language Council International” , meglio noto come Hanban, viene governato da questo gruppo.
  • Lo Hanban è il braccio esecutivo del NOCFL, ovvero un’organizzazione non-governativa e non-profit affiliata al Ministero dell’Educazione cinese.
  • Lo Hanban è impegnato a rendere disponibile nel mondo i servizi e le risorse per l’insegnamento della lingua e cultura cinese, per andare incontro alle richieste dei discenti all’estero cinesi, e a contribuire alla formazione  di un mondo fatto di diversità culturale e d’armonia. Per questo, il più visibile progetto dello Hanban sono gli Istituti Confucio.
  • Lo Hanban lavora anche al fianco di organizzazioni all’estero per sviluppare corsi di lingua cinese nei rispettivi Paesi. Nel 2004, Lo Hanban e il College Board (USA) hanno sviluppato il programma per esami “AP Chinese Language and Culture Course and Exam”. Come conseguenza di questo e altre iniziaitive, circa 160 insegnanti di lingua cinese  negli Stati Uniti hanno preso parte ai corsi dell’AP Chinese Teacher Summer Institutes.
  • A partire dal 2006, lo Hanban ha continuato a inviare negli Stati Uniti insegnanti volontari dalla Cina. 105 tra questi insegnanti hanno svolto l’insegnamento del cinese in circa 30 stati della federazione USA.

Questo come abbiamo detto è vero, però, solo in parte. Nell’articolo dell’Heritage Foundation troviamo per la prima volta nel maggio del 2021[18] una voce che prende parola e conferma quelle descritte sopra dal professor Marshall Sahlins e dal report di Rachelle Peterson, in merito al fatto, come lo stesso titolo dell’articolo introduce, che i vari Istituti Confucio siano delle specie di “virus” o dei “Trojan horse” all’interno delle università statunitensi e europee. Dobbiamo ricordare che anche il Giappone, nonostante la sua tradizione millenaria anch’essa mutuata dal confucianesimo cinese e nonostante si trovi nell’area di influenza dell’Asia orientale ormai gestita dal risveglio della potenza asiatica cinese, ha deciso di chiudere questi centri allineandosi al modello della strategia internazionale americana ed europea sul “chiusurismo” e che quindi anche questo punto di vista, del ph.D. e stimato storico del conservatorismo americano Edward Lee è piuttosto condizionato da un pervasivo ideologismo di tipo trasversale a destra quanto a sinistra dell’ala del governo americano (perché sono gli Stati Uniti quelli che vengono maggiormente presi di mira e attaccati dalla strategia del soft power cinese attraverso l’utilizzo dei centri confuciani) quanto alle soluzioni da adottare nei confronti degli Istituti Confucio: un punto di vista conservatore e molto definito per quanto riguarda la politica da adottare verso le procedure per tenere a freno ingerenze di contro intelligence cinese, ma che non hanno determinato finora una vera e propria soluzione efficiente ed efficace per quanto attiene al secondario problema della chiusura dei centri per motivi esclusivamente culturali e linguistici che sfociano in forme di tipo auto-censorio verso le informazioni. Lo riportiamo in quanto troviamo, comunque, il pezzo tuttavia moderatamente corretto negli intenti che sorreggono le motivazioni del suo scritto e che in parte condividiamo per l’obiettività con cui vengono presentati i fatti: nel presente citato articolo vengono subito messi in risalto due problemi fondamentali che in effetti sono al momento presentati come motivazione basilare per la scelta di applicare questo chiamiamolo “collettivo chiusurismo” nei confronti dei centri culturali cinesi confuciani, ovvero il fatto che se gli addetti all’insegnamento presso gli Istituti vengono trovati quasi fossero in flagranza di reato ad aver tenuto delle lezioni o aver pubblicato qualcosa di difforme da quanto impartito dal governo centrale non possono fare rientro regolare in Patria e le loro famiglie in Cina vengono minacciate; inoltre, lo citiamo per il fatto che il capo dell’FBI, Christopher Wray, sta valutando e da tempo seguendo molto attentamente con tutto il possibile impianto di intelligence americana del suo Bureau gli Istituti e, dunque l’amministrazione Biden dovrebbe affidarsi ai report dell’FBI sulla questione dell’ingerenza da parte della Cina con questi Istituti che svolgono un ruolo attivo propedeutico alla sottrazione di high-tech e intelligence americana a favore della contro intelligence e dello spionaggio cinesi. Sebbene dietro le parole che abbiamo letto di Edward Lee esista un evidente interesse per la sicurezza nazionale USA, bisogna ricordare che i centri non andrebbero chiusi, ma secondo la nostra opinione la loro partecipazione in seno a certe realtà accademiche ad alti livelli andrebbero ripensate dalle università. Di fatto, il vero problema come ben puntualizzato in precedenza dall’amministrazione Trump sono le stipule dei contratti e le ingenti somme di denaro di finanziamenti che sono stati stipulati e sono pervenuti alle stesse università, le quali ora si lamentano pur avendo ricevuto per il loro spesse volte stesso blasone delle moli di denaro di sovvenzione per i loro programmi. Detto questo, sono dei tipi di contratto, purtroppo a volte, secretati, e come evidenziato che le università stipulano tra loro e lo Hanban direttamente insieme col Ministero del’Educazione cinese che andrebbero meglio sorvegliati, ovvero necessitano di periodica revisione e di maggior informazione e formazione da parte degli aderenti e addetti degli organi interni all’università stessa, dato che decidono in modo troppo autonomo le forme di collaborazione da avviare con la Cina, dovendo poi essere costretti a rispettare anche clausole vessatorie o improbabili per il normale decorso e adempimento degli studi e della ricerca. Se con una migliore disposizione verso l’apertura alla Cina fossero adempiute stipule con maggior incentivo alla disclosure sarebbe forse possibile che non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in altre regioni del globo che decidono di installare un Istituto Confucio avessero meno problemi fin dal loro insediamento. Ciò detto, resta comunque improbabile che i centri universitari di maggior spicco e con dipartimenti particolarmente dedicati a settori di interesse per la sicurezza nazionale e la proprietà intellettuale (e quindi non solo con finalità educativo-culturale verso la sinologia in senso stretto, ma più che altro verso settori tecnologici, militari e per le analisi di difesa, economico-finanziari o perfino dedicati all’ alta medicina con utilizzo di patenti e brevetti, magari in AI, oppure dedicati alla scienza, alla fisica e chimica e allo sviluppo di energie rinnovabili) possano d’ora in poi decidere di contrarre un servizio aggiuntivo ai loro distaccamenti con gli Istituti Confucio, anche se questo dovesse significare un rallentamento sul piano internazionale degli scambi e un lento progressivo allontanamento/sganciamento dalla partnership con la Cina sul versante della strategia del soft power e della diplomazia internazionale. Infatti, come abbiamo dimostrato citando vari report e in particolare commenti su quotidiani e giornali online riguardo il caso, che considerano gli Istituti alla stregua dei “programmi spam” o dei “virus Trojan horse” nei loro intenti, giusto per mutuare un‘espressione in uso nel settore dell’informatica, siamo convinti della buona fede dei diretti dipendenti degli Istituti, gli insegnanti che in fondo rischiano di venire anche per parte loro ostracizzati in Cina, così come della grande necessità di poter accedere ai programmi di lingua e cultura svolti dagli stessi in questo arco temporale lunghissimo di co-partecipazione con le istituzioni di vari paesi nel mondo, più o meno accademiche o para-accademiche. L’aver etichettato come tali gli Istituti Confucio dà al mondo l’idea che questi si permettano immancabilmente il lusso di ostacolare in via del tutto esclusiva i programmi educativi svolti all’interno dell’università, su qualsiasi argomento si possa arrivare a dibattere, culturale e non, ma in realtà così non è, e una loro definitiva chiusura comporterebbe un’immane perdita per l’approfondimento delle conoscenze in ambito sinologico, quantomeno per il solo fatto che spesso sono le poche uniche fonti di reperimento del materiale di ricerca che ci perviene direttamente dalla Cina, quand’anche fossero evidentemente di stampo particolarmente ideologico e direzionato. Concordiamo sul fatto che, come ha dichiarato lo stesso Parton durante la sua intervista a The Spectator, nessuno si sia mai convertito pericolosamente al PCC e alla sua ideologia intrinseca solo per il fatto di aver leggiucchiato ogni tanto le news provenienti dalla Cina sul People’s Daily, quotidiano organo e voce del partito, o il Renmin ribao nella sua versione in cinese, o l’agenzia online Xinhua come pure il Global Times nella sua versione inglese; piuttosto la scelta dovrebbe ricadere su una puntuale cernita e individuazione contestualizzata degli argomenti svolti o ricercati, sapendo scremare l’ideologia da corretta e obiettiva informazione, a seconda del ruolo svolto dall’istituzione accademica afferente e del contesto in cui la ricerca viene a contatto. Di fatto, come sottolinea l’ex diplomatico e ora imprestato all’intelligence britannica Charles Parton, siamo dell’idea che questi centri culturali debbano essere messi più strettamente sotto controllo dalle università, ma non esclusi a priori definitivamente da esse, in quanto il problema di tipo censoriale che proviene dagli istituti non meno che da altre fonti di scambio e ricerca con la Cina sicuramente esiste, ma non può trascendere in forme quasi razzistiche di chiusura e ban, dato che svolgono una agevole e pregevole funzione anche di riconoscimento delle diversità di vedute che la Cina sta portando avanti nella sua logica di soft power, concetto con il quale dovremmo essere meglio capaci di dibattere e trovare mediazioni, nonché per la poca dimestichezza generale con la quale esso viene affrontato : il primo e unico colpevole di questa vogliamo pure definirla “deriva”, ammesso che lo sia, è il governo centrale a cui questi centri culturali sono imprestati e da cui vengono centralmente diretti. Questi Istituti svolgono di fatto un lavoro di tipo culturale che non è slegato dal concepimento di una ideologia e strategia del PCC, ma non hanno verso questa una diretta responsabilità decisionale. Di conseguenza, se chiuderli o no resta un grossissimo problema, ma quello che veramente andrebbe proposto è una ricollocazione degli stessi in modo meno entrante nel seno delle università e delle istituzioni scolastiche o organizzazioni culturali dei Paesi ospitanti nel mondo. Purtroppo o per fortuna, ci piaccia o meno qui in Occidente, per poter essere però al passo con la logica del soft power cinese è necessario avere stimoli e conoscenze linguistiche approfondite, perché il linguaggio limitato impedisce ulteriore ricerca nel suo ambito, confonde e crea disarmonie o inconvenienti di comprensione reciproca che proprio le migliori accademie votate alla sinologia dovrebbero poter evitare incentivando lo scambio ad alti livelli, nella speranza che anche in Italia ci si adegui a questa sollecitazione, rompendo definitivamente il silenzio tombale che pare concentrarsi ultimamente proprio intorno al livello alto della ricerca sinologica accademica, in seno in particolare all’Aisc (Associazione italiana dei sinologi), e in generale nelle recensioni o nei commenti dei quotidiani sulla questione, senza troppe riserve per il timore di ricadute di tipo finanziario o di tipo diplomatico verso le istituzioni che li ospitano, trovando il coraggio di parlare e lasciando però libera espressione alle esigenze molto più liberali e direzionate verso la ricerca indipendente delle università, cogliendo l’occasione di interessarsene sapendo fare una corretta ed obiettiva disamina e analisi del caso in specie. Difficile prendersela con la controparte cinese tagliando corto dicendo che è ideologicamente propagandistica, quando dall’altra parte noi stessi non siamo in  grado di dibattere liberamente, e con tutti i crismi della conoscenza di un certo livello, di questioni come questa o di in generale tutto quello che attiene alla sfera delle competenze sinologiche e della millenaria cultura cinese. Questo effettivamente sembra più simulare una sorta di “Maoismo censorio alla Xi Jinping” all’incontrario, nell’alveo del mondo liberale per autodefinizione. Difficile anche dire come verrà usata o se manipolata ulteriormente la discussione riguardo questi centri culturali, che effettivamente includono preoccupanti episodi di ingerenza nei programmi di studio universitari, i quali per loro stessa costituzione sono aperti al dibattito libero e indipendente, ma che nonostante la più totale buona fede anche dell’Istituto Confucio, rischiano tramite una forzosa ingerenza da parte delle autorità centrali del regime di subire un allentamento o perfino una auto-censura che causerebbe l’inficiare dello strumento par excellence della libera espressione, dibattito e ricerca, strumenti indispensabili alla parte occidentale e al Washington Consensus certamente per quanto attiene la sicurezza nazionale e la rivendicazione del suo esclusivo strategico soft power, ma non meno impregnati di altrettanta radicata e fondamentale tradizione alla “cultura direzionata” da noi, non potendo in questo i cinesi mancare di reciprocità e attenzione verso le altre culture e diversità come loro stessi vanno predicando e sbandierando. In conclusione, possiamo dunque affermare che non siamo totalmente allineati né con l’una né con l’altra parte, ma condividiamo le preoccupazioni generali addotte dallo stesso Charles Parton e dalla più compassata tradizione di intelligence britannica, che ne individua la giusta e calibrata posizione. La necessità di un buon vero pensiero critico sarebbe quello di adottare delle soluzioni, anche piuttosto serie e restrittive, senza giungere alla totale ostracizzazione o alla caccia alle streghe, fornendo un metodo risolutivo delle contese creativo e non pretendendo come infine detto fin dall’apertura di questo nostro scritto nessun tipo di flebile o immaginifico wishful thinking sulla questione, ma nemmeno una rigida impostazione dialettica estremizzata nel o tutti pro o tutti contro, tipica dell’attuale moderna incapacità critica. Un vero sollievo sarebbe per la controparte cinese poter riconoscere, e dare così definitivo scacco matto all’antagonista parte americana e britannica, ma in fondo a tutto il versante occidentale, di essere in posizione di supremazia a causa della grave carenza di pensiero creativo e critico di questa parte di mondo che possa portare a una soluzione ragionevole e brillante, fornendo idee che possano far transitare da questa impasse. Sarebbe un regalo enorme al nostro avversario diplomatico. Non per niente in gioco ci sono le migliori teste che l’Occidente tutto sta mettendo a disposizione per risolvere questo caso, sebbene finora poco sia stato detto di veramente interessante in merito in Italia, tutta concentrata in altre apparenti amenità politichesi, e mentre poco sia stato prodotto in questi ultimi 4-5 anni nei confronti di uno sviluppo di una nuova strategia nei confronti della Cina da parte del peso massimo delle potenze più influenti nel mondo fino a ora coinvolte nell’affaire: gli Stati Uniti.

Eppure bisognerebbe tenere bene in mente che sono state proprio le università le protagoniste di questo mancato pensiero critico e creativo, ma più del wishful thinking o del solito “modello pro-contro”, e a dir il vero a non essere state capaci, da voci autorevoli in merito, di risolvere da sé entro le proprie competenze questo spinoso affaire: ad esse quindi, in particolare a quelle che si interessano di ambito sinologico, non dovrebbe passare inosservato le parole che, in un famoso 成语 chengyu o frase idiomatica cinese
tratto dal classico romanzo di epoca Qing 红楼梦 Hongloumeng, meglio noto in Italia come
“Il Sogno della Camera rossa”, il Presidente Xi Jinping ha usato quasi un anno fa, all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina, quando, intervistato in una delle tante concitate riunioni internazionali coi giornalisti di quel periodo, gli venne chiesto se la Cina avrebbe o meno appoggiato le scelte del presidente Putin e cosa proponesse la Cina come unico referente mediatore per l’Occidente di fare per fermare la guerra. E il Presidente serafico rispose con la seguente frase idiomatica: “解铃还须系铃人jiě líng hái
xū xì líng rén” 19 , che vuol dire “Spetta a chi ha messo al collo della tigre il sonaglio di levarlo” o “Chi ha iniziato a creare il problema, ecco chi lo deve risolvere ora”. Crediamo che lo stesso si possa dire a riguardo della crisi con gli Istituti Confucio.

[1] Si veda report di Nicola Casarini per l’Istituto Affari Internazionali: https://www.iai.it/sites/default/files/iaip2144.pdf

[2] Si veda articolo online del gennaio 2018 all’indirizzo https://www.politico.com/magazine/story/2018/01/16/how-china-infiltrated-us-classrooms-216327/

[3] Si veda sulla missione dello Hanban l’archivio sul sito dell’Università del Texas: https://web.archive.org/web/20140819085145/http://confucius.tamu.edu/content/about-hanban

 

 

[4] Articolo pubblicato su The Nation, dal titolo “China U. Confucius Institutes censor political discussions and restrain the free  exchange of ideas. Why, then, do American universities sponsor them?”, il 30 0ttobre 2013, e reperibile alla pagina https://www.thenation.com/article/archive/china-u/

[5] Si veda il documento del report dello U.S. Government Accountabilty Office, col titolo “China: Observations on Confucius Institutes in the United States and U.S. Universities in China”, full report disponibile, vedi indirizzo nota 6;

e quello dal Senato e Congresso americano dello US Congressional Research Service, col titolo: “Confucius Institutes in The United States: Selected Issues”, vedi indirizzo nota 6. Per riferimenti, vedi anche sotto, nota 12 e 14

[6] Dal GAO: https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0 ; dallo US Congressional Research Service: https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF11180

[7] https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3080679/belgian-ban-chinese-confucius-institute-professor-accused

[8] https://www.voanews.com/a/controversial-confucius-institutes-returning-to-u-s-schools-under-new-name/6635906.html?fbclid=IwAR3ja9cXYrLbfOaq4tekaEUnwQAvCucHa3N0EMJHjd4MFtwpbJj0dyzc-Yc

 

[9] https://archive.nytimes.com/sinosphere.blogs.nytimes.com/2014/09/26/university-of-chicagos-relations-with-confucius-institute-sour/?fbclid=IwAR0YF6xGKjr5hfD_NBsePdrsgdr3j7__FU0tAHlnx-gs7nOlkLKSngHRo1s

[10] Angus. C. Graham, “La Ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica”, ed. Neri Pozza, 1999, pp.305-321

[11] https://thediplomat.com/2015/03/sun-tzu-and-the-art-of-soft-power/

[12] Per gli interventi dell’ex docente in ritiro professor Maurizio Scarpari si veda: https://www.corriere.it/la-lettura/19_dicembre_16/cina-noi-fuori-istituti-confucio-universita-italiane-461cd4ca-1f61-11ea-92c8-1d56c6e24126.shtml  ;  https://sinosfere.com/2021/01/13/maurizio-scarpari-allombra-dellanaconda-considerazioni-sinologiche/  ; https://formiche.net/2020/07/pechino-rifare-look-istituti-confucio/ ; https://decode39.com/4547/confucius-institute-italy/?fbclid=IwAR3NTsxZjD6xWEsz4KbRvll2j1fL0LYvW_vjoPhG1A6umZijC8-SvnmLCQU

 

[13] https://bitterwinter.org/uk-sunak-in-confucius-institutes-out/?fbclid=IwAR3qoA3h1wTR09C1D4TtpOCrXcStOxxnrpRnrbTtrZYWy8XUKqAbx5H1AcU ; https://www.outlookindia.com/international/geopolitics-of-language-how-china-s-confucius-institutes-become-extension-of-chinese-state-on-campuses-news-195212/amp?fbclid=IwAR3m53eKqBj_OzFgG-DOHj93qIUW7_4D3AQmMhHSLLGfnhqOOFuopYD2-fk  ;  https://www.telegraph.co.uk/news/2022/10/08/confucious-institutes-universities-part-partys-propaganda-system/

 

[14] Report del Congresso USA, Congressional Research Service, aggiornato al 20 maggio 2022, dal titolo: “Confucius Institutes in the United States: Selected issues”, 1-2pp., vedi in alto nota 5-6

[15] Tiziana Lippiello (a cura di), Confucio. Dialoghi, ed. Einaudi, Torino, 2003, p.137

[16] https://www.gao.gov/products/gao-19-401t?fbclid=IwAR33JbXl6njQMOXWnqAxtZ230O_b79sOSvOGAZWyAhHCRGVLJ2mO0G755N0

 

[17] https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report?fbclid=IwAR0qp7nQjT6IXAgDjp5yUsLbJ0mIRfHNHtaXcydGVvjv6vYjoAhlcwW13pQ#_ftnref17 ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china/full-report ;

https://www.nas.org/reports/outsourced-to-china ;

 

[18] https://www.heritage.org/homeland-security/commentary/confucius-institutes-chinas-trojan-horse?fbclid=IwAR3uw87vKsMl3YDinUjVzjGiXiLzNaCgq2uKejNZrLf9JdZM0VB2f4oLxKQ

19 Vedi spiegazione in cinese del riferimento storico al chengyu usato dal Presidente Xi Jinping
https://zhidao.baidu.com/question/44222555/answer/151347795.html Qui si riporta la traduzione della pagina della fonte citata in particolare questo breve sunto: “Questo chengyu o frase idiomatica deriva dalla storia del monaco Fa Deng. Secondo le citazioni del Buddhismo chan nello “Yuelu – rotolo 23°” compilato da Qu Ruji durante la dinastia Ming, si registra che durante la dinastia Tang meridionale c’era un Maestro zen di
nome Tai Qin Fa Deng nel Tempio Qingliang a Jinling (ora Tempio Qingliang nel parco Qingliangshan) che era troppo severo con i precetti buddhisti e i monaci nel tempio lo disprezzavano. Tuttavia, il Maestro zen Fa Yan, suo responsabile, lo teneva in gran stima. Una volta Fa Yan chiese a tutti i monaci presenti nel tempio mentre teneva una riunione con tutti loro: “Chi può sciogliere la campana d’oro legata al collo della tigre?”
Tutti pensarono e ripensarono, ma non poterono rispondere. In quel momento Fa Deng si avvicinò e Fa Yan gli rifece la stessa domanda. Fa Deng rispose senza esitazione: “Solo la persona che ha legato la campana d’oro al collo della tigre, può slegare la campana d’oro” . Dopo aver sentito questo, Fa Yan pensò che Fa Deng potesse comprendere abbastanza bene gli insegnamenti buddhisti, quindi lo lodò in pubblico.
Successivamente, questa frase è stata tramandata come il chengyu o modo di dire di “解铃还需系铃人jiě líng hái xū xì líng rén”, cioè che bisogna che chi ha legato al collo il campanello sleghi il campanello. Durante la dinastia Qing, Cao Xueqin lo ha citato nel 90° capitolo di 红楼梦 Hongloumeng (Il Sogno della Camera rossa), come “心痛还得心药医,解铃还需系铃人”,ovvero “come un mal di cuore richiede uan medicina per il cuore, così una campana legata richiede a qualcuno di slegarla”. Questo idioma ora è una metafora che
significa che chi ha provocato un problema ora deve comunque risolverlo. Dopo questo “questione”, Fa Deng fu molto apprezzato dal Maestro zen Fa Yan. In seguito, servì come Wei Na (o persona principale responsabile del monastero, dei monaci e della Sala di Meditazione) per la sede del Maestro chan Fa Yan, ed ha assistito il Maestro Fa Yan nella creazione della sua famosa setta Fa Yan delle Cinque Scuole del Buddhismo. ( Traduzione dell’autrice del presente articolo dal brano cinese: “ 这句成语源自一个叫法灯的和
尚。据明代瞿汝稷所编佛家禅宗语录《指月录·卷二十三》记载:南唐时金陵清凉寺(既今清凉山公园清凉寺)有
一位泰钦法灯禅师,他性格豪放,平时不太拘守佛门戒规,寺内一般和尚都瞧不起他,唯独主持法眼禅师对他
颇器重。有一次,法眼在讲经说法时询问寺内众和尚:“谁能够把系在老虎脖子上的金铃解下来?”大家再三思
考,都回答不出来。这时法灯刚巧走过来,法眼又向他提出这个问题。法灯不假思索地答道:“只有那个把金
铃系到老虎脖子上面去的人,才能够把金铃解下来。”法眼听后,认为法灯颇能领悟佛教教义,便当众赞扬了
他。 后来这句话就被以解铃还需系铃人的成语流传下来。到了清朝,曹雪芹在《红楼梦》第九十回中还以“心
痛还得心药医,解铃还需系铃人”加以引用。这个成语现在比喻谁惹出来的事情,仍然由谁去解决。
   这件事之后法灯深得法眼禅师的赏识,后来在法眼禅师座下作维那(寺庙中统摄僧众统管禅堂的主要负责
人),协助法眼开创了佛教五宗中著名的法眼宗”)

LA SVOLTA STORICA DELLA FASE MULTICENTRICA di Luigi Longo

LA SVOLTA STORICA DELLA FASE MULTICENTRICA

di Luigi Longo

 

 

                                                        Quando leggo nel mio Plutarco le vite

                                                        degli uomini grandi mi viene a schifo

                                                        questo secolo parolajo.

Federico Schiller*

 

 

Ho trovato interessante la lettura dello scritto di Piero Pagliani Slittamento di paradigma, apparso in www.sinistreinrete.info del 18/2/23 e ripreso qui http://italiaeilmondo.com/2023/02/28/slittamento-di-paradigma-paradossi-nonsense-e-pericoli-di-una-svolta-storica-di-piero-pagliani/, perché stimola una serie di riflessioni da sviluppare e approfondire.

Le elenco, per comodità di sintesi, per punti, senza ordine di priorità.

 

Primo. La svolta storica rappresentata dalla decisione politica della Russia di abbandonare le relazioni, improntate soprattutto alla sfera economica, con l’Europa (a seguito di fatti irreversibili: il boicottaggio Usa-Nato al Nord Stream 1 e 2; la guerra alla Russia via Nato-Europa-Ucraina; le sanzioni alla Russia che si sono rilevate un boomerang contro la serva Europa; il ladrocinio degli attivi monetari detenuti all’estero dalla banca centrale russa; la trappola europea, tramite Francia e Germania, garanti degli accordi di Minsk; eccetera) e di lavorare in coordinamento e in cooperazione con la Cina, alla costruzione del polo asiatico allargato (con altre nazioni dell’Africa e dell’America Latina) in grado di sfidare l’egemonia assoluta degli Usa (in relativo declino) e proporre un nuovo modello di sviluppo e di relazioni sociali dentro la fase multicentrica (rimando alla letteratura ormai solida sulle forti potenzialità del polo in tutte le sfere sociali: economica, finanziaria, militare, scientifica, tecnologica, sociale, culturale, eccetera). Un polo asiatico, quello della Cina e della Russia, la cui costruzione è iniziata a partire dalla configurazione e dalla loro ascesa a potenze mondiali: una data simbolica può essere il 2011 con la distruzione della Libia e il tentativo mancato di demolire la Siria, da parte degli Usa, che ha significato la loro messa in discussione come unica potenza di coordinamento mondiale.

E’ utile ricordare, di passaggio, che la Russia, storicamente a fasi alterne, mantenendo un’autonomia dall’Occidente, ha avuto periodi di relazioni intense con l’Europa (si pensi, per esempio, al periodo di Pietro il Grande e di Caterina II, il XVIII secolo della cosiddetta europeizzazione o modernizzazione della nuova Russia).

 

Secondo. L’Europa, per ragioni storiche, non è mai esistita come soggetto politico con una propria autodeterminazione in grado di svolgere un ruolo di crocevia tra Oriente e Occidente, ricco di relazioni economiche, sociali, culturali, storiche, come sintesi di esperienze e peculiarità territoriali dei diversi popoli.

L’Unione europea, a partire dalla seconda guerra mondiale che sancisce l’egemonia statunitense nel mondo cosiddetto libero dell’Occidente, è stata un progetto Usa da utilizzare contro il cosiddetto mondo comunista egemonizzato dall’URSS. Oggi, dopo l’implosione dell’URSS, l’Unione europea non serve più ed è stata sostituita dal progetto Nato. E’ la Nato che detta l’agenda europea e tiene unite le diverse nazioni secondo le strategie statunitensi di conflitto contro le potenze in grado di sfidare il suo dominio assoluto.

Resta la domanda posta dallo storico Jacques Le Goff: quale Europa? Cioè come ri-costruire una Europa come sintesi altra delle nazioni autodeterminate senza la servitù volontaria verso gli Stati Uniti?

E’ tutto da studiare e capire bene, con senso critico, il processo di americanizzazione dei territori europei.

 

Terzo. La fase multicentrica non necessariamente deve sfociare nella terza guerra mondiale (la fase policentrica) ma può assestarsi, con un accordo di spartizione del mondo, tra le potenze mondiali così come storicamente è già avvenuto (Graham Allison). La spartizione del mondo tra le potenze egemoni (con le loro aree di influenza) è la logica conseguenza di un modello di sviluppo e dei relativi rapporti sociali basati sul potere e sul dominio e, questo, riguarda sia le potenze occidentali (alla faccia della cosiddetta democrazia!), sia le potenze orientali (alla faccia del cosiddetto comunismo!).

Pertanto si pone il problema della ricerca di un altro modello di sviluppo, di altri rapporti sociali a partire dai territori nazionali con le loro aggregazioni (aree, regioni, poli, altro) e del soggetto sessuato che si faccia carico di tale modello sociale di sensatezza della vita (individuale e sociale) a partire dalle peculiarità territoriali e storiche. Intendo il territorio come l’insieme delle relazioni dei processi di modi di produzione e riproduzione della vita umana sessuata e dei processi di produzione e riproduzione della vita della natura (animata ed inanimata). L’equilibrio/squilibrio tra i suddetti processi è dato prevalentemente dall’intervento dell’essere umano sessuato storicamente dato (ma queste sono questioni profonde da ri-costruire con autocoscienza critica sessuata, nella logica di un lavoro multidisciplinare).

 

Quarta. Le relazioni sociali sono fondate sul potere e sul dominio. Il potere si forma nelle diverse sfere della società (economica, politica, culturale, istituzionale, territoriale, eccetera) tramite l’accumulazione del denaro (inteso come rapporto sociale) con modalità diverse. Nelle fasi della società capitalistica (monocentrica, multicentrica, policentrica) le sfere sociali assumono peso e valenza specifica ed esprimono i loro agenti strategici (Gianfranco La Grassa) che vanno a costituire quelli egemonici che praticano il dominio (inteso in senso gramsciano) dell’intera società. Dominio che viene realizzato ed esercitato attraverso lo strumento dello Stato con le sue articolazioni territoriali dove i suddetti agenti strategici egemonici producono, gestiscono ed eseguono le proprie strategie.

 

Quinta. La pericolosità degli Usa è data dal fatto che, per la loro storia, non accettano una condivisione del dominio mondiale con altre potenze. Il suo dominio è assoluto, essi hanno “una missione speciale” da compiere e sono pertanto l’unica “nazione indispensabile” al mondo (Costanzo Preve) e per questo impongono un modello sociale a loro immagine e somiglianza. La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza. (Alain Badiou).

Al contrario, la Russia e la Cina, che sono per un mondo multicentrico a partire dalla affermazione della propria sovranità, hanno un diverso approccio per l’uso della guerra; per esempio, mentre per gli occidentali [gli Usa] la guerra inizia quando la politica si ferma, [al contrario, per i russi] la guerra in Ucraina segue un’ispirazione clausewitziana: la guerra è la continuità della politica e si può passare in modo fluido dall’una all’altra, anche nel corso dei combattimenti. Questo crea pressione sull’avversario e lo spinge a negoziare (Jacques Baud); e per la modalità delle relazioni tra nazioni (basti pensare al funzionamento dell’aggregato geoeconomico BRICS, BRICS+; al coordinamento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, SCO; alla cooperazione dell’Unione Economica Euroasiatica, UEE; eccetera): “trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime” (Piero Pagliani).

Per queste ragioni bisogna ritenere la potenza Usa pericolosa per il mondo intero e pertanto ogni sforzo va fatto per piegarla verso un mondo multicentrico.

 

Sesta. La crisi della potenza egemone di coordinamento mondiale, gli Usa, è una crisi di declino irreversibile che riguarda soprattutto l’Occidente per la penetrazione nei territori del loro modello di sviluppo e dei relativi rapporti sociali. Gli Stati Uniti appaiono, nel mondo di oggi, una realtà onnipresente: non solo essi sono una delle superpotenze da cui dipende l’avvenire dell’umanità (e, invero, data la terrificante capacità distruttiva delle armi moderne, la sua stessa esistenza), ma le teorie scientifiche, i processi tecnologici, i condizionamenti culturali, i modelli di comportamento penetrano, per il bene come per il male, tutta la nostra vita, influenzandola assai più di quanto comunemente non appaia (Raimondo Luraghi).

Quindi non è solo la crisi degli Usa ma è una crisi di civiltà dell’Occidente che si evidenzia con maggiore decisione nella fase multicentrica (una crisi d’epoca, di passaggio verso nuovi equilibri mondiali e nuovi modelli economici e sociali). Una crisi che evidenzia il nichilismo occidentale della ricerca del post-umano (intelligenza artificiale, rivoluzione digitale, robotizzazione, recisioni delle radici umane e naturali, eccetera) e non riesce ad esprimere una nuova idea di sviluppo economico e sociale tendente al benessere individuale e sociale. La civiltà ha bisogno di ben altro progresso, di ben altra scienza (vanno ripensati sia la sua produzione sia i suoi obiettivi, tenendo presente la sua non neutralità: abbiamo raschiato il fondo facendo passare per scienza la produzione dei falsi vaccini per combattere la malattia da covid-19 scaturita da un virus Sars-Cov-2 di origine artificiale usato per una guerra batteriologica prevalentemente statunitense) che aiutino a produrre sensatezza individuale e sociale affrontando i bisogni fondamentali della produzione e riproduzione della vita, innervando e rispettando le leggi della natura (di cui non sappiamo molto!).

 

Settima. Quale strumento (Antonio Gramsci, Massimo Bontempelli e Costanzo Preve), quale forza nuova (Gianfranco La Grassa) occorre per ridare senso e slancio ad un lavoro collettivo? È chiaro che non siamo più in grado di svolgere, né tanto meno di fare, sintesi politica dei diversi saperi multidisciplinari che interpretano la realtà. Il livello dell’attuale degrado culturale è elevato in confronto ad altre crisi d’epoca, basti osservare come si fa ricerca nelle Università, diventate luoghi istituzionali di ricerca di finanziamenti, di denaro per i propri particolari poteri e non luogo di ricerca per capire, comprendere, interpretare e cambiare la realtà per migliorarla. Questo deve far riflettere sulla deriva delle relazioni umane individuali e sociali anche in termini di intelligenza collettiva; se penso alle crisi d’epoca delle due guerre mondiali (la lunga fase policentrica) dove la maggioranza della popolazione aveva una intelligenza derivata dalla pratica (che è già teoria e prassi) e dalla volontà di dare sensatezza alla vita, dove il sapere popolare era uno strumento importante nei rapporti sociali storicamente dati.

 

Ottava. Che fare? Intanto bisogna a) pensare ad una articolazione sessuata dell’intellettuale collettivo (in tutto il mondo siamo sempre in due), b) ri-prendere un processo di autocoscienza critica del partire da sé (Carla Lonzi, Luce Irigaray, Luisa Muraro) in tutte le relazioni individuali e sociali e, qui, noi uomini dobbiamo andare a lezione dal pensiero femminile (soprattutto quello di derivazione marxiana). Noi uomini (a prescindere dai rapporti di potere), con il nostro ordine simbolico della società cosiddetta capitalistica, abbiamo, parafrasando Luigi Pirandello, troppe maschere e non siamo più in grado di mostrare i volti.

 

 

* L’epigrafe è tratta da Federico Schiller, La congiura del Fiesco- I Masnadieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1924, pag. 132.

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Slittamento di paradigma Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica, di Piero Pagliani

Su questo link http://italiaeilmondo.com/2023/02/28/la-svolta-storica-della-fase-multicentrica-di-luigi-longo/ una prima considerazione sul saggio di Pagliani. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Nell’analisi che segue enuncio quelli che mi sembrano dei dati di fatto, tiro alcune somme, pongo una domanda per rispondere alla quale avanzo un’ipotesi sull’oggi e due sul domani concludendo con un’assunzione che in modo irrituale espongo alla fine e non all’inizio. In specifico:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

 

1. L’ammiraglio statunitense Robert Bauer, presidente del Comitato militare dell’alleanza Atlantica, ha dichiarato alcuni giorni fa che la Nato «è pronta per un confronto diretto con la Russia». Questa dichiarazione segue di pochi giorni la previsione del generale a 4 stellette Mike Minihan riguardo una guerra con la Cina tra due anni. Immediatamente dopo il segretario della Nato, Jens Stoltenberg ha iniziato a preparare il terreno per trascinarci piano piano nel delirio ventilando che sebbene la Cina non sia un avversario della Nato, «la sua crescente assertività e le sue politiche coercitive hanno delle conseguenze». Parole che, in un gioco di squadra, si inserivano nella scia delle accuse di Ursula von der Leyen contro Pechino, rea di voler «rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio [così che] dobbiamo rafforzare la nostra resilienza», sottraendoci in modo crescente alla dipendenza dal commercio con la più grande economia mondiale a parità di potere d’acquisto (PPP) [1].

Seppure la minaccia di confronto diretto con la Russia e l’ipotesi di guerra con la Cina sembrino due follie o addirittura due nonsense, tuttavia hanno entrambe, separatamente e congiuntamente, una logica. O meglio una doppia logica i cui due versanti non sono sempre semplici da discernere, sia per la confusione di interessi che essi rappresentano, sia per la situazione caotica della politica statunitense.

Le due dichiarazioni hanno evidentemente degli scopi, non sono state rilasciate con leggerezza.

Uno di essi è mantenere i membri della Nato in stato di soggezione tramite una sorta di mobilitazione permanente e l’evocazione continua di nemici comuni. E’ una mossa classica, prima l’Unione Sovietica, poi il terrorismo, oggi la Russia e domani la Cina. Tuttavia ripetere la stessa mossa in condizioni drasticamente mutate può portare a risultati opposti a quelli sperati.

Io sono convinto che alle varie cancellerie europee arrivino (anche) notizie veritiere su cosa sta succedendo nel mondo e in Ucraina in specifico [2]. La domanda più immediata è allora: a parte il governo polacco benedetto da Radio Maria, quanti paesi della Nato se la sentono di fare una guerra senza speranza alla Russia per difendere gli interessi di alcune élite cosmopolite che fanno capo agli Stati Uniti e distruggere definitivamente i propri di interessi?

Ce la sentiremo di difendere la traballante egemonia mondiale di un Paese disastrato, che sta perdendo la sua ciambella di salvataggio, cioè il predominio del Dollaro, e che ci sta spingendo alla rovina assieme a lui e prima di lui? [3]

Ce la sentiremo di andare a combattere a migliaia di chilometri di distanza, in Ucraina e nel Mar Cinese Meridionale, minacciando l’integrità della Russia e della Cina nei loro stessi giardini di casa se non addirittura sul loro stesso territorio e sui loro mari? Che tradotto vuole anche dire: ce la sentiremo di sfidare per l’ennesima volta le lezioni della Storia, proprio mentre la congiuntura storica stessa è tutta a nostro sfavore?

 

2. Le risposte dipendono dal concorso di ciò che succede in varie dimensioni.

Una dimensione è legata al caso (qualche incidente può sempre esserci quando si gioca con l’alta tensione, qualche disastro naturale può sempre avvenire), mentre un’altra dimensione è legata alla personalità e alla caratura dei governanti occidentali, purtroppo drammaticamente bassa in termini di rettitudine, preparazione, capacità di analisi, e consiglieri di cui si circondano. Possiamo chiamarle “gruppo di dimensioni A” (da “aleatorie”, anche se in realtà sono semi aleatorie, dato che raramente i “disastri naturali” sono esclusivamente naturali ed è il sistema che seleziona le classi dirigenti, le coopta). Un’altra dimensione riguarda i rapporti di forza militari tra la potenza delle parti in conflitto. La chiameremo “dimensione V” (da “violenza” – credo che sia il termine più onesto). Collegata ad essa abbiamo i rapporti di forza economico-finanziari che costituiscono la “dimensione D” (da “denaro”). Infine abbiamo la differenza delle loro strutture sociali e politiche, una dimensione che non è meccanicamente deducibile dalla dimensione D, ma è ovviamente ad essa collegata; la chiameremo “dimensione T” (da “territorio”). Alla base di tutto ci sono i differenti rapporti sociali (chiamati spesso, in modo inesatto, “modelli di sviluppo”).

Collettivamente possiamo allora chiamare il compito di analisi “AVDT” e consiste nello sbrogliare il groviglio esistente individuando dove agiscono, come agiscono e come evolvono le varie dimensioni sopra accennate, descrivendo al meglio tramite esse le parti che si contrappongono, i motivi della contrapposizione (le sue origini storiche e logiche) e, infine, cercare di capire cosa uscirà da questo confronto, non per divinazione ma per applicazione della razionalità all’analisi dei processi in essere.

Un compito difficile, ma per fortuna ci sono lavori che aiutano a non brancolare del tutto nel buio. Sto parlando delle classiche analisi di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Karl Polanyi, di Giovanni Arrighi e Samir Amin, della coppia Shimshon Bichler-Jonathan Nitzan, di David Harvey, di Jason Moore, di Gianfranco La Grassa e di Michael Hudson e, in Italia, delle recenti proposte interpretative di Raffaele Sciortino, Pierluigi Fagan, Gianfranco Formenti, del gruppo Brancaccio-Giammetti-Lucarelli, per fare alcuni nomi e, di nuovo, di Michael Hudson e di altri autori, spesso apparsi su Sinistra-in-rete, che coi loro contributi permettono di gettare luce su un aspetto o l’altro di questo complesso problema [4].

Purtroppo, non essendoci un organismo coordinante, questi contributi non riescono a consolidarsi in una lettura, per l’appunto, organica. E questo è un problema squisitamente politico. Se la guerra in Ucraina ha fornito la scusa per ampliare e approfondire l’emarginazione e addirittura la criminalizzazione delle voci dissenzienti, la nostra capacità di opporci a quello che ormai a tutti gli effetti è un regime totalitario, nel senso che impone una visione totale del mondo (sociale, politica, economica, scientifica e valoriale), è indebolita dalla suddivisione in una miriade di “voci” che non si coordinano nelle modalità di presentazione e rimangono scollegate [5]. Queste voci presentandosi prive di un moderatore politico che quanto meno le inquadri e le metta in correlazione le une con le altre, appaiono isolate anche quando concordano tra loro e anche quando sono offerte in un unico involucro, come ad esempio un medesimo portale (cosa in sé meritoria). Anche questo è un segno dei tempi.

Oltre che a rimandare alla bibliografia (che si trova agevolmente sul web) dei singoli autori sopra citati e a raccomandare la visita a portali come questi, l’esposizione che segue è in forma di note dove le varie dimensioni saranno implicite e non chiamate per nome.

 

3. La Nato che affronta direttamente la Russia e muove guerra alla Cina è un’idea folle. Tuttavia è veramente il sogno proibito dei crazy freaks neo-liberal-con al potere attualmente a Washington. Per gli ambienti statunitensi meno psicopatici è invece una minaccia per cercare di compattare gli alleati, far vedere al mondo che non si intende cedere il posto di comando e infine per spaventare Mosca e cercare di farle accettare un compromesso ed evitare il completo collasso dell’Ucraina (con eventuale spartizione tra Russia, Polonia, Ungheria e Romania) e quindi l’umiliazione dell’Alleanza Atlantica.

Una richiesta di compromesso che Mosca ha già rinviato al mittente perché giudicata poco seria, specialmente dopo l’ammissione occidentale (Hollande e Merkel riguardo gli accordi di Minsk) che noi tradiamo i patti in modo premeditato (da parte Russa potrebbe essere una scusa, o meglio un utilizzo ai propri fini della sbalorditiva provocazione franco-tedesca istigata dalla Nato).

Bisogna anche sottolineare che le politiche di sicurezza nazionale svolgono un ruolo di potente barriera unitaria protezionistica militare ed economica. Da questo punto di vista, per gli Stati Uniti il conflitto attuale è un mezzo per perseguire un fine economico più ampio dell’ovvio arricchimento dell’apparato industriale-militare: cercare di re-industrializzarsi ai danni principalmente dell’Europa.

Dualmente, l’innalzamento di una barriera unitaria protezionistica militare ed economica è stata per la Russia e la Cina una reazione obbligata all’aggressività statunitense, che ha creato ex novo percorsi che non erano previsti, ha accelerato tendenze latenti che avevano altre tempistiche o sbloccato processi che altrimenti difficilmente avrebbero visto la luce. E tutto questo si riversa e riverbera nella configurazione sociale, economica e politica dei due principali Paesi competitor degli Stati Uniti.

Siamo di fronte alla “larger picture”, cioè al quadro di quanto succede al di fuori dell’Ucraina, il quadro che spiega la guerra e che a sua volta è influenzato da ciò che avviene sui campi di battaglia. Per inserire il conflitto armato stesso nella larger picture occorre per prima cosa, accettare quanto segue:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Questo è uno dei monopoli fondamentali del dominio mondiale. Gli altri sono quello dell’accesso alle fonti energetiche e alle altre risorse fondamentali (come il settore chimico-agricolo-farmaceutico), quello dei sistemi finanziari e di pagamento, quello della cultura e dell’informazione/comunicazione e infine quello dell’innovazione scientifica e tecnologica. Monopoli diversi ma collegati tra loro.

Questo collegamento spiega la famosa “resilienza” (termine che detesto) della Russia:

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

E’ un’osservazione che vale in questo caso, non in generale. Un paradosso, nel senso di contraddizione reale, che non può essere né concepito né spiegato se non si ha una visione sistemica degli eventi. Infatti gli esperti occidentali di scuola canonica (economisti, politologi, geostrateghi e chiromanti d’altro tipo) si sentono spersi: “Le sanzioni non funzionano. Ma come?”. E cercano spiegazioni nelle minuzie.

Il fatto è che attorno a questa guerra tutto il sistema-mondo si muove, e velocemente, per un terzo motivo:

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Se non si capisce, o si fa finta di non capire, che per la Russia questa guerra è esistenziale sarà un disastro di ampiezza mai vista perché le guerre esistenziali la Russia le ha sempre vinte indipendentemente dal prezzo da pagare. Non solo dobbiamo ricordarci di Napoleone, di Hitler o dei Cavalieri Teutonici, ma è meglio che Varsavia e i Paesi baltici si ricordino di come sono finite le mire espansionistiche di Sigismondo III e della sua Confederazione Polacco-Lituana durante il “Periodo dei Torbidi” quando pure la Russia versava in stato di debolezza [6].

Ma Mosca è anche perfettamente consapevole che questa guerra si inserisce diritta nel cuore della crisi sistemica ed è quindi destinata a rivoluzionare il sistema-mondo. Basta rileggersi uno qualsiasi dei discorsi di Putin dell’ultimo anno. Anche gli Stati Uniti lo sanno perfettamente e ciò lascia sbalorditi, perché la potenza egemone non poteva concepire una strategia peggiore:

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ciò che è stupefacente è che questo esito era stato ampiamente previsto con molta precisione da uno dei maggiori geopolitici statunitensi, Georg Kennan, uno dei “padrini” della Nato, che già nel 1997 aveva avvertito: «L’opinione, per dirla senza mezzi termini, è che l’espansione della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intera era post-guerra fredda. Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionaliste, antioccidentali e militariste dell’opinione pubblica russa, abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa, riporti l’atmosfera della guerra fredda nei rapporti Est-Ovest, e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento» [7].

Durante la guerra esistenziale contro Napoleone la Russia si compattò attorno allo zar Alessandro I Romanov. Durante la guerra esistenziale contro Hitler la Russia si compattò attorno al segretario del Partito Comunista Josif Stalin. Oggi nella guerra esistenziale contro la Nato, la Russia si è compattata attorno al presidente Vladimir Putin. Difficilmente si può sostenere che non fosse prevedibile.

Questa strategia suicida dice pressoché tutto dello stato misto di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva della leadership occidentale. Uno stato ormai patologico dovuto a un gioco di hubris e di disperazione che avvitandosi una sull’altra rendono impossibile l’elaborazione di un percorso alternativo, di una via di fuga non distruttiva.

 

4. Se dunque la nazione russa si compatta attorno ai suoi leader per combattere una guerra esistenziale, attorno alla guerra in Ucraina in quanto guerra sistemica la larger picture si muove.

Si pensi, ed è un solo esempio, alla recente “Dichiarazione dell’Avana” dei banchieri centrali, presidenti e parlamentari di 25 Paesi riuniti a Cuba il 27 gennaio scorso. E’ un programma per la creazione di un blocco planetario «led by the South and reinforced by the solidarities of the North».

«Il Congresso riconosce l’opportunità critica offerta dalla presidenza cubana del Gruppo dei 77 più la Cina per guidare il Sud fuori dalla crisi attuale e incanalare gli insegnamenti della sua Rivoluzione verso proposte concrete e iniziative ambiziose per trasformare il più ampio sistema internazionale». «La liberazione economica non sarà concessa ma conquistata».

Quando ci entrerà in testa che non ci sopporta più nessuno e facciamo di tutto per non essere sopportati? Quando capiremo che la maggior parte del mondo, in Ucraina ci vuole vedere umiliati, anche chi all’ONU vota secondo creanza o pressione?

La ribellione al cosiddetto “ordine internazionale” ha come protagonisti Paesi che si sentono minacciati e Paesi che si sentono soffocati dall’architettura di potere occidentale. Il verbo “sentire” è però impreciso, perché le minacce occidentali sono da tempo aperte, esplicite, spudorate, così come lo è la rapina. Dietro a questo disastro c’è l’abnorme finanziarizzazione dell’economia occidentale che è stata la via d’uscita “naturale” (in senso capitalistico) dalla crisi di sovraccumulazione degli anni Settanta. Ovviamente esiste un rapporto tra la disconnessione dell’economia dai valori reali e la disconnessione del pensiero occidentale dalla realtà. Lo studio dei suoi particolari è un tema seducente ma purtroppo non ho sufficienti conoscenze per affrontarlo e lo lascio quindi ad altri [8].

Il grosso ostacolo a una “revisione” interna all’Occidente della sua politica, suicida oltre che omicida, è dunque un blocco cognitivo e culturale connesso all’esasperante livello di finanziarizzazione raggiunto dall’economia. La bolla finanziaria incombe come un mostruoso ordigno nucleare pronto a scoppiare. Nel tentativo di depotenziare lo scoppio, le élite finanziarie obbligano l’ambiente esterno al centro capitalistico occidentale ad estrarre quanto più profitto e a sequestrare quanta più ricchezza sociale sia possibile per devolverli al centro egemone in crisi in cui la rendita finanziaria ha sostituito l’estrazione di profitto alimentando la sovraccumulazione, e parimenti obbligano l’Occidente stesso a un’operazione di auto-cannibalizzazione che consiste nell’avvitarsi in politiche di austerity e deflazione salariale e nella privatizzazione selvaggia del dominio pubblico (welfare, capitale sociale fisso, servizi).

Se l’inizio della crisi sistemica fu segnalato dal decennio di stagflazione (stagnazione con inflazione, superata dall’avvio della finanziarizzazione dell’economia), oggi, dopo poco più di mezzo secolo, nello show-down della crisi concorrono stagnazione, inflazione e finanziarizzazione, un triangolo devastante esasperato dallo scardinamento della globalizzazione dovuto allo scontro sistemico stesso.

Oggi la finanziarizzazione non può più essere un rimedio perché è stata utilizzata fino all’eccesso (come già avvertiva Thomas Friedman nel 2004 sul New York Times: “gli elefanti possono volare, ma solo per poco tempo” [9]). Non solo, ma il Paese dove oggi sono concentrati i mezzi di pagamento mondiali, la Cina, è largamente al di fuori del raggio d’azione politico imperiale e quindi della possibilità di far fagocitare le sue risorse dal sistema finanziario occidentale ormai fuori controllo.

Ecco allora un disperato tentativo imperiale di re-industrializzazione che essendo ostacolato dalla neo-compartimentazione dell’economia mondiale alimentata dagli scontri geopolitici, avviene ai danni dei vassalli in Europa e in Giappone e deve fare i conti con ritardi tecnologici, con mancanza di materie prime e con perdita di know how [10].

Negli Stati Uniti si rendono conto dell’impossibilità di una strategia coerente e solida per mantenere l’egemonia mondiale. Esclusa una guerra nucleare dalla quale i generali sanno perfettamente che gli Stati Uniti uscirebbero totalmente distrutti, l’unica speranza sarebbe un collasso interno della Russia e della Cina, inverosimile per mille ragioni, storiche, geografiche, antropologiche, culturali, economiche e politiche ampiamente studiate.

L’unica regione che è ripetutamente collassata nella Storia è stata l’Europa, il continente più violento del pianeta, suddiviso in mille poteri e con la possibilità idro-orografica di fare e disfare mille confini. Gli Stati Uniti si trovano in una situazione, anche geografica, più vantaggiosa di noi, ma il suo sistema economico-sociale ha assunto da subito un andamento “estrovertito”, cioè dipendente dalla conquista diretta o indiretta di crescenti spazi esterni, nonostante spesso si parli delle tendenze “isolazioniste” statunitensi. L’espansionismo è un fenomeno che era comprensibile per la piccola Inghilterra ma è abbastanza sorprendente in una nazione che nasce e si consolida su spazi enormi (“confederazione” e “impero” erano termini intercambiabili per i fondatori degli Stati Uniti). La spiegazione più verosimile è che esso sia dipeso dalla grande capacità di accumulazione degli Stati Uniti messa definitivamente in moto a livello internazionale proprio dal periodo protezionistico che seguì quella Guerra Civile in cui furono sconfitti gli interessi legati alla preminenza dell’impero britannico e alla triangolazione atlantica (manufatti inglesi scambiati con schiavi africani, schiavi africani scambiati con prodotti tropicali americani, prodotti tropicali americani scambiati con manufatti inglesi). E’ la ragione per cui considero la fine della Guerra Civile Americana l’inizio dell’era contemporanea, o meglio ancora dell’era “attuale”.

 

5. La necessità di “estroversione” degli Stati Uniti si scontra ora con la resistenza di due enormi competitor che storicamente non sono dipesi da un’esigenza simile. Ciò che sovente viene chiamato “imperialismo russo” e “imperialismo cinese” sono in realtà relazioni economiche internazionali di natura differente. Ad esse viene dato l’appellativo di “imperialismo” per pigrizia, per comodità, per incapacità di concepire fenomeni diversi da quelli che hanno caratterizzato l’Occidente nella sua particolare traiettoria storica. Le cose stanno in modo differente e non casualmente Giovanni Arrighi intitolò la sua ultima monografia “Adam Smith a Pechino” e non “Karl Marx a Pechino”. Per quanto riguarda la Russia mancano analisi precise che comunque non dovrebbero sottostimare l’influenza di oltre 70 anni di bolscevismo. La stessa reazione di Putin alla shock therapy messa in atto da Eltsin ha risentito, sebbene in modo altalenante, di quella tradizione e dell’attaccamento della popolazione russa ad essa (innanzitutto ai servizi statali e all’assistenza sociale, ma anche ideale, a giudicare dal fatto che il Partito Comunista della Federazione Russa col 19% è il secondo partito [11]).

L’ultima grande stagione di estroversione statunitense è stata la cosiddetta “globalizzazione”, «another name for the dominant role of the United States», come affermò candidamente Henry Kissinger in una conferenza al Trinity College di Dublino il 12 ottobre del 1999. Ma la globalizzazione ha avuto come esito inintenzionale proprio la crescita dei grandi competitor strategici degli Usa e dei competitor minori che attorno ad essi si stanno aggregando. Questo ha portato a un deterioramento della globalizzazione e a una neo-compartimentazione del sistema-mondo dove le economie giovani e dinamiche stanno da una parte e quelle mature e obsolescenti dalla parte opposta.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo)[12].

Il deterioramento della globalizzazione ha provocato quello dei processi di alimentazione delle prime da parte delle seconde. Se la globalizzazione serviva a sopperire a ciò che non potevano più fare le singole società nazionali occidentali né il loro assemblaggio/coordinamento nell’economia-mondo centrata sugli Stati Uniti, ovvero “pompare energia” sufficiente dai processi di creazione del valore a quelli di accumulazione monetaria, il suo scardinamento sta obbligando il centro dominante a ricorrere alla “accumulazione per espropriazione” ai danni dei suoi stessi vassalli. Ma facendo ciò gli Stati Uniti si stanno ritraendo dalla posizione di Paese “egemone” per assumere le vesti di Paese “dominante”. Se l’egemonia è sempre “corazzata di coercizione”, oggi gli Stati Uniti devono usare un massimo di forza dato che ormai godono di un minimo di consenso, pur avendo ancora una notevole presa culturale [13]. Detto in termini generali, il problema che si è trovato di fronte l’Occidente è stato l’impossibilità di inglobare altre economie-mondo nella propria, un’impossibilità di tipo geopolitico (la sconfitta nel Vietnam è forse stato il suo segnale più precoce).

Il problema che il mondo invece si trova oggi di fronte è proprio l’impossibilità dell’economia-mondo occidentale di coesistere con altre economie-mondo, un’impossibilità che ha le sue radici nella logica dei processi di accumulazione che si sono storicamente strutturatati in Occidente.

L’Occidente è quindi in preda a un giro vizioso perfetto: i tentativi di bloccare l’ascesa dei competitor inducono un indebolimento della sua economia e un approfondimento della crisi e questo diminuisce la sua capacità di contrastare i competitor. O l’Occidente cambia strategia, ovvero accetta di negoziare la propria posizione in un mondo multipolare, pagando ovviamente un prezzo in termini di privilegi, comunque destinati a sparire con la forza, o la situazione diventerà sempre più disperata. E questo è pericolosissimo. Il cambio di strategia deve quindi essere rapido.

La disperazione che serpeggia tra le élite occidentali ha infatti già fatto evaporare le loro residue capacità diplomatiche/egemoniche, quasi che si fosse ormai consapevoli che è meglio essere espliciti e brutali dato che non c’è più possibilità di far identificare il bene degli Usa col bene dell’Occidente e il bene dell’Occidente con quello di tutti.

Se si leggono i rapporti dell’FMI e delle altre istituzioni preposte all’ordine mondiale occidentale, si vede un quadro di desolazione che grazia solo pochi Paesi [14]. La maggior parte delle nazioni del mondo sono considerate un “problema”. Problema che deve essere risolto con macellerie sociali e, in definitiva, con l’aggravamento del problema stesso, in un giro vizioso a beneficio dei soliti pochissimi noti.

Se durante la reaganomics un Paese in via di sviluppo dopo l’altro dovette ricorrere ai prestiti delle banche di New York e Londra che riciclavano i petrodollari, accettando di pagare tassi d’interesse inauditi, mentre oggi invece la coda è a Pechino e anche a Mosca, il motivo è proprio questo: in Cina e in Russia non sono considerati come dei problemi e dei polli da spennare. Il BRICS, il BRICS+, la SCO, l’Unione Economica Eurasiatica, trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime.

Cos’altro è l’architettura monetaria che da alcuni anni viene studiata da Sergej Glazyev, il responsabile per l’integrazione e la macroeconomia della Commissione Economica Eurasiatica, l’organo esecutivo dell’Unione Economica Eurasiatica, e che provvisoriamente possiamo definire “Diritti Speciali di Prelievo Multipolari”, se non una sorta di Bancor, quella moneta orientata al debito, cioè ai Paesi che devono svilupparsi, anche in deficit, e non sottoposta a una singola nazione, proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata a favore del Dollaro (il gold-dollar exchange standard), ovvero una moneta internazionale orientata al credito e al sostegno geopolitico di una parte sola, gli USA, che allora erano la più grande potenza creditrice del mondo?

Il BRICS, il BRICS+, la SCO e la UEE sono impetuosi corsi d’acqua che finiranno per confluire in un unico fiume, assieme al G77, la ridestata Organizzazione dei Paesi non Allineati. Ridestata, che lo si voglia o no, dall’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina. Un fiume rappresentabile (e non certo metaforicamente) con le Nuove Vie della Seta, la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, alla quale già aderiscono 140 Paesi in Asia, Europa e America Latina. Un’area potenzialmente allargabile a quell’80% di Paesi che non applicano nessuna sanzione alla Russia.

 

6. Gli Stati Uniti, o meglio le sue élite, o meglio ancora le sue élite neo-liberal-con legate allo strapotere della finanza e/o a una mentalità eccezionalista, le élite cresciute, spesso anche anagraficamente, e diventate potentissime con la crisi sistemica, guardano a questi processi non capendoli, considerandoli semplicemente degli insulti a un ordine “naturale” che non poteva e non doveva essere perturbato.

E li guardano sempre più impotenti e spaventate. E questo è molto pericoloso, perché può portarle ad atti disperati di cui nemmeno riuscirebbero a calcolare tutte le conseguenze, per via della loro arroganza e dalla loro inesistente, insufficiente o inadatta preparazione culturale e intellettuale.

Che ciò sia evitato dipende soprattutto da come agirà quella parte degli Stati Uniti – e quella parte dei suoi interessi – che vede meno pericoloso e più conveniente adattarsi a un mondo multipolare che cercare di lanciarsi a testa bassa contro il muro di contraddizioni politiche, economiche e militari che la crisi e la sua gestione neoliberista hanno eretto. Si farebbe per lo meno guadagnare al mondo tempo prezioso anche se una soluzione più duratura richiederà un patto che ponga la società al centro. E lo stesso vale per l’Europa.

A questo punto si passa a un altro tema d’analisi che deve rispondere alla domanda seguente:

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Innanzitutto dobbiamo domandarci se tutti questi soggetti nazionali che si stanno ribellando all’ordine globale occidentale sperano che la Russia, o la Cina se per questo, prenda il posto degli Stati Uniti come nazione egemone. La risposta molto semplice è No. Ma questo non sembra nemmeno essere nelle intenzioni. Saggiamente, perché la Storia è arrivata a un punto particolare:

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

E’ un dato storico. Si pensi all’egemonia statunitense entrata economicamente in crisi dopo meno di trent’anni, e si sta parlando di una potenza di primissimo livello che alla fine della II Guerra Mondiale concentrava quasi tutti i mezzi di pagamento mondiali e aveva una produttività che surclassava il resto del globo messo assieme.

La Russia e la Cina vedono perfettamente cosa sta succedendo agli Stati Uniti (ad esempio al suo Dollaro, una volta padrone del mondo). E non vogliono ripetere l’esperienza. Comunque per la Russia i costi sarebbero inaffrontabili se volesse sostituirsi agli USA (tra l’altro litigherebbe subito col suo principale alleato, la Cina, a cui si applica lo stesso ragionamento). Ne segue un’ipotesi:

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Se ciò è confermato, come molte cose fanno pensare, ci sarà (o dovrebbe esserci) di conseguenza un drastico cambio di paradigma sia nei rapporti internazionali sia nei rapporti economico-sociali interni alle singole nazioni, due aspetti dialetticamente collegati, perché da cinquecento anni a questa parte un’economia-mondo è proceduta sempre attorno a un centro egemone, si identificava con esso.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

In Russia la guerra stessa sta facendo rivedere il “modello” economico. È troppo presto per un giudizio, ma le cose stanno cambiando, ad esempio riguardo al ruolo dello Stato. Sono movimenti da tener d’occhio in modo critico.

Siamo di fronte a una ribellione planetaria che obbligherà i futuri studiosi a rivedere la periodizzazione storica e qualche persona non riflessiva o con scarsa capacità di raziocinio potrebbe chiedersi se io, che sono e mi considero occidentale, faccio il tifo per una parte. Di sicuro non faccio il tifo per l’ipocrisia dei bombardatori “umanitari”, per chi ritiene che mezzo milione di bambini morti in Iraq sono “un prezzo giusto”, per chi dal 1945 ad oggi ha provocato con le sue guerre 20 milioni di morti, per chi a Washington dava l’ordine di bombardare con droni matrimoni in Afghanistan, per chi ha massacrato milioni di civili in Vietnam. E non faccio il tifo per chi sventola la svastica.

Faccio allora il tifo per il compimento di un processo storico che da oltre due decenni ritengo inevitabile? Che senso avrebbe? Sarebbe come fare il tifo per il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse. Sarebbe del tutto insensato. Certo, quando torna la luce del giorno si possono fare cose impossibili durante la notte al buio. Ma, per l’appunto, tutto dipende da cosa si fa.

E’ troppo presto per prevedere che tipo di architettura multipolare nascerà dalla ribellione in corso contro il plurisecolare ordine internazionale occidentale.

Posso solo fare ipotesi in base alla Storia e alla logica, ma credo che nessuno possa onestamente dire che le cose sono chiare. Ci separano ancora anni da una bozza di progetto alternativo sufficientemente precisa, e anni per implementarlo, anni che saranno pieni di eventi difficili da prevedere. Anni in cui questo conflitto si amplierà e di conseguenza si approfondirà. Un decennio? Due decenni?

Sulla carta dovrebbe uscirne un sistema più equo. Ma quali livelli di equità sono necessari?

Una cosa per me è certa:

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

Non tifo dunque perché venga il giorno. Il Sole sorgerà da solo, non ha bisogno di incoraggiamenti. Io posso solo sperare che durante la notte si smetta di uccidere, si cessi di provocare sofferenze e che prevalgano il buon senso e la pietà.

Tifo invece perché durante il giorno, per parafrasare Karl Polanyi, si riesca a trovare il modo perché la società con mercato (cosa naturale) prenda il posto della società di mercato (cosa innaturale, dove i rapporti tra esseri umani sono sostituiti dai rapporti tra merci).

Altrimenti, come si suol dire, in poco tempo saremmo da capo a quindici e tutte queste sofferenze sarebbero servite solo a mettere alla luce un essere ancor più mostruoso.

«Superare il capitalismo è dunque non soltanto “correggere la ripartizione del valore” (ciò che produce solo un immaginario “capitalismo senza capitalisti”) ma anche liberare l’umanità dall’alienazione economica»(Samir Amin).


NOTE
[1] Qui le dichiarazioni di Bauer. Qui le dichiarazioni di Minihan. Qui le dichiarazioni di Stoltenberg. Per quelle della von der Leyen si veda qui e qui. I discorsi di Ursula von der Leyen sono casi di studio esemplari sul tema “ipocrisia”. Notevole, ad esempio, questo passaggio: «Il sabotaggio del Nord Stream ha dimostrato che dobbiamo assumerci maggiori responsabilità per la sicurezza della nostra infrastruttura di rete». Realmente fantastico: persino i sassi, anche quelli americani, sanno che questo sabotaggio (e disastro ambientale) è stato opera di Stati Uniti/Nato. Ai sassi che ancora non lo sanno consiglio l’inchiesta investigativa del Premio Pulitzer Seymour Hersch. Questa inchiesta è piena di dettagli che possono essere conosciuti solo da “insider”. Che alcune “gole profonde” abbiano permesso in questo momento a Hersh di produrre il suo “scoop”, la sua “bombshell”, è evidente sintomo di una lotta interna all’establishment statunitense. Mi è immediatamente ritornato in mente lo scandalo Watergate e la sua copertura da parte di Bob Woodward e Carl Bernstein per il “Washington Post” (da sempre legato alla CIA) e dallo stesso Hersh per il “New York Times”. In quel caso si è saputo che la “gola profonda” era niente meno che il vicedirettore della CIA, Mark Felt.
Per quanto sia incredibile, persiste ancora un mito condensato nella celeberrima frase «È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» (Ed Hutcheson-Humphrey Bogart alla fine del film di Richard Brooks L’ultima minaccia, 1952): la (libertà di) stampa può mettere in ginocchio il potere. Vedremo in un’altra nota che fine ha fatto la libertà di stampa negli USA e in Occidente, ma anche all’epoca del Watergate ci voleva ben altro che un’inchiesta-bomba, come ha ammesso la stessa editrice del “Washington Post”, Katharine Graham: «A volte la gente ci accusa di “aver abbattuto un presidente”, cosa che ovviamente non abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare. I processi che hanno causato le dimissioni [di Nixon] erano costituzionali». E persino dallo stesso Woodward: “La mitizzazione del nostro ruolo nel Watergate è arrivata al punto di assurdità, in cui i giornalisti scrivono … che io, da solo, ho abbattuto Richard Nixon. Totalmente assurdo”.
Per mettere in ginocchio il potere ci vuole una rivoluzione o un altro potere che vuole scalzarlo, eventualmente “utilizzando” ottimi giornalisti (o comprandone di spregiudicati o vili, cosa che avveniva fin dai primordi della professione come ci racconta Rossini nella sua opera lirica “La pietra di paragone”).
Il fine dell’estromissione di Nixon è ancoro dibattuto negli Stati Uniti (l’anno scorso c’è stato il cinquantenario dello scandalo). Io sono convinto che si volesse impedire il suo disimpegno dal Vietnam. Per altri non è così, ma è la stessa caoticità delle forze e dei decisori statunitensi che non permette una lettura univoca.
Tornando alla von der Leyen, nei suoi interventi si possono notare anche stupidaggini terminologico-concettuali come «la guerra brutale della Russia». La signora von der Leyen sa indicarci una guerra che non sia stata brutale? Forse quella del Vietnam col 67% di vittime civili? O quella in Iraq col 77%? Tutte le guerre sono brutali!
Si noti che il termine composto “guerra della Russia” è accompagnato da due tic, da due automatismi. Il primo è, appunto, aggiungere l’aggettivo “brutale”, il secondo è aggiungere l’aggettivo “non provocata” (unprovoked). Da linguista e scienziato cognitivista geniale qual è, Noam Chomsky ha subito commentato: «Of course, it was provoked. Otherwise, they wouldn’t refer to it all the time as an unprovoked invasion. By now, censorship in the United States has reached such a level beyond anything in my lifetime».
Per quanto riguarda invece la potenza economica dei contendenti, la Cina supera del 20% gli USA per PIL calcolato in PPP e di 8 volte gli UK (noi siamo al 12° posto). Ma nonostante il confronto sulla base del PPP sia più preciso rispetto a quello in base ai valori nominali, tuttavia è incompleto. Come la stessa RAND Corporation ammette «[Il] PIL fornisce solo un limitato quadro del potere. Dice poco sulla composizione dell’economia, come ad esempio se è guidata da settori di punta o è invece dominata da quelli vecchi e in declino». Lo stesso discorso riguarda il budget per la difesa (cfr. RAND Corporation, Measuring National Power”, 2005).
Ma se si prendono sul serio questi “caveat” notiamo un ulteriormente aggravamento della posizione statunitense dato l’altissimo grado di finanziarizzazione della sua economia che significa ridotte capacità produttive reali. Si pensi solo alla produzione statunitense legata all’industria militare comparata a quella Russa. Inoltre, la logica di produzione, guidata dai profitti privati e non dall’efficacia del risultato, spinge i produttori a sviluppare sistemi d’arma complicatissimi e costosissimi ma operabili con difficoltà nei conflitti reali contro un avversario alla pari.
[2] I dati catastrofici per le forze armate ucraine, ancor più allarmanti se confrontati con le perdite russe inferiori di un ordine di grandezza, fuoriescono ora non solo dagli ambienti del Pentagono ma anche da quelli del Mossad e non sono nascosti nemmeno dalla BBC. Per quanto riguarda l’economia, l’FMI ha dichiarato che nonostante la Russia sia la nazione più sanzionata della Storia il suo PIL è più alto di quello della Germania. In compenso il PIL dei bellicosi e revanscisti UK è in zona negativa. Inflazione, fallimenti, disoccupazione, collasso dei servizi pubblici, strette sulle pensioni, il quadro europeo è disastroso e con prospettive foschissime. Non oso nemmeno pensare a cosa succederà quando gli Stati Uniti ci obbligheranno alle sanzioni contro la Cina: dopo la perdita dell’energia a buon mercato russa andremo incontro alla perdita delle merci a buon mercato cinesi. Al di là di ogni altra conseguenza, la produzione di profitto in queste condizioni sarà impossibile a meno di far ritornare i lavoratori ai tempi di Dickens. E in un sistema capitalistico il profitto è la molla dell’economia reale.
Voglio far notare incidentalmente che un rapporto speciale dell’ONU sulla povertà negli UK già comparava la situazione del 2019 alle situazioni descritte da Dickens:
«Ad alcuni osservatori potrebbe sembrare che il Dipartimento del lavoro e delle pensioni sia stato incaricato di progettare una versione digitale e sterilizzata del laboratorio del diciannovesimo secolo, reso famigerato da Charles Dickens, piuttosto che cercare di rispondere in modo creativo e compassionevolmente ai bisogni reali di coloro che affrontano una diffusa insicurezza economica in un’epoca di profonde e rapide trasformazioni indotte dall’automazione, dai contratti a zero ore e da una disuguaglianza in rapida crescita» (UN Report of the Special Rapporteur on extreme poverty and human rights: Visit to the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, pag. 5). Ed è del tutto inutile consolarci con scuse come l’uscita degli UK dalla UE: Italia, de te fabula narratur.
La situazione degli Stati Uniti non è molto più rosea, se non dal punto della forza geopolitica relativa e quindi della loro capacità di far pagare il più possibile la crisi a noi. Ma mentire è ormai una questione di vita o di morte. E si mente in modo così spudorato ed esagerato che gli esperti si grattano scettici la testa: “ ‘Too good to be true’ jobs report draws skeptics on data quirks”, titola “The Philadelphia Inquirer” il 3 febbraio scorso, un articolo che riporta le stime di Bloomberg che parlano di un aumento di oltre mezzo milione di posti di lavoro in Gennaio, cosa che porterebbe il tasso di disoccupazione addirittura ai livelli più bassi dal 1969, cioè da inizio crisi! L’Inquirer fa notare però che si tratta di un dato “aggiustato” e che la stessa Bloomberg ammette che «Su base non rettificata, le buste paga sono in realtà diminuite di 2,5 milioni il mese scorso» (“On an unadjusted basis, payrolls actually fell by 2.5 million last month).
[3] I BRICS stanno elaborando un sistema di pagamenti alternativo al Dollaro, notizia che non si trova nei media occidentali ma che potete trovare sul media outlet indiano “Business Standard”.
Comunque il “Financial Times” ci informa che le due più grandi economie dell’America Latina, Brasile e Argentina, hanno iniziato la preparazione di una moneta comune, che si dovrebbe chiamare “Sur”, per incrementare il commercio regionale e “ridurre la dipendenza dal Dollaro”.
L’Arabia Saudita sta considerando di vendere petrolio in divise diverse dal Dollaro.
La Cina sta trattando per comprare energia dai Paesi del Golfo in Yuan.
Le banche centrali di Russia e Iran alla fine dello scorso gennaio hanno firmato un accordo per connettere le banche dei due Paesi attraverso un sistema alternativo allo SWIFT.
Intanto le riserve cinesi in bond governativi statunitensi sono diminuite in un anno di 92 miliardi di dollari.
Ovviamente l’Euro non se la passerà meglio: il vice-ministro russo delle Finanze, Vladimir Kolychev ha dichiarato che entro l’anno la quota di Euro nei Fondi Nazionali Russi sarà azzerata nell’ambito di una revisione della composizione del fondo che alla fine ammetterà solo Rubli, Yuan e oro.
Per un’analisi generale recente si veda il rapporto “The Future of the Monetary System”, pubblicato niente meno che dal Credit Swiss e redatto da un team diretto da Zoltan Pozsar, un autore che consiglio di seguire.
[4] Su un versante politico-filosofico dobbiamo aggiunge Gramsci come classico (la fondamentale nozione politica di “egemonia” è sua) e Costanzo Preve come pensatore contemporaneo.
Questi autori non dicono le stesse cose, né hanno le stesse preoccupazioni. Ad esempio, se Lenin e la Luxemburg sono dei politici, Arrighi è un economista e storico, Shimshom e Bichler sono economisti, Harvey è un geografo mentre Moore si occupa di sistemi socio-ecologici. Ma se invece di dare al loro pensiero una lettura tutta interna alla dimensione delle idee, incasellando i loro ragionamenti sui rami di un albero col tronco ben piantato sottosopra con le radici nel cielo, si cercano di capire i problemi concreti, materiali, su cui si sono concentrati, e di localizzare sia i problemi che i punti di vista, (localizzare in senso storico e geografico), allora oltre ai punti di divergenza si potranno notare anche gli elementi comuni senza necessariamente rischiare di cadere nell’eclettismo. Specie se si traguarda la loro lettura coi problemi che devono essere affrontati oggi. Per parafrasare Marx, non bisogna dividere in quattro le idee, i concetti, per collocarli in una tassonomia accademica («Prima di tutto, io non parto da “concetti”, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto», Marx, “Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner”).
[5] Riguardo lo sprofondamento in un regime da Ministero della Verità orwelliano, si pensi innanzitutto a Julian Assange. O si pensi a Seymour Hersh, il più grande giornalista investigativo statunitense, il Premio Pulitzer che svelò il massacro di My Lai e i bombardamenti segreti della Cambogia durante la guerra del Vietnam e denunciò le torture di Abu Ghraib. Autore di inchieste che comparivano in prima pagina sul “New Yorker” e sul “New York Times”, oggi è emarginato come un paria essendosi opposto alle versioni ufficiali degli attacchi chimici in Siria, del caso Skripal e del sabotaggio del Nord Stream. Si pensi ancora al giornalista britannico Graham Phillips, accusato di “crimini di guerra” per aver detto che il mercenario britannico in Ucraina Aiden Aslin era, per l’appunto, un mercenario. Gli hanno anche bloccato il conto in banca. Alla giornalista tedesca Alina Lipp oltre che congelare il conto in banca hanno sequestrato il computer e rischia la galera con l’accusa di aver “diffuso notizie false atte a turbare l’ordine pubblico” per non essersi uniformata alla copertura dei media Minculpop sulla guerra. Sorte simile per la cineasta francese Anne-Laure Bonnell, acclamata nel 2016 persino dal “New York Times” per un suo documentario sul Donbass e oggi esclusa da ogni evento cinematografico con la colpa di voler continuare a dire la verità sul Donbass. Ha anche perso il posto all’università parigina dove insegnava. Il giornalista italiano Giorgio Bianchi è entrato nella kill list dei servizi segreti ucraini che appare nel sito “Myrotvorets” (“Il pacificatore”), senza che il nostro ministero degli Esteri si sia sentito in dovere di protestare.
La cosa più inquietante è la velocità con cui siamo passati dal pluralismo all’intolleranza.
[6] «A noi non interessa un mondo senza la Russia», ha dichiarato Putin, ma questo è il sentire del 99% dei Russi e lo hanno dimostrato in 1.000 anni di storia. Che quella in Ucraina sia una guerra esistenziale, ai Russi glielo abbiamo fatto capire con abbacinante chiarezza dichiarando esplicitamente: 1. che la guerra in Ucraina è stata deliberatamente preparata per anni, tradendo ogni accordo, per indebolire la Russia; 2. che vogliamo abbattere il legittimo governo che i Russi hanno eletto; 3. che vogliamo smembrare la Russia come abbiamo fatto con la Jugoslavia; 4. che odiamo o ci è estraneo tutto ciò che è russo.
[7] George F. Kennan, “A Fateful Error”, The New York Times, 5 febbraio 1997.
[8] Riguardo questo tema posso fare solo alcune considerazioni di metodo. La classica dottrina della “verità” si basa sulla definizione aristotelica di “adaequatio rei et intellectus” dove il soggetto che parla (intellectus) è distinto dalle cose (res) di cui questo soggetto parla. In tempi moderni, questa distinzione è stata rielaborata dal logico tedesco Gottlob Frege in quella tra “Sinn”, cioè “senso”, e “Bedeutung”, cioè “riferimento”, e l’interpretazione “realistica” del concetto di “riferimento” era sottintesa anche nella semantica formale del grande logico e matematico polacco Alfred Tarski. Ma col post-strutturalismo (Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Jacques Lacan, Michel Foucault, ecc.) il “riferimento” viene relativizzato (o “intenzionalizzato”) abbandonandone l’interpretazione “realistica”. La semiotica post-strutturalista di Umberto Eco, ad esempio, riallacciandosi alla “semiosi illimitata” di Charles Sanders Peirce, sostiene che l’enunciato “La neve è nera” è rifiutato non perché si riferisce erroneamente a uno stato di cose, ma perché altrimenti dovremmo «riorganizzare le nostre regole di comprensione”, dato che questa affermazione romperebbe una “unità culturale”» (“Trattato di semiotica generale”, Bompiani, 1975 § 2.5). L’interpretazione diventa un riferimento interno in una sorta “antinomia del mentitore” metodologica. La critica post-strutturalista, che ha lati interessanti e altri cialtroni, specialmente quando mima il rigore delle scienze esatte, ha condotto a quelle posizioni relativistiche che oggi sono sfociate nei concetti di “narrazione” e di “post-verità”.
Già nel 1994 Noam Chomsky era esterrefatto da questa deriva:
«Se finisci per dirti: “è troppo difficile occuparsi dei problemi reali” ci sono un sacco di modi per non farlo. Uno di essi consiste nel disperdersi in affari di scarsa importanza. Oppure impegnarsi in culti accademici completamente avulsi dalla realtà e che costituiscono un riparo al doversi occupare delle cose come stanno. E’ pieno di comportamenti di questo genere, anche all’interno della sinistra. … Oggi nel Terzo Mondo predomina un senso di profonda disperazione e di resa. Il modo in cui si è estrinsecato questo atteggiamento, nei circoli colti che hanno contatti con l’Europa, è stato di immergersi completamente nelle ultime follie della cultura parigina e di concentrarsi totalmente su di esse. Per esempio, se dovevo parlare di attualità, anche in istituti di ricerca che si occupassero di aspetti strategici, i partecipanti volevano che li traducessi in vaneggiamenti postmoderni. Per fare un esempio, piuttosto che sentirmi parlare dei dettagli dell’azione politica statunitense in Medio Oriente, cioè a casa loro – che è una cosa sporca e priva d’interesse – preferivano sapere in che modo la linguistica moderna fornisse un nuovo paradigma argomentativo riguardo gli affari internazionali, capaci di soppiantare il testo poststrutturalista. Questo li avrebbe davvero incantati… . Tutto ciò è deprimente.» (Keeping the Rabble in Line: Interviews With David Barsamian”. Questo passaggio è citato opportunamente da Alan Sokal e Jean Bricmon nel loro “Imposture intellettuali” (Garzanti 1999) nel loro tentativo di “mettere in guardia la sinistra da se stessa” (Nota: quasi 30 anni dopo, come stiamo vedendo, il Terzo Mondo è meno disperato e vede la possibilità di sottrarsi agli artigli dell’Occidente e alle sue “follie parigine” sempre più fuori controllo).
Non era necessario che finisse così male, ma così è stato, per questioni storiche: questo modo di concettualizzare fa comodo al Potere, perché la narrazione, la post-verità, è in mano a chi controlla i media, a chi gestisce il “soft power”. Il “politicamente corretto” fa parte di questi esiti: non è corretto dire “negro” (piano linguistico), ma ciò non evita che la stragrande maggioranza relativa di condannati a morte negli USA sia composta da “neri” (piano della realtà). Il grande sforzo ideologico di politici e mass media è convincere il pubblico a lasciar perdere lo stato dei fatti e a concentrarsi solo sul linguaggio. Le contraddizioni devono essere espunte dal linguaggio non dalla realtà. Si potrebbe pensare che quanto meno è un inizio. No! E’ già la fine, pura forma senza sostanza.
Allo stesso modo la sinistra si è progressivamente concentrata sugli aspetti più superficialmente “culturali” del conflitto, privilegiando le sottoculture e la difesa dei diritti (e dei bisogni) individuali e di gruppi specifici che non creano nessun reale fastidio, sostituendo con tutto ciò la visione materialista del mondo e la difesa dei diritti e dei bisogni sociali e alienandosi le simpatie popolari a beneficio della destra. Secondo Michael Hudson il tradimento dei propri patti costitutivi è il compito e la ragion d’essere attuale dei partiti di sinistra. Questa deriva era stata ampiamente prevista da Pier Paolo Pasolini. E’ significativo che negli eventi per il centenario della sua morte si sia glissato su questo aspetto del suo pensiero o lo si sia ridotto a fatto di costume o a polemica.
Purtroppo lo scollamento economico e culturale dalla realtà ha indotto equivoci anche in parecchi compagni che assieme ad abbagli sulla globalizzazione si sono messi a teorizzare sul “capitale immateriale”, sulla “infosfera” e sul “lavoro cognitivo” in modi che troppe volte riecheggiavano i vuoti slogan accattivanti dell’avversario.
Faccio notare che a volte persino gli studi statunitensi di geostrategia erano, anche se solo parzialmente, influenzati dall’approccio, diciamo così, “finanziarizzato-poststrutturalista” (si veda ad es. Ashley J. Tellis, Christopher Layne, “Measuring National Power in the Postindustrial Age”, Foreign affairs (Council on Foreign Relations), January 2001.
Una volta messi in circolo questi guasti culturali, agendo sulla de-concettualizzazione promossa dalla “pedagogia progressista” e sull’ideologizzazione indotta da infotainment e tecniche di marketing centrata sull’identificazione di desiderio individuale e diritto, contando sull’ignoranza imposta dalla censura e da un sistema d’informazione uniformato e normalizzato e infine garantite da un meccanismo di punizione-premiazione che obbliga al conformismo ideologico e politico, le élite dominanti hanno trascinato nel loro stato di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva il corpo della società, pressoché nella sua interezza.
[9] Thomas Friedman, “The 9/11 Bubble”. The New York Times, 2 dicembre 2004.
[10] La decentralizzazione negli Usa delle industrie europee comporterà anche un’emigrazione di forza lavoro qualificata e uno avvilimento/smantellamento del ciclo istruzione-ricerca-sviluppo nel Vecchio Continente.
[11] Ovviamente occorre tener conto dei dati anagrafici. Ricordo che nel referendum del 1991 la media di chi chiese il mantenimento dell’Unione Sovietica fu di circa l’80% dei votanti. E faccio anche notare la cautela con la quale Putin ha affrontato il tema dell’aumento dell’età pensionabile (da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne).
[12] Lo sviluppo ineguale è indotto dal fatto che l’accumulazione si basa su differenziali di sviluppo (economici, finanziari, culturali, politici e geopolitici), sia all’interno delle singole società sia tra Paesi e blocchi di Paesi. Per il concetto di “differenziali di sviluppo” e il loro ruolo nei conflitti si può vedere i miei “La logica della crisi” in “Dopo il neoliberalismo”, a cura di C. Formenti, Meltemi 2021 e “Al cuore della Terra e ritorno”, 2013, in due volumi scaricabili gratuitamente qui e qui.
[13] L’espressione “pompare energia” è usata da Fernand Braudel nel suo “La dinamica del capitalismo”, Il Mulino, 1988, pag. 63: «Il capitalismo è, per natura, congiunturale, cioè si sviluppa in rapporto- alle pressioni esercitate dalle fluttuazioni economiche… .[P]enso che nella vita mercantile tendesse ad affermarsi solo un tipo di specializzazione: il commercio del denaro. Il suo successo però non è mai stato di lunga durata, come se l’edificio economico non fosse in grado di pompare energia fino a queste alte vette».
Il concetto di “accumulazione per espropriazione” è stato introdotto da David Harvey rielaborando idee di Rosa Luxemburg, Fernand Braudel e il noto capitolo del Capitale di Marx sulla cosiddetta “accumulazione originaria”, interpretata, come da altri esponenti della scuola del sistema-mondo, come un processo in realtà ricorrente. Si veda “The ‘new’ imperialism: accumulation by dispossession”. Socialist Register 40, 2004, pp. 63-87.
La fondamentale elaborazione gramsciana del concetto di “egemonia” si trova, come è noto, nei “Quaderni del carcere”.
[14] Senza contare che una nazione ricca come la Libia, la più sviluppata dell’Africa, è stata devastata deliberatamente dall’Occidente (compresa vergognosamente l’Italia di cui era la maggior alleata nel Mediterraneo).

https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/24927-piero-pagliani-slittamento-di-paradigma.html?auid=91921

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CRONACHE DEL MONDO MULTIPOLARE, di Pierluigi Fagan

CRONACHE DEL MONDO MULTIPOLARE. Negli ultimi giorni abbiamo avuto un ennesimo voto di condanna delle UN verso l’invasione russa, con l’auspicio di una pace completa, giusta e duratura ed i risultati di una ricerca di opinione condotta dall’European Council for Foreign Relation (ECFR) in Occidente più Russia, Cina, India, Turchia effettuata attraverso tre grandi istituti internazionali. Il tutto ad un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina.
In breve, il voto UN è esattamente identico a quello di un anno fa, nulla si è spostato. Quanto alla ricerca la sintesi più precisa è del Direttore dell’ECFR, Mark Leonard: “Il paradosso della guerra in Ucraina è che l’Occidente è tanto unito quanto ininfluente nel mondo”.
L’opinione di Leonard combacia con quella di altri due partner nell’indagine. Ivan Krastev (Center for Liberal Strategy) ha detto: “Lo studio rivela che mentre la maggior parte degli europei e degli americani vive nel mondo pre-Guerra Fredda, caratterizzato dal confronto tra democrazia e autoritarismo, molti al di fuori dell’Occidente vivono in un mondo postcoloniale incentrato sull’idea della sovranità nazionale”.
Timothy Garton Ash (Oxford, Hoover, Stanford) invece ha detto: “I risultati sono estremamente deludenti: l’’occidente transatlantico, incentrato su Europa e Stati Uniti, è oggi più unito, ma non è riuscito a convincere le restanti potenze principali come Cina, India e Turchia. La lezione per l’Europa e l’Occidente è chiara: abbiamo urgentemente bisogno di una nuova narrativa che risulti convincente per Paesi come l’India, la più grande democrazia del mondo”.
Forse a seguire l’idea espressa da Garton-Ash, Biden ha proposto Banga come direttore della Banca Mondiale, un indo-americano ex Mastercard ed ora Exor (Agnelli), membro associato all’élite statunitense ma anche a capo di molte istituzioni miste USA-India per lo sviluppo commerciale. Banca Mondiale fa parte dell’originario pacchetto Bretton Woods 1945 e dalla sua fondazione ad oggi, il direttore è stato sempre e solo americano. Il corteggiamento americano all’India per portarla nell’alveo occidentalista va avanti da tempo. Oltre a Banga, oggi abbiamo la capo economista del FMI ed addirittura il primo Ministro britannico di origine indiana, oltre molti CEO influenti. Curiosa anche l’espressione usata da TGA ovvero “… abbiamo urgentemente bisogno di una nuova narrativa” che denota una deriva di mentalità in corso in Occidente ormai da un po’ di tempo. TGA non crede che gli indiani siano in grado di ragionare razionalmente sul proprio interesse strategico, hanno solo bisogno noi gli si racconti la storiella giusta. La realtà non esiste, esistono solo interpretazioni, narrative appunto.
Forse è per questo che come invece fotografa Leonard, dopo un anno di guerra l’Occidente si è condensato ed estremizzato sotto la costante pressione narrativa USA-NATO mentre una buona parte del resto del mondo va da un’altra parte. Quale parte?
Il Resto del Mondo pensa che presente ed immediato futuro c’è e ci sarà un mondo condominiale, rifiuta l’idea dei due blocchi contrapposti. Astenuti, assenti, contrari alla risoluzione UN, nonostante i numeri dei voti a favore la risoluzione (141) che comprendono molti stati ininfluenti, sommano comunque più della maggioranza del mondo. Ma molti votanti a favore della risoluzione che contiene comunque auspici ecumenici, ad esempio molti soggetti centro-sudamericani (Argentina, Brasile, Messico), africani, asiatici, non per questo si possono annoverare schierati così convintamente con l’Occidente nel nuovo bipolarismo armato auspicato dagli americani. Questi voti servono solo a fare titoli sui giornali, narrative appunto.
Corretta la sintesi che viene fatta nel Rapporto ECFR: “Uno dei risultati più sorprendenti del sondaggio riguarda le idee divergenti sul futuro ordine mondiale. La maggior parte delle persone sia all’interno che all’esterno dell’Occidente crede che l’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti stia morendo”. E questo lo diamo come condiviso. Poi però “In Europa e in America, l’opinione prevalente è che il bipolarismo stia tornando. Un numero significativo di persone si aspetta un mondo dominato da due blocchi guidati da Stati Uniti e Cina.”. Nel resto del Mondo, invece: “… al di fuori dell’Occidente, i cittadini credono che la frammentazione piuttosto che la polarizzazione segnerà il prossimo ordine internazionale. La maggior parte delle persone nei principali paesi non occidentali … prevede che l’Occidente sarà presto solo un polo globale tra i tanti. L’Occidente potrebbe essere ancora il partito più forte, ma non sarà egemonico”. Differenze tra chi è soggetto a bombardamento narrativo e chi no.
Emerge così la strategia realista americana per quanto qui da noi impacchettata da narrative idealistiche. La Russia dovrà indebolirsi in modo da non esser più un pericoloso competitor militare. Mai più un’altra Siria, ci rivediamo nell’Artico. In vista del condominio planetario, all’Europa va tolta ogni autonomia strategica in modo da permettere a gli USA di sedersi al tavolo delle varie partite in cui si giocheranno i nuovi equilibri mondiali in nome e per conto dell’Occidente Unito. Un anno fa, definimmo questa una “cattura egemonica”, mi pare si sia perfettamente compiuta, obiettivo perfettamente raggiunto. Anche per evitare che l’Europa dia in toto a parte sponda a questo nuovo gioco con tanti giocatori, va imposto il format “crociata democrazie vs autocrazie”. Gli strateghi degli Stati Uniti sanno benissimo che il gioco sarà plurale e vogliono riservarsi quanta più forza per giocarlo da posizione di primato, per quanto sempre meno esclusivo.
Quindi non solo il voto UN è esattamente uguale a quello di un anno fa, anche le mie considerazioni lo sono, un anno fa circa scrivevo le stesse, identiche cose a conflitto appena iniziato.
Una ultima considerazione andrebbe fatta sulla convenienza europea. In prospettiva multipolare, l’Europa avrebbe ben potuto appartenere al fronte non allineato, quello che gli stessi ricercatori ECFR chiamano “Stati oscillanti” (ad esempio Turchia, India etc.), ma questo non era semplicemente possibile. Europa non è, né può essere, un soggetto geopolitico semplicemente perché non è uno Stato, non avrà mai una sola logica di interesse nazionale e non si può fare una strategia a più logiche. Ma neanche nei sogni più sfrenati può auspicare di diventare uno Stato per quanto federale poiché non ha alcun grado di potenziale omogeneità per esserlo. Non ne ha neanche la volontà. Al di là delle polemiche teatrali tra europeisti e sovranisti i leader europei ed i relativi popoli sono tutti cripto-nazionalisti, nessuno pensa di sciogliere il proprio Stato in un comune con altri. Infatti “europeismo” è una nuvola di sfocati pseudo-concetti ciancicati a coprire una realtà di confederazione economica con rilievi giuridici, così è e mai potrà esser altro.
Semplicemente, popoli, intellettuali, élite degli Stati europei, arrivano ad una svolta storica nel Grande Gioco del mondo, impossibilitati a giocarlo. Gli strateghi americani questo lo sapevano e lo sanno, per questo hanno forzato la mano e con successo, perché non c’era alcuna realistica alternativa viabile. Alternative c’erano ovviamente nel mondo delle chiacchiere, non in quello del crudo realismo ed è proprio la mancanza di realismo a far sì che noi si viva e si possa vivere solo nel mondo delle chiacchiere.

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