Ucraina, il conflitto! 40a puntata Un massacro Con Stefano Orsi e Max Bonelli

Siamo ad oltre due settimane di una offensiva ucraina non dichiarata, ma dai costi sempre più drammatici in materiale e vite umane. Una realtà che il regime e la NATO faticano sempre più a nascondere dietro il velo della propaganda e di azioni ad effetto dallo scarso significato militare. Con esso è il mito stesso della invincibilità della NATO che inizia a incrinarsi. Un altro importante tassello nella caduta di credibilità e autorevolezza della narrazione occidentale. Gli Stati Uniti hanno perseguito la logica dello scontro e inibito ogni possibilità di soluzione diplomatica. I russi sanno di dover risolvere sul terreno le questioni poste nell’ottobre 2021. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Osservazioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan sul rinnovamento della leadership economica americana_ a cura di Giuseppe Germinario

Questo del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, tenuto il 27 aprile scorso, è un discorso particolarmente importante ed interessante. Un altro punto della ardua parabola che stanno seguendo, per meglio dire, che sono costrette a seguire le amministrazioni statunitensi di fronte alle attuali dinamiche geopolitiche. Nel giro di quaranta anni siamo al quasi compimento di una giravolta epocale. All’inizio la chiave di volta del trionfo di un mondo globalizzato e unificato doveva essere il connubio inscindibile tra liberal democrazia e libero mercato. Alle prime insopprimibili difficoltà il legame indissolubile comincia ad allentarsi: anche i regimi zoppicanti o dichiaratamente illiberali potranno trovare una qualche ospitalità ed accondiscendenza purché accettino le regole del libero mercato. Il primo a riconoscerlo esplicitamente è stato proprio Biden, appena un anno fa. Jake Sullivan ha quasi chiuso il cerchio, sembra attraversare finalmente il Rubicone. Il mercato non è più il totem cui sacrificare il resto, ma una variabile da regolare sulla base delle esigenze della sicurezza nazionale, nella fattispecie statunitense, sulla necessità di ridurre le diseguaglianze e di ricostruire su basi solide il benessere e la funzione equilibratrice e dinamica dei ceti medi. Il Consigliere attribuisce esplicitamente allo Stato e agli investimenti e all’intervento pubblici diretti in economia il compito di orientare ed incentivare il settore privato e di innescare un processo virtuoso di riequilibrio e di reindustrializzazione dell’economia statunitense. Non si limita solo a questo. Offre ai “volenterosi”, incapaci di rompere il guscio di appartenenza, l’opportunità di inserirsi nel circuito di questa nuova configurazione delle relazioni politico-economiche e di beneficiare a loro volta delle implicazioni sulla ricostruzione e ricostruzione dei ceti medi, sulla riduzione delle diseguaglianze e sulle garanzie di sicurezza strategica a guida statunitense e compartecipazione degli alleati. Per gli ambiti residui, pur rilevanti, Sullivan non chiude le porte agli stati competitori ed avversari, ma sottintende con risolutezza che a gestirle dovrà essere il centro egemone dell’area in fase di delimitazione, gli Stati Uniti. Un ribaltamento radicale e un costrutto tanto ambizioso quanto tardivo che sorvola elegantemente su incoerenze, omissioni e propositi reconditi; che, in particolare, non coglie, o non vuol cogliere adeguatamente il contesto entro il quale intende realizzarsi.

Intanto va precisato che non si tratta di passare da un libero mercato, sin troppo spontaneo e semplificato, ad uno regolato, delimitato ed occupato dallo stesso arbitro. Ogni mercato, compreso il più “libero” ed esteso, è comunque regolato e presuppone un regolatore comunque presente ed attivo nel campo di gioco. L’eccessiva delirante ambizione, e frenesia universalistica del regolatore e l’opportunismo intelligente e spregiudicato degli attori emergenti hanno progressivamente piegato ad “usum Delphini” le cosiddette regole e fatto saltare il banco. E’ un sistema di relazioni, per altro ancora vigente, sia pure seriamente intaccato, che poggia su un presupposto ed ha una sua logica cogente. La condizione è che il regolatore, nella fattispecie gli Stati Uniti, detenga la supremazia militare e tecnologica, il controllo sostanziale delle leve finanziarie e valutarie e la supervisione manageriale del mondo imprenditoriale, specie multinazionale. La logica è quella di un drenaggio generale verso il centro regolatore di valute, di finanze e di risorse, queste ultime progressivamente estratte e prodotte nelle semiperiferie e nelle periferie. IL corollario, però, di questa dinamica non è stato l’estinzione o l’indebolimento degli stati, ma una loro ridefinizione dei compiti a seconda della postura e delle ambizioni dei centri decisori. Per gli Stati Uniti, nella fattispecie, una sottovalutazione del livello di coesione sociale interna necessario a garantire la proiezione esterna e la stabilità interna, altrimenti garantita approssimativamente da interventi assistenzialistici. Per gli stati emergenti o di fatto già emersi un assorbimento a guida politica delle capacità tecnologiche e strategiche legate allo sviluppo manifatturiero ed organizzativo delle imprese con il corollario di un crescente tessuto di ceti medi professionalizzati e di accumulo di potenza latente.

Una dinamica appena intuita dalla presidenza Obama, colta in pieno e con realismo pragmatico da quella di Trump, a prescindere dalle controversie del suo percorso e ricodificata in termini estremamente aggressivi e avventuristi da una parte sia verso gli avversari dichiarati che verso le forze “amiche”  e dall’altra circoscritta essenzialmente agli ambiti dei semiconduttori e della conversione energetica dall’attuale amministrazione Biden. In quest’ottica l’intento inclusivo che informa l’intervento di Sullivan assume piuttosto i tratti di un canto delle sirene e di un adescamento per almeno due ragioni e un pesante retaggio. 

  • il classico drenaggio finanziario si sta facendo sempre più esigente e occupa uno spazio geopolitico progressivamente più ristretto;
  • agli Stati Uniti occorre riacquisire capacità produttive, competenze professionali e manageriali, capitali. E’ questo il vero cambiamento di paradigma del circuito economico-finanziario incentrato sugli Stati Uniti. In questa ottica l’accenno alla collaborazione internazionale assume un significato sinistro soprattutto per quell’area, i paesi dell’Europa Occidentale, che più hanno beneficiato delle politiche economiche statunitensi del secondo dopoguerra, non a caso richiamate da Sullivan. I dati confermano il destino manifesto cui si sta condannando il continente europeo, a cominciare dai duecento miliardi su seicento totali di investimenti produttivi acquisiti dall’estero, per finire con il trasferimento di importanti aziende, tecnologie ed intere filiere specie dalle aree europee più elette. Con le privatizzazioni e le partecipazioni azionarie statunitensi varate a partire dagli anni ’90 e lo spostamento dell’orbita d’attrazione dei manager, vedi in Italia quello dell’ENI e di Leonardo, ma lo stesso e su scala più ampia vale per Francia e Germania, questa svolta trova un terreno fertile ed una resistenza flebile. L’attuale conformazione della Unione Europea è, per altro, costruita per garantire il successo di questo proposito predatorio. Il modello di ricostruzione dei ceti medi offerto all’esterno assume tutti i contorni di una riconformazione di una borghesia compradora dedita, tutt’al più, a funzioni di ordine e di gestione, al meglio, di semplici opifici. Esattamente quello che i nostri avevano intenzione di riservare alla Cina e dalla cui classe dirigente sono stati beffati; esattamente quello a cui paiono condannati, per complicità e passiva accondiscendenza, i nostri centri decisori.

Quanto ai retaggi, ne risulta almeno uno impossibile da superare, almeno in tempi ragionevoli e nelle regioni esterne all’Europa: la perdita di credibilità e di autorevolezza di un paese che ha seminato per un trentennio caos e destabilizzazione prima in maniera selettiva (Jugoslavia), poi generalizzata (primavere arabe) sino all’avvio di interventi armati proditori. Un addomesticamento sfacciato delle stesse regole formulate dai decisori statunitensi e dagli stessi spesso e volentieri eluse e riesumate a piacimento. Una caduta giunta a livelli di autentica derisione e di contestuale diffidenza da parte di classi dirigenti di paesi più o meno emergenti dei vari continenti. Il re è sempre più nudo e per ribadire la propria supremazia è costretto a ricorre sempre più alla forza, ma con esiti sempre più incerti e controproducenti. La pochezza e la irrilevanza degli appigli ai quali si è aggrappato Sullivan dice molto sul reale stato dell’arte della politica statunitense. L’ergersi a paladino dell’emancipazione dagli imperialismi altrui assume il sapore di una beffarda ed offensiva caricatura verso nuove classi dirigenti sempre più avvezze a sfruttare gli spazi aperti dal contenzioso geopolitico dei paesi emersi più significativi. Il passato di predazione e di destabilizzazione è ancora un presente tuttora operante per essere glissato e rimosso dai quattro quinti della popolazione e dei paesi del mondo. Tanto più inquietante se a cambiare il paradigma sono esattamente gli stessi centri, incapaci di ricambio, che hanno trascinato il mondo in questa situazione. Buona lettura, Giuseppe Germinario 

Osservazioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan sul rinnovamento della leadership economica americana alla Brookings Institution
CASA
SALA BRIEFING
DISCORSI E OSSERVAZIONI
COME SONO STATI PRONUNCIATI

Vorrei iniziare ringraziando tutti voi per aver concesso a un Consigliere per la Sicurezza Nazionale di discutere di economia.

Come molti di voi sanno, la settimana scorsa il Segretario Yellen ha tenuto un importante discorso sulla nostra politica economica nei confronti della Cina. Oggi vorrei soffermarmi sulla nostra politica economica internazionale in senso lato, in particolare per quanto riguarda l’impegno principale del Presidente Biden – anzi, la sua indicazione quotidiana – di integrare più profondamente la politica interna e la politica estera.

Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno guidato un mondo frammentato nella costruzione di un nuovo ordine economico internazionale. Hanno fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone. Hanno sostenuto entusiasmanti rivoluzioni tecnologiche. E ha aiutato gli Stati Uniti e molte altre nazioni del mondo a raggiungere nuovi livelli di prosperità.

Ma gli ultimi decenni hanno rivelato delle crepe in queste fondamenta. Il cambiamento dell’economia globale ha lasciato indietro molti lavoratori americani e le loro comunità.
Una crisi finanziaria ha scosso la classe media. Una pandemia ha messo in luce la fragilità delle nostre catene di approvvigionamento. Il cambiamento del clima ha minacciato vite e mezzi di sussistenza. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha sottolineato i rischi dell’eccessiva dipendenza.

Questo momento richiede quindi la formazione di un nuovo consenso.

Ecco perché gli Stati Uniti, sotto la guida del Presidente Biden, stanno perseguendo una moderna strategia industriale e di innovazione, sia a livello nazionale che con i partner di tutto il mondo. Una strategia che investa nelle fonti della nostra forza economica e tecnologica, che promuova catene di approvvigionamento globali diversificate e resilienti, che stabilisca standard elevati per tutto ciò che riguarda il lavoro e l’ambiente, la tecnologia affidabile e il buon governo, e che impieghi i capitali per realizzare beni pubblici come il clima e la salute.

L’idea che il “nuovo consenso di Washington”, come è stato definito da alcuni, riguardi in qualche modo solo l’America, o l’America e l’Occidente ad esclusione di altri, è semplicemente sbagliata.

Questa strategia costruirà un ordine economico globale più equo e duraturo, a beneficio di noi stessi e dei cittadini di tutto il mondo.

Oggi, quindi, vorrei illustrare ciò che stiamo cercando di fare. Inizierò definendo le sfide che vediamo, le sfide che dobbiamo affrontare. Per affrontarle, abbiamo dovuto rivedere alcuni vecchi presupposti. Poi illustrerò, passo dopo passo, come il nostro approccio è stato concepito per affrontare queste sfide.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica più di due anni fa, il Paese si trovava ad affrontare, dal nostro punto di vista, quattro sfide fondamentali.

In primo luogo, la base industriale americana era stata svuotata.

La visione dell’investimento pubblico che aveva animato il progetto americano negli anni del dopoguerra – e in realtà per gran parte della nostra storia – era svanita. Aveva lasciato il posto a un insieme di idee che sostenevano la riduzione delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione a scapito dell’azione pubblica e la liberalizzazione del commercio come fine a se stessa.

Alla base di tutte queste politiche c’era un presupposto: che i mercati allocano sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che fanno i nostri concorrenti, da quanto grandi siano le sfide che condividiamo e da quante barriere di protezione abbiamo abbattuto.

Ora, nessuno – di certo non io – sta scartando il potere dei mercati. Ma in nome di un’efficienza di mercato troppo semplicistica, intere catene di fornitura di beni strategici – insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono – si sono trasferite all’estero. E il postulato secondo cui una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni, non posti di lavoro e capacità, è stata una promessa fatta ma non mantenuta.

Un altro presupposto implicito era che il tipo di crescita non fosse importante. Tutta la crescita era una buona crescita. Così, varie riforme si sono combinate per privilegiare alcuni settori dell’economia, come la finanza, mentre altri settori essenziali, come i semiconduttori e le infrastrutture, si sono atrofizzati. La nostra capacità industriale, che è fondamentale per la capacità di qualsiasi Paese di continuare a innovare, ha subito un vero e proprio colpo.

Gli shock di una crisi finanziaria globale e di una pandemia globale hanno messo a nudo i limiti di queste ipotesi prevalenti.

La seconda sfida che abbiamo affrontato è stata quella di adattarci a un nuovo ambiente definito dalla competizione geopolitica e di sicurezza, con importanti impatti economici.

Gran parte della politica economica internazionale degli ultimi decenni si era basata sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo – che portare i Paesi nell’ordine basato sulle regole li avrebbe incentivati ad aderire alle sue regole.

Non è andata così. In alcuni casi sì, in molti altri no.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica, abbiamo dovuto fare i conti con la realtà che una grande economia non di mercato era stata integrata nell’ordine economico internazionale in un modo che poneva notevoli sfide.

La Repubblica Popolare Cinese ha continuato a sovvenzionare in modo massiccio sia i settori industriali tradizionali, come l’acciaio, sia le industrie chiave del futuro, come l’energia pulita, le infrastrutture digitali e le biotecnologie avanzate. L’America non ha perso solo l’industria manifatturiera, ma ha eroso la propria competitività in tecnologie critiche che avrebbero definito il futuro.

L’integrazione economica non ha impedito alla Cina di espandere le sue ambizioni militari nella regione, né alla Russia di invadere i suoi vicini democratici. Nessuno dei due Paesi è diventato più responsabile o collaborativo.

E ignorare le dipendenze economiche che si erano accumulate nei decenni di liberalizzazione era diventato davvero pericoloso: dall’incertezza energetica in Europa alle vulnerabilità della catena di approvvigionamento di attrezzature mediche, semiconduttori e minerali critici. Si trattava di dipendenze che potevano essere sfruttate per ottenere una leva economica o geopolitica.

La terza sfida che abbiamo affrontato è stata l’accelerazione della crisi climatica e l’urgente necessità di una transizione energetica giusta ed efficiente.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica, eravamo drammaticamente al di sotto delle nostre ambizioni climatiche, senza un percorso chiaro verso abbondanti forniture di energia pulita stabile e conveniente, nonostante i migliori sforzi dell’amministrazione Obama-Biden per fare progressi significativi.

Troppe persone credevano che dovessimo scegliere tra la crescita economica e il raggiungimento degli obiettivi climatici.

Il Presidente Biden ha visto le cose in modo completamente diverso. Come ha spesso detto, quando sente parlare di “clima” pensa a “posti di lavoro”. Ritiene che la costruzione di un’economia a energia pulita del XXI secolo sia una delle opportunità di crescita più significative del XXI secolo, ma che per sfruttare questa opportunità l’America abbia bisogno di una strategia di investimento deliberata e concreta per promuovere l’innovazione, ridurre i costi e creare buoni posti di lavoro.

Infine, abbiamo affrontato la sfida della disuguaglianza e dei suoi danni alla democrazia.

In questo caso, l’ipotesi prevalente era che la crescita abilitata dal commercio sarebbe stata una crescita inclusiva – che i guadagni del commercio avrebbero finito per essere ampiamente condivisi all’interno delle nazioni. Ma il fatto è che questi guadagni non hanno raggiunto molti lavoratori. La classe media americana ha perso terreno, mentre i ricchi hanno fatto meglio che mai. E le comunità manifatturiere americane sono state svuotate, mentre le industrie all’avanguardia si sono trasferite nelle aree metropolitane.

Ora, le cause della disuguaglianza economica – come molti di voi sanno meglio di me – sono complesse e includono sfide strutturali come la rivoluzione digitale. Ma la chiave di tutto è rappresentata da decenni di politiche economiche “trickle-down”, come tagli fiscali regressivi, tagli profondi agli investimenti pubblici, concentrazioni aziendali incontrollate e misure attive per minare il movimento sindacale che inizialmente ha costruito la classe media americana.

Gli sforzi per adottare un approccio diverso durante l’amministrazione Obama – compresi gli sforzi per approvare politiche per affrontare il cambiamento climatico, investire nelle infrastrutture, espandere la rete di sicurezza sociale e proteggere i diritti dei lavoratori a organizzarsi – sono stati bloccati dall’opposizione repubblicana.

E francamente, anche le nostre politiche economiche interne non hanno tenuto pienamente conto delle conseguenze delle nostre politiche economiche internazionali.

Ad esempio, il cosiddetto “shock cinese”, che ha colpito in modo particolarmente duro sacche della nostra industria manifatturiera nazionale, con impatti ampi e duraturi, non è stato adeguatamente previsto e non è stato affrontato in modo adeguato nel momento in cui si è manifestato.

E collettivamente, queste forze hanno incrinato le fondamenta socioeconomiche su cui poggia qualsiasi democrazia forte e resistente.

Ora, queste quattro sfide non erano esclusiva degli Stati Uniti. Anche le economie consolidate ed emergenti le stavano affrontando, in alcuni casi più acutamente di noi.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica, sapeva che la soluzione a ognuna di queste sfide consisteva nel ripristinare una mentalità economica favorevole alla costruzione. E questo è il cuore del nostro approccio economico. Costruire. Costruire capacità, costruire resilienza, costruire inclusione, in patria e con i partner all’estero. La capacità di produrre e innovare e di fornire beni pubblici come infrastrutture fisiche e digitali forti ed energia pulita su scala. La capacità di resistere alle catastrofi naturali e agli shock geopolitici. E l’inclusività per garantire una classe media americana forte e vivace e maggiori opportunità per i lavoratori di tutto il mondo.

Tutto questo fa parte di quella che abbiamo definito una politica estera per la classe media.

Il primo passo consiste nel gettare nuove basi in patria, con una moderna strategia industriale americana.

Il mio amico ed ex collega Brian Deese ha parlato a lungo di questa nuova strategia industriale e vi raccomando le sue osservazioni, perché sono migliori di quelle che potrei fare io sull’argomento. Ma riassumendo:

Una moderna strategia industriale americana identifica settori specifici che sono fondamentali per la crescita economica, strategici dal punto di vista della sicurezza nazionale e in cui l’industria privata da sola non è in grado di fare gli investimenti necessari per garantire le nostre ambizioni nazionali.

In questi settori vengono effettuati investimenti pubblici mirati che liberano la forza e l’ingegno dei mercati privati, del capitalismo e della concorrenza per gettare le basi di una crescita a lungo termine.

Aiuta le imprese americane a fare ciò che le imprese americane sanno fare meglio: innovare, scalare e competere.

Si tratta di favorire gli investimenti privati, non di sostituirli. Si tratta di fare investimenti a lungo termine in settori vitali per il nostro benessere nazionale, non di scegliere vincitori e vinti.

E ha una lunga tradizione in questo Paese. Infatti, anche quando il termine “politica industriale” è passato di moda, in qualche forma è rimasta silenziosamente al lavoro per l’America, dalla DARPA e Internet alla NASA e ai satelliti commerciali.

Ora, guardando al corso degli ultimi due anni, i primi risultati di questa strategia sono notevoli.

Il Financial Times ha riportato che gli investimenti su larga scala nella produzione di semiconduttori e di energia pulita sono già aumentati di 20 volte dal 2019, e un terzo degli investimenti annunciati da agosto riguarda un investitore straniero che investe qui negli Stati Uniti.

Abbiamo stimato che il totale del capitale pubblico e degli investimenti privati derivanti dall’agenda del Presidente Biden ammonterà a circa 3.500 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Consideriamo i semiconduttori, che sono tanto essenziali per i nostri beni di consumo di oggi quanto per le tecnologie che daranno forma al nostro futuro, dall’intelligenza artificiale all’informatica quantistica alla biologia sintetica.

Oggi l’America produce solo il 10% circa dei semiconduttori mondiali e la produzione, in generale e soprattutto per quanto riguarda i chip più avanzati, è geograficamente concentrata altrove.

Questo crea un rischio economico critico e una vulnerabilità per la sicurezza nazionale. Grazie alla legge bipartisan CHIPS and Science Act, abbiamo già assistito a un aumento di ordini di grandezza degli investimenti nell’industria americana dei semiconduttori. E siamo ancora agli inizi.

Oppure consideriamo i minerali critici, la spina dorsale del futuro dell’energia pulita. Oggi gli Stati Uniti producono solo il 4% del litio, il 13% del cobalto, lo 0% del nichel e lo 0% della grafite necessari per soddisfare l’attuale domanda di veicoli elettrici. Nel frattempo, oltre l’80% dei minerali critici viene lavorato da un solo Paese, la Cina.

Le catene di approvvigionamento di energia pulita rischiano di essere armate come il petrolio negli anni ’70 o il gas naturale in Europa nel 2022. Quindi, attraverso gli investimenti nell’Inflation Reduction Act e nella Bipartisan Infrastructure Law, stiamo agendo.

Allo stesso tempo, non è fattibile o auspicabile costruire tutto a livello nazionale. Il nostro obiettivo non è l’autarchia, ma la resilienza e la sicurezza delle nostre catene di approvvigionamento.

Ora, costruire la nostra capacità interna è il punto di partenza. Ma lo sforzo si estende oltre i nostri confini. E questo mi porta alla seconda fase della nostra strategia: lavorare con i nostri partner per garantire che anche loro costruiscano capacità, resilienza e inclusione.

Il nostro messaggio a loro è stato coerente: Porteremo avanti la nostra strategia industriale a casa, ma ci impegniamo senza ambiguità a non lasciare indietro i nostri amici. Vogliamo che si uniscano a noi. Anzi, abbiamo bisogno che si uniscano a noi.

La creazione di un’economia sicura e sostenibile di fronte alle realtà economiche e geopolitiche richiederà a tutti i nostri alleati e partner di fare di più, e non c’è tempo da perdere. Per settori come i semiconduttori e l’energia pulita, non siamo neanche lontanamente vicini al punto di saturazione globale degli investimenti necessari, pubblici o privati.

In definitiva, il nostro obiettivo è una base tecno-industriale forte, resiliente e all’avanguardia su cui gli Stati Uniti e i loro partner affini, sia le economie consolidate che quelle emergenti, possano investire e fare affidamento insieme.

Il Presidente Biden e il Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ne hanno parlato qui a Washington il mese scorso.

Hanno rilasciato una dichiarazione molto importante che, se non avete letto, vi invito a leggere. Il fulcro della dichiarazione è il seguente: al centro della transizione energetica devono esserci coraggiosi investimenti pubblici nelle nostre rispettive capacità industriali. La Presidente von der Leyen e il Presidente Biden si sono impegnati a lavorare insieme per garantire che le catene di approvvigionamento del futuro siano resilienti, sicure e rispecchino i nostri valori, compreso quello del lavoro.

Nella dichiarazione hanno illustrato le misure pratiche per raggiungere questi obiettivi, come l’allineamento dei rispettivi incentivi per l’energia pulita su entrambe le sponde dell’Atlantico e l’avvio di un negoziato sulle catene di approvvigionamento di minerali e batterie essenziali.

Poco dopo, il Presidente Biden si è recato in Canada. Insieme al Primo Ministro Justin Trudeau ha istituito una task force per accelerare la cooperazione tra Canada e Stati Uniti esattamente con lo stesso obiettivo: garantire l’approvvigionamento di energia pulita e creare posti di lavoro per la classe media su entrambi i lati del confine.

E pochi giorni dopo, gli Stati Uniti e il Giappone hanno firmato un accordo che approfondisce la nostra cooperazione sulle catene di approvvigionamento di minerali critici.

Stiamo quindi sfruttando l’Inflation Reduction Act per costruire un ecosistema di produzione di energia pulita radicato nelle catene di approvvigionamento qui in Nord America ed esteso all’Europa, al Giappone e altrove.

È così che trasformeremo l’IRA da fonte di attrito a fonte di forza e affidabilità. Sospetto che sentirete parlare ancora di questo al vertice del G7 a Hiroshima il mese prossimo.

La nostra cooperazione con i partner non si limita all’energia pulita.

Per esempio, stiamo lavorando con i nostri partner – Europa, Repubblica di Corea, Giappone, Taiwan e India – per coordinare i nostri approcci agli incentivi per i semiconduttori.

Le proiezioni degli analisti sulla destinazione degli investimenti nei semiconduttori nei prossimi tre anni sono cambiate drasticamente, e gli Stati Uniti e i partner chiave sono ora in cima alle classifiche.

Vorrei anche sottolineare che la nostra cooperazione con i partner non si limita alle democrazie industriali avanzate.

Fondamentalmente, dobbiamo – e intendiamo farlo – sfatare l’idea che i partenariati più importanti per l’America siano solo quelli con le economie consolidate. Non solo dicendolo, ma anche dimostrandolo. Dimostrandolo con l’India su tutto, dall’idrogeno ai semiconduttori. Dimostrandolo con l’Angola sull’energia solare a zero emissioni. Dimostrandolo con l’Indonesia, con la sua Just Energy Transition Partnership. Dimostrarlo con il Brasile, con una crescita rispettosa del clima.

Questo mi porta al terzo passo della nostra strategia: andare oltre i tradizionali accordi commerciali per passare a nuovi partenariati economici internazionali innovativi incentrati sulle sfide fondamentali del nostro tempo.

Il principale progetto economico internazionale degli anni ’90 è stato la riduzione delle tariffe. In media, le tariffe applicate dagli Stati Uniti sono state quasi dimezzate nel corso degli anni Novanta. Oggi, nel 2023, il nostro tasso tariffario medio ponderato per il commercio è pari al 2,4%, un valore storicamente basso rispetto ad altri Paesi.

Naturalmente, queste tariffe non sono uniformi e c’è ancora del lavoro da fare per ridurre i livelli tariffari in molti altri Paesi. Come ha detto l’ambasciatore Tai, “non abbiamo rinunciato alla liberalizzazione del mercato”. Intendiamo perseguire accordi commerciali moderni. Ma definire o misurare la nostra intera politica sulla base della riduzione delle tariffe doganali non coglie un aspetto importante.

Chiedere quale sia la nostra politica commerciale oggi – inquadrata come un piano per ridurre ulteriormente le tariffe – è semplicemente la domanda sbagliata. La domanda giusta è: come si inserisce il commercio nella nostra politica economica internazionale e quali problemi cerca di risolvere?

Il progetto degli anni 2020 e 2030 è diverso da quello degli anni Novanta.

Conosciamo i problemi che dobbiamo risolvere oggi: Creare catene di approvvigionamento diversificate e resilienti. Mobilitare gli investimenti pubblici e privati per una giusta transizione energetica pulita e una crescita economica sostenibile. Creare buoni posti di lavoro lungo il percorso, posti di lavoro che sostengano le famiglie. Garantire la fiducia, la sicurezza e l’apertura della nostra infrastruttura digitale. Fermare la corsa al ribasso nella tassazione delle imprese. Rafforzare le tutele per il lavoro e l’ambiente. Affrontare la corruzione. Si tratta di una serie di priorità fondamentali diverse dalla semplice riduzione delle tariffe.

Abbiamo progettato gli elementi di un’ambiziosa iniziativa economica regionale, l’Indo-Pacific Economic Framework, per concentrarci su questi problemi e risolverli. Stiamo negoziando con tredici Paesi dell’Indo-Pacifico capitoli che accelereranno la transizione verso l’energia pulita, implementeranno l’equità fiscale e combatteranno la corruzione, stabiliranno standard elevati per la tecnologia e garantiranno catene di approvvigionamento più resistenti per beni e fattori di produzione essenziali.

Permettetemi di parlare un po’ più concretamente. Se l’IPEF fosse stato in funzione quando il COVID ha devastato le nostre catene di approvvigionamento e le fabbriche erano ferme, saremmo stati in grado di reagire più rapidamente – aziende e governi insieme – passando a nuove opzioni per l’approvvigionamento e la condivisione dei dati in tempo reale. Ecco come può apparire un nuovo approccio a questo e a molti altri problemi.

Il nostro nuovo Partenariato delle Americhe per la prosperità economica, lanciato con alcuni dei nostri partner chiave qui nelle Americhe, mira allo stesso insieme di obiettivi di base.

Nel frattempo, attraverso il Consiglio per il commercio e la tecnologia tra Stati Uniti e Unione Europea e il coordinamento trilaterale con il Giappone e la Corea, stiamo coordinando le nostre strategie industriali per completarci a vicenda ed evitare una corsa al ribasso da parte di tutti coloro che competono per gli stessi obiettivi.

Alcuni hanno guardato a queste iniziative dicendo: “Ma non sono accordi di libero scambio tradizionali”. È proprio questo il punto. Per i problemi che stiamo cercando di risolvere oggi, il modello tradizionale non è sufficiente.

L’era dei rattoppi politici a posteriori e delle vaghe promesse di ridistribuzione è finita. Abbiamo bisogno di un nuovo approccio.

In poche parole: nel mondo di oggi, la politica commerciale non deve limitarsi alla riduzione delle tariffe e deve essere pienamente integrata nella nostra strategia economica, sia all’interno che all’estero.

Allo stesso tempo, l’Amministrazione Biden sta sviluppando una nuova strategia globale per il lavoro che fa avanzare i diritti dei lavoratori attraverso la diplomazia, e la sveleremo nelle prossime settimane.

La strategia si basa su strumenti come il meccanismo di risposta rapida del lavoro nell’USMCA, che fa rispettare i diritti di associazione e contrattazione collettiva dei lavoratori. Proprio questa settimana, infatti, abbiamo risolto il nostro ottavo caso con un accordo che ha migliorato le condizioni di lavoro: una vittoria per i lavoratori messicani e per la competitività americana.

Stiamo continuando a guidare un accordo storico con 136 Paesi per porre finalmente fine alla corsa al ribasso sulle imposte societarie che danneggiano la classe media e i lavoratori. Ora il Congresso deve dare seguito alla legislazione di attuazione, e noi stiamo lavorando per farlo.

Inoltre, stiamo adottando un altro tipo di approccio nuovo che riteniamo un’impronta fondamentale per il futuro: collegare il commercio e il clima in un modo che non è mai stato fatto prima. L’accordo globale sull’acciaio e l’alluminio che stiamo negoziando con l’Unione Europea potrebbe essere il primo grande accordo commerciale ad affrontare sia l’intensità delle emissioni che l’eccesso di capacità. E se riusciamo ad applicarlo all’acciaio e all’alluminio, possiamo valutare come applicarlo anche ad altri settori. Possiamo contribuire a creare un circolo virtuoso e garantire che i nostri concorrenti non ottengano vantaggi degradando il pianeta.

Ora, per coloro che hanno posto la domanda, l’Amministrazione Biden è ancora impegnata nell’OMC e nei valori condivisi su cui si basa: concorrenza leale, apertura, trasparenza e stato di diritto. Ma le sfide serie, in particolare le pratiche e le politiche economiche non di mercato, minacciano questi valori fondamentali. Ecco perché stiamo lavorando con molti altri membri dell’OMC per riformare il sistema commerciale multilaterale in modo che sia vantaggioso per i lavoratori, che tenga conto dei legittimi interessi di sicurezza nazionale e che affronti questioni urgenti che non sono pienamente integrate nell’attuale quadro dell’OMC, come lo sviluppo sostenibile e la transizione verso l’energia pulita.

In sintesi, in un mondo trasformato dalla transizione verso l’energia pulita, da economie emergenti dinamiche, dalla ricerca della resilienza della catena di approvvigionamento, dalla digitalizzazione, dall’intelligenza artificiale e dalla rivoluzione delle biotecnologie, il gioco non è più lo stesso.

La nostra politica economica internazionale deve adattarsi al mondo così com’è, in modo da poter costruire il mondo che vogliamo.

Questo mi porta al quarto passo della nostra strategia: mobilitare trilioni di investimenti nelle economie emergenti – con soluzioni che quei Paesi stanno elaborando da soli, ma con capitali resi possibili da un diverso marchio di diplomazia statunitense.

Abbiamo avviato un grande sforzo per far evolvere le banche multilaterali di sviluppo in modo che siano all’altezza delle sfide di oggi. Il 2023 è un anno importante.

Come ha sottolineato il Segretario Yellen, dobbiamo aggiornare i modelli operativi delle banche, soprattutto della Banca Mondiale, ma anche delle banche di sviluppo regionali. Dobbiamo ampliare i loro bilanci per affrontare i cambiamenti climatici, le pandemie, la fragilità e i conflitti. E dobbiamo ampliare l’accesso a finanziamenti agevolati e di alta qualità per i Paesi a basso e medio reddito, che devono affrontare sfide che vanno oltre i confini di ogni singola nazione.

Il mese scorso abbiamo assistito a un primo passo in avanti su questa agenda, ma dovremo fare molto di più.

E siamo entusiasti della nuova leadership di Ajay Banga alla Banca Mondiale per trasformare questa visione in realtà.

Contemporaneamente all’evoluzione delle banche multilaterali di sviluppo, abbiamo lanciato un grande sforzo per colmare il divario infrastrutturale nei Paesi a basso e medio reddito. Lo chiamiamo Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali (PGII). Il PGII mobiliterà centinaia di miliardi di dollari in finanziamenti per infrastrutture energetiche, fisiche e digitali da qui alla fine del decennio.

A differenza dei finanziamenti previsti dalla Belt and Road Initiative, i progetti del PGII sono trasparenti, di alto livello e al servizio di una crescita a lungo termine, inclusiva e sostenibile. In poco meno di un anno dall’avvio di questa iniziativa, abbiamo già realizzato investimenti significativi, dalle miniere necessarie per alimentare i veicoli elettrici ai cavi di telecomunicazione sottomarini globali.

Allo stesso tempo, siamo anche impegnati ad affrontare le difficoltà del debito di un numero sempre maggiore di Paesi vulnerabili. Abbiamo bisogno di un vero sollievo, non solo di “proroghe e finzioni”. E dobbiamo che tutti i creditori bilaterali, ufficiali e privati, condividano l’onere.

Tra questi c’è anche la Cina, che ha lavorato per costruire la sua influenza attraverso prestiti massicci al mondo emergente, quasi sempre con vincoli. Condividiamo l’opinione di molti altri che la Cina debba ora farsi avanti come forza costruttiva nell’assistenza ai Paesi in difficoltà.

Infine, stiamo proteggendo le nostre tecnologie fondamentali con un piccolo cortile e un’alta recinzione.

Come ho già detto in precedenza, il nostro compito è quello di inaugurare una nuova ondata di rivoluzione digitale che garantisca che le tecnologie di nuova generazione lavorino a favore, e non contro, le nostre democrazie e la nostra sicurezza.

Abbiamo implementato restrizioni accuratamente personalizzate sulle esportazioni in Cina delle tecnologie più avanzate per i semiconduttori. Queste restrizioni si basano su semplici preoccupazioni di sicurezza nazionale. I principali alleati e partner hanno seguito il nostro esempio, in linea con le loro preoccupazioni in materia di sicurezza.

Stiamo anche migliorando lo screening degli investimenti stranieri in aree critiche per la sicurezza nazionale. E stiamo facendo progressi nell’affrontare gli investimenti in uscita in tecnologie sensibili con un nesso fondamentale con la sicurezza nazionale.

Si tratta di misure su misura. Non sono, come dice Pechino, un “blocco tecnologico”. Non sono rivolte alle economie emergenti. Si concentrano su una fetta ristretta di tecnologia e su un piccolo numero di Paesi che intendono sfidarci militarmente.

Una parola sulla Cina in senso più ampio. Come ha detto di recente la Presidente von der Leyen, noi siamo per il de-risking e la diversificazione, non per il disaccoppiamento. Continueremo a investire nelle nostre capacità e in catene di approvvigionamento sicure e resistenti. Continueremo a spingere per ottenere condizioni di parità per i nostri lavoratori e le nostre aziende e a difenderci dagli abusi.

I nostri controlli sulle esportazioni rimarranno strettamente concentrati sulla tecnologia che potrebbe alterare l’equilibrio militare. Stiamo semplicemente assicurando che la tecnologia statunitense e alleata non venga usata contro di noi. Non stiamo tagliando gli scambi commerciali.

In realtà, gli Stati Uniti continuano ad avere relazioni commerciali e di investimento molto importanti con la Cina. L’anno scorso il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina ha stabilito un nuovo record.

Ora, se ci si allontana dall’economia, siamo in competizione con la Cina su più dimensioni, ma non cerchiamo il confronto o il conflitto. Cerchiamo di gestire la concorrenza in modo responsabile e di collaborare con la Cina dove è possibile. Il Presidente Biden ha detto chiaramente che gli Stati Uniti e la Cina possono e devono collaborare su sfide globali come il clima, la stabilità macroeconomica, la sicurezza sanitaria e alimentare.

Per gestire la concorrenza in modo responsabile, in definitiva, occorrono due parti disposte a collaborare. È necessario un certo grado di maturità strategica per accettare che dobbiamo mantenere aperte le linee di comunicazione anche quando intraprendiamo azioni per competere.

Come ha detto la scorsa settimana il Segretario Yellen nel suo discorso su questo tema, possiamo difendere i nostri interessi di sicurezza nazionale, avere una sana competizione economica e lavorare insieme dove possibile, ma la Cina deve essere disposta a fare la sua parte.

Quindi, che cosa significa avere successo?

Il mondo ha bisogno di un sistema economico internazionale che funzioni per i nostri salariati, per le nostre industrie, per il nostro clima, per la nostra sicurezza nazionale e per i Paesi più poveri e vulnerabili del mondo.

Ciò significa sostituire un approccio unico incentrato sui presupposti troppo semplici che ho esposto all’inizio del mio discorso con uno che incoraggi investimenti mirati e necessari in luoghi che i mercati privati non sono in grado di affrontare da soli, anche se continuiamo a sfruttare la potenza dei mercati e dell’integrazione.

Significa dare spazio ai partner di tutto il mondo per ripristinare i patti tra i governi e i loro elettori e lavoratori.

Significa fondare questo nuovo approccio su una profonda cooperazione e trasparenza, per garantire che i nostri investimenti e quelli dei partner si rafforzino e siano vantaggiosi per entrambi.

E significa ritornare alla convinzione fondamentale che abbiamo sostenuto per la prima volta 80 anni fa: che l’America dovrebbe essere al centro di un sistema finanziario internazionale vibrante che permetta ai partner di tutto il mondo di ridurre la povertà e aumentare la prosperità condivisa. E che una rete di sicurezza sociale funzionante per i Paesi più vulnerabili del mondo sia essenziale per i nostri interessi fondamentali.

Significa anche costruire nuove norme che ci permettano di affrontare le sfide poste dall’intersezione tra tecnologia avanzata e sicurezza nazionale, senza ostacolare il commercio e l’innovazione in senso lato.

Questa strategia richiederà risolutezza, un impegno dedicato a superare le barriere che hanno impedito a questo Paese e ai nostri partner di costruire in modo rapido, efficiente ed equo come abbiamo potuto fare in passato.

Ma è la strada più sicura per ripristinare la classe media, per produrre una transizione energetica pulita giusta ed efficace, per garantire le catene di approvvigionamento critiche e, attraverso tutto questo, per ripristinare la fiducia nella democrazia stessa.

Come sempre, per avere successo abbiamo bisogno della piena collaborazione bipartisan del Congresso.

Abbiamo bisogno del sostegno del Congresso per rilanciare la capacità unica dell’America di attrarre e trattenere i talenti più brillanti di tutto il mondo.

Abbiamo bisogno della piena collaborazione del Congresso nelle nostre iniziative di riforma dei finanziamenti allo sviluppo.

E dobbiamo raddoppiare gli investimenti in infrastrutture, innovazione ed energia pulita. La nostra sicurezza nazionale e la nostra vitalità economica dipendono da questo.

Permettetemi di concludere con questo.

Il Presidente Kennedy amava dire che “una marea crescente solleva tutte le barche”. Nel corso degli anni, i sostenitori dell’economia trickle-down si sono appropriati di questa frase per i loro usi.

Ma il Presidente Kennedy non stava dicendo che ciò che è buono per i ricchi è buono per la classe operaia. Stava dicendo che siamo tutti coinvolti in questa situazione.

E guardate cosa ha detto dopo: “Se una parte del Paese è ferma, prima o poi la marea calante fa cadere tutte le barche”.

Questo vale per il nostro Paese. È vero per il nostro mondo. Alla fine, economicamente, col tempo, ci alzeremo o cadremo insieme.

E questo vale sia per la forza delle nostre democrazie sia per la forza delle nostre economie.

Nel perseguire questa strategia in patria e all’estero, ci sarà un ragionevole dibattito. E ci vorrà del tempo. L’ordine internazionale che è emerso dopo la fine della Seconda guerra mondiale e poi della Guerra fredda non è stato costruito in una notte. Non lo sarà nemmeno questo.

Ma insieme possiamo lavorare per risollevare tutti i cittadini, le comunità e le industrie americane, e possiamo fare lo stesso con i nostri amici e partner in tutto il mondo.

Questa è la visione che l’Amministrazione Biden deve e vuole realizzare.

Questo è ciò che ci guida nel prendere le nostre decisioni politiche all’intersezione tra economia, sicurezza nazionale e democrazia.

E questo è il lavoro che faremo non solo come governo, ma con ogni elemento degli Stati Uniti e con il sostegno e l’aiuto dei partner, sia all’interno che all’esterno del governo, in tutto il mondo.

https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2023/04/27/remarks-by-national-security-advisor-jake-sullivan-on-renewing-american-economic-leadership-at-the-brookings-institution/

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L’AFU subisce crolli spaventosi mentre le forze russe respingono una nuova avanzata, di SIMPLICIUS THE THINKER

L’AFU subisce crolli spaventosi mentre le forze russe respingono una nuova avanzata

La notizia più importante degli ultimi giorni è stata la rivelazione che Putin ha fatto alla delegazione africana in visita che stava cercando di mediare un dialogo di pace tra Russia e Ucraina, dopo che alcuni di loro avevano appena incontrato Zelensky a Kiev.

Per la prima volta, Putin ha rivelato documenti di negoziazione segreti mai visti prima, che sarebbero stati elaborati durante i colloqui di pace di Istanbul, svoltisi alla fine di marzo del 2022. Molti si dichiarano sorpresi dal fatto che Putin abbia legato gli accordi proposti a Istanbul al ritiro di Kiev, ma in realtà questo era già stato riportato all’epoca, ad esempio qui su RT in un articolo del 29/3/22:

Ma ora analizzeremo la questione nel dettaglio e spiegheremo anche perché ritengo che Putin non sia stato del tutto onesto nella sua ammissione. Innanzitutto, ecco il video di Putin che si rivolge alla delegazione africana:

E un grande ringraziamento a @mylordbebo per fornire sempre le traduzioni migliori e più tempestive, seguitelo su Twitter/Telegram.

Quindi, la rivelazione più importante sono state le copie reali mostrate di alcune pagine che raffiguravano il numero esatto di truppe e armi che Kiev sarebbe stata autorizzata a mantenere come parte dell’accordo di cessate il fuoco:

La colonna di numeri a sinistra è ciò che Kiev voleva poter mantenere, i numeri corrispondenti a destra del numero di Kiev è ciò che la Russia chiedeva di ridurre a ciascun sistema.

L’elenco dichiarato è il seguente: :

A quanto pare, si tratta di una bozza di documento, che include le posizioni di Ucraina e Russia. Il grassetto indica il numero di truppe e di equipaggiamenti che Kiev vuole avere, mentre il corsivo indica la versione di Mosca (che chiede all’Ucraina quanto equipaggiamento militare deve avere). Per esempio, l’Ucraina voleva 800 carri armati, mentre la Russia ne offre 342.L’Ucraina voleva 2400 veicoli corazzati da combattimento, la Russia – 1029.Kiev prevedeva anche di tenere 1900 pezzi di artiglieria, Mosca – 519.In termini di personale – l’Ucraina offriva 250 mila, la Russia – 85 mila persone, senza contare la Guardia Nazionale (Guardia Nazionale fino a 15 mila persone).Dal passaggio si evince che le parti non si sono accordate su questo tema.Ma è generalmente confermato che l’Ucraina era pronta a discutere con la Russia la dimensione delle sue forze armate. Se, naturalmente, questo documento è autentico (e sembra che lo sia), l’Ucraina non ne ha ancora confermato l’autenticità. Carri armati – 342 BBM (veicoli corazzati da combattimento) – 1029 Pezzi di artiglieria – 519 Mortai – 147 MANPADS – 608 Aerei di supporto al combattimento – 102 Numero di truppe da combattimento (soldati) fino a 85.000 persone Guardia Nazionale 15.000 persone

In breve: la Russia ha chiesto che l’Ucraina possa avere solo un massimo di 85k truppe da combattimento in totale, un massimo di 342 carri armati, ecc. Tutto ciò è ovviamente piuttosto ridotto, dato che l’Ucraina avrebbe avuto 2000-4000 carri armati, a seconda di come li si conta.

Come dichiarato da Putin, i rappresentanti di Kiev avrebbero firmato il documento, ma la teoria corrente è che Boris Johnson sia venuto a portare a Zelensky i suoi nuovi ordini di marcia, che consistevano nell’annullare l’accordo.

E in effetti, abbiamo alcune prove che questo è il caso. ArmchairWarlord ha un buon thread al riguardo che mostra quanto segue:

Warlord ha scritto:

Sembra che la NATO abbia promesso a Zelensky non solo un sostegno illimitato, ma anche una superarma vincente per indurlo a denunciare l’accordo. Questo ha portato direttamente alla fornitura, a partire dalla fine di aprile del 2022, di grandi quantità di armi di precisione occidentali collegate a tutto l’apparato di intelligence e sorveglianza della NATO. Nessun’altra escalation del sostegno occidentale si è lontanamente avvicinata a questa per importanza. Questo spiega perché gli HIMARS – l’arma di superficie più pericolosa dell’America e un enorme salto di qualità rispetto ai precedenti missili a spalla – sono arrivati in Ucraina così presto e quando l’AFU disponeva ancora di notevoli forze missilistiche e missilistiche.

In breve, egli collega l’improvviso fallimento dell’accordo di Istanbul all’immediato afflusso di quantità massicce di attrezzature statunitensi di ultima generazione, come gli HIMAR. Ciò sembra indicare logicamente che, in cambio dell’annullamento dell’accordo, a Zelensky sono stati promessi in segreto finanziamenti illimitati e supporto militare come esca. Bloccato tra due strade: la pace o la possibilità di passare alla storia come l’unico uomo in grado di fare ciò che Gengis Khan, Napoleone e Hitler non sono riusciti a fare, Zelensky ha scelto di affidarsi all’invincibilità della NATO.

La giornalista ucraina Diana Panchenko ha confermato l’accaduto:

💥💥💥La giornalista ucraina Diana Panchenko ha parlato del Trattato di pace di Istanbul lo scorso anno: “So per certo che la guerra avrebbe potuto essere fermata già a marzo. Me l’ha detto un uomo della cerchia ristretta di Zelensky: Abbiamo semplicemente abbandonato i russi a marzo. Se ne vantava… Amici, li conosco tutti personalmente. Mi rivolgo agli ucraini. Siete governati da sociopatici. Che non capiscono le conseguenze”.

💥💥💥

Inoltre, qualcuno ha menzionato che il frontespizio della bozza di accordo era datato non molto tempo dopo il massacro di Bucha, che secondo loro è stato probabilmente responsabile del ritiro dell’Ucraina dall’accordo. Questo suggerisce la possibilità che qualche squadra della morte interna all’SBU abbia compiuto il massacro di Bucha su ordine della CIA per mandare deliberatamente a monte l’accordo.

Ma torniamo indietro e spieghiamo perché ritengo che Putin abbia agito in modo leggermente subdolo. Non in modo malizioso o subdolo, di per sé. Ma credo che il ritiro della Russia da Kiev non fosse solo parte di un accordo “benevolo”, ma fosse già un fatto compiuto. Lo sappiamo perché Putin ha precedentemente riclassificato altri ritiri di questo tipo in una luce positiva, come ad esempio il “gesto di buona volontà” di cedere l’Isola dei Serpenti, che la leadership russa ha finto essere parte del suo accordo benevolo sul grano e sul corridoio di Odessa. In realtà, la Russia si era fatta fregare nel gioco d’azzardo dell’Isola dei Serpenti: è un fatto semplice che non possiamo ignorare. Si sarebbe comunque ritirata perché era indifendibile. Quindi, quale modo migliore di ritirarsi se non quello di ri-caratterizzare il ritiro in una luce positiva che lo faccia apparire più come una manovra deliberata che come un riorientamento strategico?

Il fatto è che il Ministero della Difesa russo sapeva che l’operazione a Kiev era diventata insostenibile a causa del fallimento dell’obiettivo originario e che un completo riorientamento militare verso il Donbass era ora essenziale per consolidare le linee. Si sarebbero ritirati in ogni caso, quindi era meglio ricolorare l’evento sotto una luce diversa, per motivi di pubblicità. Lo fanno tutti, non è una sorpresa.

Tuttavia, non confondete le mie parole. La Russia non è stata “battuta” a Kiev o nei dintorni. Sapevano semplicemente che il futuro avanzamento era sfavorevole a causa delle disparità di forze e della mancanza di truppe russe in quel momento. Ma per quanto riguarda chi stava vincendo nei dintorni di Kiev, ho già dimostrato in precedenza che abbiamo ampie prove che la Russia stava dominando abbastanza facilmente l’AFU in quel momento. Una di queste prove è il fatto che la Russia aveva catturato una quantità senza precedenti di AFU letteralmente diversi giorni prima di ritirarsi.

Per esempio, controllate la data di questo video del 26 marzo e di questo del 22 marzo.

Si trattava di enormi lotti di qualcosa come 150-200 soldati catturati proprio alla periferia di Kiev, dove le forze russe stavano ancora dominando e avanzando. All’epoca non c’era altro che forze di difesa territoriale scarsamente addestrate.

Ora controllate la data del ritiro della Russia da Kiev:

Quindi, hanno catturato centinaia di truppe il 26 marzo, per poi ritirarsi il 2 aprile, solo pochi giorni dopo. Il fatto è che il ritiro non ha avuto nulla a che fare con una sorta di sconfitta militare. La Russia controllava la situazione. Il problema era che il Ministero della Difesa russo si rendeva conto che “controllare la situazione” era tutto ciò che poteva fare, poiché non aveva abbastanza truppe per fare progressi maggiori, come circondare completamente Kiev o conquistarla.

Quindi, come ho detto, si sarebbero ritirati comunque per semplici ragioni militari, ma Putin ha saggiamente trasformato una situazione persa in un potenziale colpo di grazia politico facendo credere che la Russia stesse offrendo un dono generoso in cambio delle loro richieste.

Ciò che voglio dire, tuttavia, riguardo alle rivelazioni sull’incontro di Putin in generale, è che gettano una nuova luce interessante sui processi di pensiero all’interno del Cremlino e, soprattutto, del Ministero della Difesa in quel momento. Sembra plausibile che la Russia potesse essere messa molto peggio di quanto pensassimo, in termini di preparazione e di potenziale economico a lungo termine per un conflitto importante. Perché la conferma che hanno effettivamente preso in considerazione la possibilità di porre fine all’intera SMO in quel momento può solo significare che il Ministero della Difesa russo non la pensava in modo favorevole o non era fiducioso di continuare.

La più grande questione irrisolta, che per me confermerebbe l’ipotesi di cui sopra, è quale territorio, esattamente, facesse parte dell’accordo. Non sono riuscito a trovare alcuna conferma definitiva. Un articolo del MSM sostiene che la Russia ha accettato di tornare alla posizione del 23 febbraio. Ciò significherebbe rinunciare a tutta Mariupol e al corridoio del ponte terrestre di Crimea che la Russia aveva già conquistato all’inizio di marzo (per non parlare di Kherson). Troverei difficile credere che Putin rinuncerebbe a tutto questo. Tuttavia, se questo facesse effettivamente parte dell’accordo, confermerebbe la mia ipotesi di cui sopra, secondo la quale la Russia si sentiva in una posizione militarmente piuttosto scarsa.

Se, invece, l’accordo fosse stato quello di mantenere almeno il corridoio preso, allora sarebbe stato molto più comprensibile, in quanto la breve incursione “SMO” avrebbe di fatto fruttato alla Russia un risultato spettacolare in una o due settimane scarse di combattimenti, dal momento che il ponte terrestre della Crimea è indispensabile. Ma qui la questione si fa complessa: da un lato non vedo come ciò sarebbe stato possibile, dato che a quel punto avevano “circondato” Mariupol, ma non l’avevano catturata. Quindi “mantenere il ponte di terra” significherebbe possedere il territorio intorno a Mariupol mentre la città stessa è controllata da Kiev: non avrebbe senso.

Ma ecco il punto cruciale: Putin aveva appena decretato la completa indipendenza di DPR e LPR il giorno prima dell’inizio della SMO. E Mariupol si trova all’interno della Repubblica Popolare di Donetsk. Quindi, a giudicare da questo, non riesco a concepire come – secondo il MSM – la Russia fosse disposta a “tornare alle linee precedenti al 23 febbraio” quando ciò violerebbe il decreto costituzionale che Putin aveva appena firmato. Significherebbe che la Russia ha riconosciuto legalmente la Repubblica Popolare di Donetsk come Stato sovrano, ma allo stesso tempo un’importante città di quella Repubblica è di fatto occupata da un regime nemico.

Non so come abbiano pensato di risolvere la questione e forse scopriremo ulteriori informazioni.

Ma il punto importante da ricordare di tutto ciò è il seguente: alcuni si scherniranno e diranno che Putin era pronto a vendersi senza realizzare l’SMO e tutte le altre baggianate. Ma ricordate quello che ho appena detto: Putin aveva già realizzato letteralmente la parte più significativa dell’intera SMO giorni prima che la SMO stessa iniziasse:

Il 21 febbraio ha dato piena indipendenza legale a Lugansk e Donetsk. La maggior parte delle persone probabilmente si è dimenticata di questo piccolo fatto. Ciò significa che da questo momento in poi, agli occhi della Costituzione russa, non solo Lugansk/Donetsk sarebbero stati sovrani con cui la Russia può firmare qualsiasi accordo militare/economico/civile, ma ha anche aperto la strada all’eventuale annessione completa di queste repubbliche alla Russia, SMO o meno.

L’unica grande incognita è ovviamente il fatto che non tutto il territorio di Lugansk/Donetsk era effettivamente sotto il controllo di queste repubbliche, come la già citata Mariupol. Tuttavia, il fatto di aver concesso loro l’indipendenza sarebbe stato più che utile per l’intera durata della breve SMO, anche se questa fosse terminata come previsto dagli accordi di Istanbul. Ovviamente, la Russia sapeva che le future provocazioni di Kiev avrebbero comunque portato a una ripresa delle ostilità, e che la Russia avrebbe poi riconquistato il resto del territorio della LDPR, ma avrebbe dato alle forze armate russe il tempo di prepararsi, ora che vedevano con cosa avevano veramente a che fare.

L’ultima cosa da dire a questo proposito è che da un lato alcuni potrebbero sollevare la possibilità che, poiché Putin ha ora chiaramente dimostrato di essere disposto a porre fine alla SMO attraverso un negoziato in precedenza, ciò significa che la probabilità che lo faccia nel prossimo futuro per “congelare il conflitto” è quindi alta. A questo pensiero vorrei contrapporre il fatto che, ironia della sorte, Putin ha utilizzato questa esposizione e i documenti come una deliberata e ben preparata confutazione delle proposte di pace della delegazione africana. Quindi, per certi versi, la sua presentazione ha dimostrato il contrario: che la posizione russa si sta consolidando in un impegno indomito a mantenere la rotta.

Putin sapeva che la delegazione era lì per portare un’offerta di pace, e quindi ha deliberatamente preparato la più potente confutazione possibile, che ha comportato la sostanziale manovra di declassificazione di documenti segreti di accordo, il tutto per dichiarare con grande coraggio che la Russia non firmerà altri accordi perché Kiev ha già infranto quello precedentemente firmato. Questo è il motivo principale per cui ha usato il ritiro di Kiev come “gesto di buona volontà”, per sottolineare con più forza che la Russia ha già mostrato la sua mano più caritatevole e non cadrà di nuovo in questo “trucco”.

Passiamo ora all'”offensiva” in corso. Kiev ha fatto un altro importante tentativo di violare le linee di protezione avanzate della Russia. Ieri sera diversi corrispondenti in prima linea hanno riferito in modo apoplettico che l’assalto è stato una delle più brutali sconfitte delle forze AFU di tutta la guerra. Le cifre delle vittime sarebbero estremamente elevate, poiché le forze di Kiev sono state gettate a capofitto nella battaglia senza un grande supporto di mezzi pesanti, contando questa volta apparentemente sui loro mezzi leggeri per attraversare le zone grigie.

Hanno utilizzato alcune nuove tattiche, come l’uso del fumo, oltre a quelle già citate. Naturalmente, la parte ucraina sostiene che la spinta è riuscita, in quanto sono riusciti a catturare il piccolo borgo di Piatykatki, proprio alla periferia di Lobkove, a sud-ovest di Orekhov.

Ma a giudicare dalla nuova ondata di foto e video, sembra che i rapporti sulle “perdite mostruose” siano nel giusto campo. La cosa più notevole è stata l’enorme aumento delle catture di prigionieri di guerra, più di qualsiasi altro giorno recente (leggero avviso 18+):

In effetti, i rapporti affermano che solo ieri sono stati catturati 300 prigionieri di guerra, anche se un altro rapporto parlava di 150.

Recentemente, c’è stata una resa di massa di militanti in cattività in diverse direzioni. Non solo nella zona di “quella stessa offensiva”, dove i nostri hanno catturato i marines della 35ª brigata, oltre a diverse decine di soldati e ufficiali delle Forze armate dell’Ucraina. Nel settore Seversky, gli aerei d’attacco della brigata Edelweiss hanno deciso di aumentare le possibilità di sopravvivenza. Anche nell’area di Novobakhmutovka, 20 militanti hanno deposto le armi. Le ragioni principali della rapida crescita del fondo di scambio sono l’uso di metodi nazisti da parte del comando ucraino non solo nei confronti dei civili, ma anche dei propri soldati. Soprattutto, a fronte delle enormi perdite subite nei folli tentativi di fare 100 metri in più nella zona grigia.

E, cosa interessante, ha fatto seguito a notizie, ancora una volta, di diserzioni e ammutinamenti di massa, tra cui una che affermava che le truppe UA avevano sabotato i propri carri armati Leopard per sottrarsi ai combattimenti:

💥🐽💥Gli equipaggi dei carri armati ucraini “si nascondono” dal contrattacco fingendo danni ai carri armati per evitare di andare in battagliaDer SpiegelI carristi dell’esercito ucraino coinvolti nell’offensiva delle forze armate ucraine nella direzione di Zaporizhzhya stanno usando vari trucchi per non partecipare al contrattacco. In una conversazione con una pubblicazione tedesca, i carristi dell’AFU hanno raccontato delle pesanti perdite dei carri armati Leopard forniti dalla Germania. Riconosco i Khokhlov. La loro astuzia sta iniziando a mostrarsi attraverso la loro stupida e bastarda obbedienza al loro padrone.

💥🐽💥

Non ci sono conferme, quindi prendetela con le molle, ma un’altra notizia è ancora più assurda:

📞 “… mio fratello stava chiamando, un carrista su un Leopard. Stiamo cercando, dice, di rompere i carri armati. Si versa sabbia nel filtro, lo si spinge all’indietro nella miniera, e così via.Citazione:… I moscoviti sono impazziti, vedono solo i leopardi – si prendono gioco di ciò che possono. Arta (artiglieria), grandine (Grad), lancette, droni. Sparano solo a un Leopard. I T-62 e i T-80 non vengono quasi toccati. Ecco perché i ragazzi non vogliono guidarli. Su un leopard – un kamikaze senza opzioni. Si dice che i moscoviti abbiano una sorta di stupida moneta per i leopardi, si litigano per chi ha preso il leopardo. Quindi, che si fotta, è meglio romperlo da soli.

…”. 🇺🇦🤡🇩🇪

Quindi, a quanto pare, i soldati russi sono Leopard-mad per questi bonus e danno priorità ai Leopard rispetto a qualsiasi altra cosa, il che porta a rendere molto pericoloso essere un membro dell’equipaggio di un Leopard.

Ecco un articolo dettagliato su come l’AFU ha iniziato a utilizzare nuove tattiche per cercare di avanzare:

A giudicare dal modo in cui le Forze armate ucraine stanno avanzando a Zaporozhye e in direzione sud-Donetsk negli ultimi giorni, le tattiche delle forze di terra ucraine sono cambiate in modo significativo. Se nei primi giorni le Forze armate ucraine hanno creato attivamente l’illusione di un’offensiva di massa con forze superiori a un battaglione, al momento solo piccoli gruppi di plotoni, fino a 30-40 persone al massimo, si stanno precipitando in battaglia. Ciò è particolarmente evidente nelle battaglie nel triangolo Pyatikhatki – Stepovoye – Malye Shcherbaki. In questa direzione, le Forze Armate ucraine registrano le maggiori perdite al momento. Una parte significativa dell’equipaggiamento pesante, compresi i carri armati Leopard e i veicoli da combattimento di fanteria Bradley, è assegnata alle retrovie per essere raggruppata, riparata e, a quanto pare, per elaborare un nuovo piano d’attacco. Le perdite significative di comandanti di alto livello, capaci di audaci sfondamenti verso la linea del fronte, incidono sul morale: tra gli ucraini mobilitati, ci sono sempre più rifiutati e “balestre”, come era già successo ad Artyomovsk. La storia dei problemi di riparazione sul campo si ripete: è quasi impossibile riparare rapidamente i malfunzionamenti dei veicoli da combattimento di fanteria e dei carri armati. Non ci sono praticamente veicoli di evacuazione (BREM) – l’equipaggiamento revisionabile arriva al posto di quello danneggiato, e l’intero gruppo è coperto dal fuoco dell’artiglieria dalle retrovie della linea Surovikin.A quanto pare, le Forze Armate dell’Ucraina hanno ricevuto l’ordine di proteggere i veicoli corazzati stranieri, quindi i gruppi mobili su veicoli corazzati MaxxPro e Mastiff, inadatti agli attacchi frontali, vengono introdotti sempre più spesso in battaglia. A causa dello squilibrio nell’uso degli equipaggiamenti leggeri, le perdite delle Forze Armate ucraine nelle ultime 72 ore sono aumentate a 880-930 morti e feriti al giorno.L’avanzata territoriale è pari a zero. Non appena le Forze armate ucraine occupano alcune posizioni, l’intero quadrato viene coperto con l’artiglieria, e di notte le posizioni vengono lavorate dagli elicotteri Ka-52 e Mi-28NM. Dopodiché, le Forze Armate ucraine tornano alle loro posizioni iniziali senza la possibilità di ottenere un punto d’appoggio.milchronicles

Il rapporto menziona alcune delle perdite. Alcuni rapporti parlano di oltre 1000 vittime totali, tra morti e feriti, con oltre 200-300 veicoli totali messi fuori uso, di cui 50-100 carri armati.

Dmitry Rogozin ha detto questo delle perdite subite solo da un piccolo fronte:

ROGOZIN: “Affinché possiate capire quanto sia feroce e sanguinosa la battaglia sul fronte di Zaporozhye, vi comunico che nelle posizioni di una sola 9ª compagnia di fucilieri motorizzati del 70° reggimento della 42ª divisione di fucilieri motorizzati della 58ª armata, 27 oggetti corazzati nemici, tra cui 4 Leopard, stanno bruciando dopo una battaglia notturna. È difficile dire quanti soldati delle Forze Armate dell’Ucraina che hanno preso d’assalto le posizioni di questa compagnia siano morti, o meglio, è difficile calcolarlo”.

Potrebbero risalire a diversi giorni fa, ma nuovi video mostrano che i carri armati Leopard 2A6 non solo vengono colpiti (così come i Bradley) e si ritirano mentre sono in fiamme, ma anche che un 2A6, in preda al panico, si scontra con un veicolo in fiamme e si incendia. È difficile dire se ciò sia stato voluto, dato che il Leopard aveva paura di uscire dalla pista minata, o se l'”addestramento” della NATO (o la sua mancanza) non sia semplicemente all’altezza e gli equipaggi dei carri armati che operano con queste meraviglie occidentali siano a malapena competenti:

Qui sopra la foto di un Leopard 2A6 distrutto, il cui cannone si è completamente staccato.

Sono state viste anche le prime immagini ravvicinate di Bradley distrutti:

Ricordate quando questi “sistemi di prestigio” sembravano così invincibili? Gli Stati Uniti cercarono di venderli come macchine da guerra inarrestabili che avrebbero potuto sconfiggere qualsiasi carro armato russo, dato che la loro “ottica superiore” avrebbe permesso loro di superare i carri armati, e le moderne varianti del Bradley sono dotate di TOW ATGM. Questi apparecchi sono stati gli eroi della Guerra del Golfo, in quanto si diceva che avessero distrutto più blindati iracheni che carri armati Abrams.

Ora guardateli. Si sono rivelati la solita patetica spazzatura sopravvalutata.

A questo proposito, e a proposito della Guerra del Golfo, abbiamo il primo filmato interno che mostra la 47a brigata utilizzare le famose ottiche notturne dei Bradley in una delle battaglie. Chiunque abbia seguito i filmati della Guerra del Golfo avrà familiarità con queste immagini:

Il popolare analista Yuri Podolyaka, presente alla conferenza stampa di Putin per i corrispondenti, è stato insolitamente istrionico nel riferire degli assalti della scorsa notte, dopo aver affermato di aver ricevuto dati sensibili sulle perdite dell’AFU:

Yuri Podolyaka:Il massacro nei pressi di Orekhovo – anche gli ufficiali più esperti non l’hanno visto.Quello che è successo oggi nei pressi di Orekhovo è stato un massacro!!!Si ha l’impressione che i membri della NATO abbiano messo il regime di Kiev in una situazione molto “dura”.Il tempo è limitato (il vertice NATO dell’11-12 luglio), gli obiettivi sono stati fissati (vittoria nella battaglia di Azov). Il nemico (cioè noi) è forte, ma questo non deve diventare un ostacolo all’attuazione dei piani di Washington e Londra.Ho ricevuto dati sulle perdite nemiche nei pressi di Orekhovo (senza diritto di pubblicazione). Penso che domani o dopodomani ci saranno nuovi video di attrezzature danneggiate che sono terribili per la popolazione dell’Ucraina. Ce ne sono molti – decine di unità. Ma la cosa peggiore non è nemmeno questa. La cosa peggiore è la perdita di personale. Gli ufficiali esperti (i nostri) sono scioccati da ciò che hanno visto oggi. Non hanno mai visto un tale massacro (secondo loro), e un tale disprezzo per la vita dei loro soldati (da parte delle Forze Armate dell’Ucraina). E hanno detto tutto questo… con rispetto per il coraggio del nemico (dei soldati, non del comando), capace di eseguire un ordine così folle.P.S. È un peccato che solo oggi molte centinaia di ragazzi essenzialmente russi (anche ucraini) abbiano pagato con la vita per gli interessi britannici e americani.PP.S. E sì, i nostri hanno già ripristinato le loro posizioni vicino a Orekhov!!!

Un altro analista ha espresso le seguenti riflessioni:

“Osservando la battaglia in corso a Zaporozhye, si giunge ancora una volta alla conclusione che il nemico crollerà quando (soprattutto la società) le perdite di personale raggiungeranno un livello critico. Funerali in ogni ingresso di un edificio a più piani, o in ogni strada di un piccolo villaggio, tutto questo a un ritmo costante, o meglio, crescente. Finché non si raggiunge questo livello, l’ucraino ha molta carne da cannone, ma in questo momento si sta muovendo a passi da gigante verso il punto di guerra che vogliamo”.

C’è qualcosa di interessante da notare a questo proposito. Recentemente, alcuni opinionisti ucraini hanno pubblicato “foto satellitari” di cimiteri in Russia, sostenendo di mostrare grandi perdite russe. Cose banali come questa:

Ma il problema è che la crisi dei cimiteri in Ucraina è così grave da essere indicibile. Tempo fa ho riferito che le persone venivano letteralmente pagate per prelevare i cadaveri dagli obitori e tenerli nelle loro case per un periodo di tempo prestabilito, perché gli obitori sono semplicemente stracolmi di AFU. Ora ci sono state nuove conferme da due punti di vista diversi.

In primo luogo, leggete la nota di questa donna ucraina:

Dice che sua nonna è morta il 10 giugno e che l’obitorio si rifiuta di prendere il corpo e di trattarlo adeguatamente. I cimiteri negano le sepolture perché “non ci sono abbastanza tombe” per i soldati uccisi al fronte, che hanno la priorità sui lotti freschi del cimitero. La donna implora aiuto e non sa cosa fare.

Nel frattempo, è trapelata online una lettera del consiglio comunale di Kharkov a un direttore della Croce Rossa:

Il documento afferma che al momento gli ospedali della regione di Kharkov stanno già lavorando oltre le loro capacità, tuttavia, nel prossimo futuro, si prevede un aumento ancora maggiore delle vittime tra i militari e la popolazione civile in relazione alle azioni offensive delle Forze armate dell’Ucraina. Il funzionario chiede di costruire un ospedale da campo a Kharkov con le più moderne attrezzature e chiede di inviare medici specialisti altamente specializzati, tra cui chirurghi plastici.

E in relazione a queste vaste perdite, è stata anche annunciata una nuova mobilitazione totale nelle regioni occidentali dell’Ucraina:

🇺🇦⚡️La mobilitazione generale con la mobilitazione di tutti i veicoli è stata annunciata nella regione di Ivano-FrankivskL’ufficio per la registrazione e l’arruolamento militare ha emesso un decreto sull’obbligo di presentarsi al centro di reclutamento cittadino entro 10 giorni per tutti coloro che sono tenuti a prestare il servizio militare.Inoltre, è stata annunciata la mobilitazione dei veicoli e il divieto di cambiare il luogo di residenza senza l’autorizzazione del commissario militare.Tutte le aziende, le organizzazioni e i cittadini sono invitati a garantire la consegna e il trasferimento di veicoli e attrezzature in tempo, nei volumi e agli indirizzi specificati negli ordini per la fornitura di attrezzature durante la mobilitazione, si legge nel decreto pubblicato dai media.

Sulla scia di questa “controffensiva”, un’altra serie di articoli del MSM ha continuato a condizionare le aspettative di un atterraggio morbido.

🇺🇦🇬🇧 “La NATO deve prepararsi alla prospettiva che la controffensiva dell’Ucraina non ottenga grandi successi. Finora, infatti, Kiev ha ottenuto solo guadagni limitati. Ma chi si aspettava una svolta fulminea è destinato a rimanere deluso. Non si tratta di panzer tedeschi contro cavalleria polacca, né di shock and awe americano contro forze irachene demoralizzate in carri armati antiquati e senza copertura aerea”.

La nuova narrativa che viene continuamente rielaborata è che i Ka-52 russi stanno decimando i blindati dell’Ucraina e che la mancanza di copertura aerea dell’Ucraina è insostenibile alla luce di qualsiasi successo offensivo.

Questo, ovviamente, sarà semplicemente spinto nel prossimo ordine del giorno che prevede la fornitura della wunderwaffe di F-16 come panacea per risollevare il carente sostegno occidentale per il prossimo arco dell’anno. Gli eurocrati e i loro elettori assatanati saranno semplicemente riprogrammati a credere che la potenza aerea sia tutto ciò che manca all’Ucraina per raggiungere la vittoria e questo confluirà comodamente nella prossima narrazione che durerà per il resto dell’anno.

Il tutto sarà completato dal recente annuncio che Biden intende fornire ATACM in una prossima tranche di armi.

Ma come altri hanno calcolato, a 1,5 milioni di dollari per missile, l’acquisto di 80 milioni di dollari comprerebbe circa 50 missili. Sarà un “cambiamento di gioco”? Secondo quanto riferito, gli Stati Uniti possiedono solo circa 500 missili, dato che ne sono stati costruiti circa 1.500 in totale, e per molti clienti stranieri. E gli Stati Uniti possono costruirne solo una minima quantità all’anno, probabilmente neanche 100 al massimo. Semmai, l’ATACMS sarebbe probabilmente un attacco di massa a sorpresa, una tantum, per cercare di disattivare la Kerch.

Personalmente, considero i normali missili HIMAR una minaccia maggiore a causa del loro fattore di saturazione e del loro profilo molto più piccolo e difficile da individuare. Lo stesso vale per lo Storm Shadow, che continua a causare problemi alla Russia, almeno se le notizie ucraine sono vere.

Un nuovo presunto attacco Storm Shadow su un nodo ferroviario di Kherson, dove la Russia avrebbe immagazzinato armi per il fronte di Zaporozhye, avrebbe raso al suolo l’intera ferrovia facendo esplodere una grande quantità di munizioni. Questo, purtroppo, è difficile da confutare. Le foto del presunto prima e dopo:

Geolocation: 46.334404206965885, 34.753528298679655

Secondo quanto riferito, l’esplosione è stata così massiccia da far saltare in aria molti degli edifici visti in quel punto, adiacenti alla ferrovia.

Ho detto in precedenza perché lo Storm Shadow potrebbe essere una minaccia molto più grande dei JDAM, che richiedono agli aerei di “alzarsi” ad alta quota e di esporsi all’AD russo. Poiché l’SS ha una propulsione propria, può essere sparato da altitudini relativamente basse senza mettere in pericolo i jet ucraini.

La domanda più grande è perché la Russia abbia problemi con loro – ammesso che sia vero che gli Storm Shadows siano stati responsabili di una serie di colpi recenti. Con l’AFU non si può mai sapere, perché in molti casi mentono. Un indizio è questo thread che mostra la bassa sezione d’urto radar dei missili SS:

Visto dall’angolo frontale, che è probabilmente il punto in cui i radar lo vedrebbero, il missile avrebbe una RCS molto bassa, per non parlare del volo a bassa quota che, in virtù degli orizzonti radar, lo renderebbe non rilevabile fino a quando non è abbastanza vicino al bersaglio.

Naturalmente, la Russia sostiene di abbatterli regolarmente, ma alcuni sembrano sfuggire. L’Ucraina, invece, sostiene quanto segue:

Il ministro della Difesa ucraino, Oleksii Reznikov, ha dichiarato a proposito dei missili: “Posso dire che del numero totale di lanci Storm Shadow che hanno avuto luogo, tutti e 100% hanno raggiunto gli obiettivi stabiliti dallo Stato Maggiore 100 su 100, assolutamente impeccabili”.

Ma possiamo anche dedurre con certezza che l’Ucraina è in grado di individuare solo alcune aree non protette qua e là, quindi questo ci fa capire che i missili possono colpire solo dove la copertura AD è scarsa. Uno dei modi in cui lo sappiamo è che a Berdyansk, nella stessa regione in cui è stato colpito il missile, ho recentemente scritto che la Russia ha allestito un’enorme base avanzata di elicotteri d’attacco che stanno decimando i mezzi corazzati ucraini sul fronte di Zapo. Sappiamo che questo aeroporto è probabilmente ben protetto dall’AD. Quindi, se gli Storm Shadows fossero così impeccabili come sostiene Reznikov, l’Ucraina avrebbe già eliminato da tempo questi elicotteri che stanno devastando la sua offensiva.

Invece, si concentrano su piccole aree retrostanti in cui l’AD viene estesa per coprire alcuni punti logistici forse non ritenuti super critici per una copertura estesa. Detto questo, secondo questo rapporto, stanno progettando di cambiare le cose:

🇺🇸🇬🇧🇺🇦💥 La NATO sta preparando un attacco missilistico sulle nostre basi aeree con le mani delle Forze Armate dell’UcrainaIl canale ucraino TG Resident scrive, citando una fonte nell’ufficio di Zelensky, che lo Stato Maggiore delle Forze Armate dell’Ucraina, insieme all’intelligence britannica MI6, sta preparando una serie di attacchi missilistici Storm Shadow su campi d’aviazione militari in cui si trovano elicotteri russi, distruggendo di fatto i nazisti. Il giorno prima ho scritto che i satelliti americani stanno monitorando i nostri elicotteri d’attacco all’aeroporto di Berdyansk e non c’è dubbio che tutte le designazioni dei bersagli disponibili sono state trasferite ai militanti delle Forze Armate dell’Ucraina.Stanno cercando approcci alla nostra difesa aerea, aspettando il momento più conveniente per loro, quando la maggior parte delle attrezzature dell’aviazione russa sarà concentrata in un unico luogo.Vladimir Rogov

             

Ma, come potete vedere, il fatto che debbano pianificare tutto e prendersi il tempo necessario significa che sanno che le Ombre della Tempesta non possono penetrare nell’AD in modo casuale.

Passiamo ora ad altre cose. Abbiamo parlato di recente di come Zelensky potrebbe non avere altra scelta se non quella di creare una sorta di falsa bandiera di gravità che possa in qualche modo attivare la NATO. Qui, in una nuova intervista alla NBC, egli sembra in effetti telegrafare le sue intenzioni con la solita vecchia tattica di incolpare la Russia di aver fatto “esplodere l’impianto ZNPP”:

Altri hanno detto che nelle clip sembra decisamente fuori di testa. E, a titolo di riferimento, ecco un’altra foto che è stata rilasciata e che mostra il serbatoio al momento:

Questo sembra guardare da Berislav, sul lato ucraino, verso la città di Kakhovka:

E un’altra foto satellitare ancora più dettagliata:

Una cosa da notare è che presumibilmente Zelensky lo terrebbe come ultima risorsa dopo aver tentato l’offensiva. Inoltre, probabilmente userebbe la distruzione dello ZNPP anche per ricattare la NATO. Una volta che l’offensiva è andata completamente a rotoli e si è stabilito che non c’è più alcuna possibilità, Zelensky potrebbe iniziare a segnalare ai suoi padroni che se non gli offrono tutto ciò che vuole, come garanzie della NATO, F-16, molti più carri armati, eccetera, allora potrebbe far saltare lo ZNPP per costringere la NATO ad agire. Naturalmente, lo segnalerebbe nel modo consueto, come si fa di solito per queste cose, con sottili allusioni. In effetti, l’intervista che ho postato sopra potrebbe essere una di queste, anche se il tono nei confronti dei suoi padroni non è ancora abbastanza accusatorio o derisorio da far pensare che si tratti di un’azione completa. Ma potremmo arrivare a quel punto nel prossimo futuro, a giudicare dal livello di perdite che UA sta subendo di recente.

La verità è che lo ZNPP potrebbe essere l’ultima e unica carta rimasta a Zelensky da giocare una volta che il suo esercito sarà distrutto al punto da essere inefficace in combattimento. È probabile che il coro dell’Occidente si levi per spingerlo ad accettare un cessate il fuoco con la Russia. È a quel punto che diventerà più pericoloso e “rischierà tutto”: è allora che dovremmo preoccuparci dello ZNPP.

Ma potremmo essere ancora a un mese o due da questo punto, se non di più, a seconda dell’aggressività con cui Kiev continuerà a usare le sue truppe per “sondare” le linee della Russia (e subire ingenti perdite).

E a proposito dell’eventuale attivazione della NATO. L’ultima volta abbiamo parlato della decisione della NATO di aumentare la sua forza di risposta rapida da 40 a 300 uomini. Ora, ci sono voci insistenti che dicono che negli Stati Uniti si stanno muovendo cose strane, dato che le persone in tutto il Paese affermano di essere testimoni di “quantità massicce” di equipaggiamento militare che viene spostato in molti Stati/regioni. Sono riuscito a raccogliere un video di tutti i filmati diffusi, anche se ce ne sono molti di più:

Non solo molti tipi diversi di veicoli (Strykers, Humvees, artiglieria, ecc.) ma anche B-2 Spirits che volano in giro:

Negli Stati Uniti si sta verificando un massiccio spostamento di attrezzature. Bombardieri B-2 Spirit sono stati avvistati sopra il Minnesota e fonti militari affermano che i sistemi di difesa missilistica si stanno spostando in posizioni sulla costa occidentale degli Stati Uniti.Americani! Cosa ne pensate? “I cittadini statunitensi sono preoccupati per le insolite attività militari segnalate in 26 Stati. Il Segretario alla Difesa ha aggiunto a queste preoccupazioni che non si tratta di attività di addestramento. “Sta succedendo qualcosa negli Stati Uniti. Bombardieri B-2 Spirit sono stati avvistati sopra il Minnesota e fonti militari affermano che i sistemi di difesa missilistica si stanno spostando in posizioni sulla costa occidentale degli Stati Uniti.
Eccone un altro:

E un altro a San Diego:

Secondo i notiziari, in 27 stati degli USA sono stati avvistati movimenti di mezzi militari, con un gran numero di carri armati, elicotteri e droni, mentre in 15 stati è stata segnalata anche la chiusura o la lentezza di Internet. Si dice che si tratti solo di esercitazioni, ma la domanda è: perché Internet è disturbato? Alcuni sostengono che questi spostamenti militari siano legati al conflitto con la Russia.
Secondo quanto riferito, tutto questo avviene all’interno degli Stati Uniti. Potrebbero essere normali movimenti o esercitazioni dell’esercito? Può darsi, ma vale la pena di tenerlo d’occhio.

E ora alcuni aggiornamenti vari:

In primo luogo, sulla saga di Budanov e Zaluzhny. Una serie di nuove notizie [non confermate] hanno sollevato crescenti sospetti sul fatto che Budanov sia davvero incapace in qualche modo, o addirittura morto.

Su Twitter e Telegram è circolata una serie di notizie secondo cui la seconda più importante rivista tedesca, Stern, avrebbe affermato che Budanov sarebbe in coma.

Budanov in coma, riporta l’edizione tedesca di SternSecondo la pubblicazione, sono riusciti a comunicare con i medici dell’ospedale dove Budanov è stato consegnato a condizione di anonimato. Secondo loro, il capo dell’intelligence ucraina ha subito danni cerebrali a causa di un trauma cranico. Probabilmente, Budanova è stato ricoperto dai detriti del muro, come risultato di un attacco delle forze aerospaziali russe all’edificio della GUR a Kiev il 29 maggio 2023.L’Ucraina nega il fatto che Budanov sia stato ferito, ma nessuno lo ha visto dopo il 29 maggio.
Tuttavia, fortunatamente per i miei lettori, io cerco di fare la dovuta diligenza nel verificare i rapporti, a differenza della stragrande maggioranza degli “analisti”. E dopo averlo fatto, è emerso che Stern ha smentito di non aver mai pubblicato tale rapporto.

Ma ci sono altri rapporti:

“I dipendenti di un ospedale militare nel quartiere berlinese di Mitte, dove potrebbe trovarsi il capo dell’intelligence ucraina Kirill Budanov, non hanno discusso questa informazione con un corrispondente di RIA Novosti e hanno proibito di filmare l’edificio”. Il capo della Direzione principale dell’intelligence ucraina Kirill Budanov è morto senza riprendere conoscenza, come ha dichiarato il politico ucraino Ilya Kiva (ex deputato del popolo ucraino), che, secondo lui, ha ricevuto questa informazione dall’ambasciata ucraina in Germania.
E Putin stesso ha aggiunto benzina al fuoco delle speculazioni su Zaluzhny, lasciando intendere in modo criptico che Zaluzhny in realtà “non è nel Paese”:

Dato che Putin aveva precedentemente confermato che l’attacco al quartier generale del GUR era una delle punizioni russe “che attraversano le linee rosse”, ecco alcune informazioni riguardanti un nuovo attacco di ieri sera, che avrebbe colpito un altro “centro decisionale” nel nord di Kiev:

L’attacco ai centri decisionali è stato inflitto al quartier generale militare diversi chilometri a nord di Kiev – fonte Readovka del Ministero della Difesa della Federazione RussaSecondo una fonte Readovka del Frunzenskaya Embankment, l’attacco ai centri decisionali, che il Ministero della Difesa russo ha annunciato oggi, è stato effettuato diversi chilometri a nord di Kiev. Lì si trovava il quartier generale militare delle Forze armate ucraine – al momento dell’attacco, vi si trovavano dipendenti di alto livello delle Forze armate ucraine e della Direzione principale dell’intelligence ucraina -. Si noti che gli stessi ucraini non hanno commentato la sconfitta del loro quartier generale militare. A quanto pare, l’agitazione dei media ucraini è legata a questo dopo le dichiarazioni dell’addetto stampa del Presidente del Sudafrica, che ha affermato che, trovandosi a Kiev il giorno prima, non ha visto né sentito le esplosioni. Allo stesso tempo, nei media controllati dal regime di Zelensky non è stato riportato che l’attacco sia stato effettivamente sferrato nelle vicinanze della capitale ucraina.
A proposito di Putin, volevo aggiungere qualcosa all’analisi dell’ultimo rapporto sulla tavola rotonda dei corrispondenti. Ho finito di guardare l’intero incontro di due ore e ci sono due cose in particolare che mi hanno colpito.

La prima è che mi sono reso conto che uno dei punti più critici (per me personalmente, il più critico) dell’intero discorso è stato frainteso/misinterpretato dai più a causa di traduzioni leggermente errate.

Riguardo alla questione di cosa succederà dopo la “controffensiva” dell’Ucraina, le traduzioni hanno fatto sembrare che Putin abbia tergiversato e abbia detto “abbiamo piani di natura diversa”, il che era strano e un po’ insensato. Ma in realtà ho capito che non è quello che ha detto. Quello che ha detto in realtà ha fatto una grande differenza e ora mi fa capire meglio i piani futuri della Russia.

Ciò che ha detto in realtà è stato sulla falsariga di “abbiamo piani di carattere diverso a seconda [dell’andamento dell’offensiva ucraina]”. Ciò che intende dire è chiaramente che il MOD russo ha progettato varie contingenze basate sulle opzioni che ho precedentemente delineato, come ad esempio: se l’Ucraina finisce per impegnarsi eccessivamente e far distruggere gran parte del suo potenziale di combattimento, o se diventa timida e si “accuccia” per cercare di congelare le cose in una situazione di stallo.

Questo è in linea con quanto ho detto l’ultima volta, ma questa nuova comprensione me lo conferma e mi dà la certezza di credere inequivocabilmente che la Russia stia impiegando una strategia di “sfruttamento”. Piuttosto che una strategia anelastica, simile a quella di una roccia, che consiste semplicemente nell’avanzare in una direzione, qualunque cosa accada, il Ministero della Difesa russo intende invece “sfruttare” qualunque debolezza l’Ucraina gli offra. In breve: la MOD russa sta utilizzando tattiche alla Sun Tzu come “non interrompere mai il tuo avversario quando sta commettendo un errore”. Il MOD russo permetterà all’AFU di inciampare in un errore, e poi lo sfrutterà con un potenziale devastante.

Poi, su una nota più negativa, c’è stato un nuovo segmento verso la fine che mi ha aperto gli occhi. A Putin è stato chiesto di parlare dell’overmatch ISR dell’Occidente, di cui abbiamo spesso parlato qui. La sua risposta ha lasciato un po’ a desiderare, a mio avviso. Ha ammesso il vantaggio dell’Occidente, ma con una sorta di alzata di spalle ha affermato con orgoglio che la Russia attualmente dispone della quinta flotta di mezzi spaziali più grande al mondo. Mi dispiace, ma credo di parlare a nome della maggior parte delle persone quando dico che non è abbastanza. Il Paese che è stato la prima superpotenza spaziale della storia non dovrebbe essere relegato al quinto posto e il suo leader non dovrebbe essere “orgoglioso” di questo fatto.

In effetti, il programma spaziale russo degli ultimi due decenni è stato per certi versi una vera e propria vergogna. Molti hanno dato la colpa al cosiddetto “incompetente” Rogozin, che notoriamente ha passato il suo tempo a fare puerile trolling su Twitter contro Musk piuttosto che a sviluppare il potenziale spaziale della Russia. Forse alcuni non lo sanno, ma nel primo decennio del XXI secolo la Russia ha dominato i voli spaziali commerciali e i lanci spaziali totali:

Ma soprattutto dopo l’entrata in scena di Space-X, gli Stati Uniti e altri Paesi hanno mangiato il pranzo della Russia:

La Russia aveva qualcosa come il 40-50% della quota di mercato globale, ed è stata spinta giù da qualche parte verso i dieci anni. Allo stato attuale, l’industria spaziale russa sembra mancare di una visione e di una vera leadership, e direi che una parte importante di questo ricade su Putin per non averla stimolata con alcun obiettivo, così come un tempo Kennedy aveva fatto per gli Stati Uniti:

Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio e di fare le altre cose non perché sono facili, ma perché sono difficili; perché questo obiettivo servirà a organizzare e misurare il meglio delle nostre energie e capacità, perché questa sfida è una sfida che siamo disposti ad accettare, una sfida che non siamo disposti a rimandare e una sfida che intendiamo vincere, e anche le altre.
Comunque, il punto è che nella tavola rotonda Putin ha fatto un’altra rivelazione per me devastante. Ha ammesso che nessuno in Russia aveva previsto nessuno degli eventi precipitanti e, di conseguenza, nessuno ha pensato di preparare l’industria spaziale e le capacità ISR della Russia. Per ovvie ragioni questa è un’ammissione scandalosa. Significa che per tutti gli anni trascorsi dagli eventi del 2014, quando chiunque con un po’ di cervello sapeva che le cose si stavano dirigendo verso uno scontro frontale con la NATO, nessuno nello stato maggiore russo ha pensato di aggiornare le capacità C4ISR e la Russia si è di fatto trovata con le braghe calate di fronte all’ampio margine di vantaggio dell’ISR della NATO.

Guardate e giudicate voi stessi, e se credete che la mia interpretazione sia sbagliata, fatemelo sapere nei commenti. In realtà, vorrei che fosse sbagliata, perché questo non dà ottimismo su alcuni di quei “generali da parquet” che dirigono il Ministero della Difesa russo:

Guardate la faccia della signora quando Putin dice brillantemente: “Siamo a 5 nello spazio”. Anche lei è chiaramente poco impressionata e forse un po’ inorridita, tanto da rispondere: “Beh, ehm… siamo contro i primi”.

Questa misera storia ha però un finale ottimistico. Non solo ho ripetutamente riferito di una quantità senza precedenti di satelliti lanciati dalla Russia a partire dall’anno scorso, ma si dice addirittura che la Russia abbia intenzione di costruire un intero nuovo impianto per la produzione di massa di satelliti, in modo da poterli produrre come mai prima d’ora:

Dal 1957, ogni satellite è stato assemblato a mano; non c’è mai stata una produzione in serie. Ma ora c’è bisogno non solo di lanci scientifici o militari, ma anche di lanci commerciali. In totale, tutte le imprese russe producono 15 satelliti all’anno; con qualche ammodernamento, questo numero può essere portato a 42, ma Roscosmos afferma che la domanda è molto più alta. L’obiettivo a medio termine è di raccogliere un satellite al giorno. Ora si sta selezionando un sito, il primo impianto sarà costruito nella regione di Mosca o nel Territorio di Krasnoyarsk.
Il futuro è dunque roseo e l’SMO è certamente servito a svegliare e ripulire il sistema amministrativo russo. Ma, a conti fatti, un giorno dopo l’SMO dovrà esserci un’enorme resa dei conti per tutti i vertici burocratici e i traditori dei parquet corrotti che hanno depredato la Russia per anni nel periodo 2000-2020, mentendo sui “progressi” e in realtà essendo responsabili di un’enorme stagnazione in alcuni settori d’elezione.

Forse Putin stesso è stato responsabile di alcune di queste cose, non lo so. Ma alla fine è solo un uomo. Ci sono molte altre urgenze che ha dovuto gestire in prima persona. Ci sono molti altri subordinati a cui vengono delegati tali compiti che probabilmente gli hanno riferito i “progressi” annuali in modo non proprio onesto.

Ma a proposito di Putin che fa pulizia, ecco un altro paio di rapporti dal fronte, questa volta dal comandante di Vostok Khodakovsky. Innanzitutto dice che la “carenza di granate” sembra essere stata superata per il momento:

Khodakovsky: “La situazione delle granate è stabile e positiva – non c’è carenza. Tuttavia, il nostro principale nemico è la gittata: in futuro dovremo tenerne conto e “allungarla”. Il numero di persone in generale è sufficiente – in alcuni luoghi manca la motivazione. Volontari – personale – arruolati: la scala della motivazione è disposta approssimativamente in quest’ordine. Ma la motivazione non è affare dei deputati politici, è affare di tutto il Paese”.
Poi, sull’impegno di Putin nella raccolta di informazioni in prima linea:

Khodakovsky: Per quanto ho potuto verificare, il presidente ha creato un sistema efficace per monitorare ciò che accade sulla LBS. Alcuni canali scrivono: il presidente non ama i rapporti negativi e coloro che li fanno, si allontana da se stesso e smette di ascoltare la sua opinione… Gli ufficiali militari presenti all’incontro con Vladimir Putin hanno avuto modo di capire quanto fosse immerso nel processo. Naturalmente, pochi capi militari vogliono attirare il sospetto di incompetenza con le loro denunce, e c’è sempre la possibilità che abbelliscano la situazione – ma conosco generali esperti che sono stati incaricati dal presidente di condurre un audit della situazione militare e della nostra prontezza di combattimento. Questi generali, di norma, non sono inclusi nel pool e hanno il diritto di riferire direttamente, e si avvalgono regolarmente di questo diritto. Quindi non c’è bisogno di immaginare il leader del Paese come uno struzzo con la testa sotto la sabbia: è ben consapevole di tutte le circostanze militari.
E questo lo dice uno che è spesso pessimista o che è stato etichettato come un “fanatico”.

Alcuni ultimi punti casuali. In primo luogo, si dice che la “vacanza” di Wagner potrebbe essere interrotta:

Da varie fonti si apprende che il PMC di Wagner non aspetterà il 5 agosto (scadenza annunciata da Yevgeny Prigozhin durante un viaggio a Ulyanovsk), e apparirà da qualche parte a metà luglio in una nuova direzione. Molto probabilmente si tratterà di Zaporozhye.
Un’inquietante storia su come i segnalatori GPS sarebbero stati trovati segretamente cuciti nelle uniformi dei soldati dell’AFU, in modo che i loro “compatrioti” possano individuare il luogo della loro cattura, qualora venissero fatti prigionieri:

Secondo Belarusian_silovik, “i segnalatori GPS sarebbero stati trovati oggi su soldati AFU catturati vicino a Pyatikhatki”. Un altro corrispondente di guerra, Синяя Z Борода afferma che: “Ci sono notizie secondo cui il comando dell’AFU appende ai propri soldati da inviare al macello dei segnalatori GPS per colpire il loro luogo di confino quando vengono catturati. Quelli sui prigionieri presi oggi vicino a Pyatikhatki sono stati trovati in tempo”, aggiunge. Entra nella chat di Slavyangrad. La tua opinione è importante.
Questo è proprio come i rapporti confermati che abbiamo visto di cose come l’AFU che viene saldato nei carri armati in modo da non poter scappare.

Inoltre, l’ultima volta che ho riportato la foto di “truppe siriane” forse nelle file dei VDV russi. Ho seguito e trovato un aggiornamento da parte di uno dei ragazzi dell’Osint della guerra siriana:

So, the 25th, aka the famed ‘Tiger Forces’, have been in Russia since early June, partaking in airborne military training that will last two months. Here they are:

Quindi, le foto postate dai ragazzi del 76° sono probabilmente tratte da quell’addestramento, non da un combattimento in prima linea. Non per vantarmi, ma questa è una di quelle circostanze in cui devo dire che questo è ciò che distingue i miei rapporti dagli altri: Ho seguito i fatti e li ho raccontati. Dico questo perché mi ha fatto venire il mal di testa la quantità di stupidaggini che ho visto vomitare online su questa specifica questione, con analisti e account OSINT che si limitavano a pubblicare informazioni a caso senza alcuna fonte. Questo non fa altro che sottolineare il punto che ho fatto molto tempo fa, ovvero che il motivo per cui invito le persone a leggere i miei rapporti è che quando stampo qualcosa, in genere si tratta di riferimenti incrociati e triangolazioni, in modo da poter essere sicuri dell’effettiva onestà, qualità e aderenza ai fatti. Ho pubblicato anche molte cose speculative, ma in quel caso faccio apertamente una premessa con un avvertimento, poi cerco di approfondire in seguito quando ci sono più informazioni.

Un’ultima piccola cosa. Abbiamo parlato del posamine avanzato russo ISDM Zemledeliye, che è stato accreditato per aver bloccato l’offensiva ucraina in direzione di Orekhov. Ma ecco un altro interessante sguardo ai sistemi molto meno avanzati utilizzati dalle forze russe. Due video distinti mostrano un paio di posamine costruiti ad hoc a Zaporozhye, dato che l’ISDM non è molto diffuso:

Naturalmente, questi apparecchi sembrano avere un raggio d’azione di appena un paio di centinaia di metri, mentre l’ISDM può lanciare le mine per oltre 10 chilometri.

Infine, l’ultima volta ho detto che la maggior parte delle persone non sa che i soldati russi ricevono una paga base di circa 200 mila rubli al mese. Considerando che lo stipendio medio in Russia, al di fuori di Mosca, oscilla tra i 30 e i 70 mila rubli al mese, questo stipendio equivale a quello dei soldati americani che guadagnano oltre 150-300 mila dollari all’anno.

A conferma di ciò, oggi mi è capitato di vedere questo video di una barzelletta raccontata da un soldato russo, che vi lascio:

https://simplicius76.substack.com/p/afu-suffers-horror-breakdowns-as?utm_source=post-email-title&publication_id=1351274&post_id=129051999&isFreemail=false&utm_medium=email

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CONTRO E CON, di Pierluigi Fagan

CONTRO E CON. In un libro sulla strategia di uno storico americano di Yale, ho trovato una citazione interessante di F. S. Fitzgerald. In un racconto dell’Età del jazz, lo scrittore definiva l’intelligenza come “La capacità di tenere due idee opposte in mente nello stesso tempo ed insieme di conservare la capacità di funzionare”.
Personalmente non avrei definito questa situazione come marcatore dell’intelligenza (termine semplice ed unico dentro il quale c’è una cosa molteplice di complessa definizione), tuttavia lo spunto di pensare quadri ampi come composti anche da cose che riteniamo opposte, senza farsi paralizzare dagli allarmi su queste che definiamo “contraddizioni”, lo trovo interessante.
In Logica e Psicologia cognitiva, ampia ricerca ha ribadito come i nostri apparati mentali siano per forza di cose riduttivi della complessità del reale. Banalmente, ma inevitabilmente, si tratta sempre di far entrare tanto (mondo) in poco (mente). È un semplice principio di economia cognitiva. Quanto alla “mente collettiva”, certamente più menti in sistema danno più varietà di una singola mente; tuttavia, una mente è operativamente sovrana nel pensiero mentre un gruppo di menti non lo sono, non sono cioè un unico cervello(corpo) con tutte le sue operatività disponibili. Ad esempio, il principio di coerenza ideologica può esser allentato dentro una singola mente, più difficilmente in un consesso di menti.
Principio di non contraddizione (o A o non A) e di bivalenza (vero o falso), ci impongono scelte binarie, prive di sfumature, incertezze, compresenze. Tra i criteri di funzionamento del mentale, troviamo una sorta di principio di semplicità, assunto in logica ed epistemologia già dai tempi di Occam col suo rasoio, come criterio di inferenza alla miglior spiegazione possibile. Il principio è a sua volta bivalente. Vero è che quando si mettono troppe variabili accessorie per sostenere una tesi, è speso sintomo di non aver compreso bene la questione e di voler difendere la nostra interpretazione a tutti i costi inventando punti di supporto. Ma è vero anche che ci sono questioni che non si presentano semplificabili se non violentandole per farle sembrare più semplici di quanto non siano.
Altresì, il criterio di conservatività, dice che si preferiscono le spiegazioni che ci costringono a modificare i minor numero possibile delle nostre credenze, soprattutto tra quelle consolidate. Acquisendo una certa immagine di mondo, ad esempio, sarà più probabile noi si violenti i fatti per renderli coerenti con l’impianto, piuttosto che andare a modificare l’impianto (Letto di Procuste). Per altro, sono pochissimi coloro in grado di mettere mano all’impianto, noi le immagini di mondo, per lo più, le acquisiamo non le creiamo. Ci sono momenti storici, si pensi al Rinascimento come transizione tra medioevo e moderno, in cui questi criteri possono andare in reciproco urto. La teoria copernicana era certo occamiana rispetto a quella tolemaica, tuttavia era tellurica per l’impianto idm. Se la preferivate andavate in urto al criterio di conservatività, se sceglievate la tolemaica andavate in urto al criterio di semplicità. Il caso citato è sintomatico in fasi storiche di transizione poiché quello che cambia nelle transizioni è, al contempo, il mondo e ciò si riflette nella sua immagine.
Gli studi sulla razionalità limitata (Simon) hanno ben individuato che per limiti di tempo mentale, spazio mentale, attentività, limitatezza delle informazioni, difficoltà a calcolare le catene delle conseguenze di uno o più linee di pensiero intrecciate tra loro, l’apparato mentale deve operare in maniera sotto-determinata rispetto a molti fenomeni che prende in esame.
La dissonanza cognitiva (Festinger), è poi quella tendenza che abbiamo nella mente a rendere a forza coerenti cose che non lo sono poiché ci sono veri e propri meccanismi neurali, frutto del processo evo-adattativo, che ci danno uno stato mentale disagiato quando appunto si formano dissonanze. Non è che sentendo dei fruscii nel profondo della boscaglia potevamo permetterci un sereno dibattito interno sulle cause (coniglio ovvero mangio o tigre dai denti a sciabola ovvero sono mangiato) per decidere il da farsi, dovevamo deliberare presto una reazione coerente con le impressioni ed il principio di sopravvivenza.
Quanto citato all’inizio di Fitzgerald diceva, appunto, non solo la difficoltà a contemplare due cose opposte allo stesso tempo, ma mantenere spazio mentale per continuare a funzionare senza farsi paralizzare dalla dissonanza che chiama con urgenza l’appianamento della contraddizione.
Infine, molti di questi meccanismi così come sono presenti nella nostra singola mente, sono presenti nelle altre menti e quindi nel sistema mentale collettivo. Il “sistema mentale collettivo” come forme e contenuti ovvero l’immagine di mondo condivisa da quel specifico gruppo o come “spirito del tempo” della propria società in una data epoca. A dire che se pure ad uno venisse in mente di forzarne o indebolirne la vigenza, si metterebbe fuori il collettivo pensante con gravi effetti di solitudine mentale, quindi sociale. Ci sono studi precisi in psicologia sociale che dimostrano quanto neuralmente sia dolorosa la solitudine. Non a caso l’ostracismo è stata probabilmente la più antica pena sociale imposta dal gruppo al singolo (mi riferisco al Paleolitico), tanto quanto imitazione e spirito gruppale (spesso gregario) o senso di appartenenza, sono stati selezionati perché adattativi. Adattativi perché spingono a stare in gruppo e nella contesa sociale, come nella sfida adattiva al contesto, si sa che “l’unione fa la forza”.
Si tenga conto che il principio di non contraddizione, non dice cosa compone la diade, dice solo che logico-linguisticamente non possiamo dire la cosa è il suo esatto contrario. Tant’è che si usano lettere simboliche per enunciarlo: A, B, terzo non dato. È l’immagine di mondo, quella individuale in accordo a quella collettiva o sociale a porre al posto di A, B, terzo non dato, i contenuti specifici.
Così, il principio di bivalenza (o è vero o è falso) non specifica cosa è vero e cosa è falso. Anche quando lo anneghiamo dentro ad esempio le logiche fuzzy che danno criteri di verità a scala 100 (da 0 totalmente falso a 1 totalmente vero per cui 0,50 è metà vero e metà falso), è poi l’immagine di mondo a riempire il meccanismo di contenuti e giudizi.
Se mi limito a prender in esame il fatto che nella guerra in Ucraina c’è un aggredito ed un aggressore, che sia logica bivalente o fuzzy, è indiscutibile vero che i russi sono gli aggressori e gli ucraini gli aggrediti. Se però al fatto metto le cause come si fa in ogni processo (altrimenti molto processi neanche andrebbero a giudizio se ci limitassimo al fatto finale, si deve conoscere la “storia” del fatto), allora il principio di bivalenza è troppo stretto con la sua pretesa di verità semplice e in logica fuzzy avrò il mio bel da fare per calcolare tutte le influenze causali che hanno portato all’atto. Non solo avrò il mio bel da fare perché ci sono molte variabili, ma poiché per lo più vige la razionalità limitata, mancanza di tempo e spazio cognitivo e soprattutto spaventosa mancanza di informazioni (geopolitiche, geostoriche, militari) presso le opinioni pubbliche, ma anche perché quelle che si presumono “informate” spingeranno a farla più facile del dovuto. È proprio per non operare mentalmente in tale modo che qualcuno ha letteralmente imposto a coloro che si esprimono pubblicamente di ribadire ogni volta che ci si deve fermare all’evidenza del semplice fatto finale poiché questa riduzione semplificante ha la forza di mobilitare il giudizio emotivo che chiude l’accesso al ragionamento.
Così, volevo solo dar seguito all’utilizzo dell’espressione “contro e con” in alcuni post recenti oltre al fatto che, in talune fasi storiche ad esempio quelle di transizione, si consiglierebbe di non allarmarsi troppo se in alcuni casi ci troviamo d’accordo ora con questo, ora con quello che pure tendiamo a ritenere antitetici. Valutando ad esempio il giudizio politico, assai spesso ci si può trovare abbastanza vicini alla politica estera di X pur essendo del tutto contrari alla sua politica interna o viceversa. Vale anche per i sistemi ideologici, le immagini di mondo, le credenze fondamentali. Si può esser critici sulla scienza o forse più sullo scientismo para-religioso e non per questo diventare antiscientifici di principio o al contrario antifilosofici (finendo così con l’essere filosofici).
L’importante, come diceva un vecchio pensatore, sarebbe avere il coraggio (e la capacità, in genere sotto-coltivata) di servirsi della nostra propria intelligenza, di pensare con la propria testa, di pensare anche a come pensiamo prima di farci sempre travolgere dalla foga di dire la qualsiasi su qualsivoglia. Direi anzi che pensare di esser contro e con, al contempo, rispetto certi pensieri o pensatori, in certe farsi storiche come la nostra, è necessario per dare al pensiero la possibilità di adeguare l’intelletto alle cose, senza negare le cose per difendere l’intelletto, senza paura di avventurarsi in percorsi sperimentali che ci rendono un po’ più soli ed incerti, senza la cocciuta convinzione che il nostro intelletto è il migliore tra quelli possibili, senza accusare di tradimento chi pur condivide una buona parte di idm, ma non tutta.
Le transizioni sono periodi di torsioni cognitive che andrebbero accettate con la dovuta forza e coraggio mentale. Altrimenti la difesa di certi presupposti diventa dogmatica, la sindrome che annuncia la prossima fine della vita di molti pensieri, pensati e pensatori.

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ALLE RADICI SOVRAECONOMICHE DEL PROBLEMA ECONOMICO. Di Luigi Copertino

ALLE RADICI SOVRAECONOMICHE DEL PROBLEMA ECONOMICO. Di Luigi Copertino

Distributismo.

«La vita economica ha senz’altro bisogno del “contratto”, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di “leggi giuste” e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo “spirito del dono”. L’economia … sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita».

Così Papa Benedetto XVI nella sua Lettera Enciclica “Caritas in Veritate”, del 2009, (Libreria Editrice Vaticana, p. 59). Il Papa non ha introdotto nulla di nuovo nel magistero cattolico. Egli ha soltanto richiamato la Tradizione ebraico-romano-cristiana nei suoi conseguenziali riflessi politici e sociali. Alla Luce dell’Amore di Dio – sappiamo quanto purtroppo esso sia stato sovente disatteso e perfino tradito dall’uomo – la distribuzione della proprietà e dei beni, si tratta della cosiddetta “destinazione universale”, si impone contro l’accumulazione e la concentrazione della ricchezza. Accumulazione e concentrazione sono la diretta conseguenza della ferita originaria – ossia il ripiegamento autoreferenziale conseguente alla chiusura del cuore all’Amore di Dio – che l’uomo ha inferto alla propria natura inseguendo l’ingannevole promessa ofidica di auto-deificazione, secondo la gnosi spuria contrapposta all’autentica Gnosi Divina che è la Sapienza rivelata e, poi, incarnata.

Benedetto XVI, infatti, ha insegnato nel solco tracciato a partire dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII (1891) la quale – secondo l’insegnamento risalente direttamente a Gesù Cristo – ha indicato nel “distributismo” la via della giustizia tra gli uomini. Il paragrafo 7 della Rerum Novarum recita: «la terra, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e utilità di tutti». Più tardi due grandi scrittori inglesi cattolici, Gilbert K. Chesterton e Hilaire Belloc, avrebbero dato avvio ad una scuola di pensiero denominata non a caso “distributismo”, che ebbe anche realizzazioni concrete, interna al movimento “guildista”. Nell’Inghilterra della “catholic renaissance” – inaugurata dal santo cardinale John Henry Newman e giunta fino a John Reginald Ronald Tolkien – Chesterton, Belloc ed il guildismo si opposero polemicamente allo spirito di accumulazione anglosassone. Quest’ultimo si era formato all’epoca della svolta scismatica di Enrico VIII, quando emerse una nuova aristocrazia predatrice che accumulò enormi latifondi privatizzando le antiche terre comuni e sopprimendo i diritti comunitari delle popolazioni rurali sulle terre signorili ed ecclesiastiche oltre che reprimendo le arti cittadine. A questa storia di abusi e di crimini Chesterton e Belloc contrapposero il distributismo auspicato dal magistero di Leone XIII nella scia della Tradizione. La “proprietà per tutti” invocata da Papa Pecci può realizzarsi soltanto mediante la distribuzione e la comproprietà, ovvero l’istituto giuridico della “comunione” discendente dalla romana “communio”. La comproprietà non è affatto statualizzazione ma una forma di esercizio associato della proprietà privata. Il distributismo può realizzarsi solo favorendo nel modo più ampio possibile la diffusione della proprietà privata popolare. Cosa che implica, è evidente, politiche intese a rendere effettiva la partecipazione alla proprietà produttiva piuttosto che favorevoli all’accumulazione finanziaria e capitalista, nella forma delle grandi società anonime, o all’accentramento statualista, nella forma della nazionalizzazione integrale dei mezzi di produzione, al di là della sfera necessaria alle prestazioni sociali dello Stato ed all’indipendenza nazionale (come ad esempio l’energia, le infrastrutture, la moneta ed il credito).

Ma è mai possibile una applicazione vasta del distributismo oppure esso è solo una pia utopia? É evidente che, in quanto insegnamento etico desunto dalla Rivelazione, esso non può ridursi ad una strategia di politica economica da applicare esclusivamente mediante un sistema coerente di legislazione. Certamente serve anche questo, tuttavia la condizione imprescindibile per il distributismo è la metanoia ossia la conversione del cuore all’Amore di Dio.

Posta questa fondamentale premessa, che non può essere accantonata, vogliamo qui comparare la prospettiva distributista con la scienza economica nella varietà delle sue scuole.

Scuola classica: da Adam Smith a Karl Marx attraverso David Ricardo

Lungo i secoli della Cristianità l’economia non aveva una sua fisionomia scientifica autonoma confondendosi con l’etica e quindi con una branca della teologia. La scienza economica nacque in fin dei conti dall’etica. Una scuola teologica come quella di Salamanca, nel XVI secolo, ha formulato alcuni concetti economici che avrebbero fatto strada nella scienza economica moderna. Questa radice etico-teologica conferiva, almeno in linea teoretica, un orientamento sovra-economico all’agire economico. La convinzione era quella per la quale lavoro e produzione, come ogni altra attività umana, dovevano essere volti al destino eterno dell’uomo, irraggiungibile senza l’esercizio della giustizia e della carità. Nella prassi le cose andavano diversamente perché la realtà concreta delle dinamiche economiche imponeva la ricerca di un contemperamento tra principi etici ed esigenze pratiche: si pensi alle lunghe discussioni universitarie intorno alla legittimità o meno del prestito ad interesse che si accompagnavano a pratiche creditizie e commerciali intese ad aggirarne il divieto onde venire incontro alle necessità dell’emergente economia mercantile e cittadina (1).

A partire dal XV secolo, le borghesie cittadine, ossia “la gente nuova e i subiti guadagni” cui alludeva polemicamente Dante Alighieri già due secoli prima, iniziarono a scalpitare per emanciparsi dall’orientamento sovra-economico dell’attività economica, per tutta ridurla a mero strumento dell’avidità e dell’accaparramento mondano. Proprio dalla crisi umanista della Cristianità del quattrocento – nacque allora il frazionamento della Res Publica Christiana quale conseguenza dello scisma d’Occidente e, più tardi, della rottura luterana con la conseguente nazionalizzazione ecclesiale a supporto degli emergenti regni nazionali in opposizione al Sacro Romano Impero – prese avvio il processo di emancipazione, e quindi di secolarizzazione, dell’agire economico dal suo contesto teologico tradizionale, con la sostituzione all’etica cristiana della nuova etica umanitaria. Fu quello il primo passo verso l’obiettivo, conseguito soprattutto negli ultimi due secoli, della completa emancipazione della scienza economica da qualsiasi legame con ogni tipo di etica, anche quella umanitaria, in una pretesa di auto-referenzialità, rivelatasi alla fin dei conti dannosa per l’economia pratica.

Quel grande storico dell’economia che fu Amintore Fanfani ha dimostrato, sulla scia di Giuseppe Toniolo ma con una maggiore acutezza di analisi, che la nascita dello “spirito del capitalismo” deve essere retrodatata al XV secolo, ossia alla crisi della Cristianità medioevale. Le ricerche storiche di Fanfani hanno contribuito a confutare la nota tesi di Max Weber per la quale la radice dello spirito capitalistico andrebbe cercata nell’“ascetismo professionale” del calvinismo. Il protestantesimo, in particolare nella sua forma calvinista, ha soltanto amplificato gli effetti di una svolta già in atto da più di un secolo.

All’interno di questa dinamica storica, lo studio dei fenomeni economici assurse in modo pieno al rango di scienza autonoma nel XVIII secolo. La prima, vera e propria, scuola economica, nel senso moderno, fu quella dei fisiocrati. Subito dopo di loro prese forma la scuola classica di economia intorno al pensiero di Adam Smith. Questi era un moralista ma la sua morale, quella dell’anglicanesimo inglese, non era più nutrita dal flusso spirituale che solo l’appartenenza ad una legittima Tradizione può assicurare. La fisiocrazia e la scuola classica entrarono in scena sbandierando il principio della libertà e criticando la politica vincolista, dirigista e protezionista del “mercantilismo” ovvero la politica che nel secolo precedente, accompagnando ovunque la formazione delle monarchie assolute, aveva trionfato con Colbert in Francia.

Alla scuola classica va il merito di aver dato veste scientifica al problema, già intuito in precedenza, dell’equilibrio tra offerta e domanda e quindi del “giusto prezzo”, sforzandosi anche di individuare il metodo ritenuto migliore, nella prospettiva individualista di detta scuola, per garantire tale equilibrio. Quello del prezzo giusto era un problema antico e ben noto alla riflessione teologica sui fenomeni economici, sin dai tempi della Scolastica medioevale. Non si trattava quindi di una questione nuova. Innovativo fu, invece, l’approccio della scuola classica che individuò nel libero agire delle forze economiche, quindi nella capacità di regolazione spontanea del mercato, lo strumento migliore per assicurare l’equilibrio economico ed il giusto prezzo. La scelta per il libero mercato comportava la critica verso ogni inferenza sovra-economica, di tipo etico o di tipo vincolista. Era la nascita del cosiddetto “laissez faire”.

La scuola classica di economia avrebbe fatto molta strada. La sua impostazione oggettivista, tuttavia, come si dirà, ha avuto un esito inaspettato perché sulle sue basi teoretiche si sarebbe fondata la critica marxiana al capitalismo. La gnoseologia oggettivista che essa fece propria – il reale dotato di una autonoma consistenza rispetto al soggetto conoscente – la poneva ancora, in qualche residuale modo, nella scia dell’eredità “tomista”. Senza dubbio c’era di mezzo la svolta anglicano-protestante che allontanava Adam Smith da Tommaso d’Aquino – in quella svolta, d’altro canto, era già insita la possibilità della reinterpretazione soggettivista dei suoi presupposti che sarebbe intervenuta nella seconda metà del XIX secolo – e tuttavia, al netto di tale lontananza, sussisteva nel pensiero dei classici quel realismo gnoseologico che aveva contrassegnato la filosofia occidentale sulla scia aristotelico-tomista. La scuola classica di economia, infatti, trattava di cose reali, di valore di scambio inteso come valore insito nella materialità dei beni e quindi di equiparazione tra concretezze la cui stima economica non dipende dal soggetto che le utilizza ma è in re ipsa ossia nella loro stessa sostanza. Da qui poi l’idea, errata, che anche la moneta cartacea di origine bancaria, comparsa da appena un secolo ai tempi di Adam Smith, fosse una merce – come lo era stata un tempo quella aurea – il cui valore sarebbe una funzione della sua rarità, sicché il suo eccesso quantitativo finisce per deprezzarla, ingenerando inflazione, proprio come l’eccesso di una qualsiasi merce ne riduce il valore. Anche il lavoro umano era colto nella prospettiva quantitativa ossia di quanto lavoro è necessario per produrre un bene. In tale ottica Adam Smith definiva il lavoro come “merce” offerta dal lavoratore in cambio di un corrispettivo ossia il salario.

Dopo Adam Smith i postulati teoretici classici furono sviluppati e messi a punto, in chiave scientifica ed analitica, da David Ricardo. Il Karl Marx economista segue pedissequamente la scia di Ricardo portandone ad estremo esito i postulati per rivolgerli contro il capitalismo. Sotto questo profilo anche Marx opera in una qualche misura all’interno della gnoseologia aristotelica-tomista. Filosoficamente Marx dipende da Hegel, quindi dall’idealismo che da Kant in poi aveva criticato aspramente il realismo gnoseologico tradizionale. Tuttavia allo scopo di rovesciare l’idealismo in materialismo egli doveva inevitabilmente approdare sul terreno gnoseologico degli economisti classici, di Ricardo in particolare, assumendone, sub specie economica (altro è il Marx filosofo della storia), la prospettiva realista per portarla alle estreme conseguenze. Ossia da un lato, sulla base dell’idea appunto ricardiano-smithiana del “lavoro merce”, alla teoria del plus-valore per la quale il profitto del capitalista corrisponde al furto di una parte del valore di scambio del lavoro, come tale non adeguatamente retribuito nella stessa quantità impiegata nella produzione, quindi ad una quota salariale non debitamente riconosciuta al lavoratore, e dall’altro lato alla tesi per la quale la pacifica armonia, promessa dal mercato liberato, non sarebbe stata raggiunta fintantoché sussistevano la proprietà privata e l’accumulo capitalista. Soltanto l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione – in un primo momento sottoforma di statizzazione ed in un secondo momento nella forma autogestionaria della società comunista compiuta –, insieme alla contestuale abolizione dello Stato, avrebbe consegnato l’umanità alla prosperità di un mondo senza più conflitti e del tutto “umanizzabile” ossia manipolabile secondo la misura antropocentrica cui l’uomo, finalmente emancipato dalle alienanti sovrastrutture religiose e politiche nonché per questo diventato unico “datore di senso” quando non vero e proprio “creatore”, lo avrebbe costretto.

La Scuola neoclassica

Se in Marx c’è senza dubbio una matrice di titanismo soggettivista, di matrice idealista, il suo ragionar economico dipende, come si è visto, dal realismo della scuola classica di economia, sicché la critica marxiana al capitalismo era praticamente inconfutabile sulla base dei presupposti classici. I vecchi economisti della cattedra non ebbero serie argomentazioni da opporre a Marx fino a quando Carl Menger, nella seconda parte del XIX secolo – la sua opera “Principi di economia” è del 1871 –, non reinterpretò il pensiero dei classici in termini di “utilità marginale”. Il marginalismo mengeriano, infatti, sostiene che alla base dell’agire economico non vi è alcun valore in re ipsa delle cose ma l’apprezzamento soggettivo della loro utilità. É il soggetto agente che conferisce valore alle cose a seconda della utilità percepita, in un dato momento, e come tale suscettibile di variare nel corso del tempo. Se ho sete, un bicchiere d’acqua ha per me il massimo del valore ma man mano che bevo, e placo la mia sete, il valore di un secondo bicchiere d’acqua è molto inferiore al primo. L’impianto filosofico che sta dietro il mengerismo è evidentemente soggettivista e si riallaccia alla tradizione idealista tedesca. Con questo approccio era possibile rispondere al realismo marxiano ma al costo di una rimodulazione del pensiero classico, fuoriuscendo del tutto dalla gnoseologia tradizionale.

Menger è stato il fondatore della “scuola austriaca” altresì nota come “scuola psicologica” o “scuola viennese”. Essa è una delle versioni, la più nota, dell’indirizzo neoclassico di economia. I successivi rappresentanti della scuola viennese, più conosciuti del fondatore, rispondono al nome di Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises. Il soggettivismo neoclassico consentiva di riaffermare, ma su basi nuove, l’individualismo dei classici messo in crisi dall’uso che ne aveva fatto il marxismo per perorarne l’inevitabile esito collettivista. Ma su questa strada, quella soggettivista, è impossibile non imbattersi nello stesso Marx – il Marx coerentemente liberale che esclude la sussistenza dello Stato nella società comunista compiuta – benché per via anarchica. Murray Rothbard, il più brillante allievo di Mises, sviluppò le tesi austriache nel senso di un individualismo così estremo da sfociare nell’anarchismo libertarian – «Il capitalismo è la piena espressione dell’anarchismo e l’anarchismo è la piena espressione del capitalismo» egli ha sostenuto in una intervista (The New Banner: A Fortnightly Libertarian Journal on 25 February 1972) – dando vita al movimento anarco-capitalista o del “capitalismo libertario” espressione avanzata del libertarismo di destra.

Nell’impostazione anarco-capitalista lo Stato deve essere smantellato pezzo per pezzo giacché il mercato non ha alcun bisogno di etero-regolazione per funzionare. Rothbard ha una visione del mercato analoga a quella che della società comunista compiuta aveva Marx: nell’uno e nell’altro caso è l’azione di una mano invisibile o dell’autogestione sociale a rendere possibile la perfetta convivenza, armoniosa ed a-conflittuale, degli uomini. L’economista americano, che trova oggi facile credito tra i teo-conservatori cattolici, ha persino tentato di arruolare, nella sua prospettiva libertaria, la scuola teologica di Salamanca, del XVI secolo, per certi suoi sviluppi di pensiero etico favorevoli alla libertà nei contratti e negli scambi, ed ha provato, per tale via, a reclutare anche il tomismo tra gli antesignani del libertarismo. In realtà egli confondeva il lockismo con il tomismo ossia dava di quest’ultimo una esegesi post-scolastica trascurando che mentre per Locke il fondamento della vita sociale è nel contratto, quindi nella autodeterminazione volontaristica di soggetti, supposti titolari di una libertà assoluta, che ai fini di convivenza regolano sinallagmaticamente questa assoluta libertà, invece per l’Aquinate la comunità politica ha il suo fondamento nella natura sociale dell’uomo come creata da Dio.

Quale base comune?

Cosa, dunque, accomuna le diverse scuole economiche liberali, quella classica, quella austriaca, quella neoclassica, quella libertarian? L’elemento comune tra esse è l’approccio individualista al problema economico. Tutte queste scuole – con una parziale esclusione di quella classica che conosce categorie di “classe”, capitalisti, lavoratori, proprietari terrieri, ma soltanto per una mera necessità di inquadramento teorico dei differenti comportamenti individuali – non danno alcun rilievo alla dimensione sovra-individuale dell’economia né ammettono che l’economia possa subire inferenze dalla politica o dall’etica eteronoma (l’etica autonoma, sostanzialmente quella che ritiene bene tutto ciò che l’individuo sceglie per sé autodeterminandosi, è invece ampiamente ammessa dalle scuole liberali, dato che essa coincide sostanzialmente con l’opzione individualista). L’assunzione dell’individualismo a criterio metodologico dell’analisi economica comporta, di conseguenza, che tutte queste scuole hanno un approccio di tipo microeconomico, perché esse se non negano quantomeno sottovalutano l’inevitabile connessione dell’economia con i superiori ambiti del Politico e dell’Etica eteronoma. Affinché anche la scienza economica moderna scoprisse questa connessione, che poi si trattò di una riscoperta, è stato necessario aspettare la nascita, nel XX secolo, della “macroeconomia” affermatasi sull’onda del keynesismo. A seguito di questa (ri)scoperta le stesse scuole liberali sono state costrette a prendere in considerazione anche gli aspetti macroeconomici del funzionamento dell’economia moderna.

Quando nel 1891, vent’anni dopo la pubblicazione del libro di Carl Menger, Leone XIII, con la “Rerum Novarum”, ammonì che “il lavoro non è merce”, spiegando che la rivendicazione del “giusto salario” aveva un ineccepibile fondamento etico, ad essere messi sotto accusa non furono soltanto i classici – e con essi il marxismo che ragionava come questi circa l’essenza ed il valore del lavoro – ma anche i marginalisti neoclassici giacché l’ammonimento pontificio, in favore della dignità del lavoro inteso come espressione spirituale dell’uomo e non come merce, entrò in rotta di collisione anche con l’approccio, ad esso, in termini di utilità marginale. Infatti, secondo la prospettiva neoclassica l’imprenditore valorizza il lavoro dei dipendenti in funzione dell’utilità marginale del processo produttivo, per cui laddove la tecnica consente di impiegare meno lavoro questo si riduce in termini di valore soggettivo per il datore di lavoro reso così irresponsabile della sorte dei lavoratori in eccesso. Leone XIII opponeva al marginalismo il superiore principio sovra-economico della dignità del lavoratore, imprescindibile anche sotto il mero profilo del calcolo economico che diventa miope e di corto respiro, quindi distruttivo nel lungo periodo, se non tiene conto della “costante etica”. Quel grande Pontefice rivendicava la dimensione ontologica del lavoro umano inteso come espressione della spiritualità della persona “imago Dei” e quindi rigettava, come eticamente inammissibile, qualsiasi teoria economica che guardasse al lavoro dell’uomo – qualunque lavoro, intellettuale o manuale – nei termini di una merce ma anche in quelli di utilità marginale.

Offerta e domanda: da Jean-Baptiste Say a John Maynard Keynes

C’è, però, un altro elemento che accomuna le diverse scuole economiche liberali. Esse, nessuna esclusa, hanno elaborato i loro paradigmi esclusivamente dal punto di vista di chi guarda dal lato dell’offerta, del tutto trascurando il lato della domanda. Questo sostanziale strabismo, oltre a presentare non pochi problemi etici, porta, contrariamente alle attese di ampliamento della prosperità generale, al fallimento del mercato.

L’approccio “offertista” delle scuole liberali deriva dalla legge fondamentale dello schema economico classico, non superata neanche dalla successiva riformulazione neoclassica, nota come “Legge del Say”. Tale legge, conosciuta anche come legge degli sbocchi, fu formulata tra XVIII e XIX secolo da Jean-Baptiste Say (1767-1832). Nel Capitolo XV del Libro I del suo “Trattato di economia politica”, del 1803, egli la formulò nei seguenti termini:

«Un prodotto terminato offre da quell’istante uno sbocco ad altri prodotti per tutta la somma del suo valore. Difatti, quando l’ultimo produttore ha terminato un prodotto, il suo desiderio più grande è quello di venderlo, perché il valore di quel prodotto non resti morto nelle sue mani. Ma non è meno sollecito di liberarsi del denaro che la sua vendita gli procura, perché nemmeno il denaro resti morto. Ora non ci si può liberare del proprio denaro se non cercando di comperare un prodotto qualunque. Si vede dunque che il fatto solo della formazione di un prodotto apre all’istante stesso uno sbocco ad altri prodotti».

Dunque per il Say il denaro ricavato dalla vendita sarebbe destinato immediatamente alla spesa, sicché il venditore è sempre anche un compratore e questo offre uno sbocco alla produzione altrui. La prospettiva scelta dal Say è orizzontale, perché immagina il mercato come un sistema di agenti economici nella stessa condizione che interagiscono in una relazione di scambio, do ut des, con tutti gli altri. Uno scenario mai realmente esistito nella storia, neanche nei tempi medioevali allorché la produzione era questione di liberi artigiani riuniti in gilde. Infatti anche nel medioevo esistevano gerarchie interne alle stesse gilde, che già conoscevano pertanto la realtà del lavoro salariato, e, soprattutto, la produzione artigiana era dipendente dall’egemonia finanziaria e creditizia dei mercanti-banchieri, tanto che ben presto quello artigiano si trasformò in lavoro a cottimo nel quale veniva già prefigurato il lavoro salariato su ampia scala del capitalismo futuro. Sulla base della sua concezione a-storica ed astratta della produzione e del mercato, Say sosteneva che in regime di libero scambio non sarebbero possibili crisi prolungate, poiché «l’offerta crea la domanda». Secondo questa prospettiva “offertista” in una economia di libero mercato ciascuno, ai prezzi correnti in un dato momento, sceglie di essere compratore o venditore. Sicché se si verifica un eccesso di offerta, i prezzi tenderanno a scendere e la discesa dei prezzi renderà conveniente nuova domanda. Ecco perché, secondo Say, l’offerta sarebbe sempre in grado di creare la propria domanda. Pertanto, in caso di crisi da sovrapproduzione, il rimedio non deve essere cercato in un intervento dello Stato ma nella presunta capacità auto-regolatoria del mercato, il quale in regime di libero scambio fungerebbe di per sé da rimedio, portando di necessità alla formazione di un nuovo equilibrio economico. Il Say – ecco il punto – nel suo approccio orizzontale, incapace di vedere che nel mercato sussistono gerarchie e verticalità di reddito ossia di ceto, non riusciva a comprendere che proprio il postulato del laissez faire, la ricerca individualistica del massimo profitto al minor costo, oltre una certa misura apriva la via al fallimento del mercato giacché tra i costi da ridurre, affinché l’imprenditore possa conseguire il massimo profitto, c’è anche il costo del lavoro. Il quale, anzi, senza le opportune tutele, è il più facile da comprimere. Ma comprimere il costo del lavoro, ossia i salari, significa deprimere la domanda e quindi impedire lo sbocco che, stando alla legge dal Say postulata e che porta il suo nome, avrebbe dovuto essere automaticamente garantito per il solo fatto dell’offerta sul mercato del prodotto finale. La “profezia” marxiana sul crollo del sistema capitalistico faceva leva su aporie come questa. E se è vero che il capitalismo non è crollato, come pensava Marx, esso ha comunque dimostrato tutta la sua non eticità, causa principale delle ricorrenti crisi che lo affliggono. In altri termini, Say non comprese che l’egoismo non funziona, neanche in economia, perché danneggia il funzionamento del mercato anziché favorirlo. La “mano invisibile” è eticamente cieca e, per questo, alla lunga, anche economicamente inefficace.

L’importanza storica della Legge del Say sta nel fatto che essa fu assunta quale principio fondamentale della scuola classica e tale restò anche nella riformulazione neoclassica. Tutte le politiche dei governi occidentali, fino agli anni ’30 del XX secolo, furono guidate da tale principio e di fronte alle crisi si reagiva con provvedimenti atti, presuntamente, a favorire l’offerta senza porsi minimamente il problema della domanda. Tanto, sulla base della visione classica e neoclassica, la domanda sarebbe tornata a livelli ottimali automaticamente per la dinamica stessa del mercato. Uno dei principali provvedimenti che le politiche economiche offertiste utilizzavano – ed utilizzano ancor oggi – è la riduzione dei salari onde consentire al produttore offerente di abbassare i costi del prodotto ed ingenerare così il nuovo equilibrio di mercato. In realtà, si tratta di un suicidio economico paragonabile al salasso praticato ad un anemico.

La scienza economica iniziò a rendersi conto dell’infondatezza del postulato del Say soltanto negli anni ’30 del secolo scorso per opera, in particolare, di John Maynard Keynes. L’economista inglese ebbe il merito di conferire dignità scientifica al pensiero di diversi economisti dilettanti, come il maggiore Charles Douglas e Silvio Gesell teorico della cosiddetta “moneta prescrittibile”, i quali, benché confusamente, avevano già individuato le origini delle crisi di mercato, delle recessioni e delle depressioni, nella insufficienza della domanda. Questi dilettanti dell’economia, pur senza riuscire a dare alle loro intuizioni quella veste scientifica necessaria a non essere snobbati dall’accademia, avevano messo in discussione il postulato classico e neoclassico: l’offerta non genera automaticamente domanda. La sovraproduzione è soltanto il sottoconsumo visto dal lato dell’offerta sicché se ci poniamo, invece, dal lato della domanda emerge che è la flessione di questa ad impedire alla produzione di trovare mercato, con la conseguenza che le merci restano invendute nei magazzini innescando il crollo dei profitti. In qualche modo, dunque, è piuttosto l’offerta a dipendere dal livello della domanda, ossia – questo è il punto – dal livello del reddito dei produttori che sono anche i consumatori.

Il Gesell, che fu anche ministro della Repubblica socialista bavarese del primo dopoguerra, proponeva, onde far circolare il denaro e sostenere la domanda, la moneta prescrittibile, ossia una moneta che perdeva valore se non fosse stata periodicamente bollinata dall’Autorità. In tal modo egli non fece altro che proporre un espediente affinché fosse impedita la tesaurizzazione monetaria e favorita, pena la perdita di valore, la spesa dei consumatori e, quindi, per tale via, stimolata la domanda. La moneta geselliana ebbe pratica applicazione, tra le due guerre mondiali, in alcuni villaggi austriaci, con ottimi risultati, finché non intervenne la Banca centrale ad impedirne l’uso. Molti anni dopo, nel 2000, un esperimento simile fu tentato nella cittadina abruzzese di Guardiagrele, in provincia di Chieti, in base alle idee sulla “proprietà popolare della moneta” del giurista Giacinto Auriti, professore ordinario di diritto internazionale e di teoria generale del diritto. Anche in tal caso con ottimi risultanti di stimolo della stagnante domanda, fino a che non arrivò, puntuale, l’intervento repressivo della Banca d’Italia attuato attraverso la magistratura.

John Maynard Keynes, nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (1936), facendo tesoro delle intuizioni dei citati dilettanti, in particolare di quelle di Gesell, ha smontato il postulato portante dell’economia classica, ossia la Legge di Say, dimostrando che l’assunto sulla base del quale essa fu formulata, ossia l’automatica generazione di domanda provocata dall’immissione di un prodotto sul mercato, è falso in quanto il detentore di moneta può essere motivato a tesaurizzarla invece che spenderla (2). La tesaurizzazione consiste nella fuoriuscita di parte del reddito, ricevuto sotto forma di salari, profitto o interesse, dal circuito economico definito dalla circolazione monetaria. Keynes, in altri termini, portò il discorso dall’ambito microeconomico, all’interno del quale ragionava l’economia classica, a quello macroeconomico. In tale ambito, infatti, piuttosto che la domanda sic et simpliciter è necessario prendere in considerazione la “domanda aggregata (o effettiva)”, ossia la domanda nella sua dimensione sovra-individuale e pertanto “politica”. La domanda aggregata può flettere verso il basso per una serie di cause una delle quali, tra le principali, è l’eccessiva diseguaglianza reddituale tra i fattori della produzione, ossia capitale, tecnica e lavoro.

In sostanza Keynes indicava tra le cause che sono all’origine delle ricorrenti crisi del mercato capitalistico anche l’ingiusto trattamento salariale e suggeriva una maggiore equità sociale quale rimedio alle recessioni, in controtendenza con quanto fino a quel momento si era fatto per affrontare le crisi ossia ridurre i salari. Keynes, il cui pensiero può essere ascritto ad un socialismo democratico non marxista benché egli non abbia negato di essere anche un “conservatore riformista” (3), poneva all’attenzione degli imprenditori la cecità delle politiche economiche intese al contenimento salariale che, oltretutto, favoriscono il conflitto anziché la pace sociale. I suoi contraddittori gli rimproveravano di non tener conto del fatto che gli aumenti salariali si traducono in aumento dei costi di produzione e quindi del prezzo di mercato dei prodotti, in altri termini in inflazione. Keynes rispondeva, a questo genere di critiche, che l’inflazione da costo del lavoro – perché altro discorso è quello da farsi per l’inflazione da costo delle materie prime, come quella oggi riapparsa a seguito della pandemia, o per l’inflazione da domanda quando si inceppa l’offerta – si verifica solo quando l’economia raggiunge la sua piena capacità produttiva. Prima di allora, l’aumento della domanda richiede un aumento dell’offerta: se un numero maggiore di lavoratori viene assunto per produrre quantità maggiori di beni e servizi, allora la domanda e l’offerta crescono congiuntamente.

Negli stessi anni nei quali Keynes sviluppava le sue innovative idee, lo stesso problema, ossia la centralità della domanda, fu intuito, nei termini etici tipici della Dottrina Sociale della Chiesa, che è per l’appunto una branca della teologia morale, da un grande pontefice, Pio XI, il quale nell’enciclica “Quadragesimo Anno”, del 1931, indicò, come causa dell’ingiustizia e della crisi, il fatto che «il capitale troppo ha preteso di aggiudicare a sé stesso». Pio XI e Keynes convergevano, per strade diverse, nell’individuazione della radice sovra-economica del problema economico. Lo squilibrio economico e sociale, generatore del conflitto e delle crisi, ha cause innanzitutto etiche che afferiscono alla tendenza umana all’egoismo. Non è, dunque, vero che dal libero agire degli egoismi individuali sortisce il migliore dei mondi possibili, come ritengono le scuole liberiste. Tuttavia, mentre il Pontefice, senza trascurare le soluzioni politiche, perorava innanzitutto la “metanoia”, ossia la “conversione del cuore”, per rimediare efficacemente al “peccato sociale”, Keynes, senza affatto trascurare il fattore decisivo della persuasione intellettuale, guardava essenzialmente proprio alle soluzioni di politica economica. La distanza tra i due approcci si assottiglia laddove si consideri che la scelta per politiche di indirizzo sociale abbisogna in qualche modo, se non di una vera e proprio metanoia in senso teologico, comunque di una apertura ad una dimensione umana che non può prescindere da una sensibilità etica. Non era dunque un caso se l’economista inglese riteneva necessario un alto standard morale per l’azione politica e, quindi, che persone di alta statura morale, dotate di senso dello Stato e di senso del bene comune, fossero poste a capo delle Istituzioni pubbliche affinché queste, con saggi interventi di politica economica, potessero rendere più efficace e giusto il funzionamento del mercato.

Come ha rilevato Maria Cristina Marcuzzo, in “Moneta e credito” vol. 70, n. 277, marzo 2017: «Lasciare che gli individui perseguano il proprio interesse personale – come nella parabola di A. Smith dove il benessere sociale è il risultato del perseguimento del profitto individuale, come fa “il macellaio, il birraio e il panettiere”, è un’idea che non ha validità generale, perché non ci sono sempre forze in grado di armonizzare gli interessi individuali e in secondo luogo perché l’esito aggregato del comportamento economico non è lo stesso di quello individuale. Se l’obiettivo è di cambiare il contesto in cui gli individui agiscono e ottenere cambiamenti di atteggiamento bisogna prioritariamente modificare il modo in cui viene visto il problema economico. A questo risultato Keynes ritiene si possa arrivare usando il potere della persuasione. In una lettera a Thomas S. Eliot del 5 aprile 1945, scrive: “il compito principale è suscitare la convinzione intellettuale e poi intellettualmente trovare i mezzi. Il problema è la mancanza di intelligenza, non di bontà […]. Quindi la politica della piena occupazione è solo una applicazione particolare di un teorema intellettuale” (Keynes, 1980b, p. 384)».

Persuasione diceva Keynes, metanoia sosteneva, in una visione più alta, Pio XI. Ma entrambi indicavano nella dimensione sovra-economica la radice di una economia più giusta.

Il moltiplicatore keynesiano e la critica monetarista

Per Keynes, tuttavia, una politica salariale “giusta” non è in grado da sola di risolvere il problema del sostegno alla domanda aggregata. Infatti la tendenza alla tesaurizzazione, soprattutto nei periodi di crisi quando la gente ha paura del futuro, può manifestarsi anche tra i lavoratori salariati, che così non spendono il loro reddito direttamente o tramite il conferimento del risparmio al sistema bancario il quale, per la stessa tendenza a tesaurizzare, che nel suo caso si identifica con il timore del rischio nell’incertezza della stabilità economica, non spinge adeguatamente le possibilità di investimento fino al limite massimo consentito in un dato momento. Un ruolo fondamentale, nel sostegno della domanda, lo gioca, secondo Keynes, la spesa pubblica.

Laddove gli economisti classici e neoclassici denunciavano la rigidità salariale imposta dalla contrattazione sindacale come causa di impedimento della flessibilità di cui necessita il mercato, Keynes rispondeva che non è la rigidità salariale a spiegare l’inefficacia del mercato ma il basso livello della domanda aggregata. La differenza maggiore tra Keynes e gli economisti di scuola liberista sta però nel fatto che egli sottrae ai prezzi, quindi anche ai salari, che sono il prezzo di remunerazione del fattore lavoro, ed al tasso di interesse, che è il prezzo di remunerazione del prestito di investimento, il ruolo principale nell’aggiustare la domanda e l’offerta allo scopo di avviare il sistema verso un equilibrio di pieno impiego. Lo strumento più sicuro nel sostegno alla domanda aggregata, senza usare il quale questo sostegno non si concretizza nella misura necessaria, è, per Keynes, la spesa pubblica in deficit. Probabilmente è qui uno dei punti focali della querelle tra neokeynesiani e postkeynesiani, di cui si è fatto cenno nella nota n. 3, perché, in effetti, il pensiero di Keynes, come emerge dalla sua “Teoria generale”, sembra dar adito sia ad una visione moderata dell’intervento dello Stato sia ad una visione più radicale. Ci sono parti della sua opera nelle quali sembra che l’economista di Cambridge non sia affatto favorevole ad un indiscriminato uso di investimenti pubblici, finanziati in deficit di bilancio. Il suo appello, come espresso nella “Teoria generale”, alla necessità dell’intervento dello Stato viene sovente da lui inteso nel senso che allo Stato basta soltanto il controllo del livello totale degli investimenti, attraverso una azione diretta o indiretta, ma guardando sempre all’incentivo di mercato, ossia all’iniziativa privata, che non deve essere soppressa. Lo Stato deve creare un clima di fiducia per gli imprenditori ed investitori e questo è possibile in considerazione della tendenza degli investimenti privati a seguire quelli pubblici, giacché questi ultimi, aumentando il livello di domanda aggregata, attirano i primi con la prospettiva di un alto livello di domanda pubblica e privata e quindi con la possibilità di trovare sbocchi alla produzione. Nella “Teoria generale” questo è detto esplicitamente sicché l’immagine di un Keynes “statalista” o “assistenzialista” è discutibile. Secondo dunque questa interpretazione, che è quella preferita dai neokeynesiani, l’economista inglese non assegna allo Stato altre funzioni che non siano quelle di una politica di sostegno attivo della domanda aggregata tale, però, da non risolversi in una spesa pubblica improduttiva o in una “burocratizzazione” dell’economia. D’altro canto, nelle stesse pagine della “Teoria generale” ci sono altri passaggi dai quali può desumersi che, in fondo, Keynes pensasse ad una azione dello Stato più radicale, intesa ad un graduale superamento del capitalismo ed alla trasformazione dell’economia di mercato in una “economia socializzata di mercato” nella quale lo Stato avrebbe assunto funzioni molto più vaste fino a gradualmente identificarsi con la società, diventando ad essa immanente in una sorta socializzazione non solo del mercato ma anche dello Stato (probabilmente Keynes non sospettava che una filosofia sociale simile era perorata, negli stessi anni nei quali egli scriveva, da Giovanni Gentile, in particolare quello della sua ultima opera, postuma, “Genesi e struttura del società”). Secondo questa interpretazione più radicale del pensiero di Keynes, lo Stato dovrebbe diventare “Datore di lavoro di ultima istanza” in quanto chiamato a dare lavoro non solo attraverso il sostegno alla domanda con il deficit spending ma anche, in particolare, attraverso una programmazione democratica, attuata per via partecipativa dal basso, che stabilisca ex ante cosa produrre – non solo come produrre –, in quale misura importare ed in quale misura proteggere la domanda interna – da preferire, contro un eccessivo liberoscambismo, a quella esterna –, il livello di controllo anti-speculativo sul sistema bancario e sui movimenti di capitale, il controllo della politica monetaria per evitare la formazione di cambi monetari rigidi o poco flessibili ossia il formarsi di “vincoli esterni” che, con le loro costrizioni ad aggiustamenti deflazionistici, favoriscono le spinte capitalistiche alla internazionalizzazione e impongono la “disciplina del lavoro” ovvero il contenimento o la riduzione salariale – in altri termini avvantaggiano i capitalisti a danno dei lavoratori – , nonché la misura, alquanto ampia, dell’offerta di occupazione pubblica per lavori socialmente utili.

L’interpretazione postkeynesiana del pensiero di Keynes, a ben rifletterci, si presenta come il paradigma economico di quello che oggi potremmo chiamare Sovranismo di Sinistra, il quale, proprio per questo, non può non richiamare in causa le idee di Comunità, di Patria, di Identità, di Appartenenza, di Tradizione proprie al pensiero della Destra antimoderna – antimoderna non per nostalgia delle forme sociopolitiche del passato ma in quanto rigetta, in una visione organicista del vivere associato, il fondamento intrinseco della modernità ossia l’individualismo –  come appunto avviene, giocoforza, nel pensiero di studiosi di sinistra di certa notorietà i quali si oppongono innanzitutto alla deriva radical-chic, cosmopolita, “arcobaleno”, individualista (che asseconda in particolare la pseudo-religione dei “diritti civili” e la morale liquida postmoderna)  della sinistra neoliberale. Facciamo qui gli esempi di Stefano Fassina, fondatore dell’associazione “Patria e Costituzione” e rivalutatore del pensiero cattolica personalista e della Dottrina Sociale della Chiesa, e di Sahra Wagenknecht, già leader di Die Linke, partito di estrema sinistra tedesco, che nel suo ultimo libro (4) recupera a sinistra il pensiero tradizionalista e conservatore di Edmund Burke proprio perché questo genere di conservatorismo offre quell’approccio organicista ed anti-individualista che la sinistra ha completamente perduto (a causa, aggiungiamo noi, dell’intrinseca essenza antropocentrica, quindi individualista e liberale, del pensiero di Karl Marx, il quale non mirava a liberare il proletariato – liberazione che nel suo intento era soltanto il motivo storicamente occasionale del vero e più ampio obiettivo – quanto a emancipare l’uomo da quelle che lui reputava, erroneamente, le sovrastrutture tradizionali del Sacro e della Comunità, per restituire all’umanità la sua “onnipotenza” alienata nell’immagine di Dio e dello Stato, considerati l’Uno e l’altro, sulla scia della filosofia di Feuerbach, di Fichte e di Hegel, proiezioni  esteriorizzate dell’io da ricondurre nel completo dominio umano) .

Un elemento fondamentale della teoria keynesiana è il cosiddetto “moltiplicatore”. Si tratta della formula per la quale ad ogni aumento della spesa autonoma (ad esempio investimenti o esportazioni) corrisponde – attraverso la spesa indotta (consumi, al netto delle imposte e delle importazioni) – un aumento di reddito maggiore della spesa iniziale se esistono contestualmente capacità produttiva inutilizzata e disoccupazione. Da qui il nome di moltiplicatore dato agli effetti della spesa in deficit di bilancio, cioè la spesa pubblica maggiore del gettito fiscale (resa possibile dal fatto che, analogicamente alla quasi moneta bancaria e creditizia, anche le promesse di pagamento dello Stato circolano come fossero moneta nonché dal fatto che lo Stato, attraverso la Banca centrale, crea moneta dal nulla). Nella teoria keynesiana il moltiplicatore è capace di generare reddito e, quindi, il risparmio ed il gettito (in funzione del reddito creato) necessari a finanziare l’investimento iniziale.

La critica monetarista di Milton Friedman, negli anni sessanta del secolo scorso, si appuntò proprio sugli effetti del moltiplicatore keynesiano, fino ad allora incontestati. Milton Friedman dimostrò che il valore del moltiplicatore è molto più basso di quanto si era ritenuto per trent’anni perché il consumo non risponde in modo proporzionale all’aumento del reddito dei lavoratori, mentre quest’ultimo veniva indicato come responsabile delle impennate inflattive. L’alta inflazione degli anni settanta – che tuttavia non era inflazione monetaria ma inflazione da costi conseguente all’aumento del prezzo greggio, a causa del blocco dell’offerta di petrolio da parte dei Paesi arabi come ritorsione all’aggressività bellica di Israele – sembrò dare ragione a Milton Friedman inaugurando in tal modo la stagione neoconservatrice di Reagan e della Thatcher con un ampio ritorno alle politiche neoliberiste di contrazione dei salari e di accumulazione del capitale, in una prospettiva transnazionale di liberalizzazione finanziaria che avrebbe preparato la globalizzazione dell’ultimo decennio del secolo e del primo del nuovo millennio. La critica monetarista aprì una stagione di nuova sfiducia sull’efficacia della politica fiscale, ossia della politica di spesa statale. A tale critica – che coagulò intorno ad essa la formazione della cosiddetta “Nuova Scuola Classica” egemone per tutti gli anni ottanta e novanta ossia quelli dell’affermarsi del neoliberismo – i neokeynesiani opposero una difesa, teoricamente debole, perché relegarono l’efficacia del moltiplicatore al breve periodo senza più pretese di affermarla nel lungo periodo. In questo, in qualche modo, confortati dallo stesso Keynes che ai suoi critici liberisti, secondo i quali lasciato ad esso il tempo necessario l’automatismo del mercato rimette tutto a posto, soleva rispondere che nel lungo periodo saremo tutti morti.

Ma la storia è soprattutto storia dell’imprevedibilità che contrassegna la dinamica della lotta tra paradigmi e le conseguenti, sempre illusorie, egemonie scolastiche: «Fino alla crisi del 2007-2008 – scrive ancora Maria Cristina Marcuzzo nel suo contributo già citato – la maggior parte degli economisti in università prestigiose, in istituzioni come la World Bank e il FMI, in autorevoli giornali e riviste come il Financial Times e l’Economist accettò le stime di un basso valore del moltiplicatore come prova dello scarso o addirittura nullo impatto della spesa pubblica. Gli argomenti tradizionali contro gli interventi congiunturali – ritardi nei meccanismi decisionali e d’implementazione – uniti all’ipotesi di aspettative razionali di agenti che anticipano e neutralizzano l’azione dell’autorità pubblica, facevano apparire impossibile utilizzare al momento giusto la politica fiscale come strumento per rilanciare l’economia. Tuttavia il moltiplicatore è ritornato sulla scena dopo la crisi [del 2008]. Negli anni cinquanta e sessanta, all’apice del Keynesismo, si stimava che il valore del moltiplicatore fosse approssimativamente pari a due. Negli anni novanta e duemila le stime econometriche mostravano valori molto bassi, assestandosi intorno a 0,5-0,7. Nel 2009 il FMI e la UE portano le stime del moltiplicatore all’interno di una forchetta tra 0,9 e 1,7 (Marcuzzo, 2014). Finalmente abbiamo di nuovo un moltiplicatore che moltiplica, perché questo non si può non vedere – come nel caso dell’Europa dell’austerità – quando la spesa autonoma si riduce».

Domanda aggregata e redistribuzione degli utili

Anche se Keynes affida all’effetto moltiplicatore della spesa pubblica il ruolo principale nel sostegno della domanda aggregata, non si deve credere, con troppa facilità, che egli considerasse del tutto secondario lo strumento della giusta politica salariale. Al contrario, egli guardava ad essa sia per motivi etici che per motivi economici. Non mancò infatti di indicare in un buon livello salariale un elemento comunque importante nelle politiche di sostegno della domanda effettiva.

Questo ci porta, ora, – nel contesto del presente contributo inteso a richiamare l’attenzione sulla dimensione sovra-economica del problema di una sana economia – ad esaminare la soluzione partecipativa del rapporto tra azienda e dipendenti nell’ottica del rafforzamento della domanda e del contemperamento di quest’ottica con una visuale non del tutto dimentica, sarebbe un errore anche questo, del lato dell’offerta.

Generalmente si parla del “salario di produttività” come di uno strumento per assicurare una dinamica salariale che, in quanto legata agli andamenti della produttività, venga incontro alle esigenze rivendicative dei lavoratori senza indurre spinte inflattive, da costo del lavoro, sul prezzo finale della produzione. Molti, tuttavia, confondono il “salario di produttività” con la “partecipazione agli utili” benché le due cose non coincidano in maniera perfetta, dato che il primo sembra piuttosto connettere i soli aumenti salariali al saggio di produttività mentre la seconda tende piuttosto alla redistribuzione di una quota dell’utile netto ai dipendenti.

La dinamica partecipativa del salario – qui sta la sua diversità – agisce sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda perché essa per un verso presuppone che sia conseguito un margine di profitto e per l’altro verso realizza la redistribuzione della ricchezza prodotta a sostegno della domanda. In un’ottica partecipativa il lavoro dei dipendenti da mero costo, nel calcolo economico dell’impresa, tende a diventare socio dell’imprenditore, apportatore di know-how professionale esecutivo al complesso patrimoniale aziendale. Senza, come si è già detto, provocare spinte inflattive ma adempiendo pienamente al sostegno della domanda.

Orbene, proprio perché per loro natura svolgono una funzione redistributiva della ricchezza, tali strumenti di politica sociale e aziendale non sono affatto indifferenti in una prospettiva keynesiana, che, come sappiamo, guarda prevalentemente dal lato della domanda. Infatti – sia nella forma del salario di produttività sia in quella della più piena partecipazione agli utili netti – siamo comunque di fronte ad una redistribuzione di reddito in favore del lavoro e, pertanto, a cospetto di uno strumento in controtendenza all’accentramento ed alla concentrazione al vertice della ricchezza prodotta. Partecipazione agli utili e salario di produttività possono assumere un significato etico, oltre che economico, rispondendo alla necessità di restituire l’economia ad una visione più sociale, onde rimediare alla frattura intervenuta, con la modernità, tra etica e dimensione economica e, quindi, ripristinare una corrispondenza tra l’una e l’altra pur nella reciproca autonomia che non deve per forza significare indifferenza o chiusura.

Se mediante la partecipazione agli utili e/o il salario di produttività si ottiene una redistribuzione del profitto per scivolamento di esso dal vertice verso la base – dove il vertice va inteso come lavoro direttivo all’interno dell’impresa, quindi come apporto intellettuale dell’imprenditoria ben diverso dal capitale finanziario che svolge soltanto funzione di apporto capitalistico e che in quanto tale non è lavoro – il problema dell’adeguato livello della domanda aggregata, la quale, al netto del moltiplicatore della spesa pubblica in deficit, è proporzionale al reddito dei lavoratori/consumatori, ossia al livello del salario, trova una efficace soluzione nella prospettiva di una dinamica salariale che finisce, in termini macroeconomici, per costituire una componente importante della domanda aggregata. Senza che possa obiettarsi che la partecipazione, non agendo direttamente sul livello di base del salario, quello contrattualmente stabilito ex ante al ciclo produttivo, ma soltanto sulla distribuzione ex post dell’utile, presupponga, per essere benefica all’aumento del reddito dei lavoratori, il conseguimento del profitto, perché, in fin dei conti, anche il salario di base presuppone una redditività attiva dell’impresa. Infatti, senza tale attivo, anche il salario di base verrebbe meno, non solo la distribuzione dell’utile o della maggior produttività.

Lo strumento partecipativo pertanto non può essere disgiunto, come pensano alcuni “offertisti”, dalla questione del livello della domanda aggregata che dipende essenzialmente dalla distribuzione del profitto, tanto in termini di livello salariale contrattato ex ante, all’avvio del ciclo produttivo, quanto in termini di conseguimento del margine di profitto a ciclo concluso. Infatti sia il salario contrattato sia l’utile, da redistribuire mediante partecipazione al suo netto o al quale il salario variabile in funzione della produttività consente di partecipare, altro non sono che quote del profitto d’impresa e quest’ultimo – ecco il punto keynesiano – non è mai riproducibile nel lungo periodo se prevalgono miope ed errate politiche di accentramento capitalistico e di contenimento salariale o di negazione della partecipazione agli utili. In altri termini, la partecipazione garantisce la domanda aggregata mediante una ampia diffusione ed aumento del reddito dei lavoratori. La redistribuzione in favore dei lavoratori di una quota del profitto aziendale, attraverso la partecipazione agli utili netti o il salario di produttività, sostiene il livello della domanda aggregata, apportando l’equilibrio benefico necessario all’efficace funzionamento del mercato.

Il cuore chiuso volge all’abisso

A chi gli rimproverava di non tener in debito conto il rischio dell’inflazione da costo del lavoro – che finisce per “mangiarsi” gli aumenti salariali nominali aggrediti dalla perdita di potere d’acquisto reale a causa dell’aumento conseguente dei prezzi finali – Keynes rispondeva che quel rischio si avvera soltanto quando l’economia raggiunge la sua piena capacità produttiva e quindi il pieno impiego. Ciononostante l’effettivo emergere di pur moderate spinte inflazioniste anche prima del raggiungimento della massima capacità produttiva e di impiego è stato il fattore che maggiormente ha creato difficoltà pratiche all’accettazione da parte imprenditoriale delle soluzioni keynesiane, in favore di alti salari, mentre la controparte sindacale spingeva alla loro implementazione.

Nella dinamica del capitalismo reale, quello nel quale in passato prevaleva l’elemento patrimoniale sul finanziario, l’imprenditoria si era convinta, dopo diverse sollecitazioni politiche e sindacali, della necessità di guardare anche dal lato della domanda. Un esempio di tale atteggiamento intelligente è quanto affermava, negli anni ’30, Henry Ford circa la necessità di politiche salariali tali da consentire ai suoi operai la possibilità di acquistare l’auto che essi contribuivano, con il loro lavoro manuale, a produrre. Altri industriali hanno avuto atteggiamenti di resistenza all’idea di assicurare livelli salariali adeguati al livello di domanda necessario per fornire sbocco di mercato alla produzione, in quanto, in una visuale microeconomica, essi guardavano, insensatamente, al profitto di breve periodo e perché, sotto il profilo macroeconomico, temevano l’inflazione da costo del lavoro. Tuttavia il percorso storico dell’Occidente, nel XX secolo, dimostra che, alla lunga, l’imprenditoria ha ceduto a prospettive di medio-lungo termine per favorire, nel breve, livelli salariali più equi. Pur senza andare fuori mercato, le imprese impararono a puntare al mantenimento tendenziale del saggio di profitto nel medio-lungo periodo attraverso il contenimento nel breve periodo del livello dei profitti medesimi, in modo da evitare l’automatico aumento del prezzo finale a fronte degli aumenti salariali necessari ad aggiustare la domanda. Vigeva la convinzione diffusa che in ogni fase storica, posto un certo livello tecnologico, vi sia un ottimale livello di domanda aggregata, quindi anche di salario, tale da consentire il maggior profitto possibile nelle circostanze date. In questo contesto, le esperienze di partecipazione agli utili e di salario di produttività hanno consentito, mediante la giusta redistribuzione di parte del profitto verso i lavoratori, il raggiungimento dell’obiettivo del sostegno alla domanda evitando il rischio di eccessive spinte inflattive da costo del lavoro, ossia da aumento salariale.

Questo tipo di capitalismo era di segno produttivista, afferiva all’economia reale, e, bene o male, aveva una qualche forma di etica sociale perché non era ancora ossessionato dall’avidità finanziaria che, nella übris del profitto immediato ed a tutti i costi, impone, oggi, il conseguimento della subitanea e massima reddittività sciolta da qualsiasi considerazione sovra-economica. Con il passaggio dalla modernità solida alla postmodernità liquida, il capitalismo si è trasformato diventando volatile, finanziario, speculativo. Il nuovo capitalismo high tech non aspetta, pazientemente, i tempi di sviluppo di un progetto industriale ma vuole profitti subitanei ed immediati, secondo fixing semestrali, trimestrali, quotidiani. Esso non è più mosso dall’inventiva, dalla creatività, dall’investimento a lungo termine, dalla laboriosità intellettuale e manuale, in altri termini dall’etica del lavoro. Il suo motore, oggi, è la finanza che pretende di estrarre denaro dal denaro senza alcuna considerazione per la produzione reale che viene in considerazione soltanto in quanto strumentale alla speculazione e non in quanto progettualità benefica per l’intera comunità aziendale, territoriale, politica. Figuriamoci allora se questo tipo di capitalismo possa avere una qualche considerazione per il lavoro, che anzi, nella sua visione è soltanto un costo da abbattere quanto prima mediante la sostituzione tecnologica del fattore umano. La cecità di tale visione è, però, evidente a chi sa ancora guardare dal lato della domanda. Infatti, non a caso, onde evitare l’implosione del sistema nella prospettiva della sua totale robotizzazione e digitalizzazione, gli alfieri del capitalismo finanziario, quelli del Word Economic Forum che ogni anno si riuniscono a Davos come anche quelli del “Gruppo dei Trenta”, al quale appartiene Mario Draghi, puntano a forme di reddito senza lavoro, come il “reddito di cittadinanza”, non legate ad obblighi di formazione professionale per il reinserimento nel ciclo produttivo, ed alla riduzione malthusiana della popolazione, in modo da continuare a garantire una domanda alla produzione automatizzata ma al prezzo della disumanizzazione del lavoro e della mortificazione della creatività umana sostituita dagli automi.

É proprio qui, in questa liquefazione postmoderna del reale in virtuale e del patrimoniale nel finanziario, che emerge il lato oscuro, ambiguo, preoccupante del percorso storico in atto e delle trasformazioni nella struttura stessa del capitalismo. È antica la discussione tra gli economisti sulla sussistenza o meno di un “ordine naturale” dell’economia contrassegnato da leggi come quelle fisiche o biologiche, oggetto di studio scientifico. I classici, ritenendo che tali leggi esistano e che l’economia sia una scienza paragonabile alla fisica, alla chimica ed alla biologia, sono assertori di un ordine naturale anche nell’economia. I keynesiani al contrario negano un ordine naturale dell’economia e disincantano la pretesa dei classici come mascheratura, favorevole ai capitalisti, di rapporti sociali egemonici. In realtà, essendo l’economia una dimensione umana e non cosmologica, l’“ordine naturale” non deve essere cercato nel mercato o nello Stato, che sono a loro volta espressioni della natura sociale dell’essere umano, ma nel cuore dell’uomo ovvero nell’etica che presiede, o dovrebbe presiedere, alle sue scelte. Gli antichi parlavano della “legge naturale” inscritta nel cuore dell’uomo seconda quanto è stato rivelato «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (Geremia 31,33). Una legge interiore, infusa dall’Alto, per la quale abbiamo ricevuto un chiaro ammonimento: «Praticate il diritto e la giustizia, liberate l’oppresso dalle mani dell’oppressore, non fate violenza e non opprimete il forestiero, l’orfano e la vedova, e non spargete sangue innocente in questo luogo» (Geremia 22,3). Se, come abbiamo visto, un sano sistema economico che sia anche un sistema economico di giustizia sociale, dipende da meccanismi di equilibrio della domanda aggregata con l’offerta aggregata, che tengano conto della priorità della prima senza trascurare la seconda, alla fin fine tutto dipende, nell’economia reale, prima ancora che dalle opportune politiche e dalle giuste soluzioni tecniche, dalla disponibilità del cuore umano verso un approccio etico, il quale per alcuni è un approccio spirituale secondo prospettive di tipo confessionale. Un approccio la cui tragica assenza si va oggi manifestando nel passaggio ad una economia egemonizzata dall’avidità della finanza apolide ed asociale. Un’economia contrassegnata da una nuova forma di totalitarismo cibernetico che nella liquidità individualista volge verso il transumanesimo fino al miraggio della cosiddetta intelligenza artificiale, che poi intelligenza non è, e della ibridazione uomo-macchina attualmente consentita dalla biotecnologia invasiva. Lo scenario in fieri richiama immancabilmente antiche avvertenze escatologiche, dimenticate dai più. Infatti, anziché cercare la metanoia, sembra proprio che l’uomo di questa epoca volga il suo cuore verso l’abisso del “mistero di iniquità”. Il quale, tra i tanti volti con cui si manifesta, predilige quello an-etico, anonimo, presuntivamente senza limiti, della potenza finanziaria e tecnologica.

 

Il cuore dell’uomo, quando è chiuso alla Luce, è esso stesso un abisso, ammoniva Agostino di Ippona.

 

Luigi Copertino

 

NOTE

  • In proposito va sottolineato che la tesi di Jacques Le Goff per la quale la credenza nel Purgatorio sia direttamente legata a questo tentativo di aggiustamento dottrinale per venire incontro alle esigenze economiche dell’emergente borghesia – per cui si ammetteva uno stato post mortem intermedio di purificazione dai peccati accumulati in vita – cozza con la realtà di una conoscenza atavica dello stato intermedio, più o meno delineato, corrispondente alla dimensione “sottile” della costituzione cosmici ed antropologica, in tutte le tradizioni spirituali dell’umanità, non solo quella ebraico-cristiana. La letteratura mistica è piena di riferimenti a questa condizione di purificazione post mortem anche prima, molto prima, della comparsa sulla scena storica e sociale della borghesia mercantile dei comuni medioevali. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, anche di età precristiana (si pensi al racconto del soldato Era nella “Repubblica” di Platone), ma qui ci limitiamo a citarne tre ossia i viaggi nell’aldilà risalenti a cronache del VII e del IX secolo che hanno per protagonisti, rispettivamente, Wetti, in monaco, Drythelm, un devoto laico, e l’imperatore Carlo il Grosso. In questi, ed altri racconti similari, appare già chiaramente l’esistenza di diversi stati del post mortem, orrifici o beatifici, e tra essi alcuni che consentono all’anima del defunto la possibilità di purgarsi, con l’aiuto dei sacrifici e di sante Messe offerte dai viventi, attraverso una sofferenza, talvolta intesa come perdurante fino alla fine dei tempi. In proposito cfr. Jean Verdon “La note nel Medioevo”, parte Terza, pp. 241- 261, Baldini & Castoldi 2000, Mondadori, Milano.
  • Keynes, nella sua critica dei postulati dell’economia classica, si è richiamato anche ad alcune osservazioni critiche che a Ricardo erano già state mosse da Thomas Robert Malthus, il quale avversava l’impostazione ricardiana, fondata sulla legge di Say, evidenziando che, al contrario di quanto ritenuto dall’economista britannico, i possessori di denaro tendono a tesaurizzarlo anziché spenderlo. Malthus, in sostanza pose, inascoltato, già nel XIX secolo il problema della domanda benché lo fece nell’ambito della sua visione pessimista ed antiumana intesa ad affermare la rarità delle risorse messe a disposizione dalla “natura matrigna” e quindi a giustificare un ferreo controllo, anche attraverso la castrazione obbligatoria, delle nascite tra i ceti poveri ed i popoli “arretrati” onde tenere non aumentare il numero dei commensali  e quindi difendendo le posizioni acquisite dei ceti abbienti e dei popoli ricchi e colonizzatori.
  • C’è una pagina del “Trattato” nella quale Keynes dichiara che la filosofia sociale di lungo periodo del suo pensiero è intesa a far funzionare meglio il sistema economico e sociale correggendone i difetti – consistenti soprattutto nell’incapacità di assicurare la piena occupazione e nella maldistribuzione del reddito e della ricchezza prodotta – attraverso misure di politica fiscale redistributive e politiche di tassi di interesse bassi in modo da attuare la “eutanasia del rentier”, ovvero di quei ceti che vivono della rendita, un tempo quella della terra ed oggi quella dell’interesse monetario ossia la finanza speculativa, onde assegnare la preferenza delle politiche economiche al primato dei “produttori”, una categoria che già ai suoi tempi ricomprendeva insieme imprenditori e lavoratori ovvero coloro che sono dediti all’economia reale e considerano gli strumenti monetari e finanziari solo in quanto funzionali alla produzione e non anche come mezzi di generazione di denaro dal denaro avulso dal lavoro e dalla produzione. In tale contesto Keynes auspica una socializzazione di una certa consistenza degli investimenti onde garantire che essi siano volti in misura sufficiente all’economia reale, anziché alla speculazione finanziaria, ma senza alcune necessità di realizzare il “socialismo di Stato”, ovvero il comunismo. Keynes, in questa pagina, è molto chiaro perché, riferendosi alla sua teoria, scrive: «In certi aspetti la teoria precedente è moderatamente conservatrice nelle conseguenze che implica. Infatti, mentre indica l’importanza vitale di stabilire verti controlli centrali in materie sostanzialmente lasciate all’iniziativa individuale, essa non tocca molti altri campi di attività. Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione al consumo, in parte mediante il sistema di imposizione fiscale, in parte fissando il tasso di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra impossibile che l’influenza della politica finanziaria sul tasso di interesse sarà sufficiente da sola a determinare un livello ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l’iniziativa privata. Ma oltre a questo non si vede nessun’altra necessità di un sistema di socialismo di Stato che abbracci la maggior parte della vita economica della collettività. Non è importante che lo Stato si assuma la proprietà dei mezzi di produzione. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo delle risorse destinate ad accrescere i mezzi di produzione e il tasso base di remunerazione per coloro che le posseggono, esso avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre le necessarie misure di socializzazione possono essere applicate gradualmente e senza provocare una soluzione di continuità nelle tradizioni generali della società. (…). Quindi, salva la necessità di controlli centrali allo scopo di perseguire l’equilibrio fra la propensione a consumare e l’incentivo ad investire, non vi è maggior ragione di socializzare la vita economica di quanto ve ne fosse prima. (…). Sono quindi d’accordo con Gesell che il risultato di colmare le manchevolezze della teoria classica non è di gettar via “il sistema di Manchester”, bensì di indicare la natura dell’ambiente richiesto dal libero gioco delle forze economiche, affinché questo libero gioco possa realizzare le sue intere capacità produttive. I controlli centrali necessari ad assicurare la piena occupazione richiederanno naturalmente una vasta estensione delle funzioni tradizionali di governo. Inoltre la teoria classica moderna ha essa stessa richiamato l’attenzione sulle diverse condizioni nelle quali il libero gioco delle forze economiche deve venir moderato e guidato. Ma rimarrà ancora largo campo all’esercizio dell’iniziativa e della responsabilità individuale (…) la cui perdita è la massima fra tutte le perdite dello Stato omogeneo o totalitario. (…). Mentre quindi l’allargamento delle funzioni di governo, richiesto dal compito di equilibrare l’una all’altro la propensione a consumare e l’incentivo ad investire, sarebbe sembrato ad un pubblicista del diciannovesimo secolo o ad un finanziere americano contemporaneo una terribile usurpazione ai danni dell’individualismo, io lo difendo, al contrario, sia come l’unico mezzo attuabile per evitare la distruzione completa delle forze economiche esistenti, sia come la condizione di un funzionamento soddisfacente dell’iniziativa individuale. Se infatti la domanda effettiva è insufficiente, non soltanto vi è l’intollerabile scandalo pubblico delle risorse sprecate, ma il singolo imprenditore che cerca di mettere in azione queste risorse opera con tutte le possibilità sfavorevoli contro di lui. (…). I moderni sistemi di Stato autoritario sembrano risolvere il problema della disoccupazione a scapito dell’efficienza e della libertà. È certo che il mondo non tollererà ancora per molto tempo la disoccupazione che … è associata – e, a mio parere, inevitabilmente associata – con l’individualismo capitalistico d’oggigiorno. Ma può essere possibile, mediante una corretta analisi del problema, guarire la malattia pur conservando l’efficienza e la libertà». Cfr. John Maynard Keynes “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, libro VI, pp. 571-575, Utet, De Agostini, Novara, 2013. Significativo il riferimento finale alle esperienze totalitarie o autoritarie, che non sono la stessa cosa, in corso nell’epoca nella quale Keynes vergava tali considerazioni perché tali esperienze, quelle di marca “fascista”, tentavano di risolvere i difetti della teoria classica liberista, additati dall’economista inglese, ma al prezzo di una riduzione – tra l’altro con forte consenso popolare- delle libertà personali. Benché non a scapito dell’efficienza come riteneva Keynes, il quale del resto, pur rimanendo sempre un convinto democratico, in altre occasioni, come quando ad esempio simpatizzò con la politica monetaria di Hjamal Schacht, il banchiere centrale tedesco che rese possibile il miracolo della piena occupazione nella Germania nazista, riconobbe gli effetti positivi sotto il profilo dell’efficienza sociale ed occupazionale di quelle esperienze. Qui, al di là di queste osservazioni storiche, va segnalato che la pagina keynesiana sopra descritta è una di quelle sulle quali hanno costruito la loro esegesi del pensiero di Keynes i cosiddetti “neokeynesiani” i quali hanno elaborato la cosiddetta “sintesi neoclassica” – egemone negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso che più tardi, negli anni ’80, si sviluppò nella “nuova macroeconomia keynesiana” – nella quale viene recuperato il keynesismo benché limitato ad alcuni aspetti della teoria, in particolare il primato della domanda e la politica interventista dello Stato in funzione anticiclica, come integrazioni necessarie e quasi sviluppi della teoria neoclassica. Tra i neokeynesiani ritroviamo alcuni insigniti del Nobel come Paul Samuelson, Robert Solow e Franco Modigliani. Ma esiste anche un’altra interpretazione del pensiero di Keynes la quale ne rivendica una lettura più a sinistra, tale da farne il paradigma economico del socialismo democratico, e che affida allo Stato una azione molto più incisiva, di trasformazione e graduale superamento del capitalismo, non quindi limitata soltanto al deficit spending anticiclico. Questa diversa esegesi è stata portata avanti dai cosiddetti “keynesiani della prima generazione”, come l’inglese Joan Robinson, che fu allieva dello stesso Keynes, l’ungherese Nicholas Kaldor, il britannico Paul Davidson, lo statunitense Hyman Minsky, che ha dimostrato l’intrinseca fragilità dei mercati finanziari, e gli italiani Piero Sraffa e Federico Caffè. Quest’ultimo è stato un nostro illustre economista, misteriosamente scomparso nel 1987, nonché uomo di alto senso etico e civile – per cui si è parlato a proposito del suo pensiero di “cristianesimo laico” – oltre che di grande sapienza e competenza nella scienza economica. L’interpretazione della prima generazione di keynesiani, chiamata “economia post-keynesiana” e considerata dal biografo di Keynes, Lord Skidelsky, la più vicina allo spirito originario del suo pensiero, riflette il clima laburista e fabiano, non escluso un certo “teosofismo millenaristico” insito in diversi passaggi dell’opera di Keynes, nel quale andarono formandosi le elaborazioni scientifiche dell’economista inglese. I capisaldi dell’economia postkeynesiana sono: il realismo, nel senso che deve essere la realtà storica ed economica dell’effettivo funzionamento dei sistemi economici a dettare le conclusioni all’economista sicché non si deve partire da concezioni astratte come fanno i neoclassici (strumentalismo); l’olismo (contrapposto all’individualismo) in quanto il tutto è più della somma delle parti (un rilievo che, probabilmente ad insaputa dei postkeynesiani li pone sulla scia della Tradizione spirituale e filosofica europea, da Platone ed Aristotile fino a Tommaso d’Aquino) sicché il singolo non è un atomo ma appartiene ad un contesto comunitario del quale le istituzioni costituiscono realtà specifiche; la consapevolezza delle capacità molto limitata degli agenti economici di fare scelte razionali per mancanza di informazioni sufficienti (contro il paradigma neoclassico del comportamento razionale e sostanzialmente “onnisciente” del singolo operatore); contrariamente all’assunto neoclassico della scarsità delle risorse bisogna invece valorizzare il grado di utilizzazione delle stesse ai fini dell’aumento dell’occupazione; inefficienza, incapacità di autoregolazione e non equità del mercato che richiedono come insostituibili ed indispensabili l’intervento, diretto o indiretto, dello Stato; primato della domanda perché la produzione è trainata dalla domanda e non dall’offerta anche nel lungo periodo e non solo in quello breve come sostengono i neoclassici; importanza del tempo storico contro ogni astrattismo logico. La scuola post-keynesiana ha prodotto importanti risultati nell’ambito della politica monetaria avendo evidenziato che in un sistema monetario moderno la moneta è endogena – e non esogena come ritengono i neoclassici – in quanto è l’offerta di moneta a rispondere alla domanda della stessa. Ciò attesta che le Banche centrali non possono sostenere la domanda di moneta che proviene dal mercato attraverso il filtro delle banche e quindi non fornire alle stesse la quantità di moneta richiesta in un dato periodo, anche considerando che le stesse banche creano moneta ex nihilo in forma di credito (quasi moneta bancaria). In tal modo le banche centrali hanno un solo mezzo per tentare di controllare la domanda di moneta, quando è ritenuta troppa e quindi foriera di spinte inflazionistiche, ossia il tasso di interesse da esse applicato alle banche che si riflette sul tasso di interesse applicato dalle banche al pubblico. Più esso è alto e più la domanda di moneta viene contenuta. Tale acquisizione – che, in particolare per l’opera di Nicholas Kaldor, ha messo in crisi il monetarismo di Milton Friedman il quale prendeva in considerazione soltanto la moneta legale senza avvedersi dell’esistenza della quasi moneta creditizia – è oggi ampliamente praticata nella politica monetaria delle Banche centrali che ricorrono alla leva del tasso di interesse e non più a quella dell’offerta di moneta. Per la querelle tra “keynesiani di prima generazione” e “neokeynesiani” si veda l’ottimo libro di Thomas Fazi “Una civiltà possibile – la lezione dimenticata di Federico Caffè”, Melteni visioni eretiche, Milano, 2022.
  • Sahra Wagenknecht “Contro la sinistra neoliberale”, Fazi Editore, Roma, 2022.

https://domus-europa.eu/2023/05/09/alle-radici-sovraeconomiche-del-problema-economico-di-luigi-copertino/?fbclid=IwAR3JSsjppGuUl2QNp5vyXvZxX4pJSYqcVeMOijcXcxgWeF7RuOAbzGE3PtM

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/alle-radici-sovraeconomiche-del-problema-economico?fbclid=IwAR3Yo2Z0NfrKJe–xrxi3tLzEgJMufKAO89qK6a75Fja5bjzpJRZ7U4Ln6o

Un paese in declino, grazie a Confindustria e ai suoi servi di Pasquale Cicalese

Ho visto la prima pagina de IlSole24 ore di ieri. Titolo: allarme competitività, produttività e innovazione giù.

Premetto che a me sta bene tutto, purché sia produzione. Ma mi dite che innovazione possono avere settori portanti dell’industria italiana quali arredo, alimentare, tessile, abbigliamento, calzature ecc?

Sono settori che occupano una parte non indifferente degli occupati industriali. In questi settori puoi fare solo innovazione di processo, non di prodotti, perché i prodotti sono quelli, peraltro richiesti dal mercato mondiale.

E per fare innovazione di processo devi mettere soldi sulla struttura della propria azienda, fare cioè gli investimenti. Che non fanno da 50 anni, basandosi tutto su salari bassi. E dunque diminuendo, tramite consumi inferiori, la domanda interna.

Puoi fare innovazione digitale, di macchinari, ma sul prodotto puoi fare ben poco.

Questi sono settori – a parte la mancata meccanizzazione dell’agricoltura – dove i proprietari hanno immensi patrimoni personali ma basano tutto sull’apporto pubblico, di vari enti, da centrali a periferici, per fare qualche investimento. Poi magari, come successo negli ultimi 40 anni, delocalizzi, ma poi ritorni perché nel frattempo i salari dei paesi dove sei andato sono cresciuti ai livelli nostri.

Ecco, basano tutto su bassi salari. Non abbiamo quasi più industria automobilistica, siderurgica, chimica, qualcosa di elettronica, ma per il resto subfornitura, con l’eccezione della meccanica strumentale.

Mi dite voi quale innovazione ci può essere? Si beano che stiamo arrivando a circa il 50% dei prodotti manifatturieri esportati all’estero, non capendo che è una tragedia, alla fine, perché se gli altri paesi si fermano, come la Germania, tu coli a picco.

Marcello de Cecco lo scrisse negli anni Novanta: le produzioni italiane di questi settori dovevano andare nei paesi emergenti, non da noi, noi dovevamo tenerci l’industria pubblica innovativa e all’avanguardia. Cassandra inascoltata.

Evidentemente presso molti italiani, come vedo, c’è il mito del Made in Italy. Evidentemente bestemmio. Ma mi chiedo: è possibile che i colossi del lusso francese nel 2023 – ripeto: 2023 – scelgano il nostro Paese, magari trasferendosi dall’Asia per la produzione di pelletteria, calzature e abbigliamento?

C’è qualcosa che non va in tutto ciò. Per vari motivi: i guadagni sono tutti delle multinazionali e dei loro proprietari come Arnault. Evidentemente in Toscana, dopo secoli, si sta assistendo alla fine della produzione artigianale di eccellenza per mettere questi lavoratori in complessi industriali, cosa ben analizzata da Marx nell’Ottocento a proposito del tessile.

E’ un bene? Io non credo. Poi, se si spostano dall’Asia in Italia è per i salari, ormai, al netto del costo della vita, i nostri sono più bassi dei loro e in più c’è la vicinanza e le capacità delle maestranze. Poi non lamentiamoci dei bassi salari, perché è questo modello produttivo che li porta.

Se ci fossero più aerospaziale, chimica fine, siderurgia, produzione automobilistica, elettronica, telecomunicazioni, farmaceutica che, a differenza di adesso, non sarebbe contoterzista ma attrice primaria nel mercato mondiale; non avremmo bassi salari, perché sono modelli basati ad alta intensità di ricerca e produttività.

Li abbiamo abituati troppo bene, questi presunti padroni in nome del Made in Italy. Una volta erano produzione di nicchia, ora primeggiano perché per il resto c’è il deserto.

Per quanto riguarda lo stesso turismo, è ad alta intensità di lavoro e bassa produttività, dove a guadagnarci sono pochi e anche questo modello si basa su bassi salari. Anche la Grecia ha il turismo, ma sfido qualcuno ad affermare che industrialmente sia un paese evoluto.

Confindustria, sin dal dopoguerra, voleva la fine dell’industria pubblica perché “concorreva” dando salari dignitosi rispetto ai loro. Ci sono voluti Carli, Ciampi, Draghi, Amato, Prodi e D’Alema per accontentarli.

Ed è stata la nostra fine.

Siamo in declino da decenni, quest’anno forse cresciamo dell’1,2%, ma che ce ne facciamo con un debito pubblico spaventoso, con servizi scadenti, con consumi a picco, con produttività totale dei fattori produttivi a zero da decenni?

E non si fa niente pur avendo una posizione finanziaria netta estera positiva per 105 miliardi, perché dobbiamo obbedire a Usa, Ue e Nato.

Ieri lo avevo scritto in un post, pubblicato da L’antidiplomatico  e da Contropiano. Solo adesso mi accorgo che l’editorialista Paolo Bricco de IlSole24 ore, l’unico che leggo di quel giornale, ha dedicato un pezzo ieri dal titolo “L’Italia non può vivere solo di turismo“.

Traccia un quadro allarmante dell’industria italiana, anche quella della meccanica strumentale, un tempo il nostro vanto, che ora è incapace di intercettare la domanda internazionale, a differenza di prima.

Ieri scrivevo che senza cognizione di causa nell’economia, dai vertici dello Stato ai quadri ministeriali, un Paese non può andare avanti. Ecco, lo scrive lo stesso Bricco in un passo che cito: “Quando si vuol fare qualcosa non si scorge una tecnocrazia pubblica di valore. Senza arrivare ad Alberto Beneduce e a Oscar Sinigaglia o a Fabiano Fabiani e Franco Reviglio“. Gente colta, capace, consapevole.

Oggi ho letto un post che diceva il giusto: “un paese senza acciaio cessa di esistere“. Per quanto riguarda la burocrazia di valore, essa ha a che fare con due fattori storici della Seconda Repubblica: le “riforme Bassanini”, che hanno distrutto la capacità di analisi e di azione del corpo burocratico, mettendo spesso gente poco colta; ma soprattutto la campagna d’odio di Brunetta nel 2009 quando disse che i pubblici erano tutti fannulloni.

Ecco, un paese è forte quando ha una burocrazia pubblica colta, di valore, tutelata, ben retribuita e al servizio del paese e non di cordate partitocratiche o di gruppi di interessi privati, o commistioni da i due campi.

Ecco, hanno distrutto lo Stato. E ne paghiamo tutti le conseguenze.

* Il recente libro dell’Autore: https://www.youcanprint.it/50-anni-di-guerra-al-salario/b/6e8935f1-bf39-5711-8dca-a22f65519444

https://contropiano.org/news/news-economia/2023/06/12/un-paese-in-declino-grazie-a-confindustria-e-ai-suoi-servi-0161372

GUERRE PIÙ DEMOCRATICHE CHE GIUSTE, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

GUERRE PIÙ DEMOCRATICHE CHE GIUSTE

già apparso sulla rivista  “Il giusto processo” n. 18/19 (ottobre
2005 – aprile 2006).

E’ diffuso oggigiorno ritenere che guerra giusta sia quella condotta per esportare i “valori” (e gli istituti) della democrazia liberale, tra cui viene collocata (e spicca) l’ideologia dei diritti dell’uomo. Accanto a questa c’è la tesi – spesso connessa – che ad evitare “guerre ingiuste” e punirne i rei  occorrano Tribunali internazionali. Ribaltando così, o meglio applicando in un contesto errato, il giudizio di De Maistre che “dove non vi è sentenza, v’è scontro”.

Diciamo che il contesto è errato perché quella di De Maistre, è la sintesi di un discorso sulla sovranità, il cui esempio è proprio il Tribunale “Nei Tribunali si vede l’assoluta necessità della sovranità; perché l’uomo deve essere governato proprio come deve essere giudicato, e per la stessa ragione; ossia perché dove non vi è sentenza vi è scontro[1]. Ma, in De Maistre, il tutto presuppone sovranità e Stato, e un Tribunale – ufficio di quest’ultimo.

Invece nel pensiero postmoderno, il Tribunale (internazionale) è l’alternativa/sostituto dello Stato. E’ cioè l’opposto del giudizio di Hegel che “non v’è Pretore tra gli Stati”[2]. Qui, di converso, si suppone che possa esservi, e sia in grado di far valere (ovvero far eseguire) i propri giudicati, come, all’interno dello Stato, fanno polizia ed altri servizi e uffici statali, valendosi del monopolio (statale) dell’uso legittimo della forza. Tuttavia che il problema in realtà sia questo e non quello dello jus dicere è dimenticato: e così le varie esperienze storiche che lo provano.

Ma è realmente questo tipo di guerra, giusta?

E il tutto è conforme a criteri di giustizia reali? Una disamina storica può concorrere alla risposta.

  1. Agli albori dello jus publicum europaeum la teologia cristiana che ne ha delineato i principi, identificava i requisiti della guerra giusta nella (legittima) autorità di chi la conduceva (e dichiarava), nel giusto motivo (di guerra), nella giusta intenzione e nel corretto modo di condurla. Il giusto motivo era inteso in senso giuridico “classico”, cioè come protezione di diritti concreti violati. La necessità (e la legittimità) della guerra derivava poi dall’assenza di un’autorità che potesse dirimere le controversie riparando le violazioni dei diritti con un comando efficace ed eseguito dai contendenti. In questa costruzione giuridica non c’è spazio per “diritti” astratti, ma solo (molto) concreti. Suarez nell’elencare esempi di “giusto motivo” di guerra, fa quasi un’enumerazione delle “azioni” riconosciute nel diritto romano per il ripristino dei diritti lesi: occupazione di province altrui (rivendica) impedimento al transito (confessoria servitutis), nonché lesioni del diritto agli usuali rapporti economici. Si tratta di diritti fondati sulla storia e la consuetudine, cioè su un ordine concreto, al mantenimento e conservazione del quale concorre il rimedio della guerra.

L’evoluzione successiva, induceva a fare della guerra giusta piuttosto che un mezzo per ripristinare il diritto, quello per conservare il potere, (la sicurezza, l’equilibrio) degli Stati, e, di conseguenza della comunità internazionale, fondata sul pluralismo delle unità politiche. Non che la tutela del diritto (che in se è un potere) non costituisse più giusto motivo, ma accanto o meglio sopra, si aggiunse (e prevalse) la ragione di difesa del potere. Un esempio l’offre Montesquieu “La vita degli Stati è simile a quella degli uomini: questi hanno il diritto di uccidere per legittima difesa, quelli hanno il diritto di muover guerra per la propria conservazione” e prosegue “Tra cittadini, il diritto di legittima difesa non implica la necessità dell’attacco. Invece di attaccare, essi non hanno che da ricorrere ai Tribunali. Non possono quindi esercitare questo diritto di difesa che nei casi subitanei, nei quali sarebbero perduti se attendessero l’aiuto della legge. Ma tra le società, il diritto di legittima difesa implica qualche volta la necessità di attaccare, quando un popolo si rende conto che una pace più lunga darebbe a un altro Stato la possibilità di distruggerlo, e che l’attacco è in quel determinato momento l’unico mezzo per impedire siffatta distruzione” per concludere “Il diritto di guerra deriva pertanto dalla necessità e da un rigido rispetto del giusto. Se coloro che dirigono la  coscienza o i consigli dei principi non si attengono a queste norme, tutto è perduto; e, se ci si vorrà fondare su principi arbitrari di gloria, di benessere, di utilità, fiotti di sangue inonderanno la terra[3].

Quel far derivare il diritto di guerra dalla necessità, non significa altro, giacchè necessitas non habet legem, che non è necessario vi sia un diritto da ripristinare: al contrario, che, in caso di necessità, è legittimo violare il diritto.

La situazione cambia con la rivoluzione francese: fino a quell’epoca era normale che le guerre fossero un mezzo per regolare controversie (di potere o di diritto) tra Stati che si riconoscevano e rispettavano. La conseguenza di ciò era l’intangibilità del diritto interno e degli Stati medesimi. Le guerre si concludevano col passaggio di “mano” di qualche provincia o (più spesso) di colonie che lasciava sostanzialmente immutato l’ordinamento.

Questo sistema cominciò ad essere scosso dalla Rivoluzione Francese: con il decreto La Révellière – Lépeaux della Convenzione sull’esportazione dei principi rivoluzionari, l’ “indifferenza” delle vicende belliche rispetto all’ordinamento interno degli Stati coinvolti cominciò ad essere scossa. Del pari il rispetto dell’esistenza degli Stati che, nel periodo rivoluzionario e napoleonico prese la forma di creazione di Stati del tutto nuovi (le repubbliche-sorelle e poi gli Stati del sistema napoleonico) politicamente omogenei al vincitore; cosa che lede in positivo il diritto “costituente” e originario a formare una comunità. Scriveva Kant che contro il nemico ingiusto i vincitori non possono giungere “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità[4]. E, quello che dice per la sparizione degli Stati, vale anche per la creazione di nuovi da parte del vincitore. Quel che parimenti interessa è che con la formula della “guerre aux chateaux, paix aux chaumiéres” iniziava e si legittimava l’esportazione di principi formulati astrattamente, estranei alle comunità che dovevano forzosamente importarli e spesso generatori di una “nuova” forma di guerra, quella partigiana (moderna) in cui la comunità “importatrice” , attraverso il movimento guerrigliero, assume progressivamente il carattere del nemico (e del soggetto belligerante), quale popolo in armi. Le cui formulazioni più radicali sono di Mao-dse-dong e la pratica relativa è quella delle guerre anticoloniali del XX° secolo.

La conclusione della II guerra mondiale lo ha confermato in tutt’altro contesto: gia nella Carta Atlantica era scritto che I Governi degli Stati Uniti e del regno Unito dichiaravano a quei tempi di “rispettare il diritto che hanno tutti i popoli di scegliere la forma di governo sotto la quale chiedono di vivere, e desiderare che siano ristabiliti i diritti sovrani e il libero esercizio del governo a coloro cui è stato tolto con la forza”, come confermato a Yalta[5] “per ogni Stato liberato d’Europa, ad ogni Stato europeo antico satellite dell’Asse”. Questo, anche se qualcuno non ne avesse manifestato l’intenzione.

La prassi attuativa di questa dichiarazione fu, come noto, che ciascuno dei liberati si dette la forma di costituzione corrispondente al colore delle divise dei liberatori (occupatori).

Il potere costituente, come poi affermato esplicitamente per la sovranità, ne fu (a dir poco) limitato. Ed è da chiedersi, a tal punto, se limitare poteri di per se illimitati (come, appunto, potere costituente e sovranità) non sia negarli in radice, come implicito nella dottrina dello Stato moderno da Sieyès a Vittorio Emanuele Orlando.

  1. Quanto ai Tribunali penali internazionali, istituti diffusisi nel secolo scorso, al fine di giudicare il nemico vinto (da parte dei vincitori), questi erano del tutto sconosciuti, perché rifiutati dallo jus publicum europaeum, in cui vigeva il principio che par in parem non habet jurisdictionem . Per cui, tra Stati sovrani, l’uno non poteva giudicare l’altro (e il tutto valeva, sia per gli organi “apicali” che per gli altri); di più Kant riteneva connaturale, in ogni trattato di pace, la “clausola d’amnistia” (reciproca) tra i contraenti. Ciò che più colpisce di tale prassi (consolidata per secoli) è il suo realismo che l’adattava assai meglio del pan-giurisdizionalismo contemporaneo all’ordine concreto di comunità dotate di pari diritti e dignità. In primo luogo perché si pone il problema della giustizia (e del diritto) in concreto: l’attività del giudice non è una pura posizione di norme, ma l’applicazione di norme ad un fatto concreto: anche le norme giuste e condivise se applicate selettivamente, o da giudice non imparziale, o sfocianti in sentenze ineseguibili, non possiedono i caratteri comunemente attribuiti alla giustizia né hanno la reale utilità di questa.

Orbene connotati comuni a questi Tribunali sono: (sempre) che l’imputato coincide col vinto; (molto spesso) che i giudici ne sono i vincitori; che ai fini pratici (cioè di conformare il nuovo ordine alla situazione di fatto (e di potere) creatasi a seguito della guerra, le decisioni dei Tribunali non hanno alcuna incidenza. La funzione prevalente è liturgica: rivestire con i panni solenni della giustizia quanto deciso con la guerra, squalificando moralmente il nemico vinto. Sono in sostanza gli autodafé della globalizzazione.

Ma che l’esigenza da risolvere sia stata già risolta con la guerra, il cui esito è realmente “conformativo” dell’ordine e che il giudizio del Tribunale non aggiunga o tolga nulla a questo è evidente. Diversamente da quello di un giudice “interno” la cui decisione è essenziale per i diritti (e la vita) del giudicato.

  1. Connotato comune di queste due “innovazioni” è per lo più ritenuto il carattere “democratico” che lo Stato e la guerra moderna hanno acquisito negli ultimi due secoli. Per cui la democrazia, ritenuta bene prezioso da quei popoli che hanno lottato per acquisirla, sarebbe un dono – altrettanto importante – per quelli che non si sono mai sognati di farlo. Ma, verosimilmente, non l’hanno fatto perché non lo giudicavano così prezioso, da valere una guerra o una rivoluzione. Peraltro e, ancor più, guerre “d’esportazione” e Tribunali internazionali sono collegati ad un’aspirazione (illusione) alla pace. Si ritiene meglio avere dei governi democratici al potere in altri paesi perché giudicati meno propensi alla guerra; e i Tribunali sarebbero il mezzo per conservare la pace con la punizione di quelli che la violano. Ma quanto alla prima, la Storia dimostra che le democrazie non sono meno guerrafondaie di altre forme di Stato: anzi, in concreto, lo sono, quanto a intensità della guerra, di più. Già nel descrivere i caratteri di quella ateniese, Pericle, nel discorso che riporta Tucidide[6], calca, per così dire, la mano sulle imprese (e virtù) belliche della stessa. Ancor più, nei tempi moderni, la democrazia si è (per lo più) coniugata con la levée en masse e l’intensificazione dell’ostilità.

Ma se ancora per la democrazia, c’è la speranza che ne prevalga l’aspetto “moderno” (secondo la nota distinzione di Benjamin Constant) cioè l’elemento liberale, la tolleranza, l’esprit de commerce che comunque condiziona l’esprit de conquête, per il rimedio dei Tribunali non si prospetta alcuna ragionevole speranza.

Perché in tal caso si tratta, in buona sostanza, di sostituire la politica (e il politico) col diritto. Una ricetta vecchia, che può funzionare soltanto se il Tribunale assuma dei connotati politici, cioè cessi di essere un (puro) organo giudiziario e divenga – organizzativamente e funzionalmente – unità o ente politico o organo-ufficio di questo. Cioè capace di avvalersi della forza (quindi con un’organizzazione apposita) e quindi essere “potenza” in senso weberiano, in grado cioè di far valere – in concreto – i propri comandi. Chi crede a ciò, crede di aver inventato la politica senza (il mezzo della) forza. Un Principe (tutto golpe e niente) lione. Un soggetto ancora non apparso nella storia, e che, essendo contrario ad una concezione realistica dell’uomo, non sembra possibile vi apparirà mai. Anche perché se il Tribunale si avvale della forza degli Stati, è questa, e non la sentenza, a determinare il reale rapporto tra giustizia internazionale e Stato (o Stati) esecutori: essendo l’esecuzione delle sentenze il fatto decisivo, sarà la capacità o la volontà di farlo a determinare la possibilità di ciò che realmente conta; che la decisione sia osservata e passi dall’immaginario normativo all’ordine concreto, conformandolo.

  1. Peraltro il razionalismo che è a base della dottrina dello Stato moderno, aveva costruito come “manuale d’uso” del medesimo, la Ragione di Stato. La “ragione di Stato” si basava – ed era una delle conseguenze – sia sulla secolarizzazione, configurantesi (anche) come separazione/limitazione tra potere temporale e potere spirituale; sia sull’autonomia del politico, sulla di esso estraneità-indifferenza rispetto ad altri ambiti dell’esperienza umana.

Da quest’ultimo era determinato anche il fine specifico della politica: la protezione, la sicurezza e il benessere della comunità di riferimento, con l’esclusione – o il passaggio in secondo piano – di obiettivi a carattere religioso o morale. Se un Papa nel Medioevo poteva proclamare una crociata, altrettanto non poteva fare un Monarca assoluto dell’età moderna, la cui funzione specifica è quella sopra ricordata, e non di promuovere la diffusione di una fede o una morale. Diverso, ma solo in parte, per il  diritto (o diritti): in tal caso la protezione di quelli, se corrispondenti ad un interesse dello Stato è compito del medesimo. Tuttavia secondo la dottrina dello jus publicum europaeum per diritto in tali casi s’intende il diritto spettante allo Stato ed ai di esso sudditi; è invece escluso[7] che sia justa causa belli proteggere i diritti non appartenenti al proprio Stato né ai propri sudditi. Cosa che nelle “guerre per la democrazia” è sacrificata ad un prepotente altruismo, e il cui effetto probabile (e visibile) è di moltiplicare (le justae causae) dei conflitti.

Proprio quello che la razionalità di quei giuristi-teologi (v. sopra nota 7) della controriforma cercava di evitare.

In tal senso questa concezione era conforme alla teoria della Ragione di Stato: la quale non è una concezione giuridica (pur avendo grandi riflessi giuridici) nel senso che non si basa sul concetto di diritto, ma piuttosto su quello d’interesse: è compito dello Stato tutelare l’interesse (pubblico-generale) della comunità politica (salus rei publicae suprema lex). Ciò che è conforme a quello è lecito e va fatto. Invece nel caso delle “guerre democratiche” la suprema lex dell’interesse dello Stato finisce, proprio nelle situazioni d’eccezione, in sottordine; e in primo piano è collocata invece una giustizia astratta, promuovente diritti di cui non si sa bene se e quanto i “protetti” aspirino a fruire (e quanto vogliano sacrificare per quelli). Lo scopo della politica e dello Stato non è più primariamente quello del bene comune dello Stato e della comunità, ma l’affermazione-protezione di diritti (astratti) o di un regime politico.

Vero è che interesse dello Stato e difesa delle democrazie liberali possono coincidere, come nell’aiuto prestato da Roosevelt alla Gran Bretagna durante il secondo conflitto mondiale, già prima dell’entrata in guerra degli USA[8]; ma il fatto che il motivo ideologico sia esternato e quello di potere occultato, conferma, e costituisce un’applicazione sui generis, della teoria paretiana dei residui e delle derivazioni, come dell’oblio della lezione di Tucidide[9] che la prima determinante dell’azione politica è (la difesa, la conservazione, l’accrescimento del ) potere.

La prova si è avuta, ripetutamente, durante la guerra fredda: in cui molto spesso gli USA hanno lasciato in pace e financo sostenuto e avuto per alleati dei regimi politici che in fatto di democrazia avevano delle credenziali non migliori di quelle dei regimi sovietici, cioè dei nemici reali.

Scelta politicamente corretta quanto ideologicamente contraddittoria.

  1. In realtà proprio gli esempi sopra addotti dimostrano l’essenzialità della corretta percezione del nemico. Se il nemico è percepito tale perché ha un ordinamento diverso, con un diverso regime politico o altri  valori                di riferimento,   dato che la politica ( e l’ordine internazionale ) é un pluriverso  di differenti comunità umane, ogni popolo, cui di per sé è riconosciuto il diritto di darsi l’ordinamento che preferisce, diventa, in forza solo dell’entità delle differenze, un nemico. Diventa tale perché il suo modo d’esistenza politica e sociale non è omogeneo a quello della potenza (o potenze) “dominanti”. E’ nemico non per le azioni fatte (al limite che possa compiere) ma solo perché esiste in un certo modo: In questo caso le “guerre per la democrazia” facilmente diventano il mezzo per promuovere l’omogenizzazione politica, che a sua volta può portare  non tanto                           alla globalizzazione  (politica) ma alla costruzione di una nuova entità  politica,  imperiale  e non statale, con regole, forme, tipi di comportamento che  ancora non conosciamo, ma di cui qualcosa s’intravede. S’intravede in particolare la perdita (parziale) dell’impenetrabilità dello Stato, per cui i  confini di questo segnavano il limite tra interno ed esterno, tra ordinamento interno ed internazionale.

D’altra parte un simile criterio nella scelta del nemico porta a contraddire la prima regola dell’agire politico che è quella di ridurre il numero dei nemici possibili. Espressa nella storia in tanti modi, sia come regola per la politica interna che per quella internazionale: dalla prassi politica del Senato romano, la cui massima costante era dividere i popoli[10] potenzialmente nemici (divide et impera), fino al “mai la guerra su due fronti” precetto della strategia tedesca nel secolo scorso, due volte violato, con i risultati che si conoscono. Se al nemico reale (cioè quello che è tale per azioni e contrasti di potere ed interessi) si aggiunge quello (o quelli) che lo sono per differenze ideali, la regola è sicuramente violata.

  1. Così le “guerre democratiche” appaiono come la negazione di alcune idee proprie dello Stato e della politica moderni, come delineatisi dal Rinascimento in poi, grazie alla forma peculiare dell’unità politica dell’epoca post-Medioevo e cioè lo Stato, ma anticipati e comunque praticati da millenni.

Proprio lo Stato è la prima vittima di un tale mutamento di prospettiva. I suoi caratteri salienti: la distinzione tra interno ed esterno, tra temporale e spirituale, l’impenetrabilità, il monopolio del politico (e della violenza legittima) sono in misura più o meno rilevante, contraddetti dalla diffusione delle “guerre per la democrazia”. Conseguenza delle quali è l’imposizione di un regime politico, con relative istituzioni e valori di riferimento, di una pretesa alla permeabilità delle frontiere, e quindi ad una sovranità limitata nel proprio territorio in cui vengono a concorrere diversi poteri (di comando). Tutte cose incompatibili con lo jus publicum europaeum. Il quale era costituito sul tentativo (riuscito per secoli) di far convivere popoli diversi. A cui è succeduto l’attuale di farlo con popoli (relativamente e artificialmente) omogenei, a prezzo di un aumento del potere “sovranazionale”.

Vero che la democrazia si fonda su un certo tasso di omogeneità nel popolo, ma questo è un presupposto, non una conseguenza della scelta del regime politico[11]; e, comunque, qua si tratta di rapporti esterni tra Stati, non di relazioni interne tra le diverse componenti di una comunità. Questo a meno che il tutto non sia la premessa della costituzione di una nuova forma politica imperiale, in cui i rapporti tra Stati siano sostituiti da quelli interni all’Impero. Nel qual caso la logica interno/esterno (e non solo) avrebbe un diverso senso, tutto da scrivere.

Comunque dato che forme politiche imperiali sono state (per lo più) caratterizzate dalla distribuzione dello jus belli tra diversi soggetti dell’unità politica, è tutto da vedere se un futuro di unione tra (istituzionalmente) omogenei sia più pacifico della convivenza tra diversi, su cui si basava lo jus publicum europaeum.

T.K.

[1] V. Du Pape, II, 1, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 155).

[2] Grundlinien der philosophie des rechts, § 313.

[3] Ésprit des lois, X, 2 trad. it., 1965, pp. 247-248.

[4] I. Kant, Methaphisik der Sitten § 61.

[5] V. sul punto Jeronimo Molina Cano La costituzione come colpo di Stato, in Behemoth n. 38, luglio-dicembre 2005.

[6] La guerra del Peloponneso, II°, 35-47.

[7] P. es. v. Suarez De Charitate- De Bello,  Sectio IV “Unde, quod quidam aiunt, supremos reges habere potestatem ad vindicandas iniurias totius orbis, est omnino falsum, et confundit omnem ordinem, et distinctionem iurisdictionum: talis enim potestas, neque a Deo data est, neque ex ratione colligitur” ; v. anche Bellarmino ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 260.

[8] La nota frase del Presidente che gli USA sarebbero stati l’ “arsenale delle democrazie” non esprimeva il fatto che l’interesse degli USA era aiutare la Gran Bretagna e contenere Germania e Giappone anche se i regimi politici delle tre potenze non fossero stati quelli.

[9] V. la nota ambasceria degli Ateniesi al popolo di Melos.

[10] V. Montesquieu Considérations sur les causes de la grandeur des Romains e de leur décadence, cap. VI.

[11] L’ultimo tentativo di formare un’unità politica tra musulmani e cristiani, turchi e slavi, protestanti e ortodossi fu il Trattato dell’Unione progettato da Gorbaciov e finito come tutti sanno. Sul tema ci permettiamo di rinviare al ns. scritto Dal comunismo al federalismo, in L’Opinione – mese giugno 1991.

Perché la produzione industriale italiana è calata del 7,2% in aprile e purtroppo continuerà ancora a scendere_da INDUSTRIA ITALIANA

Prima o poi si arriverà ad interrogarsi sul rapporto tra declino economico e postura e qualità del ceto politico, livello di subordinazione geopolitica di un paese. Le risposte a questi interrogativi, però, difficilmente arriveranno dall’imprenditoria, ancor meno dalle sue associazioni. Quanto alla Germania, la sua miopìa e il suo vantaggio relativo, ma in via di esaurimento, sono dipese dalla sua funzione di drenaggio e intermediazione finanziaria per conto degli Stati Uniti. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Perché la produzione industriale italiana è calata del 7,2% in aprile e purtroppo continuerà ancora a scendere

di Marco De’ Francesco ♦︎ Crisi strutturale del modello industriale tedesco, che è il nostro primo cliente. Rialzo dei tassi che sta dispiegando i suoi effetti: riduzione dell’acquisto di beni durevoli. Aumento costi di trasporto. Riduzione degli investimenti in 4.0 e interconnessione. Pnrr che di fatto è congelato e potrebbe bloccarsi. Fine del boom edilizio. Sono tanti i fattori che fanno pensare a un futuro tutt’altro che roseo. Li abbiamo analizzato con un parterre di altissimo livello: Fabio Arpe, Patrizio Bianchi, Giovanni Costa, Marco Fortis, Alberto Quadrio Curzio

Cosa si cela dietro il peggior calo della produzione industriale italiana da tre anni a questa parte? Quali ragioni hanno determinato la contrazione di aprile, che secondo le proiezioni dell’Istat è pari all’1,9% rispetto a marzo e al 7,2% su base annua? Perché i beni di consumo, quelli intermedi e l’energia sono sotto scacco? E soprattutto: che cosa succederà in futuro? La verità è che non c’è una sola ragione; piuttosto, diverse concause rimaste silenti nei periodi di relativa tranquillità degli scambi hanno iniziato gradualmente a manifestare il proprio potere distruttivo. Tanto materiale incombusto ha iniziato ad accendersi qua e là; è un po’ la cambiale che arriva in ritardo, e che è diretta alla manifattura italiana, gregaria dell’industria internazionale. Non essendo sul fronte, il nostro manufacturing sperimenta di rimbalzo la crisi che opprime già da tempo i propri referenti, come la Germania.

Sotto la lente di ingrandimento il modello industriale tedesco che, gonfiato venti anni fa dall’inversione delle partite correnti con diversi Paesi come l’Italia (causa tasso di conversione euro) e largamente fondato su accordi privilegiati sul costo dell’energia russa, oggi è finito in coma forse irreversibile; perché, dopo due decenni di strada in discesa, non ha formato gli anticorpi per affrontare un cambio di scenario. Decisioni pazzoidi come la chiusura del nucleare ne sono la prova. Ecco, la Germania è il nostro primo partner commerciale. La manifattura italiana è, in quanto supplier, legata a doppio filo a quella tedesca.

La crisi del modello industriale tedesco, peraltro, è quella del modello europeo, visto che si è creata una vasta area di Paesi (Austria, Belgio, Paesi Bassi, in parte Finlandia e Paesi dell’Est) per i quali la Germania rappresenta il centro di gravità manifatturiero; è il motivo per cui vanno peggio dei Paesi mediterranei.

Al di là di ciò, per le imprese manifatturiere italiane conta moltissimo la questione dei tassi di interesse: in questo momento molte di loro sono concentrate sul contenimento dei costi e sulla buona gestione, più che sulla produzione. Il rischio è quello di finire nella lista di quelle “in temporanea difficoltà”, e vedersi pertanto rifiutare un ulteriore accesso al credito. La brutta notizia è che anche la questione dei tassi sembra legata ai nuovi equilibri internazionali che si stanno formando a seguito dell’accentuarsi del conflitto diplomatico e commerciale tra Occidente e Oriente. Mentre il metano e gli idrocarburi in generale sono quasi tornati ai livelli pre-guerra (Russo-Ucraina) il costo dei trasporti non accenna a calmierarsi. Insomma, non cambierà stagione da un mese all’altro, e le imprese manifatturiere devono adattarsi al nuovo status quo.

Di tutto ciò e di altre concause abbiamo parlato con un parterre d’eccezione: con Fabio Arpe, il banchiere d’affari fondatore di Arpe Group; con l’economista industriale ed ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi Patrizio Bianchi; con il professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova Giovanni Costa; con il professore Emerito di Economia Politica della Università Cattolica di Milano Alberto Quadrio Curzio, già presidente dell’Accademia dei Lincei; e con il docente al dipartimento di Economia Internazionale dell’Università cattolica di Milano Marco Fortis, anche direttore della Fondazione Edison.

Cosa dice l’Istat

L’indice destagionalizzato mensile segna diminuzioni congiunturali in tutti i comparti: variazioni negative caratterizzano, infatti, i beni intermedi (-2,6%), i beni strumentali (-2,1%) e, in misura meno marcata, i beni di consumo (-0,4%) e l’energia (-0,3%).

Se poi consideriamo i dati nel confronto tra l’aprile 2023 e lo stesso mese del 2022, la situazione si fa più seria: i beni di consumo sono calati del 7,3%; tra questi, quelli durevoli (- 8,3%) più dei non durevoli (-7,2%); quelli strumentali (- 0,2%) non hanno subito il crollo di quelli intermedi (-11%) e dell’energia (-12,2%).

L’indice destagionalizzato mensile segna diminuzioni congiunturali in tutti i comparti

Sempre secondo le proiezioni dell’Istat, gli unici settori di attività economica in crescita tendenziale sono la fabbricazione di mezzi di trasporto (+5,7%), la fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+2,1%) e la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+0,6%). Le flessioni più ampie si registrano nell’industria del legno, della carta e della stampa (-17,2%), nella fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-13,6%) e nella fabbricazione di prodotti chimici e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-10,9% per entrambi i settori).

Il calo più significativo è nelle industrie del legno, della carta e della stampa, che complessivamente registrano una flessione del 17,2%

Le ragioni: l’industria italiana all’ombra del gigante malato

l’economista industriale ed ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi Patrizio Bianchi

«Io credo che questo rallentamento non vada preso sottogamba. C’è un gran dire che l’area mediterranea in questo momento va meglio di quella economica tedesca, e che l’Italia guida la prima: ma quali saranno le conseguenze, in un contesto economico e produttivo molto integrato? Per capire, bisogna riflettere sul fatto che non si tratta di una momentanea flessione di Berlino: ad essere in crisi, è il modello tedesco, quello che ha dominato l’economia europea dall’inizio del nuovo secolo», afferma Patrizio Bianchi.

Per Bianchi «il modello tedesco si basava sull’energia a basso costo, e quindi su accordi strategici con la Russia che oggi sono saltati. Si pensi a Nord Stream, il gasdotto che, attraverso il Mar Baltico, trasportava gas proveniente dalla Russia in Europa occidentale, passando per la Germania. Si pensi al suo boicottaggio, e all’interruzione di Nord Stream 2. Si pensi alle conseguenze politiche della guerra con l’Ucraina. È evidente che per Berlino è cambiato tutto». Per la Germania, cioè, si tratta di un cambio di paradigma al quale non riesce ad adattarsi. In realtà la situazione tedesca è assai complicata, e attualmente si può solo fare delle ipotesi. Perché, a ben vedere, è vero che la Germania è ormai entrata in recessione tecnica, dal momento che il pil tedesco nel primo trimestre 2023 ha mostrato un calo dello 0,3%, e che questo dato va sommato alla flessione dello 0,5% del quarto trimestre 2022; ma è anche vero che l’economia generale va peggio della produzione industriale: è vero che a marzo questa ha fatto registrare una diminuzione consistente, pari al 3,4%, e che il mese prima il calo era stato del 2,5%, ma tutto sommato il primo trimestre 2023 è andato meglio dell’ultimo del 2022 per 2,5 punti. Certo il gigante è fermo.

L’Ice fa presente che il surplus delle esportazioni tedesche l’anno scorso ha raggiunto il livello più basso dal Duemila, e che il saldo commerciale si è più che dimezzato, passando da 175,3 a 79,7 miliardi in un anno; pesa molto il costo di importazioni di energia. Sempre per l’Ice, nei rapporti con la Cina, la Germania ha registrato un grande deficit commerciale, il più ampio dal 1950, e la Cina, da secondo Paese importatore di merci tedesche, è passata al quarto posto. Insomma, il rapporto tra costo dell’energia e indebolimento del modello tedesco sarebbe evidente. Va peraltro sottolineato che la Germania ha sperimentato, negli ultimi 20 anni, un successo commerciale ben al di là dei propri meriti. Alla fine del secolo scorso, la Germania era il “grande malato d’Europa”. Fu il tasso favorevole nel cambio con l’euro, che era al contempo sfavorevole per Paesi come l’Italia, a determinare una sostanziale inversione delle partite correnti con altri Paesi, tra cui l’Italia. Poi la Germania ha gestito nel peggiore dei modi il proprio vantaggio potenziale: nel 2008 Berlino sembrava decollare, ma ciò non è mai avvenuto. L’indebolimento del contesto europeo, dovuto a folli politiche di austerità dettate da Berlino alla Commissione di turno, alla fine non ha favorito la Germania: i partner strangolati non avevano i soldi per comprare le merci tedesche. In questo contesto, sono intervenute politiche scellerate: si pensi all’automotive, comparto dove Berlino era fortissima e dove ora deve fare i conti con nuovi player americani e cinesi.

Giovanni Costa, professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova

Non è la sede adatta per parlare degli infausti 16 anni di governo Merkel, che ha dominato la politica europea. In un’intervista di qualche tempo fa a Industria Italiana, l’economista e storico Giulio Sapelli ha così sintetizzato quegli anni: «Angela Merkel sarà ricordata per aver venduto la Germania alla Cina».

Il problema è che dai tempi dell’inversione delle partite correnti l’industria europea si è strutturata secondo uno schema che vede la Germania (e in parte la Francia) direttamente sul mercato, e diversi altri Paesi nel ruolo di supplier: in certi settori, tantissime aziende italiane, soprattutto al Nord, ricoprono questa posizione. Insomma, a differenza di quanto accadeva alla fine del secolo scorso, la crisi del modello tedesco non può che avere effetti nefasti sulla produzione industriale italiana.

«In generale, noi siamo per lo più un Paese di terzisti, non siamo direttamente sul mercato e quindi ci ritroviamo in una posizione di particolare debolezza: siamo in balia dell’andamento degli altri Paesi, soprattutto della Germania, ma non solo. Attualmente, disponiamo di informazioni molto nebulose; ma è abbastanza evidente che qualche problema c’è», Giovanni Costa.

https://www.industriaitaliana.it/perche-la-produzione-industriale-italiana-e-calata-del-72-in-aprile-e-purtroppo-continuera-ancora-a-scendere/?utm_source=brevo&utm_campaign=NEWSLETTER%20INDUSTRIA%20ITALIANA%2014%20GIUGNO%202023&utm_medium=email

SITREP 6/15/23: Il powerplay di Kakhovka si scalda mentre l’AFU si prepara al secondo round

NOTA: Alcuni filmati sono reperibili solo sul link originale

Uno degli ultimi sviluppi che ho seguito negli ultimi giorni è il continuo chiarimento della situazione del bacino di Kakhovka intorno alla centrale nucleare ZNPP. Sono state diffuse diverse nuove foto e video allarmanti che mostrano la drastica riduzione del livello dell’acqua. Il più impressionante è questo video che mostra la vista della centrale ZNPP stessa sull’intero bacino idrico, ormai completamente prosciugato, dalla prospettiva di Nikopol sull’altro lato:

Per chi se lo stesse chiedendo, questa sarebbe la direzione della vista dal territorio controllato dagli ucraini sull’altro lato del bacino:

E qui sono riuscito a prendere uno screenshot da google maps per mostrare come appariva in precedenza:

Ora guardate di nuovo il primo video del bacino idrico prosciugato. Ora si può letteralmente camminare da Nikopol alla centrale ZNPP. Ecco altre due foto del bacino intorno all’attuale diga di Kakhovka per dare un’idea.

Per ovvie ragioni, questo mette ora lo ZNPP in grave pericolo, perché è possibile far marciare un’intera formazione sul letto senza barche. Beh, più o meno. La gente sta discutendo proprio su questo punto e in realtà è molto fangoso (difficile valutare l’esatta durezza del terreno).

L’altro grande problema è che, come si può vedere, è completamente aperto, senza ostacoli che possano essere usati come copertura. Certo, farebbero comunque una potenziale traversata durante la notte, ma anche durante la notte sarebbero essenzialmente dei bersagli facili nel letto del lago aperto e asciutto.

Ora, come ho detto, ci sono opinioni e idee diverse su ciò che sta realmente accadendo, con alcuni indizi che indicano che i segnali ucraini verso la presa dello ZNPP sono in realtà una finta disperata. Vediamo di analizzare alcune delle idee principali.

In primo luogo, è stato riferito che l’AFU, di concerto con i suoi responsabili dell’MI6, ha preparato l’assalto con risultati sfavorevoli:

“Lo Stato Maggiore, insieme all’MI-6, ha simulato uno scenario aggiornato per l’assalto allo ZNPP, tutti i formati si sono rivelati sanguinosi per le Forze Armate dell’Ucraina. L’operazione può essere effettuata solo di notte e senza attrezzature pesanti, poiché il limo si asciuga molto a lungo, non sarà possibile muoversi lungo il bacino di Kakhovka prosciugato quest’anno”, – il canale TG ucraino “Resident” condivide un insider.
Come si può vedere, ritengono che nessun mezzo pesante possa essere spostato sul limo fangoso per molto tempo. Non sono un esperto in materia, quindi posso solo credere alle loro parole. Sembra che ritengano che ci vorrà il resto dell’anno perché il letto del fiume si prosciughi.

In ogni caso, però, non vedo la particolare necessità di “attrezzature pesanti” per fare uno sforzo. È difficile stabilire se intendano semplicemente che i “carri armati” non ce la farebbero a passare attraverso il limo fangoso o se intendano veicoli più leggeri come i MRAP o almeno anche le auto/gli Humvee. Perché se le auto possono farcela, allora sicuramente sarebbe abbastanza buono per l’AFU per provarci, dopo tutto, hanno provato in precedenza su canoe e piccole imbarcazioni, quindi non è che tenterebbero l’assalto solo se avessero una “armatura pesante”. Qualcosa di veloce e relativamente corazzato potrebbe fare al caso loro.

Ecco l’opinione di Rybar:

❗️🇷🇺🇺🇦

Direzione di Kherson entro la fine del 14 giugno 2023Secondo le autorità ufficiali, l’acqua del Dnieper tornerà al suo corso normale entro il 20 giugno. Ma le aree allagate devono ancora riprendersi. Su suggerimento delle autorità ucraine dell’informazione e della guerra psicologica, si sta diffondendo uno scenario avulso dalla realtà dell’offensiva delle formazioni ucraine in profondità nella regione di Kherson e ai confini della Crimea. Secondo il piano del nemico, sarà costruito un passaggio attraverso la zona paludosa per il trasferimento di un pugno d’urto su larga scala, che dovrebbe occupare Novaya Kakhovka, e in seguito sferrare colpi di taglio attraverso Chaplinka fino a Armyansk e Melitopol.Un simile scenario, data l’inadeguatezza dei territori sulla riva sinistra del Dnieper, sembra poco plausibile. Molto probabilmente, tali messaggi vengono diffusi per mascherare la direzione del trasferimento dei rinforzi: recentemente tre brigate sono state trasferite da Nikolaev al Donbass. Lo scenario di un’operazione di sbarco nel bacino di Kakhovka è molto più probabile: dopo l’abbassamento del bacino, le barriere antimine sono state danneggiate, quindi l’opzione di far scendere gruppi di sbarco in questa zona è potenzialmente possibile.
Ciò che viene toccato qui è che ci sono stati molti altri rapporti recenti, che ho anche menzionato prima, che l’AFU sta in realtà trasferendo disperatamente il maggior numero possibile di riserve/guarnigioni dell’area di Kherson per aiutare le formazioni “controffensive”, in esaurimento e in difficoltà, che stanno subendo una batosta in direzione di Zaporozhye.

L’idea è quindi quella di indurre la Russia a impegnare in modo eccessivo grandi riserve nell’area di Kakhovka, nel timore che l’Ucraina possa lanciare un grande assalto allo ZNPP, indebolendo le riserve russe da Zaporozhye.

Questi rapporti non erano solo possibilità fittizie, ma si basavano piuttosto su movimenti di truppe pesanti effettivamente osservati dalla guarnigione AFU di Kherson verso l’asse di Zaporozhye.

E per mantenere l’apparenza di questa minaccia, continuano a tentare sbarchi molto più a sud sulle coste di Kherson, come il tentativo di ieri descritto qui:

️ Questa mattina, il nemico nella zona di Hola Pristan, nella regione di Kherson, ha tentato di sbarcare i suoi DRG sulla nostra costa. Le Forze Armate dell’Ucraina hanno coinvolto ben quattro imbarcazioni, per un totale di almeno quaranta persone. Una delle imbarcazioni avrebbe dovuto distrarci mentre le altre tre sbarcavano. Come risultato, solo l’imbarcazione distrattrice è riuscita ad atterrare, ma non sulla riva, bensì sul fondo del Dnieper. Le altre tre sono corse a casa a leccarsi le ferite.
Ecco un altro resoconto dei trasferimenti di cui ho parlato:

1. Negli ultimi tre giorni, il nemico ha adottato misure attive per trasferire le forze di tre brigate delle Forze Armate dell’Ucraina nelle direzioni di Zaporozhye e Donetsk dal territorio della regione di Mykolaiv.
2. In particolare, sono state dispiegate brigate equipaggiate con carri armati M55S e veicoli corazzati americani Stryker.
3. Possiamo aspettarci la loro comparsa in prima linea nei prossimi giorni in direzione Zaporozhye o Yuzhnodonets.
Non solo si parla di trasferimenti della riserva generale da Nikolayev, ma anche del presunto trasferimento della brigata Stryker, il che crea un po’ di confusione perché, secondo il “power build” trapelato dal Pentagono, l’82ª è l’unica che dovrebbe essere armata con Stryker e Challenger 2 britannici. La brigata con i T-55S è la 47ª che si è già nascosta (la stessa brigata con i Bradley). Ma poiché abbiamo visto che i Bradley, che avrebbero dovuto essere nella 47ª, sono già stati utilizzati in concomitanza con i Leopard 2, che avrebbero dovuto essere della 33ª brigata, è possibile che si stiano mescolando elementi diversi di ciascuna brigata piuttosto che impegnarli per intero.

Questo è in linea con un altro rapporto che afferma che nuovi rinforzi si stanno raccogliendo nelle retrovie della regione di Dnipropetrovsk:

Riceviamo dati sul trasferimento delle riserve di equipaggiamento delle Forze Armate ucraine alla linea di contatto. La principale area posteriore in cui si concentrano le unità meccanizzate è la regione di Dnipropetrovsk. La principale via di trasferimento delle forze di riserva è il nodo ferroviario di Pavlograd – Pokrovsk.
Ma torniamo alla situazione dei serbatoi e dello ZNPP. Big Serge ha un thread dettagliato qui:

https://twitter.com/witte_sergei/status/1669014148292943873

(E anche un altro ottimo articolo di Erik Zimerman: https://twitter.com/ZimermanErik/status/1666948710536757248).

Con foto satellitari che mostrano il prima e il dopo del bacino idrico nel punto che ho mostrato prima, Nikopol e la ZNPP:

Inoltre pubblica l’idea, spesso discussa, che l’assalto all’Energodar doveva collegarsi con la spinta in corso nella direzione di Orekhov, ma a causa del massiccio fallimento del 47° e co. nel far breccia nelle difese russe in quella zona, ha in un certo senso ovviato – almeno per ora – all’opportunità del sequestro dello ZNPP.

 

L’idea è che impadronirsene senza una linea di rifornimento che colleghi direttamente le retrovie sarebbe in definitiva un suicidio o solo una procedura temporanea.Naturalmente, ho già espresso la mia teoria secondo la quale il sequestro potrebbe essere incentrato su una grande psyop/falseflag, quindi non sarebbero necessariamente preoccupati dei rifornimenti. Lo scopo dell’operazione potrebbe invece essere quello di far saltare o danneggiare l’impianto nel tentativo di incastrare la Russia e attivare una risposta/incursione della NATO. Possono far saltare l’impianto da lontano con degli attacchi, ma in questo modo il colpevole diventa ovvio. Se riescono a sequestrarlo, per esempio, e poi a farlo saltare, possono affermare che la Russia ha attaccato le loro posizioni e fatto saltare l’impianto, o qualcosa del genere.

In ogni caso, come suggerito da Serge, il piano potrebbe essere potenzialmente ancora “sospeso” fino a quando non faranno alcuni passi avanti necessari sul fronte di Orekhov.

In ogni caso, vedere le immagini di quanto sia asciutto e accessibile il letto del lago e quanto sia vicino alle forze ucraine un obiettivo catastroficamente strategico come la ZNPP è piuttosto inquietante, bisogna ammetterlo.

L’offensiva
Passiamo ora a commentare il tema adiacente della “controffensiva” in corso. Ci sono alcuni indizi che fanno pensare che Kiev e Washington siano in preda al panico per i risultati del tutto inaspettatamente negativi ottenuti finora. Non solo avrebbero dovuto raggiungere la prima linea russa già nei primi giorni, ma a questo punto avrebbero voluto sfondarla. Invece, sono rimasti impantanati a pochi chilometri di distanza.

Il canale ucraino TG Donna con la falce scrive della delusione per la controffensiva negli uffici del regime di Kiev: “A margine si è diffusa la voce che l’Ufficio del Presidente ha molta paura che l’offensiva di Azov perda slancio e si trasformi in un secondo tritacarne.A margine, tutti hanno già dato un nome a questo. Ci sarà un “massacro di Azov”, perché lì ci sono i campi, non ci sono posti dove ci si può nascondere, il che significa che ci saranno più perdite. L’Occidente si aspettava di più dalla controffensiva”.
Ecco un’immagine di quanto sono riusciti a fare in undici giorni di combattimenti pesanti:

Certo, dicono i sostenitori dell’Ucraina, in undici giorni hanno conquistato un’area più grande di quella conquistata dalla Russia a Bakhmut in mesi di combattimenti. Il problema di questa argomentazione è che ignora del tutto il fatto che l’AFU ha combattuto e perso aspramente per ogni centimetro quadrato di Bakhmut, pagando quei mesi con decine di migliaia di vite. Come ho riferito la volta scorsa su questa tattica, la Russia invece si ritira semplicemente di fronte alle probabilità sfavorevoli, poi mette le unità AFU che si avvicinano vertiginosamente in sacche di fuoco in cui vengono decimate. La Russia sta subendo perdite anche qui, ma non sono paragonabili a quelle subite dall’AFU a Bakhmut e altrove, mentre combatteva con le unghie e con i denti per ogni centimetro di terra.

Nel frattempo, la posizione dell’Ucraina, in particolare sul versante occidentale, appare pessima come sempre, nemmeno lontanamente vicina alle inespugnabili linee principali a più livelli della Russia.

Secondo alcune voci, l’ufficio di Zelensky starebbe tentando di lanciare una nuova campagna di informazione per invertire la rotta e ribattezzare l'”offensiva” come qualcosa di diverso, cioè un’azione di sondaggio, per salvare la faccia:

Una fonte dell’ufficio del Presidente ha dichiarato che l’Ufficio del Presidente vuole lanciare una campagna di informazione per spostare l’attenzione dalla pausa della controffensiva sul fronte meridionale. Il CiPSO intende dissipare la narrativa secondo cui non si tratta di una controffensiva, ma di un livellamento del fronte prima dell’inizio della battaglia di Azov. L’Ucraina ha già sostenuto grandi costi di reputazione e ora lo scenario internazionale deve essere corretto per non screditare definitivamente la capacità dell’AFU di riconquistare i propri territori.Penso che dovrebbero anche cambiare i vestiti del clown. Un vestito di lattice con un buco nel culo e tacchi sarebbe armonioso. Il mese dell’orgoglio.
Prendendo spunto, il consigliere presidenziale Mikhail Podolyak è sembrato già portare avanti la nuova narrazione:

Le forze armate ucraine non hanno ancora lanciato una controffensiva, ha detto Mikhail Podolyak, consigliere del capo dell’ufficio del Presidente dell’Ucraina. Ora, secondo lui, le truppe ucraine stanno conducendo “test”, che “ci permettono di andare avanti”. “C’è una sensazione che loro stessi non capiscono: c’è un’offensiva o non c’è ancora? Se hanno già perso così tanto solo per i “test”, non possono aspettare una cosa reale.
Naturalmente, l’avevo già previsto diversi rapporti fa, in cui dicevo che la famigerata offensiva di Schrodinger sarà etichettata di conseguenza a posteriori, a seconda di come si comporterà. Se faranno brecce, annunceranno retroattivamente che è sempre stata la grande offensiva, se verranno spazzati via, fingeranno semplicemente che stanno solo testando la Russia e che “la grande offensiva” avverrà più tardi, quando avranno gli F-16.

Ecco un buon thread che evidenzia anche alcune delle cose di cui abbiamo discusso, come il fatto che dottrinalmente l’Ucraina avrebbe dovuto fare dei passi avanti nei primi giorni dell’offensiva:

Cita il generale Petraeus in un’intervista al Guardian qualche giorno prima dell’offensiva, affermando quanto segue:

N

oiché Petraeus non solo prevede che l’AFU sminerà in modo impeccabile i campi russi con le sue nuove attrezzature occidentali, ma indica specificamente un calendario di 72-96 ore (3-4 giorni) come limite critico di sfondamento. Come nota CheburekiMan nel suo thread, Petraeus rimane subdolamente ambiguo e vago, e non si sbilancia nel dirci esattamente che tipo di sfondamento si aspetta in quei 3-4 giorni. Ma l’impressione che ne ricaviamo è che egli si aspettasse chiaramente che in quel lasso di tempo venissero compiuti dei passi avanti significativi e osservabili e che si ottenesse un successo operativo.

Dopo lo sfondamento degli elementi di avanguardia in 3-4 giorni, egli prevede che le “unità successive” capitalizzino riversando le loro riserve nello sfondamento e “mantenendo lo slancio”. Ora siamo a quasi due settimane, vedete qualche “slancio”? Né vediamo le sue immaginate “difese russe muoversi” e scoprire i fianchi.

Il fatto è che è ovvio che l’offensiva di Schrodinger è solo un’offesa al buon senso. Perché chiunque abbia un cervello può vedere che i funzionari e i leader di pensiero occidentali si aspettavano che a quest’ora avrebbe già dato risultati molto diversi.

Anzi, più si va avanti e più si privilegiano le informazioni rivelatrici del MSM su quanto tutto sia andato male.

Questo nuovo articolo del WashPost, ad esempio, ci fornisce alcune nuove informazioni:

Le brigate delle Forze armate ucraine addestrate ed equipaggiate dalla NATO subiscono ingenti perdite nella controffensiva – Washington PostI soldati della 37esima brigata delle Forze armate ucraine sono stati sottoposti a un addestramento moderno secondo gli standard della NATO e sono stati armati con armi fornite dall’Occidente, ma nel giro di 20 minuti dopo l’offensiva hanno subito pesanti perdite.C’erano circa 50 persone nell’unità militare con il nome di battaglia “Woodcutter”, e 30 non sono tornate – sono state uccise, ferite o catturate dai russi.Cinque unità di veicoli blindati dell’unità sono state distrutte nella prima ora. unità di veicoli blindati dell’unità sono stati distrutti nella prima ora. “Siamo rimasti lì sul campo, senza carri armati e veicoli blindati pesanti. I mortai ci sparavano da tre lati. Le pesanti perdite del battaglione fanno presagire un prezzo terribile che i leader ucraini sono disposti a pagare – e sentono di dover pagare”, scrive il Washington Post.
L’articolo contiene altre terribili descrizioni dell’inizio della “non offensiva”:

Entro 20 minuti dalla loro avanzata del 5 giugno a sud di Velyka Novosilka, nella regione sud-orientale di Donetsk, i mortai sono esplosi intorno a loro, hanno detto i soldati. Un soldato di 30 anni, noto come Lumberjack, ha visto due degli uomini nel suo veicolo sanguinare pesantemente; uno ha perso un braccio mentre gridava per la sua famiglia. Lumberjack si è infilato in un cratere, ma le schegge di un mortaio hanno attraversato il terreno e gli hanno trapassato la spalla. “Siamo stati lasciati lì sul campo, senza carri armati o armature pesanti”, ha detto Lumberjack, che ha parlato con il Washington Post a condizione di essere identificato solo con il suo nome di battaglia perché non era autorizzato a parlarne. “Ci hanno bombardato con i mortai da tre lati. Non potevamo fare nulla”.
L’articolo rivela anche che alcuni dei “sopravvissuti” della martoriata 37a brigata sono “volontari americani”, il che non solo sembra implicare che anche molti dei caduti potrebbero essere americani, ma è una rivelazione generale sul fatto che i mercenari occidentali stanno rimpolpando i ranghi di queste nuove brigate “d’élite”. Il fatto che queste brigate siano armate con carri armati occidentali fornisce una buona indicazione per le teorie a lungo sostenute, secondo le quali i più preziosi equipaggiamenti occidentali sono in realtà utilizzati da soldati degli stessi eserciti occidentali.

Un altro soldato sul lato orientale dell’offensiva ha descritto la facilità con cui i bombardamenti russi hanno penetrato i loro inadeguati AMX-10 francesi:

Per la prima ora e mezza dell’assalto del 37° vicino a Velyka Novosilka, i russi hanno bombardato l’unità con bombardamenti ininterrotti che hanno penetrato i loro veicoli blindati AMX-10 RC, secondo Grey, un altro soldato del battaglione che ha parlato a condizione di essere identificato solo con il suo nome di battaglia. I veicoli blindati, a volte chiamati “carri armati leggeri”, non erano abbastanza pesanti per proteggere i soldati, ha detto Grey, e dovevano essere posizionati dietro di loro invece che davanti.
Il soldato ammette più avanti nell’articolo che hanno fatto un “grande sacrificio” per il [poco] territorio guadagnato.

L’articolo di Politico sintetizza in modo molto chiaro la tragedia della situazione.

Descrive i dettagli di un pilota ucraino che all’inizio di quest’anno si è addestrato in un programma speciale per jet da combattimento nel Mississippi, negli Stati Uniti. Lascerò che la citazione riassuma ciò che è successo dopo:

Savieliev ha finalmente completato il corso a marzo ed è tornato in Ucraina dopo non aver volato con il suo vecchio jet, il MiG-29, per almeno due anni. È morto durante una delle prime missioni di combattimento che ha effettuato dopo il ritorno dagli Stati Uniti, ha detto Fischer.
Ha trascorso due anni in questo programma speciale di pilotaggio americano ed è letteralmente morto durante la sua prima missione quando è tornato in Ucraina. Non c’è altro da dire al riguardo.

A proposito, ecco come Lloyd Austin sta cercando di limitare i danni delle perdite dei blindati occidentali:

Un rapporto sostiene addirittura che il Regno Unito stia pregando l’Ucraina di non utilizzare i suoi Challenger in posizione di avanguardia:

Il Regno Unito ha chiesto con forza all’Ufficio del Presidente dell’Ucraina di non utilizzare i Challenger per la prima fase della controffensiva. Dopo la perdita di diversi Leopardov nelle mani dell’esercito russo, l’MI6 ritiene che non sia razionale utilizzare i carri armati britannici per assaltare le linee di difesa sul fronte meridionale.
Ebbene, cos’altro dovrebbero usare? La verità è che nella famosa fuga di notizie del Pentagono “power build” la maggior parte delle altre delle 9 brigate totali hanno come MBT principali i T-55, i T-64, i T-72, i P-91 (variante del T-72) e il ridicolo AMX-10. Ciò significa che le due brigate con Leopard e Challenger erano le uniche due brigate con carri armati occidentali relativamente “avanzati/moderni” – e uno di questi è già stato distrutto. Quindi cosa dovrebbero usare se non i Challenger?

Ma tornando all’offensiva, il punto conclusivo più importante che voglio fare è ribadire qualcosa che ho già detto in precedenza. Secondo me, il pericolo principale è che l’Ucraina “si arrenda” di fronte a risultati disastrosi, il che le consentirebbe di conservare gran parte della sua forza in vista di futuri attacchi quando otterrà “altra roba” dall’Occidente.

Come ha detto lo stesso Putin nei colloqui di due giorni fa, è altamente preferibile per la Russia che l’Ucraina continui in modo assolutamente fanatico a sbattere la testa contro il baluardo delle inespugnabili difese russe. In questo modo si ha la massima possibilità di ridurre le forze ucraine a un livello tale da dare alla Russia un divario sufficientemente ampio da indurre i comandanti russi a sentirsi abbastanza sicuri da lanciare offensive successive paralizzanti, piuttosto che attenersi a una guerra di posizione in stallo.

Oggi si parla già di saccheggiare una nuova fonte di armature per l’Ucraina. Poiché stanno esaurendo i carri armati occidentali, la nuova idea è quella di raccogliere grandi quantità di vecchi M60 e Merkavas israeliani per il futuro fondo di rifornimento dell’Ucraina.

L’ho già detto nei commenti, ma lo ripeto qui. Il grande pericolo per l’AFU è che gli vengano tolti tutti i suoi veri e propri blindati pesanti di alto valore e pericolosi, sostituendoli con mezzi che sulla carta sembrano pieni, ma che in realtà sono molto meno letali.

Per esempio, le scorte di MBT dell’Ucraina sono già in gran parte piene di T-55/T-62/64. Ora, l’unico rifornimento a medio termine per gli MBT è un lotto di Leopard 1A5 tedeschi la cui consegna è prevista per quest’anno. Sulla carta, potrebbe sembrare che l’Ucraina abbia centinaia di carri armati e che stia bene. Ma il problema è che quasi tutti questi carri armati hanno piccole canne da 105 e 115 mm, che non possono essere paragonate ai massicci 125 mm della vasta flotta russa di T-72/80/90. La stessa situazione si sta verificando attualmente nella flotta di carri armati tedeschi.

La stessa situazione si sta verificando sul fronte dell’artiglieria. L’Ucraina è pesantemente colpita dai pezzi da 155 mm standard della NATO. Ad esempio, secondo le ultime cifre russe, 90-100 dei 150 M777 consegnati sono stati distrutti. C’era solo una manciata di altri sistemi da 155 mm come Krab/Caesar/Dana/Phz2000/M109s/Archers/ecc.

Ora si sta cercando di rifornire le UA con un gruppo di obici da 105 mm come gli L/M119, ecc.

Ciò significa che entro l’anno prossimo l’Ucraina potrà ancora disporre di mezzi corazzati e di artiglieria “sulla carta”, ma saranno quasi interamente di calibri che saranno ampiamente superati e superati dalla Russia come mai prima d’ora. Se pensavate che l’Ucraina fosse stata superata all’inizio della guerra, aspettate che gli rimangano solo i 105 mm e vedrete come se la caveranno contro l’enorme scorta di 152 mm, 203 mm, ecc. della Russia. Lo stesso vale per i carri armati, perché i cannoni da 105 mm probabilmente non penetreranno nemmeno i fronti degli MBT russi. L’M60 di cui si parla ora è un altro 105 mm.

E visto che parliamo di armi, qualche aggiornamento su questo fronte. La Rheinmetall ha confermato di essere in grado di produrre 450.000 proiettili da 155 mm all’anno, pari a 37.500 al mese.

Ricordiamo che gli Stati Uniti sono in grado di produrre solo una misera quantità di 14.000 unità al mese e hanno in programma di aumentarla nel corso dei prossimi 5-6 anni:

Nel complesso, se i numeri di Rheinmetall sono veri, tutta la NATO può produrre quasi 1 milione di proiettili all’anno. Ricordiamo che l’Ucraina vuole sparare almeno 10.000 proiettili al giorno, il che equivarrebbe a ~3,5 milioni all’anno, ma secondo le fughe di notizie del Pentagono, in realtà la media si avvicina a 2.500 proiettili sparati al giorno, in particolare da 155 mm. Questa cifra è di poco superiore a 900.000 all’anno, il che significa che per il prossimo futuro l’Occidente può di fatto sostenere il piccolo tasso di fuoco giornaliero dell’Ucraina. Ma non sarà in grado di aumentarlo significativamente per molti, molti anni, se mai lo farà.

La Russia, d’altra parte, si dice che stia già producendo 250-350k al mese e 2,5-3,5 milioni all’anno di granate, e ci si può solo aspettare che questo possa crescere molto di più nei prossimi due anni. Ma ricordiamo che un attaccante avrà sempre bisogno di un numero maggiore di proiettili rispetto al difensore.

Ma per concludere l’argomento offensivo. Ci sono ora indicazioni che l’Ucraina si sia riorganizzata e stia pianificando un altro grande tentativo di sfondamento della linea di Orekhov, a ovest di Zaporozhye:

Secondo quanto riferito, faranno un altro tentativo per colpire Robotne, raffigurato con il segno rosso sopra, appena a sud di Orekhov e la loro area di sosta a Mala Tokmachka.

Il nemico in direzione di Zaporizhzhya, da Orekhovo, sta posando campi minati con le sue mine a grappolo autodistruttive. La natura delle mine suggerisce che stanno preparando dei passaggi per attaccare con attrezzature pesanti. Il momento preferito per l’attacco è la notte, poiché tutti i blindati occidentali di cui dispongono sono dotati di ottiche notturne. Quindi, presto cercheranno di sfondare di nuovo. Questa volta con riserve fresche, precedentemente non coinvolte.
Situazione sulla direzione di Orekhovo (regione di Zaporizhzhya, zona SMO) Le forze armate ucraine stanno completando la formazione di un gruppo d’attacco. Hanno in programma di inviarlo in un secondo tentativo di rompere la fascia difensiva della 58ª Armata (posizioni russe). In totale, il comando dell’AFU è riuscito a riunire otto brigate. La direzione prevista dell’attacco è quella delle posizioni della 42ª Divisione dell’esercito russo. Ma questo è l’attacco principale. Ne è previsto anche uno ausiliario, nella zona di Maly Shcherbakov-Pyatikhatok. Una nuova ondata di contrattacchi potrebbe essere lanciata in qualsiasi momento.
Le fonti indicano che sono pronti a lanciarli tra 2-3 giorni, e alcuni sostengono che lo faranno effettivamente stanotte, al calar delle tenebre.

Un’interessante notizia proveniente da Rybar riferisce che i comandanti di alcune unità della 37ª brigata russa, incaricate di tenere Levadne e Novodarovka sul fianco sud-occidentale di Velyka Novosilka, “sono stati rimossi”.

 

Non c’è conferma di ciò, ma se fosse vero dimostrerebbe la spietata disciplina che il Ministero della Difesa russo sta esemplificando ultimamente, dato che ogni comandante o generale che dimostra incompetenza o un grave fallimento viene immediatamente sostituito. Queste sono le “persone da parquet” di cui Putin ha parlato nei suoi colloqui di due giorni fa.Una cosa che ho dimenticato di menzionare è il fatto che il tempo è stato pessimo negli ultimi giorni, con molta pioggia nella regione. Secondo quanto riferito, questo è uno dei motivi per cui l’AFU si è raffreddata, ma ora sta migliorando e sono pronti a fare un altro forte sforzo per avanzare lungo l’intero fronte.

Notizie varie
Ora alcune notizie varie per aggiornarci su altri importanti sviluppi.

Un aggiornamento importante è che la NATO prevede di adottare un accordo al prossimo vertice di Vilnius, a luglio, per aumentare la sua forza di “risposta rapida” di 40.000 unità a un enorme numero di 300.000. Questo è chiaramente preoccupante alla luce delle nostre recenti riflessioni sul fatto che la NATO sembra prepararsi alla guerra con la Russia. Naturalmente, non credo che questo significhi che la guerra sia inevitabile, per molti versi si tratta ancora di “precauzioni” preparatorie da parte della NATO. Tuttavia, ciò dà credito ad alcune delle mie spiegazioni dell’ultima volta sul perché Putin potrebbe trattenere fino a 200-300 mila truppe e non impegnarle completamente in Ucraina. Con un massiccio contingente NATO di 300.000 uomini in preparazione alle porte di casa, sarebbe folle non avere una grande forza di riserva.

Nel frattempo, la Russia sembra allentare molte restrizioni per attirare sempre più reclute:

La Duma di Stato ha adottato in prima lettura un disegno di legge sulla possibilità di attirare detenuti al servizio militare con un contratto. È improbabile che un ulteriore esame a livello di Duma e di Consiglio della Federazione crei difficoltà. Ora il servizio dei detenuti a contratto diventerà un altro strumento per regolare la popolazione carceraria. Per i detenuti a lungo termine, il servizio al fronte sarà certamente un’opzione attraente per tutti i rischi per la vita. Il Servizio Penitenziario Federale realizzerà e supererà i suoi piani di riduzione della popolazione carceraria russa entro il 2030.
Si tratta di una manovra davvero brillante, perché serve contemporaneamente a una duplice funzione sociale. Non solo si ottengono tonnellate di nuovi soldati, ma allo stesso tempo si riduce la popolazione carceraria e forse si riformano molte persone.

L’aspetto interessante è che gli ultimi numeri forniti da MediaZona, che tiene traccia delle vittime russe, mostrano che i detenuti rappresentano ora il tipo di vittime più elevato:

Per molti versi questo è un uso brillante delle risorse disponibili da parte della Russia. Utilizza i detenuti nei combattimenti d’assalto più duri e con i rischi maggiori, preservando le sue forze migliori e liquidando il meglio delle truppe di Kiev.

Su questa nota simile, ieri è stata pubblicata un’interessante foto che mostra quelle che si dice siano forze siriane che combattono per la VDV russa nella foresta di Kremennaya:

La cosa più interessante è che è stato pubblicato dagli account ufficiali del 98° e famoso 76° Paracadutisti di Pskov, quindi non si tratta di un falso o di un’attribuzione errata. Detto questo, non hanno postato alcuna informazione oltre a dire che sono siriani. Alcuni dicono che sono volontari, ma di solito un volontario non entra nelle forze aviotrasportate d’élite della VDV, non avrebbe senso.

Ricordiamo che tempo fa molti sostenevano che la Russia avrebbe dovuto utilizzare l’assistenza offerta dalla Siria. C’erano più di 20.000 truppe siriane

siriane, in particolare delle Forze d’élite delle Tigri sotto Suheil al-Hassan, che si offrivano di combattere per la Russia, ma il Cremlino all’epoca si oppose. Forse ora anche loro stanno aprendo le porte e allentando le restrizioni?

Il prossimo:

Secondo alcune indiscrezioni, fornite grazie alle informazioni sulla localizzazione dei voli militari, Budanov sarebbe in realtà gravemente ferito e sarebbe stato trasportato in Germania:

Il capo della Direzione principale dell’intelligence ucraina, Budanov, è stato ferito il 29 maggio a seguito di un attacco alla sede della Direzione principale dell’intelligence del Ministero della Difesa a Kiev. Il capo dell’intelligence militare ucraina Budanov è stato ferito il 29 maggio durante un attacco russo all’edificio del suo dipartimento; il razzo è “volato” nell’ufficio accanto a Budanov, ha dichiarato un dipendente delle forze di sicurezza russe a RIA Novosti, citando fonti dell’intelligence ucraina. Dopo essere stato ferito, Budanov è stato portato in elicottero in una base militare a Rzeszow, in Polonia, dove è stato prelevato appositamente da un aereo di evacuazione americano che ha trasportato il capo dell’intelligence ucraina in Germania.Ora Budanov si trova in un ospedale di Berlino, in gravi condizioni.Inoltre, il Comandante in Capo delle Forze Armate dell’Ucraina Zaluzhny non è ancora apparso in pubblico.
Questo, ovviamente, rispecchia molto da vicino le voci che circolavano su Zaluzhny, quindi prendetelo con le molle, ma per ora vale la pena di archiviarlo.

Alla luce delle indiscrezioni, appaiono ancora molte cose strane su Zaluzhny/Budanov. Non solo entrambi sono scomparsi da alcuni importanti incontri ai piani alti, ma un nuovo articolo della BBC su Zaluzhny ha letteralmente questo post scriptum in fondo:

Interessante!

D’altra parte, l’Ucraina ha affermato di aver ucciso centinaia di ceceni e Adam Delimkhanov, che è riapparso solo poche ore dopo senza un graffio, dimostrando ancora una volta la natura comica della propaganda ucraina. Ma la cosa più importante è che è riapparso nella regione di Belgorod, dimostrando che i ceceni hanno di fatto assunto la responsabilità di proteggere il confine di Belgorod da ulteriori incursioni ucraine:

Inoltre, anche le voci secondo cui i ceceni avrebbero lasciato Marinka erano false. Sono ancora lì e avanzano ogni giorno.

E a proposito di Belgorod, Patrick Lancaster ha pubblicato un interessante video dalla città di Novaya Tavolzhanka a Belgorod, che è stata ripulita dai mercenari dell’RDK e dall’SBU. Ma ciò che lui e altri giornalisti russi hanno scoperto nell’area è stato sconvolgente:

Al timecode sopra riportato, si può vedere che nelle case in cui le unità AFU si sono riparate, hanno lasciato un mucchio di messaggi minacciosi e inquietanti dipinti con lo spray sulle pareti e sui soffitti, che possono essere descritti solo come crimini di guerra. La maggior parte dei messaggi dice cose come “Questo è per Mariupol” o “Bakhmut”, ecc., con proiettili lasciati all’aperto su cui sono incisi con pennarello nero nomi di città, alcuni dei quali sono scritti in inglese, forse implicando mercenari anglofoni.

Un’altra interessante rivelazione è arrivata da Sladkov, che ha partecipato alla chiacchierata di Putin dell’altro giorno. A quanto pare, c’è stata anche una “sessione chiusa” lontano dalle telecamere, in cui i corrispondenti hanno dato a Putin i veri messaggi dal fronte:

Sladkov sulla parte chiusa dell’incontro con la Guida Suprema:
La parte chiusa della conversazione è stata dedicata ai problemi delle unità in guerra. Il Presidente ha segnato molte cose nel suo taccuino sia nella prima parte che nella seconda, e ha commentato più volte:
– “Wow, non ne sapevo nulla”…
di questo”… – “È la prima volta che ne sento parlare”… – “Chiamerò oggi il Ministero della Difesa e
Oggi chiamerò il Ministero della Difesa e ne discuterò con loro”…
Solo una volta il Presidente ha detto duramente “no” quando uno di noi ha chiesto di equiparare i pagamenti in contanti per tutte le regioni. Putin ha risposto:
“Siamo la Russia, non l’Ucraina, siamo uno Stato, non un regime, e non sono ironico o scherzoso. C’è una legge, questi sono pagamenti volontari di ogni regione alla sua gente mobilitata, non abbiamo il diritto di ordinarli”.
A proposito di quest’ultima parte, mi ha scioccato sapere che molte persone non sanno nemmeno che i combattenti mobilitati vengono pagati. E non solo vengono pagati, ma anche molto bene. Infatti, il soldato russo medio non solo viene pagato molto di più degli equivalenti soldati americani, ma guadagna una cifra da re rispetto agli stipendi medi russi. In termini russi, il soldato medio russo guadagna più di 200 mila rubli al mese. A seconda della fluttuazione della conversione rublo/dollaro, si tratta di oltre 3000 dollari USA al mese. Questo fa dei soldati russi alcune delle persone più pagate di tutta la società, l’equivalente dello stipendio di un programmatore senior in Russia, e simile a quello dei medici.

L’origine del falso psyop ucraino, che ha convinto la gente che i combattenti mobilitati non vengono pagati, è stato un video in una regione rurale dell’estremo oriente della Russia che mostrava un governatore locale che offriva alle famiglie un sacco di patate, tra le altre cose, per la mobilitazione delle loro truppe. I commentatori dal basso quoziente intellettivo hanno pensato che questo fosse il loro “pagamento” e molti titoli hanno titolato che la Russia paga i suoi mobiks con le patate. In realtà, questo non ha nulla a che fare con la loro paga, che ricevono per intero. Il governatore rurale e rustico stava semplicemente offrendo un cesto regalo come ringraziamento personale alle famiglie che hanno avuto figli mobilitati per la guerra. Un gesto gentile è stato trasformato in una grossolana propaganda.

E a proposito di propaganda, molti hanno sentito la storia di un turista russo che in Egitto è stato divorato da uno squalo mentre nuotava sulla spiaggia. Gli ucraini sui social media hanno celebrato l’incidente con una serie di meme che lodavano e glorificavano lo squalo, tra cui questo annuncio:

Ma ciò che mi interessava di più era che persino Arestovich sembrava vedere la disumanità del loro comportamento:

Gli americani, nel frattempo, continuano a portare altre truppe nella Siria occupata illegalmente, mentre si lamentano dell'”invasione illegale” dell’Ucraina da parte della Russia:

Quando i russi iniziarono a studiare i carri armati #Leopard furono sorpresi dalla costruzione inconsistente e dalla scarsa qualità. Corazza del Leopard: in alcuni punti lo spessore del tetto del carro armato #tedesco è di 20 mm (fino a 15 mm) sembra aver aumentato la fragilità dell’acciaio.Infatti, l’onda d’urto non ha ammaccato, ma ha frantumato la corazza Si è scoperto che il tetto della torre Leopard è buono come il cartone. È stata una trappola per l’esercito ucraino che si è affidato a questi carri armati #Leopard di latta – Fonte
Un rapporto sostiene che questo Leopard è stato colpito da un drone FPV e che il comandante del carro armato, che si trovava proprio sotto la rottura del pannello, è rimasto ucciso.

Ora, un ultimo aggiornamento tecnologico per coloro che sono interessati agli ultimi sviluppi in materia di armamenti. Un’affascinante notizia è stata diffusa, e sostiene che l’ultima variante russa del drone Lancet utilizza l’intelligenza artificiale per uccidere da sola i bersagli. È una notizia lunga, ma vale la pena di leggerla per chi è interessato ai progressi tecnologici:

WarZLe reti neurali controllano la guida dei Lancet dell’UAV-il Lancet kamikaze è stato a lungo il principale mezzo di guerra di contro-batteria dell’esercito russo. Ma
pochi sanno perché i Lancet sono così efficaci. Cerchiamo di aprire un piccolo velo grigio che nasconde le risposte a queste domande.I microcomputer ad alte prestazioni presenti sull’UAV Lancet kamikaze e sull’UAV da ricognizione sono utilizzati per far funzionare le reti neurali di ultima generazione al fine di rilevare e classificare i bersagli. Allo stesso tempo, entrambi gli UAV si scambiano attivamente i risultati in volo. Per coloro che non sono ferrati in materia, spieghiamo cosa sono le reti neurali. Su ogni drone è presente un chip. Esso prevede l’utilizzo di reti convoluzionali di ultima generazione. Tali reti sono molte volte superiori alle capacità umane di riconoscimento delle immagini visive. Cos’è una rete neurale convoluzionale? Una rete neurale convoluzionale è una classe di reti specializzate nell’elaborazione di immagini e video. Tali reti neurali risolvono esattamente due compiti: riconoscono gli oggetti e li classificano. Gli UAV da ricognizione Lancet e i Lancet stessi, utilizzando una rete neurale convoluzionale, si occupano proprio di riconoscere e classificare i bersagli sul campo di battaglia.In precedenza, si diceva che i “Lancet” fossero indotti con l’aiuto degli “Eagles”. Tuttavia, questo è un errore, anche durante lo sviluppo del complesso, uno speciale. L’UAV è un ricognitore. Il ricognitore è realizzato secondo lo schema “ala volante”. È in qualche modo simile all'”Aquila”, ma appositamente adattato per i compiti di ricognizione, riconoscimento e classificazione degli oggetti. Si libra nel cielo con un motore elettrico quasi silenzioso per 5 ore. Con l’aiuto di reti convoluzionali di ultima generazione, questo UAV da ricognizione individua facilmente gli obiettivi nemici e trasmette le immagini degli oggetti identificati al microcomputer ad alte prestazioni Lancet, che a sua volta gestisce le priorità degli obiettivi. Secondo le informazioni disponibili, le reti neurali rilevano al meglio gli oggetti in movimento. Riconoscono perfettamente anche gli oggetti mascherati. Purtroppo, però, non funzionano ancora bene con la disposizione delle attrezzature. Non è tutto! Le lancette utilizzano le reti neurali convoluzionali per l’odometria visiva! Che cos’è l’odometria visiva? In parole povere, si tratta della capacità di navigare a terra senza GPS o GLONASS. L’intelligenza artificiale non fa altro che confrontare le immagini della telecamera dell’UAV da ricognizione con quelle contenute nella scheda di memoria. È come una persona che, una volta arrivata sul posto, dice: “Oh, sono stato qui! C’è un bel caffè dietro l’angolo. Ecco perché è impossibile silenziare la navigazione del Lancet con la soppressione del GNSS. Perché non ha bisogno di questa navigazione. Grazie alle reti neurali convoluzionali! Quindi, cosa abbiamo. La rete neurale è impegnata nella ricerca e nel controllo dei droni. Pertanto, l’operatore può seguire più UAV contemporaneamente. Dopotutto, non ha bisogno di dirigere o cercare oggetti e attrezzature nemiche: l’operatore conferma solo gli obiettivi. Una persona non è più coinvolta nella ricerca e nel riconoscimento da molto tempo. Ci sono strumenti migliori per questo. Resta da dire che anche la NATO si sta muovendo attivamente in questa direzione. Tuttavia, non ha implementato l’intelligenza artificiale nei droni kamikaze esistenti. Pertanto, gli UAV occidentali sono più facili da disturbare con i normali Slaves. Ecco perché non si sente parlare molto del loro utilizzo.

Questo è affascinante per diversi motivi: in primo luogo, perché spiega perché tutti i droni occidentali che hanno operato in Ucraina sono stati finora dei fallimenti rispetto al Lancet. Questo sostiene che i droni sono suscettibili di essere disturbati, perché ovviamente richiedono una trasmissione video all’operatore in ogni momento. Ma il Lancet in teoria non sarebbe disturbabile perché non c’è un “segnale” da disturbare. Tutto è interno, perché il drone identifica semplicemente il bersaglio da solo, prende la decisione e lo uccide.

L’aspetto interessante è che questo articolo di oltre un anno fa ha cercato di indagare su queste voci, ma era scettico sulle capacità russe in questo senso. Ma, anche nelle loro stesse scoperte, hanno confermato che i costruttori di droni russi stavano effettivamente lavorando in questa direzione. Quindi è ovviamente plausibile che più di un anno dopo abbiano qualcosa di fattibile.

Per esempio, nell’articolo non solo si conferma che il produttore del drone KUB, Kalashnikov, ha dichiarato nelle proprie schede tecniche che il drone è in grado di identificare gli obiettivi da solo, ma c’è anche questo:

Per quanto riguarda i mezzi, un recente rapporto dell’agenzia di stampa russa RIA Novosti ha intervistato una fonte militare russa senza nome che vale la pena citare a lungo (tramite la traduzione automatica di Microsoft): gli UAV russi da ricognizione e da attacco riceveranno un catalogo digitale con immagini elettroniche [ottiche e a infrarossi] delle attrezzature militari adottate nei Paesi della NATO. Ciò consentirà loro di identificarle automaticamente sul campo di battaglia e di creare una mappa della posizione delle postazioni nemiche direttamente a bordo del dispositivo, che sarà trasmessa al posto di comando. . . . Si è formato grazie agli algoritmi di addestramento della rete neurale, che permette di determinare con precisione i campioni di equipaggiamento in un’ampia varietà di condizioni ambientali, anche con un’esposizione breve (la tecnica è visibile per alcuni secondi o meno), così come quando solo una parte del campione cade nel campo visivo del drone – quando, ad esempio, solo una parte di qualsiasi veicolo da combattimento è visibile dalla copertura.
O la Russia si è fatta aiutare dai cinesi, oppure i russi non sono così “arretrati” come sembrano pensare gli occidentali. Questo segue le notizie che ho già scritto sul fatto che la Russia ha recentemente segnato la sua prima intercettazione di un oggetto nemico da parte di un S-350 completamente automatizzato dall’intelligenza artificiale.

In realtà, chiunque abbia prestato attenzione saprebbe che la Russia ha sempre avuto non solo probabilmente il primo sistema di IA di questo tipo, ma anche il più potente al mondo: Mano morta / Perimetro.

Suppongo che l’Occidente si intratterrà con le sue battute ignoranti e sprezzanti sui chip russi per le lavatrici, mentre la Russia è effettivamente in testa al mondo nella corsa agli armamenti dell’IA militare.

Chi è interessato dovrebbe consultare il mio precedente articolo che illustra come il volto tecnologico dell’SMO cambierà nel tempo in una direzione molto imprevedibile guidata dall’IA. Sembra che forse ci stiamo dirigendo proprio lì:

The Changing Face Of War – Future of the Russian SMO

The Changing Face Of War - Future of the Russian SMO

“Ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui succedono decenni”. – Vladimir Ilyich Ulyanov Nel corso della vasta storia della guerra, ci sono stati alcuni conflitti che sono serviti come punti di snodo fondamentali per il progresso della scienza militare. L’obiettivo scorciato della storia ci inganna con la visione delle guerre come monoliti statici: due si…

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Infine, abbiamo ora il video completo sottotitolato di oltre due ore dell’incontro di Putin con i corrispondenti russi, con il quale vi lascio. Vorrei solo sapere chi ringraziare per il duro lavoro svolto sui sottotitoli, ma purtroppo non ho visto alcuna attribuzione. Non ho ancora avuto la possibilità di guardarlo tutto, quindi la prossima volta forse commenterò meglio tutto ciò che di particolarmente interessante potrebbe esserci sfuggito dai filmati più piccoli del conclave.

Incontro con il corrispondente di Putin Link al video

Infine, volevo fare un aggiornamento non correlato alla politica del blog. Come sapete, sono stato uno dei padroni di casa più liberali in termini di permessi nella sezione commenti. Sono per lo più un assolutista della libertà di parola e credo che chiunque dovrebbe essere in grado di dire quello che vuole, indipendentemente da quanto “ferisca i sentimenti di qualcuno”.

Ma, mentre il blog continua a crescere, sono stato costretto a rivalutare il modo in cui gestisco certi tipi di comportamenti, semplicemente a causa della natura dei nuovi tipi di “personalità” che questo blog sta attirando con il suo crescente numero di iscritti.

Quasi tutti gli altri blogger di spicco, da MoA a TheSaker, Dreizin e altri, hanno o hanno avuto politiche di commento piuttosto rigide. Che si tratti di “attenersi all’argomento” o di “non criticare gli altri commentatori” o del divieto assoluto di nominare determinati argomenti, nomi, ecc. Chi può dimenticare, ad esempio, la famosa proibizione di Saker di citare il nome proibito di “Strelkov” sul suo blog?

Per ora mi rifiuto di esercitare una mano così pesante, in parte perché è molto faticoso controllare centinaia di commenti. Quindi, per il momento, mi limito a lanciare un appello affinché si cerchi almeno di rimanere nelle vicinanze dell’argomento (o degli argomenti) del post e non si parta per tangenti psicotiche o squilibrate sui propri pregiudizi personali, ecc.

Un punto importante a questo proposito è che Substack in generale è già diventato un bersaglio dell’ADL all’inizio di quest’anno, che ha iniziato ad attaccarlo apertamente. Sebbene personalmente non mi interessi delle opinioni e dei pregiudizi personali di nessuno, se si spammano tali opinioni in modo palese e ripetuto nella sezione dei commenti, si comincia a passare per un agente provocatore il cui unico scopo è quello di infangare il blog o di attirare su di esso una qualche forma di attenzione censoria negativa.

Finora ho bannato solo una piccola manciata di persone, probabilmente meno di cinque, e in ogni caso non è stato a causa di un particolare argomento (nonostante il fatto che si siano scatenati in assurdi commenti “razzisti”/”xenofobi”, e io abbia comunque lasciato correre), ma più che altro a causa del persistente fastidio nello spammare sempre la stessa cosa e nell’attaccarmi.

Ho occhi e orecchie dappertutto, e ci sono alcuni recentemente bannati che fanno la vittima nonostante il fatto che su altri siti abbiano ferocemente attaccato e diffamato questo blog, pensando che io non lo sappia.

Come ho detto, le mie regole sono le più indulgenti di qualsiasi altro blog di rilievo esistente. Se volete un esempio di quanto severamente altri gestiscono le loro sezioni di commenti, date un’occhiata al popolare Jacob Dreizin’s Report. In effetti, pubblicherò uno screenshot delle sue regole sui commenti non solo perché penso che siano divertenti, ma anche per darvi un’idea di quanto siano rigidi gli altri:

Yes, you get banned on his site for using the term ‘SMO’—and yes, he enforces the rules very stringently. Incidentally, I do wish someone would explain the SMO thing, for sheer curiosity’s sake.

But to get back to the point, I intend to remain permissive, particularly because 99% of you are all fine and leave great, thoughtful comments. So this message is mostly for the 1% ne’er-do-wells who don’t quite grasp proper decorum, and who try to turn the comments section into a flaming dumpster fire for the sake of bringing negative attention to the blog.

The main problem with agitators and provocateurs is that they have a sort of gravitational pull on others who end up feeling obliged to ‘repel’ their deliberately antagonistic baits. This quickly devolves into mud-slinging matches that turn off other mature and erudite posters who would have otherwise actually had something to offer.

So, in the vaguest sense possible: don’t turn the comments section into a sewer that resembles the StormFront forums and don’t spam the same schizo Ritalin-immune tirades over and over under different people’s comments. That’s not too much to ask, I hope!

Now, back to your regularly scheduled programming.

https://simplicius76.substack.com/p/sitrep-61523-kakhovka-powerplay-heats?utm_source=post-email-title&publication_id=1351274&post_id=128407601&isFreemail=false&utm_medium=email

Come reagiranno gli Stati Uniti dopo il fallimento della controffensiva di Kiev sostenuta dalla NATO? ANDREW KORYBKO

Come reagiranno gli Stati Uniti dopo il fallimento della controffensiva di Kiev sostenuta dalla NATO?

ANDREW KORYBKO

14 GIU 2023

È impossibile ottenere qualcosa da un’ulteriore escalation del conflitto.

La controffensiva di Kiev sostenuta dalla NATO è stata disastrosa, e persino i media mainstream sono stati costretti a riconoscerlo dopo che è diventato impossibile negarlo. La CNN ha rivelato che nella prima settimana ha già perso circa il 15% dei suoi veicoli da combattimento di fanteria Bradley, mentre Forbes ha riportato che circa la stessa percentuale di carri armati tedeschi Leopard è stata distrutta, così come la metà dei suoi “unici” veicoli da sfondamento. Nel frattempo, il Presidente Putin ha affermato che il 25-30% di tutto l’equipaggiamento straniero è andato perduto.

La rielezione di Biden dipende dal successo della più importante campagna militare dell’Occidente dalla Seconda Guerra Mondiale, e quindi ci si chiede come reagiranno gli Stati Uniti dopo il suo fallimento. Lo scenario migliore è che costringa Kiev ad avviare colloqui di cessate il fuoco con la Russia per raggiungere un armistizio simile a quello coreano, ma questo probabilmente non accadrà finché non saranno esaurite tutte le altre opzioni. Queste includono l’espansione del conflitto alla Bielorussia, alla Moldavia e/o ai confini della Russia prima del 2014 e l’approvazione di un intervento militare guidato dalla Polonia.

Tutte queste opzioni potrebbero portare a un conflitto nucleare con la Russia, che si sta già preparando, come dimostrano le più grandi esercitazioni aeree della NATO attualmente in corso in Germania e il rafforzamento delle sue capacità nucleari nel continente. Tuttavia, non c’è alcuna possibilità che questa pericolosa scommessa riesca e che la Russia capitoli al ricatto, poiché è più che in grado di garantire che l’Occidente sarebbe completamente distrutto se osasse usare le armi nucleari per primo.

I sottomarini russi si aggirano per gli oceani e sono sempre pronti a lanciare un attacco nucleare di rappresaglia se viene dato l’ordine. Sul fronte europeo, Kaliningrad è stata trasformata in una fortezza equipaggiata con armi nucleari, mentre le bombe tattiche stanno per essere dispiegate nella vicina Bielorussia. I missili ipersonici russi Kinzhal sono in grado di perforare il cosiddetto “scudo di difesa missilistico” degli Stati Uniti, per cui non c’è speranza di evitare la “distruzione reciproca assicurata” nel caso in cui i guerrafondai liberal-globalisti decidano di colpire per primi.

Queste capacità puramente difensive dovrebbero essere più che sufficienti per scongiurare l’apocalisse, anche se non si può dare per scontato che gli Stati Uniti reagiscano razionalmente dopo il fallimento della controffensiva del loro mandatario. Troppo dipende dallo scenario impossibile di una completa eliminazione della Russia da tutto il territorio che Kiev rivendica come proprio, perché Washington possa semplicemente accettare la sconfitta. I suoi responsabili politici potrebbero quindi pensare di dover “intensificare l’escalation per smorzare l’escalation” per disperazione, al fine di ottenere qualcosa che possa essere fatto passare per una “vittoria”.

Non c’è alcuna possibilità che la Russia faccia mai concessioni unilaterali sui suoi oggettivi interessi di sicurezza nazionale, tanto meno di fronte al ricatto nucleare, ed è per questo che i guerrafondai liberal-globalisti statunitensi dovrebbero bandire questo pensiero prima di mettere a rischio l’esistenza dell’umanità. Qualunque sia la loro reazione al fallimento della controffensiva di Kiev, essa deve essere guidata da questo fatto e idealmente de-escalare la guerra per procura tra NATO e Russia, poiché è impossibile ottenere qualcosa da un’ulteriore escalation del conflitto.

https://korybko.substack.com/p/how-will-the-us-respond-after-the

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