STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO

C’è da chiedersi perché i “vecchi” giuspubblicisti e scienziati della politica chiamavano lo Stato loro contemporaneo, ossia lo Stato post-rivoluzione francese preferibilmente Stato rappresentativo e, come concetti prossimi e/o derivati, le istituzioni di quello rappresentative, il regime politico rappresentativo, la stessa democrazia rappresentativa e rappresentativo il governo (e la forma di governo). Oggigiorno, a partire (grosso modo) dalla metà del secolo scorso, al posto di rappresentativo lo si caratterizza come liberale o democratico-liberale (raramente borghese)[1].

Dagli autori e dai loro contributi (citati in nota e da altri) risulta la duplicità dei significati dei termini rappresentanza e rappresentativo i cui estremi sono da un lato il carattere necessario, per cui non c’è possibilità di governo e quindi di sintesi politica senza rappresentanza. Come sostiene Carl Schmitt la rappresentanza è un principio di forma politica; senza quel principio (così come senza quella d’identità) non c’è forma di Stato[2].

Scrive Schmitt “Nella realtà della vita politica esiste tanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali del principio di identità, quanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali della rappresentanza. Anche là dove è fatto il tentativo di realizzare incondizionatamente un’identità assoluta, rimangono indispensabili gli elementi e i metodi della rappresentanza, come viceversa non è possibile nessuna rappresentanza senza raffigurazioni dell’identità”.

Dall’altro la necessità che il rappresentante sia scelto dai rappresentati e sia in sintonia con essi. Ambo i caratteri sono già presenti nel discorso di Sieyés del 7 settembre 1791 all’Assemblea costituente francese, così come le ragioni che li rendono insopprimibili[3].

Se è vero che la rappresentanza è necessaria perché è principio di forma politica è anche vero che (l’altro polo del significato del termine) viene considerato rappresentante chi è, in qualche misura, in sintonia con i rappresentati. Scrive Fisichella “In termini di rapporto tra elezione e rappresentanza, si possono configurare tre combinazioni principali. Si può ipotizzare, per cominciare, una elezione senza rappresentanza … Ancora più nutrita è la combinazione inversa, cioè la rappresentanza senza elezione. Del monarca si dice che rappresenta la nazione, senza che nelle monarchie ereditarie egli passi attraverso il momento elettivo”[4]. Ma se “tralasciamo l’elezione che non dà luogo a rappresentanza, in quanto esula dal nostro tema che invece ha per oggetto appunto la rappresentanza, ci accorgiamo che rimangono i due casi della rappresentanza senza elezione e della rappresentanza elettiva … vale chiedere in prima istanza a quale livello incide l’elemento elettivo, cioè in altri termini quali differenze sussistono tra rappresentanza elettiva e non”[5]. Quanto alla somiglianza sociologica delle istituzioni rappresentative “come riproduzione del microcosmo rappresentativo del macrocosmo sociale … Siamo nel contesto della concezione «descrittiva» della rappresentanza o, se vogliamo, della rappresentanza come rappresentatività”, ma non è detto che un organo non elettivo non sia meno rappresentativo in questo senso. Parimenti per la rappresentatività psicologica per cui “non è necessario enumerare altri casi, oltre i due ora richiamati, per inferirne la possibilità dell’esistenza di assemblee che siano rappresentative anche se non elettive”. Pertanto a fare “la differenza” è il carattere partecipativo dell’elezione “Solo la rappresentanza elettiva è la rappresentanza democratica, nel senso che in essa si realizza il precetto partecipativo”[6]. E prosegue “La repubblica di cui parla il Federalist per distinguerla dalla democrazia, è pur sempre una realtà democratica, se la sua rappresentanza vi è elettiva”. Anche perché la procedura elettiva ha un (potente) effetto di integrazione.

A concludere questo breve excursus su un tema quanto mai trattato dalla dottrina così come dalla politica “militante”, se ne deduce che carattere (e funzione) principale della rappresentanza è dare capacità d’azione (e quindi esistenza) alla comunità di cui le istituzioni rappresentative sono organi. É l’impossibilità (se non per comunità piccolissime) di agire come politica che determina l’inevitabilità della rappresentanza politica. E la necessità anche dei di essa corollari, affinchè possa operare congruamente alla funzione principale.

  1. L’insistenza con cui i “vecchi” giuristi (Mosca, ancorché ricordato soprattutto come scienziato della politica, era professore di diritto costituzionale) definivano come “rappresentativo” lo Stato successivamente denominato “liberale” o (meglio) “democratico-liberale” è probabilmente da ricondurre al (sotteso) concetto di costituzione e in genere di ordinamento (e non lontano dalla concezione schmittiana della costituzione).

Questo è in primo luogo, relativamente allo Stato rappresentativo (o borghese) l’ordinamento di uno status mixtus cui concorrono sia i principi di forma politica (identità e rappresentanza, istitutivi dell’organizzazione politica) che dell’ “ordine” borghese (con funzione limitativa del potere politico e pubblico in generale)[7].

Dato che l’esistenza (e la capacità d’azione) politica è costituita e modellata dai primi (e i secondi non sono necessari a quella) sono questi, e in particolare il principio rappresentativo a connotarlo. Anche se tale rappresentanza, avendo un carattere democratico (o proiettato verso la democrazia), è orientata verso tale specie del genere rappresentativo. Successivamente tale carattere è passato in secondo piano, cedendo la priorità alla tutela del diritti fondamentali (e quale principio organizzativo orientato alla libertà, alla distinzione dei poteri).

Ciò non toglie che come scriveva Santi Romano “Costituzione, significa, come si è detto, assetto o ordinamento che determina la posizione, in sé e per sé e nei reciproci rapporti che ne derivano, dei vari elementi dello Stato, e, quindi, il suo funzionamento, l’attività, la linea di condotta per lo stesso Stato e per coloro che ne fanno parte o ne dipendono”[8].

  1. Da qualche anno si è contestato il precetto, derivante dal carattere rappresentativo dell’unità politica, per cui il rappresentante non può avere vincoli di mandato (disposto fin dalla Costituzione francese del 1791, Titolo III, cap. I, art. 7). Si sostiene data la scarsa fedeltà dei parlamentari al partito nelle cui liste sono stati eletti, (al punto che la maggioranza dei parlamentari della legislatura passata ha cambiato partito) l’opportunità di abolire, ma per lo più limitare quel principio con precetti antivoltagabbana.

A tal fine si vorrebbe limitare la libertà di decisione dei parlamentari sia con norme comportanti decadenza dall’incarico, sia con sanzioni economiche. Cioè circoscrivere giuridicamente ciò che politicamente non tollera limiti. Una proposta ufficiale è quella di recente lanciata da Di Maio. Secondo il quale introdurre il vincolo di mandato sarebbe “l’unico vero antidoto alla piaga dei voltagabbana che ammorba il Parlamento da anni” perché si tratta di gente che si prende 15.000 euro al mese grazie al voto dei cittadini per portare avanti un programma e poi invece fa quello che gli pare… Per noi il parlamentare è un portavoce delle istanze degli italiani (cioè Di Maio rivaluta il “corriere politico” così svalutato da Sieyès) … Se il programma per cui è stato votato non gli sta più bene, allora prende e se ne va a casa senza stipendio, senza buonuscita”.

Tutte tali proposte, ancorché quelle dei Cinquestelle siano blande, violano il principio della libertà (d’azione e di opinione) degli organi rappresentativi e dei loro componenti e che non si limita alla sola salvaguardia dall’invadenza del Giudice penale, ma ha portata (e ratio) generale. Scriveva Orlando che “l’istituto delle immunità parlamentari non ha bisogno di essere collegato con alcuna ragione di convenienza specifica, ma si giustifica come si giustifica ogni istituto di diritto comune, cioè con la semplice enunciazione di quella che i romani chiamavano ratio iuris[9]; onde le prerogative parlamentari vanno considerate nella loro inscindibile connessione.

Immunità personali, reali, funzionali sono tutte specificazioni del principio che “nessuna volontà esteriore può, non diremo limitare, ma neanche semplicemente concorrere con quella dell’Assemblea nell’esercizio delle sue attribuzioni”. Il principio che le accomuna consiste nell’inviolabilità; perché ciò che conta è che “la persona (o il collegio di persone) che dell’inviolabilità è coperta, non può essere  sottoposta ad alcuna giurisdizione, in quanto questa si attui attraverso una coazione sulla persona” e va intesa come “indipendenza da ogni giurisdizione[10].

Ciò stante la coazione che verrebbe esercitata nel parlamentare anche nell’ipotesi blanda dei Cinquestelle, è comunque lesiva dell’indipendenza del Parlamento[11]. Perché “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (ché allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”[12].

La notorietà di cui scriveva il Presidente della vittoria si è, evidentemente, assai ridotta; ciò non toglie che l’esigenza per cui era (ed è) stata (fin dagli albori del costituzionalismo moderno) prescritta nelle Carte Costituzionali non sia venuta meno.

Sanzionare il parlamentare anche solo con pronunce di decadenza dall’incarico o di perdita dello stipendio e della pensione è una forma, meno intensa di altre, di esercitare pressioni sul rappresentante. Da parte o di altri poteri dello Stato, nel caso quello giudiziario, e/o anche di poteri non statali (partiti e non solo).

Perché anche se a promuovere il giudizio per la decadenza dallo stipendio fosse anche solo un comitato di elettori, a pronunciarlo sarebbe – a quanto pare – un Giudice (ossia un potere costituito esterno al Parlamento).

E quello del quis judicabit? è il problema principale della decisione. Mentre la “sanzione” prevista dall’ordinamento rappresentativo (ed esercitata da sempre) è quella più logica e conforme al sistema: che il rappresentante fellone sia giudicato dagli elettori i quali, conformemente al carattere democratico della rappresentanza, come hanno il potere di nominarlo, hanno anche quello di giudicarne l’operato e negargli la conferma nell’incarico[13].

Potere che è più complicato da esercitare – e ce ne rendiamo conto – quando, con la seconda Repubblica si sono promulgate leggi elettorali che, progressivamente, hanno prodotto più camere di nominati (dai partiti) che di eletti (dal popolo).

Nella speranza (o illusione) che il futurellum dia maggior spazio alla scelta da parte degli elettori delle persone (e non solo dei partiti), non è comunque ravvisabile l’opportunità che si proceda ad un ulteriore condizionamento dell’indipendenza delle camere.

Insomma: pezo el taco del buso.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si ricordano alcuni luoghi in cui il termine rappresentativo è utilizzato come nel testo v. V.E. Orlando principi di diritto costituzionale, Barbera (s.d.) p. 64 ss.: “Il governo rappresentativo suppone innanzi tutto che i cittadini partecipino, per mezzo di diritti politici, alla cosa pubblica: riferendocene quindi al criterio delle tre forme secondarie, possiamo dire che questa forma di governo deve necessariamente essere semilibera o libera… esso è dunque una forma di governo popolare o libera o democratica che dir si voglia” nel concetto di rappresentanza si differenzia la distinzione da quello diretto “Il criterio che distingue questo tratto caratteristico si può averlo da questa considerazione materiale, cioè che l’esercizio dei diritti politici, al popolo riservati, non si fa direttamente dai cittadini medesimi… ma bensì per mezzo di rappresentanti, scelti dal popolo”. Caratteristica del governo rappresentativo erano l’armonia tra coscienza popolare e diritto positivo, la distinzione dei poteri, la tutela giuridica e la pubblicità (e con ciò l’opinione pubblica è elemento di controllo). La forma di governo rappresentativo si connette sia alla forma monarchica che a quella repubblicana democratica; Gaetano Mosca parla di “sistema” e “regime” rappresentativo, i quali riproducono, anche in forma democratica (elezione dei rappresentanti) il potere delle minoranze organizzate sulla maggioranza “Quel che avviene colle altre forme di Governo, che cioè la minoranza organizzata domina la maggioranza disorganizzata, avviene pure, e perfettamente, malgrado le apparenze contrarie, col sistema rappresentativo… Accade nelle elezioni, come in tutte le altre manifestazioni della vita sociale, che gl’individui, che hanno la voglia e soprattutto i mezzi morali, intellettuali e materiali per imporsi agli altri, primeggiano su questi altri e li comandano” Elementi di scienza politica, Torino 1923, p. 142 (in altre opere ripete sempre l’aggettivo “rappresentativo”, con significato conforme. V. ad es. “Lo Stato città antico e lo stato rappresentativo moderno” in Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 37 ss.).

Scrive Santi Romano “Più volte, si è avuta l’occasione di notare che, fra le istituzioni governative dello Stato, alcune hanno carattere rappresentativo, cioè rappresentano il popolo o la nazione e sono quindi, quelle nelle quali trova la sua più tipica espressione la forma del governo democratico, in quegli Stati in cui alla democrazia diretta si è sostituita, in tutto o in parte, quella indiretta, ossia rappresentativa. Fra tali istituzioni, basti ricordare le camere parlamentari, che nelle costituzioni che hanno adottato il sistema bicamerale sono spesso entrambe rappresentative, mentre talvolta siffatto carattere ha una sola delle due camere, e il presidente o la suprema istituzione governativa della repubblica, che, per definizione, è sempre rappresentativa… l’istituto della rappresentanza politica è uno di quegli istituti, che erano sorti nel medioevo anche nell’Europa continentale, compresa l’Italia, ma che, in quanto sono ora tipiche espressioni del moderno costituzionalismo, derivano, direttamente o indirettamente, dal diritto costituzionale inglese… Essa partiva dal principio della sovranità popolare, e riteneva che gli elettori, come organi del popolo, delegassero, mediante l’atto elettivo, detto perciò mandato, l’esercizio di tale sovranità agli eletti… I primi dubbi sulla consistenza di tale teoria sorsero quando al principio della sovranità popolare fu sostituito quello della sovranità dello Stato”.

Tali istituzioni “si dicono rappresentative vengono così qualificate perché, nella loro stessa struttura, nel modo con cui sono designate le persone ad essere preposte, in tutti i momenti del loro funzionamento, è implicito lo scopo che esse hanno di mantenere in un continuo e stretto rapporto lo Stato con la nazione, cioè col suo popolo”. Anche se l’elezione non basta a conferire loro il carattere rappresentativo. La rappresentanza può essere “necessaria, che si ha quando il rappresentato non ha la capacità di agire da sé, e quella volontaria, che ha luogo per volontà dello stesso rappresentato, nonché del rappresentante, fuori dei casi di incapacità”. La rappresentanza politica “è una rappresentanza necessaria. Il popolo quando non si ha un governo democratico diretto, non ha la possibilità giuridica di curare e tutelare i suoi interessi se non per mezzo di rappresentanti e, di solito, scegliendo esso stesso questi ultimi. È inoltre rappresentanza legale, che ha, cioè per fonte la legge” (v. Principii di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 160 ss.).

[2] V. anche “La diversità delle forme di Stato si basa sul fatto che ci sono due principi di forma politica contrapposti, dalla cui realizzazione ogni unità politica assume la sua forma concreta … Lo Stato è una condizione, e precisamente la condizione di un popolo. Ma il popolo può raggiungere e ottenere in due diversi modi la condizione dell’unità politica. Esso può già nella sua immediata datità – in virtù di una forte e consapevole omogeneità, in seguito a stabili confini naturali o per qualsiasi altra ragione – esser capace di agire politicamente. Inoltre esso è come entità realmente presente nella sua immediata identità con se stesso un’unità politica … Il principio contrapposto parte dall’idea che l’unità politica del popolo in quanto tale non può mai esser presente nella reale identità e perciò deve esser sempre effettivamente presente” V. Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della costituzione, Milano 1984 pp. 270-272.

[3] V. Diceva l’abate rivoluzionario “È quindi necessario convenire che il sistema di rappresentanza e i diritti che volete ricollegarvi in tutti i gradi devono essere determinati prima di decidere alcunché sulla divisione del corpo legislativo e sull’appello al popolo delle nostre deliberazioni. I moderni popoli europei somigliano ben poco a quelli antichi. Tra noi non si tratta che di commercio, di agricoltura, di opifici … Tuttavia non potete rifiutare la qualità di cittadino e i diritti correlativi, a questa moltitudine senza istruzione che la necessità di lavorare assorbe completamente. Perché proprio come noi debbono obbedire alla legge, devono anche, come voi, concorrere a farla. E questo concorso dev’essere uguale. Può esercitarsi in due modi. I cittadini possono accordare la loro fiducia a qualcuno di loro: senza spogliarsi dei loro diritti, ne affidano l’esercizio. È in vista dell’utilità comune che nominano delle rappresentanze ben più capaci di loro di capire gli interessi generali, e d’interpretare, in vista di questi, la loro propria volontà. L’altro modo d’esercitare il proprio diritto a formare la legge è di partecipare in prima persona a farla. Questa partecipazione diretta è ciò che caratterizza la vera democrazia. Quella mediata è connaturale al governo rappresentativo. La differenza tra questi due sistemi politici è enorme” e proseguiva “Non è dubbio, tra noi, su quale debba essere la scelta tra questi due metodi per fare la legge. In primo luogo, la stragrande maggioranza dei nostri concittadini non ha abbastanza istruzione, né abbastanza tempo a disposizione per volersi occupare direttamente delle leggi che devono governare la Francia; la loro opinione è dunque di nominare dei rappresentanti”. Ciò comporta che “i cittadini che si nominano dei rappresentanti rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi direttamente la legge: e, di conseguenza, non hanno alcuna volontà particolare da imporre. Ogni influenza, ogni potere compete ad essi sulla persona dei loro mandatari; ma questo è tutto. Se dettassero delle volontà questo non sarebbe più uno stato rappresentativo; sarebbe uno stato democratico”: di conseguenza è inammissibile il mandato imperativo come se ciascun deputato fosse il commesso del proprio committente (il collegio elettorale) “un deputato lo è della nazione intera; tutti i cittadini ne sono i mandanti … non c’è né può esservi, per un deputato altro mandato imperativo, o del pari, altre aspirazioni, che quelle nazionali; non deve dar ascolto ai suggerimenti dei suoi elettori se non quando siano conformi ai desideri generali”; infatti nell’assemblea “Non si tratta, qui, di registrare, uno scrutinio popolare, ma di proporre opinioni, infine formare in comune una comune volontà”; e “È pertanto inutile che vi sia una decisione nei baliaggi o nelle municipalità, o in ciascuna casa di città o di paese, perché le idee cui mi oppongo non portano che ad una specie di Certosa politica. Questi tipi di pretese sarebbero assai più che democratiche. La decisione non spetta, e non può non spettare che alla sola Nazione, riunita in assemblea. Il popolo o la nazione non può avere che una sola voce, quella della legislatura nazionale” (il corsivo è mio).

[4] V. La rappresentanza politica, Milano 1983, pp. 11-12.

[5] Op. cit. pp. 12-13.

[6] Op. cit. p. 14

[7] C. Schmitt, op. cit., p. 267.

[8] E proseguiva, criticando la concezione di chi ritiene costituzionale solo lo Stato borghese “E sempre in base a tale principio nel campo della dottrina si è spesso ritenuto e da qualcuno si ritiene ancora, che diritto costituzionale sia soltanto quello dello Stato a regimec.d. libero, o, specificando di più, con riguardo alla figura che tale regime ha assunto nello Stato moderno, quello dello Stato «rappresentativo», mentre un diritto costituzionale non avrebbero gli Stati c.d. assoluti o dispotici o anche semiliberi… Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo”, op. cit., pp. 2-3.

[9] Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 484.

[10] Op. cit., pp. 485-486.

[11] Per salvaguardare la quale è da sempre (addirittura) disposta la “giurisdizione domestica” per i dipendenti delle Camere.

[12] Orlando op. cit., p. 487 (il corsivo è mio).

[13] C’è da valutare poi se un simile tipo di sanzione (il cambiamento di gruppo politico e perciò di partito) sia volto a tutelare (e in quale misura) la fedeltà al partito o quella agli elettori nel caso, non infrequente che non coincidano. L’antico reato di fellonia prescriveva sanzioni contro il vassallo sleale verso il signore feudale (il rapporto era tra persone fisiche determinate).

Così com’è stato sinteticamente esposta la proposta dei 5 stelle (ed altre analoghe) pare prevedeva una fattispecie  – il cambio di gruppo parlamentare – più volta ad assicurare la fedeltà al partito che ai propri elettori. Sarebbe poi interessante a tal fine sapere chi può farlo valere (il partito? Un suo organo?  O sarebbe attivabile con azione popolare?

TUTTO TRANNE LO STATO, di  Fabrizio Tribuzio-Bugatti

Un saggio particolarmente pregnante sulla falsariga proposta da numerosi collaboratori e redattori del sito. Ci dice anche, tra i tanti spunti offerti, che la dinamica della decisione, componente costitutiva dell’agire politico, quando viene in qualche maniera ignorata, distorta, rimossa, celata non fa che trasferirsi in particolari centri strategici piuttosto che in altri con la conseguenza che risulti più facile il passaggio a quelle stesse condizioni di tirannide alle quali il pensiero liberale ha posto in altri tempi argini fondamentali  _Giuseppe Germinario

TUTTO TRANNE LO STATO

traduzione di Roberto Buffagni

Pubblicato 20 aprile 2020 Di Fabrizio Tribuzio-Bugatti

”  È di moda opporsi allo stato “, Ha affermato Jean-Pierre Chevènement nel suo discorso ai prefetti dell’8 luglio 1998, ma la sottomissione ai poteri del Denaro che lui ha sottolineato è solo una delle conseguenze. Il motivo per cui l’opposizione cresce contro lo stato è dovuto in particolare alla riluttanza dei politici stessi. Situazione paradossale quella in cui gli statisti ripudiano lo stato, al punto da rifiutarsi in certe occasioni di pronunciare il suo nome, come un tabù che risveglierebbe cose vecchie ma terrificanti sepolte a lungo nel subconscio nazionale. Questo rifiuto dello Stato porta naturalmente a un modo singolare di esercitare il potere, dal momento che si tratta sia di incarnarlo volontariamente che involontariamente, organizzando la sua impotenza con la sua limitazione. Questa prospettiva è tanto più curiosa in Francia, dove la Quinta Repubblica è venuta al mondo nel mezzo di un’insurrezione algerina, sotto l’egida di un uomo provvidenziale un po’ scettico sulla democrazia. Nata con la missione di porre fine al conflitto permanente tra il governo e il Parlamento che quest’ ultimo finiva sempre per vincere sotto la Terza e la Quarta Repubblica, ma anche il loro legalismo sfrenato, la Quinta Repubblica ha sia razionalizzato le relazioni tra il potere deliberativo e l’esecutivo, sia limitato le aree della legislazione del Parlamento nella sua Costituzione, sotto la supervisione del Consiglio costituzionale, poi pensato come una pistola puntata contro il suddetto Parlamento. Da quel momento, le citazioni che spesso prendiamo a prestito da Girardin o Machiavelli, i quali sostengono rispettivamente che “governare è prevedere” e “governare, è far credere “si sono tuttavia distaccate dalla realtà, poiché oggi” governare non è decidere “; ma cosa resta del governo se quest’ultimo non ha più prerogative decisionali? Certo, c’è sempre una decisione alla radice di tutto nella pratica del potere, anche se si tratta di decidere di non prendere alcuna decisione, che si tratti solo di determinate aree come l’economia, o di accantonare la decisione di tutto su tutti gli argomenti in generale a beneficio di una pura e semplice gestione dei vincoli previsti, come un semplice reparto risorse umane.  Non ci stancheremo mai di citare Serge Latouche su questo argomento: Se non possiamo più fare altro che gestire i vincoli, il governo degli uomini viene sostituito dall’amministrazione delle cose; il cittadino non ha più motivo di esistere. ” [1] Da un punto di vista giuridico, questa tendenza prende forma nello sviluppo dello stato di diritto, formula percepita e talvolta erroneamente considerata come un concetto monolitico, quando invece contiene due concetti distinti l’uno dall’altro, i quali sono anche autonomi a seconda delle circostanze. Tende anche a far dimenticare alle persone che la legge è soprattutto una convenzione, che si evolve o scompare a seconda dei regimi politici, dal momento che il legislatore non è altro che un’emanazione della politica e il potere di promulgare le leggi è spesso condiviso. Carl Schmitt aveva chiaramente identificato questo problema: “Lo “stato di diritto”, per usare l’espressione consacrata, è prima di tutto uno stato legislativo […] che non può semplicemente rinunciare alle leggi, queste leggi che cambiano ogni volta in base alle funzioni che deve realizzare. ” [2] Lo stato di diritto, in quanto finzione liberale, da un canto vede la legge come un mezzi per porre limiti allo Stato; le sue derive liberali-libertarie lo interpretano come” lo Stato in cui abbiamo il diritto di avere diritti ”, non senza motivo, poiché, d’altro canto, la legge non ha più alcuna funzione se non il riconoscimento legale degli interessi. Da un punto di vista normativo, è in definitiva lo Stato del diritto, il che comporta paradossi clamorosi. Il politico, che finisce per ripudiare anzitutto il proprio statuto, si ritrova comunque costretto a legiferare, per mezzo del potere deliberativo o esecutivo, con il secondo che spesso diventa un ramo del primo. La fine della classica opposizione tra il deliberativo e l’esecutivo in fin dei conti non si concluderà con  la forma dittatoriale prevista dalla tradizione repubblicana, nella quale il dittatore può deliberare da sé e per sé,al fine di eseguire le proprie decisioni senza possibilità di ricorso, mentre viene rimossa la questione del giusto e dell’ingiusto. È probabilmente una forma di tirannia, dal momento che il dittatore, nella teoria giuridica, non può né fare nuove leggi, né tanto meno disporre della Repubblica; al contrario mettere in opera una volontà di impotenza ha esattamente l’effetto opposto, cioè una legislazione dedicata all’indebolimento strutturale e politico della Repubblica. La liquidazione dello Stato avviene in due forme principali: il graduale ma inevitabile smantellamento delle sue parti, in particolare economico o amministrativo; il rifiuto di ricorrere ad esso quando le circostanze lo richiedono, in particolare in caso di crisi. L’intera questione è come, al contrario, ciò che può apparire contraddittorio sia logicamente risolto dallo stato di diritto come traduzione di una volontà di impotenza.

LA TECNICA DEL POTERE

Alcuni potrebbero trovare strana l’idea di una tecnica di potere, come se ci fosse una sorta di manuale per il buon leader, ma in realtà questo argomento è sempre stato oggetto di una letteratura abbondante i cui autori più famosi sono senza dubbio Jean Bodin, Machiavelli e Carl Schmitt. La tecnica del potere non è il potere confuso con il tipo di regime politico, come nelle ben note tipologie di Aristotele e Polibio, ma in effetti il ​​modo in cui viene esercitato, abilmente o goffamente, in quanto dominio del principe in particolare. Anche Hippolyte Taine ne offre una buona visione d’insieme nelle sue Origini della Francia contemporanea : “ Ciò che viene chiamato un governo è un concerto di poteri, che, ciascuno in un ufficio separato, lavora collettivamente per un’opera finale e totale. Che il governo faccia questo lavoro, ecco tutto il suo merito; una macchina vale solo per il suo effetto. Ciò che conta non è che sia ben disegnato sulla carta, ma che funzioni bene sul campo. ” [3] La tecnica del potere è tuttavia discussa anche nella storia giuridica, come dimostra il lavoro svolto da Carl Schmitt nel suo libro Dittatura; qui egli ricorda un concetto fondamentale che anche noi tendiamo a trascurare, considerandolo acquisito, e quindi accidentale, sulla summa divisio tra diritto pubblico e privato. Ricorda Schmitt che l’esercizio del potere risponde bene a una certa tecnica, che è arcana. È una conoscenza esoterica, che solo una minoranza conosce e deve essere autorizzata a conoscere, come il fuoco greco dei bizantini nel campo della guerra. È proprio la natura arcana di questa tecnica che consente una lettura seria del Principe di Machiavelli, al di fuori della leggenda nera che gli fu affibbiata. Scritto in lingua volgare, Il Principe è un manuale che mira all’istruzione di un uomo provvidenziale in grado di unificare la penisola italiana, come evidenziato dall’ultimo capitolo; è quindi una strategia difensiva da parte di Machiavelli.  Ha anche parlato a lungo di un preciso equilibrio che il Principe deve cercare tra abilità e ferocia. Perché ”  Possiamo combattere in due modi: o con le leggi o con la forza. Il primo è specifico dell’uomo, il secondo è proprio degli animali; ma come spesso il primo non è sufficiente, uno è obbligato a ricorrere all’altro  ” [4]. Le circostanze determinano le scelte da fare e soprattutto il modo di farle. Ecco perché  “il principe, quindi, dovendo comportarsi come una bestia, cercherà di essere sia volpe che leone: poiché, se è solo un leone, non percepirà le sottigliezze; se è solo una volpe, non si difenderà dai lupi; e deve anche essere una volpe per conoscere le trappole e un leone per spaventare i lupi. Coloro che si limitano a essere leoni sono molto maldestri. ” [5]La sua vera innovazione non si deve alle considerazioni sull’uomo in generale, contrariamente a ciò che una lettura riduttiva ha cercato di imporre come interpretazione del suo pensiero, ma nell’approccio scientifico allo studio del potere: è quindi il politico che interessa Machiavelli, e la sua relazione con il potere, a seconda che sia governante o governato. La sua corrispondenza, inoltre, non consente più alcuna ambiguità su questo lungo argomento spinoso, ma che continua ad essere oggetto di dibattito oggi:

Ora arrivo all’ultima parte del mio compito: quello in cui insegno ai principi crudeltà e metodi di dominio assoluto. Se qualcuno legge il mio libro con imparzialità e indulgenza, sarà facile vedere che la mia intenzione non è quella di dare un esempio al mondo in questo modo di governare o in questi stessi uomini di cui sto parlando, ancor meno l’ insegnare agli uomini un modo per schiacciare gli uomini virtuosi e tutto ciò che è sacro e venerabile su questa terra: leggi, religione, probità, ecc. Se sono stato un po’ troppo preciso nel descrivere questi mostri in tutti i loro aspetti e comportamenti, è con la speranza che l’umanità, conoscendoli, li respingerà, essendo il mio lavoro sia una satira contro di loro che una vera descrizione. ”
—Nicolò Machiavelli, in” Lettera ad un amico ” [6] –

La tecnica del potere è quindi una tecnica nella quale Machiavelli aveva cercato di istruire il Principe che avrebbe unificato l’Italia. Il suo lavoro dipinge un affresco naturalistico, come tutti i suoi scritti in generale, sia che si tratti delle relazioni delle sue missioni diplomatiche o dei suoi Discorsi sulla prima deca di Tito Livio . La storia e le idee sono un supporto grazie al quale Machiavelli impara a identificare la migliore tecnica di potere possibile, di cui l’astuzia fa ovviamente parte. Ciò illustra la natura arcana del potere, ma anche l’obiettivo della politica in Machiavelli: “che un principe si proponga dunque come obiettivo di conquistare e mantenere lo Stato: i mezzi saranno sempre considerati onorevoli e lodati da tutti  ” [7]. La legge è una funzione di questo obiettivo, nel pensiero machiavellico. Il Discorso si basa quindi esclusivamente sul diritto pubblico, le considerazioni privatistiche ​​non soltanto non vi hanno spazio, ma Machiavelli mette in guardia da possibili incursioni del diritto privato nel diritto pubblico. Poiché l’istituzione delle leggi illustra la virtù del costruttore di una città e del Principe, devono solo servire a migliorare l’uomo ” e quando una cosa produce buoni effetti da sola senza la legge, la legge non è necessaria. ” [8]La sua preferenza per la costituzione mista, di cui prende come esempio la Repubblica Romana, conferma l’idea di Machiavelli secondo cui le leggi e le riforme di un regime dovrebbero essere attuate solo in caso di necessità, o anche di estrema necessità. Il concetto di Stato di diritto è inesistente in Machiavelli perché questa associazione non ha posto; il diritto cioè deve derivare dallo stato per servirlo, e non esserne l’eguale, il che rivela un’altra originalità del suo pensiero, cioè la dittatura. Machiavelli riprende la distinzione aristotelica tra deliberare ed eseguire, dimostrando che il dittatore, lungi dall’esserne affrancato, al contrario concentra in sé questi due poteri, poiché può deliberare da sé per eseguire da sé le proprie decisioni, senza alcuno ricorso possibile, ma con una garanzia costituzionale di rilievo: non può né promulgare nuove leggi, secondo Machiavelli, né disporre della Repubblica, secondo Bodin. Questo è senza dubbio ciò che alimenterà in parte la teoria della decisione di Carl Schmitt, quando considera che il padrone dello stato è colui che decide ciò che rientra nell’eccezione; la situazione eccezionale viene tradotta, secondo lui, dalla decisione libera da qualsiasi vincolo legale, in breve dallo Stato a scapito della legge. Dopotutto, questo non può essere paragonato alla pratica del potere da parte di un certo Charles de Gaulle? Se circostanze eccezionali gli permisero di raggiungere due volte la carica di capo dello stato, fu sia per mezzo dell’astuzia – nel 1958 – sia per mezzo della forza; sia durante la seconda guerra mondiale che durante l’insurrezione algerina, durante la quale la posizione gaullista nei confronti dei comitati di salute pubblica fu ambigua. E, come disse il generale in un discorso del 1953, grazie alla paura, un impulso potente, il  che va oltre il semplice pericolo per le istituzioni. La nozione di salus publica appare più chiaramente, in queste situazioni eccezionali.

Il diritto pubblico è quindi una parte integrante del potere e viceversa, poiché entrambi riguardano lo Stato e ancor di più il suo corretto funzionamento e la sua conservazione. Da questo punto di vista, il diritto pubblico è al servizio dello stato e non è il diritto del pubblico. Al contrario, questa deriva ha segnato la sua evoluzione fino ai giorni nostri, caratterizzata dall’egemonia del diritto privato che permeava il diritto pubblico con le sue logiche al punto da deviarlo dalla sua vocazione primaria che è lo Stato. Tuttavia, come pensava Carl Schmitt, ”  applicare  considerazioni che prevalgono nel diritto privato, come æquitas e justitia al diritto pubblico, nel quale a dominare è invece la salus publica, sembra un’ingenuità tagliata fuori dalla realtà. [9] La nascita dello stato di diritto rappresentava la fine della salus publica come unico fine del diritto pubblico, prima di rimuoverlo completamente.

STATO DI DIRITTO O STATO DEL DIRITTO?

Dobbiamo tenere presente che stato e legge sono due concetti distinti, come abbiamo detto, ecco perché pensatori come Machiavelli non si sono soffermati sullo stato di diritto, mentre il blocco concettuale o “lo stato di diritto” generato da questa espressione deriva senza dubbio dalla letteratura dei monarcomachi. Quest’ultima, logica reazione alle guerre di religione, si basa sulla legge come garante dell’ordine pubblico e sull’integrità fisica dei soggetti della corona, ma sebbene vi si possa scorgere l’idea di salus publica, i monarcomachi volevano soprattutto garantire per mezzo della legge la tolleranza dei culti contro l’arbitrio reale, poiché sotto l’Ancien Régime la corona si confondeva con lo Stato, e l’arbitrio con esso. È senza dubbio già un’introduzione privatistica nel diritto pubblico, se si considera che la salus publica in questo caso non riguarda più solo lo Stato, ma fa della legge il garante dell’integrità fisica del popolo, ed è probabilmente per questo che, a differenza di Machiavelli o di Jean Bodin, i monarcomachi non affrontano  la questione della dittatura che, normalmente, è per eccellenza l’istituzione ordinata alla risoluzione delle crisi. La legge comincia ad essere considerata un baluardo difensivo contro lo Stato, e certo un esempio di dittatura come quella di Silla non li seduceva, in quell’epoca travagliata. Ciò che è tipico del liberalismo classico – vale a dire l’emancipazione dall’arbitrario o dal divino – rese tuttavia possibile, attraverso l’associazione di queste distinte nozioni di stato e legge, generare un concetto unico, che al giorno d’oggi sembra quasi assumere l’aspetto del pleonasmo nell’espressione  “stato di diritto”. Assunto come nozione giuridica, nella quale sarebbero integrati in blocco i partiti, alla fine dei conti arriveremmo a ritenere che l’unica funzione dello Stato sarebbe produrre diritto, e reciprocamente che il diritto diverrebbe la finalità logica dello Stato, quando in realtà è la salus publica,  la vera ragione del diritto pubblico.

Tuttavia, se la fine di uno stato è la produzione di norme, ciò ne altera inevitabilmente lo scopo originale, poiché per natura non c’è alcun bisogno di  legiferare sulla conservazione dello stato; le sole misure costituzionali sono necessarie, poiché appartengono al dominio della chiaroveggenza: secondo la citazione di Girardin, “governare è prevedere”, come perfettamente illustrato dal ricorso alla dittatura che si traduce, nella Quinta Repubblica, nell’articolo 16 della Costituzione. Inoltre, lo stato di diritto giunge logicamente a limitare la tecnica del potere, poiché la legge obbliga i leader politici a sottomettervisi. La decisione viene quindi ostacolata in quanto condizionata dal sistema giuridico, di cui il parlamento è parte come legislatore per eccellenza, anche se il potere legislativo è condiviso con l’esecutivo in determinate aree. Che cosa divien allora del diritto pubblico, in un sistema di stato di diritto? Carl Schmitt è stato probabilmente colui che ha risposto meglio: Il significato ultimo, il significato proprio del “principio di legalità”, che è alla base di tutte le attività statali, è che in ultima analisi, non vi è né comando né sottomissione, perché vengono implementate solo norme impersonali. Un simile apparato statale trova la sua giustificazione solo nella legalità generale di qualsiasi esercizio di potere pubblico. ” [10] In buona sostanza, il diritto amministrativo illustra perfettamente la prevaricazione del paradigma privatistico, dal momento che si tratta solo di risolvere le controversie che sorgono tra lo stato e i cittadini, che saranno definiti amministrati, mentre lo Stato è solo una parte tra le parti, e dunque non si differenzia più dal sistema giudiziario. Il giudice amministrativo funge anche da legislatore, poiché è la giurisprudenza che ha un valore normativo in materia. La legalità prevale di nascosto sulla legittimità, rafforzando lo stato di diritto inteso non solo come concetto, ma come realtà effettiva. Il legalismo è solo la logica conseguenza della consacrazione dello stato di diritto e dimostra una volta per tutte la natura eminentemente liberale di questo concetto che rende la legge un mezzo per limitare lo Stato. Il processo è molto semplice: l’unica funzione della legge è il riconoscimento legale degli interessi, su cui il parlamento legifera e di cui la giurisprudenza specifica le modalità, e a volte il contenuto. In uno stato che ha una costituzione, una legislazione, la giurisprudenza dei tribunali non è diversa dalla legge. La parola giurisprudenza deve essere cancellata dalla nostra lingua ” [11] . La produzione normativa, nel campo del diritto, della regolamentazione o persino della giurisprudenza, mira solo a completare l’uno o l’altro secondo detti interessi, per soddisfarli al meglio. Il diritto pubblico deve solo gestire i possibili vincoli quando lo Stato è parte tra le parti, una personalità giuridica tra le altre, e le tergiversazioni della giurisprudenza in merito alla responsabilità non colposa non cambiano gran cosa. Non ha più un reale predominio, vale a dire, è espropriato della sua maestà. Lo stesso liberalismo dello Stato di diritto va ancora oltre, poiché lo stato minimo è il risultato di questa legislazione a tutto campo; l’unica decisione che i leader finiscono per prendere è quella di decidere che non decideranno più.

In primo luogo nelle aree relative all’economia, rendendo lo Stato almeno un attore economico come un altro, un massimo un attore passivo, come dimostrano i fatti da diversi decenni, contraddicendo en passant la tesi sviluppata da Maurice Duverger nel suo saggio La monarchia repubblicana, secondo la quale il rafforzamento dello Stato sarebbe un meccanismo irrinunciabile, perché la modernizzazione degli scambi – in particolare commerciali o finanziari, ma anche della società in generale – lo richiederebbe. Durante la crisi causata dalla pandemia di Covid19 nella primavera del 2020, il Primo Ministro aveva in fin dei conti dichiarato che l’unica responsabilità che lo Stato sarebbe in grado di assumersi in questioni economiche sarebbe una responsabilità ” come azionista  ”, oltre al manifesto rifiuto, da parte dell’inquilino di Matignon, di pronunciare la parola “Stato”,  un rifiuto tanto ostinato da imporre il rispetto. Questa affermazione, dalla bocca di una personalità che appare stranamente, suo malgrado, uno statista , suggerisce che lo stato non ha più le vere prerogative del potere pubblico, che deve sottomettersi ai meccanismi legali che ha prodotto. In realtà, ”  Colui che esercita il potere e il dominio agisce” in applicazione di una legge “o” in nome della legge “.  Non fa altro che affermare uno standard valido nel campo di competenza che è il suo assegnato ” [12] .Ciò è in contrasto con la dichiarazione di Jean-Pierre Chevènement sll’epoca in cui, da ministro dell’Interno, affermò che ”  Difendere le prerogative dello stato repubblicano e difendere la democrazia è una sola cosa: non c’è, oggi, legittimità in aziende internazionali, o anche a Bruxelles, Lussemburgo o Francoforte. Neppure ne esiste una nelle più potente tra le nostre comunità locali, che possa essere paragonata ala legittimità  di un’amministrazione responsabile nei confronti del governo, a sua volta responsabile nei confronti del Parlamento, delegato dal popolo sovrano, crogiolo della volontà generale. ” [13]Opponendo i prefetti alle autorità locali, l’ex ministro ha anche fatto una drastica distinzione tra legittimità e legalità, il che implica in gran parte che dette comunità sono un’emanazione puramente legalistica, poiché la sovranità, fonte di legittimità nel quadro repubblicano, è esercitato dal solo cittadino attraverso i suoi rappresentanti, sebbene questi abbiano il dovere di essere rappresentativi, se la teoria vuole conformarsi alla pratica. Solo, le riforme dei poteri dei prefetti come custodi   repubblicani sono diminuite da questo discorso, e finiscono per rinunciare di fatto al controllo della legalità che dovrebbero comunque esercitare sulle collettività, a favore di semplici notifiche a posteriori Ancora una volta, è lo Stato che si trova limitato dalla legge, dal momento che il diritto pubblico come salus publica è qui sostituito da una visione privatistica in cui il consenso e la composizione amichevole delle controversie sono favoriti dal legislatore. Il cittadino impegnato – un’espressione che sfortunatamente non è più pleonastica come potrebbe esserlo in teoria – si ritrova costretto ad assumere il controllo sulla legalità dell’azione del suo consiglio comunale, almeno sul campo permesso dalla sentenza Casanova [14], che di fatto obbliga il più delle volte a rivolgersi al  tribunale amministrativo competente, a scapito dell’autorità prefettizia che rigetta sistematicamente il suo ruolo di autorità decentrata dello Stato. Poiché i suddetti tribunali sono in gran parte congestionati a causa della loro scarsa capacità di smaltire tutte le cause, il giudice amministrativo è tanto meno propenso a invadere ciò che giustamente considera, il campo di competenza del prefetto.

La liquidazione dello Stato riflette quindi una volontà di impotenza, dal momento che è, in nome di una certa “responsabilità”, agire come manager. Come possiamo immaginare, questo porta davvero all’idea che la politica sarebbe diventata qualcosa di fondamentalmente assurdo e che per ben che vada, il dominio politico rileverebbe di una specie di atavico romanticismo. Ora è il momento della gestione, e un intero curioso vocabolario sta fiorendo sulla sua scia, che consiste banalmente nel trasformare la terminologia politica in quella di un dipartimento delle risorse umane, con la semplice modifica delle parole prima, in modo che facciano rima con “intendance”, salmerie, logistica. Quindi ecco l’alternativa sostituita dall’alternanza, il governo dalla governance, e inoltre sulla sempre più frequente invocazione di responsabilità, per facilitare la comprensione del fatto che ogni discorso che tratti qualcosa di diverso dalla quarta fascia fiscale odora d’un’epoca barbara, certo non così remota: ma è sempre un buon trucco, quando mancano gli argomenti. Queste originalità terminologiche in realtà impongono l’idea che esiste un solo modo di dirigere, che non ha nulla a che fare con ciò che Machiavelli potrebbe insegnarci. Abbiamo quindi visto governi successivi in ​​Francia allo stesso tempo espropriare lo Stato delle sue forze vitali in materia economica – poiché il campo economico è l’esempio più comune in questo settore – mediante privatizzazioni, l’apertura alla concorrenza di determinati servizi pubblici o persino l’integrazione del concetto di redditività in altri,  e la naturalmente legislazione per garantire al settore privato una “concorrenza libera e senza distorsioni” accompagna questa liquidazione, al punto che le aziende assumono un peso preponderante nella vita economica, ma persino diplomatica, a volte a scapito dei governi stessi. Maurice Duverger ha giustamente notato nel suo Nostalgia dell’impotenza che ”  l’impotenza politica provoca la debolezza dei servizi pubblici, l’impossibilità delle riforme, lo svilimento dello Stato, la sclerosi della nazione, l’assenza di civismo dei cittadini. Nelle relazioni diplomatiche e nelle organizzazioni nazionali, indebolisce il paese, scredita i suoi rappresentanti, paralizza o ritarda le decisioni collettive.  [15]Inoltre, tutta la legislazione economica prodotta dallo stato di diritto in realtà non emana più tanto dallo Stato quanto da organismi sovranazionali come l’Unione Europea, di cui lo Stato non è altro che un traduttore normativo nel suo proprio ordinamento interno. In effetti, potremmo sostenere che lo stato, alla fine, rischia persino di essere completamente espropriato della legge, appena essa non ne ha più bisogno. Non è più solo la tecnica del potere che viene evacuata, è il potere stesso che viene svuotato della sua sostanza; e possiamo quindi renderci conto che la vacuità del potere non significa una vacuità del personale politico, o addirittura un’assenza di leadership, ma la capacità di decidere chi è limitato, se non spazzato via, dalla legge. Lo stato è in qualche modo sospeso in nome della legge, poiché è la legge che governa ora. Con una tremenda inversione di tendenza, siamo tornati al legalismo, ma non quello della Terza e della Quarta Repubblica, dove si potrebbe parlare di sovranità del parlamento, ma di quella della legge come norma impersonale – e per impersonale intendiamo legge sradicata dalla Nazione, quando la legge sarebbe espressione proprio della volontà della nazione -, al limite dell’entelechia. Ciò ha causato, tra le altre conseguenze, l’ennesimo sconvolgimento nella gerarchia delle norme, poiché d’ora in poi quando un trattato è incostituzionale, è la Costituzione che si trova modificata, come ciò che è stato fatto sotto la Quarta Repubblica dove la Costituzione è stata modificata quando una legge era incostituzionale. Ciò è ovviamente caratteristico del legalismo, tranne che in materia di convenzioni internazionali, ciò che dovrebbe farci interrogare su un’evoluzione del ruolo dei trattati che non si limita più a stabilire relazioni tra Stati, ma a costituire un vero e proprio modo di governo. Il significato della citazione di Serge Latouche assume quindi un’ampiezza terrificante e ci obbliga ad affrontare il fatto che “La scomparsa del politico come istanza autonoma e il suo assorbimento nell’economico fanno riapparire lo stato della natura secondo Hobbes, la guerra di tutti contro tutti; la competizione e la concorrenza, leggi dell’economia liberale, diventano, ispo facto, la legge della politica. ” [16]

LIBERTÀ (S), RISCRIVONO IL TUO NOME

Sarebbe tuttavia errato pensare che, comunque, lo stato di diritto avrebbe almeno il merito di preservare le libertà fondamentali contro l’arbitrio statale, ma soprattutto di prevenire le possibili derive di tale arbitrio. “  Un sistema di legalità chiuso su se stesso quindi basa qualsiasi pretesa di obbedienza e giustifica l’esclusione del diritto alla resistenza. L’aspetto specifico della legge è qui la legge positiva, la giustificazione specifica del vincolo statale è la legalità ” [17], spiega Carl Schmitt. Una volta negato questo diritto alla resistenza, la questione del regime politico non ha importanza e la parola democrazia che gli invocatori permanenti dello stato di diritto credono di associarvi logicamente è affatto sbagliata. Se la democrazia deve governare nell’interesse del maggior numero come pensava Pericle, è ancora necessario distinguere l’interesse generale dalla somma di interessi particolari, perché il primo non è assolutamente il risultato del secondo . Dal momento in cui ciò che è possibile viene ritenuto necessario, ciò offre una traduzione giuridica singolare in materia di libertà fondamentali che rafforza solo la legalità. Poiché si limita esclusivamente al riconoscimento legale degli interessi, lo stato di diritto spinge effettivamente a sottomettere alla legislazione ogni aspetto della vita, allontanandosi definitivamente dal diritto pubblico, o piuttosto assimilandolo al diritto privato. Sarebbe possibile replicare, tuttavia, che è sempre grazie allo Stato che può aver luogo il processo normativo, e la legge si applica, così come è effettivamente allo Stato che i cittadini fanno ricorso, poiché senza di esso la legge non sarebbe possibile; e che quindi ci sarebbe sempre una decisione che ha dato origine a uno stato di diritto, cioè lo Stato. Il favoloso paradosso che ne deriva distrugge l’idea che uno stato forte sarebbe necessariamente uno stato arbitrario e per inciso totalitario, poiché il riconoscimento legale degli interessi è solo la loro infinita soddisfazione, al punto che lo stato diventa totalitario perché è debole, non perché è forte, l’esatto opposto di uno Stato fascista, che cerca di imporre una norma, e non di regolare delle eccezioni.

In entrambi i casi, tuttavia, nessuno si contenta del maggior numero, perché tutti devono essere soggetti a queste norme di legge. Le libertà fondamentali degenerano in libertà di desideri a cui viene naturalmente concessa la libertà di soddisfarli. Lo stato di diritto è ora inteso come “lo stato in cui si ha il diritto di avere diritti”, che sono sempre nuovi e sempre più specifici. In breve, dopo i diritti-debito, ecco i diritti-piacere ” Uno stato di partiti pluralisti non diventa “totale” con la forza e con il potere, ma con la debolezza; interviene in tutti gli ambiti della vita perché deve soddisfare le pretese di tutti gli interessati. ” [18]

Questo atteggiamento compulsivo, che richiede al legislatore di riconoscere la propria singolarità – a volte fantasmagorica – testimonia le solide radici del legalismo nell’individuo stesso. La sua visione della vita stessa è legalistica; questo dà vita a una situazione nebulosa in cui la norma e l’eccezione diventano sempre meno distinte. La posizione assunta il 5 aprile 2020 da Marlène Schiappa, Segretario di Stato, nel mezzo della crisi di Covid19, che in una lettera di missione a Céline Calvez, deputato di Hauts-de-Seine – tra l’altro membro della commissione per gli affari culturali e istruzione – si allarma per la mancanza di voce femminile nei media in tempi di crisi illustra le ansie legalistiche che una società moderna sta vivendo anche nel mezzo di una crisi. Ora, se è sempre l’eccezione che definisce la norma e non il contrario, cosa succede se, da un punto di vista normativo, le norme di legge prodotte essenzialmente per riconoscere legalmente interessi tanto diversi quanto dubbi diventano soprattutto un catalogo di eccezioni? Dov’è allora la norma? Non è forse spazzata via a favore di un paradigma giuridico che allontana le distinzioni tra norma ed eccezione, per rendere quest’ultima la norma stessa, senza che sia possibile determinare se sia un paradosso o un’incongruenza?  “La  legalità è davvero uno strumento di potere, e chiunque riesca a impadronirsi di questo strumento è più forte di qualsiasi cosa si possa opporgli in nome della legittimità. ” [19] L’ascesa della legge sullo stato assume piena dimensione attraverso queste affermazioni legalistiche e poiché la legittimità ormai viene intesa come sinonimo di legalità, non è più possibile contestare alcuna regola de jure dato che un regime rappresentativo come la Quinta Repubblica si basa sul principio del governo del popolo da parte del popolo, rappresentato dal Parlamento che esercita la sovranità nel suo nome. “Ciononostante, uno stato non rinuncerà mai alla sua pretesa di dominio e alla soppressione di ogni diritto di resistenza, purché rimanga uno stato, per quanto debole possa essere  ” [20] Ancora una volta, è proprio la crisi che mette in luce questa prospettiva, nonché le possibili disfunzioni di un sistema, o meglio le loro cause.

LA CRISI O IL CONFRONTO DEL DIRITTO E DELLO STATO

Mentre la crisi a seguito della pandemia di Covid19 raggiunse il culmine esattamente un anno dopo che Bruno Le Maire, ministro dell’Economia, pubblicò con Gallimard Publishing un modesto saggio intitolato Il nuovo impero, l’Europa nel 21 ° secolo, è chiaro che queste storie dell’impero di millenario non vanno mai come previsto. Le crisi hanno il merito di rivelare i difetti di un sistema consolidato – politico, istituzionale o persino sanitario – ma soprattutto di valorizzare il dilettantismo o la chiaroveggenza delle élite, anche in questo caso quale che sia la loro funzione. Ancora meglio, sono soprattutto i profondi difetti che hanno parzialmente consentito la crisi, che sono evidenziati, e la capacità o l’incapacità del politico di risolverli. Solo, un grosso problema ostacola le soluzioni legali da attuare, poiché nel diritto la crisi non ha assolutamente definizione, contrariamente a quanto una dubbia letteratura pseudo-legale cerca di farci credere quando si presentano.  La definizione più accattivante da conservare potrebbe tuttavia essere quella proposta da Alain de Benoist, che ha saputo coglierne l’essenza affermando che la crisi è ciò che non può essere risolto, né può risolversi da sola. La presa in considerazione dell’incertezza e del rischio è un luogo comune legale molto specifico, ed è stata ampiamente oggetto di dottrina e di norme di legge. La permanenza dello Stato è il pilastro su cui poggiare, poiché la sua stessa essenza è il negativo dell’incertezza; e la formula che esprime meglio questa impossibile vacanza al potere è probabilmente il famoso “Il re è morto, viva il re!” “La modernizzazione dei mezzi di produzione, della società stessa e dei modi di governare svilupperanno tuttavia sempre più le teorie della decisione, vale a dire la determinazione della migliore scelta possibile in determinate condizioni nella corretta applicazione della teoria dei giochi, ed ecco il rischio integrato nella società come una componente quasi inerente al suo funzionamento. Tuttavia, la modernità non è riuscita a rimuovere l’incertezza, ma l’ha anche sofisticata solo quando non ne ha prodotto di nuove, spietati corollari del progresso. Nuove sfide, nuove questioni.

Quando si verifica la crisi, essa non solo compromette il sistema giuridico, ma soprattutto lo stato stesso. Lo stato di diritto riscopre quindi la sua natura chimerica, poiché in ultima analisi non può produrre una norma in una situazione che non si preoccupa dello stato di diritto e non richiede il rilascio né dell’autorizzazione né del riconoscimento legale. La crisi sta spazzando via le incessanti richieste alla legge, in particolare quelle al fine di acquisire nuovi statuti o addirittura di soddisfarne alcuni già concessi. In breve, la crisi ha ricordato al politico che gli onori della sua posizione gli hanno anche chiesto di accettarne le servitù, tra l’altro questa famosa salus publica . La crisi è la situazione eccezionale per eccellenza e, come ricorda Carl Schmitt, “ chi decide nella situazione eccezionale è il sovrano” Se le decisioni richieste da tale situazione non vengono prese abbastanza presto, l’organo decisionale potrebbe essere accusato di agire troppo tardi, mentre a monte potrebbe essere richiesto di giustificarsi quando non sembra sorgere alcun pericolo grave , come nel caso di Roselyne Bachelot durante l’epidemia di influenza H1N1 quando era ministro della sanità. L’intero paradosso giuridico si trova qui, anche se non si avvicina il momento della crisi stessa e l’intera armata legislativa si trova impotente ad affrontare se costringe il processo decisionale a rispettare le procedure, preoccupandosi anzitutto di non disturbare il corretto funzionamento dello stato di diritto. Tuttavia, in caso di crisi, non è mai possibile utilizzare solo i mezzi a disposizione dello stato di diritto. Purtroppo, la crisi difficilmente tollera i balbettii normativi; corre più veloce degli andirivieni delle navette parlamentari,  ed ecco che i nostri leader, che hanno scambiato la politica per l’amministrazione, scoprono lo spaventoso cimitero delle loro buone intenzioni.

La dittatura si è tradizionalmente illustrata come il mezzo repubblicano per eccellenza a cui si ricorre per preservare lo stato, come abbiamo detto. Permette al dittatore, nominato secondo un semplice meccanismo costituzionale o proto-costituzionale, di essere sia il deliberatore che l’esecutore delle proprie decisioni, senza possibilità di ricorso, come avevamo spiegato. Decidendo sulla situazione eccezionale, ha quindi il controllo dello Stato: la decisione viene quindi liberata da tutti i vincoli legali. Il limite fissato al dittatore è tanto semplice quanto inevitabile: non può né promulgare nuove leggi né disporre della Repubblica. Sfruttare la dittatura per usurpare il potere la trasforma dunque in tirannia. Questo è anche il motivo per cui, empiricamente, il dittatore si è dimetteva a missione compiuta, solo di rado alla scadenza del suo mandato. Il fatto che i monarcomachi non la integrassero nel proprio pensiero suggerisce che il loro contributo alla teoria generale del diritto era proprio quello di concettualizzare la legge come baluardo difensivo contro l’arbitrio dello Stato, come detto più sopra.

La crisi è quindi qualcosa di più che la regina dei rischi. Si apre come un abisso vertiginoso, e le sue forme mutano, rispecchiando l’immagine della società e dei tempi. Lo stato di assedio è stata la prima risposta a questo problema nella nostra storia moderna, prevedendo il trasferimento del compito di mantenere l’ordine alle forze armate. Essendo una misura rischiosa quanti i rischi di una crisi, le classi politiche fino alla IV Repubblica hanno testimoniato una diffidenza ormai classica verso tutto ciò che potrebbe in effetti rafforzare lo Stato a scapito della legge, vale a dire del diritto dello stato di preservare se stesso, per così dire. Durante l’insurrezione algerina, la questione dello stato d’assedio provocò un dibattito, e il tentativo di evitarlo ha dato alla luce l’ormai ben noto stato di emergenza,  un compromesso tra la conservazione dello Stato e una ragionevole ritirata del diritto, mentre lo stato d’assedio rischiava di aprire un campo di possibilità forse troppo ampio per il gusto di Pierre Mendés France e Edgar Faure; tuttavia, il ricordo ancora troppo vivido del voto di conferimento dei pieni poteri al maresciallo Pétain non poteva dar loro torto, in circostanze allora piuttosto simili. La legge del 1955 prevedeva quindi logicamente che il Parlamento votasse una legge che dichiarasse lo stato di emergenza, tuttavia con il controllo parlamentare, prima del ritorno alle condizioni regolari con l’ordinanza del 15 aprile 1960. Anche se lo stato di diritto – e soprattutto il legicentrismo – era appena scosso, la Quarta Repubblica fu in grado di compensare l’assenza costituzionale di ricorso alla dittatura, anche se fu inesorabilmente superata dall’instabilità insita nella sua struttura costituzionale. Quando le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza della Nazione, l’integrità del suo territorio o l’esecuzione dei suoi impegni internazionali sono minacciati in modo serio e immediato e d è interrotto il regolare funzionamento dei poteri pubblici costituzionali, il Presidente della Repubblica adotta le misure richieste da tali circostanze, previa consultazione ufficiale con il Primo Ministro, i Presidenti delle Assemblee e il Consiglio costituzionale. Proprio come gli articoli 34 e 38 inaugureranno le aree riservate alla legge e ai regolamenti. Da allora, il Parlamento può legiferare solo su ciò che le disposizioni dell’articolo 34 gli consentono, razionalizzando il comportamento del legislatore. Alcune escursioni hanno naturalmente visto la luce del giorno, ma questi incorreggibili avventurieri normativi che sono i parlamentari sono stati rapidamente rimessi in riga dal Consiglio costituzionale. In pieno trionfo della volontà di impotenza, soltanto l’articolo 16 sembra essere un relitto del passato. Se continua ad adornare la costituzione della Quinta Repubblica, il suo uso ci sembra incongruo, perché la raffinatezza della società e la sua relazione con il mondo tendono a farci credere che questo tipo di misura sia diventata superflua .

La creazione dello stato di emergenza sanitaria segna un’evoluzione dello stato di diritto, perché come misura più morbida dello stato di emergenza, riflette principalmente il desiderio di evitare il ricorso a questo articolo 16. Il nuovo dispositivo fa una scelta molto chiara: sospendere lo Stato a favore della legge. Queste nuove regole vincolano ancora di più il processo decisionale, al punto che possiamo chiederci se esistano ancora dei decisori pubblici e senza dubbio la piccola formula di Maurice Duverger: ” ogni  potenza per  prevenire o distruggere, l’impotenza per decidere e costruire ” [21]si presta bene a questa situazione. Quindi qui ci sono statisti che semplicemente rifiutano lo stato stesso per paura che, fornendogli il tempo di darsi i mezzi per risolvere la crisi, si supererebbe un punto fatale di non ritorno per un ordine che non è assolutamente mai quello della salus publica. La crisi rivela tanto il pragmatismo quanto il dilettantismo delle élite, non senza una certa implacabilità. Non tollera mezze misure, lei; le mezze misure che producono molti mezzi uomini, secondo Talleyrand. Sarebbe certo comodo affermare che una in crisi causata da un’epidemia il ricorso all’articolo 16 sarebbe sproporzionato, poiché le istituzioni non sarebbero messe a repentaglio, contrariamente agli esempi storici menzionati fino ad allora, ma questo puntodi vista illustra soprattutto la sua ignoranza di che cosa sia una Repubblica, in particolare il paradigma posto dalla Quinta. La prima delle istituzioni, in una Repubblica, è il cittadino, è anche per questo che essa è un regime vivente. Non è il cittadino che, in caso di epidemia, è fisicamente in pericolo ? Distaccare i cittadini dalle istituzioni in nome di una visione legalistica delle cose attesta non solo la natura chimerica del legalismo in sé, ma soprattutto un curioso ritorno al Vecchio Regime, dove lo Stato potrebbe essere confuso con la Corona. I cittadini non sarebbero quindi nient’altro che i moderni equivalenti dei sudditi del re, e il principio stabilito nell’articolo 2 della nostra Costituzione del ”  governo del popolo, da parte del popolo e per il popolo  ” un frutto dell’immaginazione. Questa interpretazione appare tanto più errata dal momento che se andiamo in fondo alla sua logica, si tratta di distaccare il Parlamento dall’idea di rappresentanza nazionale, mentre l’articolo 3 afferma inequivocabilmente che ” La sovranità nazionale appartiene alle persone che la esercitano attraverso i loro rappresentanti e attraverso il referendum. Nel caso di una crisi come quella provocata da Covid19, questa lettura è tanto più grave in quanto abbandona i cittadini al proprio destino di fronte alla malattia e alla morte. Se volessimo un altro esempio delle conseguenze dell’egemonia privatista sul diritto pubblico, eccone sicuramente un eccellente che ci permette di capire cos’è salus publica , in particolare in una Repubblica, e perché la dittatura è così importante come rimedio. Questo desiderio di impotenza in definitiva consiste dichiarare guerra a un virus senza approntare le nazionalizzazioni e le pianificazioni necessarie – al punto che le aziende del settore privato, stupite che lo Stato non prenda il comando, si dispongono da sé a ubbidirgli – avrebbe senz’altro acuito l’esasperazione del summenzionato Taine quando affermava, non senza ragione, che “In primo luogo, le autorità pubbliche devono essere d’accordo: altrimenti si annulleranno a vicenda”. In secondo luogo, le autorità pubbliche devono essere rispettate: altrimenti sono nulle. ” [22]

La comunicazione del governo durante la crisi di Covid19 nasconde anche alcuni tesori. Le sue precauzioni lessicali e le sue circonlocuzioni prudenti testimoniano una vera sfiducia nei confronti dello Stato. Se la crisi sta minando lo stato di diritto, la decisione di scegliere tra stato e legge sembra inciampare da parte dell’esecutivo a due teste in un modo molto strano. Da un canto Emmanuel Macron, presidente della Repubblica, sembrava toccare con la punta delle dita la natura “Jupiterienne” che gli veniva così attribuita,  dichiarando con enfasi, il 16 marzo 2020, che ” Lo Stato pagherà ” come esorcizzando ” Lo Stato non non può tutto ” di Lionel Jospin, ex primo ministro, dall’altro il suo primo ministro ha usato un linguaggio molto più sfumato. Il discorso di Matignon,  integrando il discorso presidenziale con le sue implementazioni pratiche, brillava per la sua palese ostinazione nel rifiuto di pronunciare la parola “Stato”, che tuttavia era prevista dopo il discorso dell’Eliseo. Secondo Édouard Philippe, primo ministro, la massima responsabilità che sarebbe assunta se la situazione lo richiedesse, sarebbe una responsabilità “come azionista», e l’annuncio del nuovo regime legale ideato per la risoluzione della crisi, lo stato di emergenza sanitaria. Come non vedere in esso il segno di questo famoso desiderio di impotenza che, non contento di aver ridotto lo Stato a un banale soggetto di diritto quasi privo di prerogative del potere pubblico in materia economica, non sembra nemmeno ritenerlo degno d’essere chiamato per nome? Il chiaro abuso della parola “guerra” è stato seguito dalla altrettanto distinta assenza di un’economia di guerra. Nessuna pianificazione delle forze di produzione al fine di fornire alla nazione i mezzi per combattere contro questo nemico invisibile che è il coronavirus, ma un’attestazione che il cittadino deve rivolgersi a se stesso per consentire a se stesso di uscire secondo i casi previsti con decreto del 23 marzo 2020.

Dov’è l’accordo tra i poteri, e ancor prima l’obbedienza che riscuotono, quando la comunicazione tra i membri del governo interferisce nel processo normativo? La semplice esistenza dell’autocertificazione solleva già questo dubbio, visto che il è cittadino stesso ad autorizzarsi a derogare dalla regola del confinamento durante l’epidemia di Covid19. L’eccezione definisce la regola, ma qui qual è l’eccezione? Certificazione o contenimento? In totale assenza di un’economia di guerra, vale a dire la pianificazione della produzione e il razionamento dei prodotti alimentari, ciò lascia seri dubbi, soprattutto perché mancano le varietà di imprese autorizzate a rimanere aperte, oltre alle banali gite che sono previste dal decreto del 23 marzo 2020. La disobbedienza derivante da questa vaghezza normativa fiorisce in modo abbastanza logico, infatti, poiché i divieti non sono né chiari né realmente coerenti rispetto al numero di possibili deroghe. Ciò non ha mancato di mettere alla prova i nostri concittadini, specialmente quando la polizia ha ritenuto opportuno concedersi poteri di giudice senza che lo stato di diritto ve li abbia autorizzati, incluso il famoso decreto del 23 marzo 2020. Che la polizia o i gendarmi si siano improvvisamente messi a controllare le spese dei consumatori, quando il loro ruolo deve essere limitato al controllo formale delle gite effettuate in coerenza con il certificato, avrebbe dovuto suscitare interrogativi in coloro che sono abituati a invocare lo stato di diritto a ogni piè sospinto. Infine, è la stessa comunicazione del governo che ora sembra assumere un valore normativo. Quando semplici “tweet” dei ministeri dello sport e degli interni completano il famoso decreto sul possibile perimetro di uscita, i metodi di controllo della polizia, ecc., prendono un valore decretale effettivo. La gerarchia delle norme teorizzata dal povero Kelsen potrebbe quindi far parte dell’atavismo legale. Già malmenata dai fatti al momento della sua apparizione, a quanto pare nulla le sarà risparmiato. Tuttavia, se la parola di un politico come un ministro integra il processo normativo – che si tratti di valore decretale o infra-decretato è in definitiva onanismo – le conseguenze vanno oltre i colpi di scalpello cui è stata sottoposta la Costituzione della Quinta Repubblica dalle varie riforme che l’hanno modificata. Ciò non è previsto né nella Costituzione né nel nostro ordinamento giuridico. Non bastando il tentativo di rimodellarla sulla Quarta Repubblica,  ora il suo aspetto distorto richiama una strana dimensione della Terza Repubblica. La Costituzione della Quinta Repubblica è senza dubbio la camicia di forza del diritto, che lo limita per lasciare un margine di manovra alla decisione, anche se le molteplici operazioni chirurgiche che ha subito ne hanno ridotto la libertà decisionale. Senza una gerarchia di norme e senza una costituzione, l’allegro caos di un processo normativo che conferirebbe un valore uguale a un decreto come a una dichiarazione pubblica finirebbe per liberare la legge dal vincolo decisionale. In un’assurda utopia normativa, tutto sarebbe probabilmente diventato uno stato di diritto e parlare di inflazione legislativa sarebbe un eufemismo all’interno di questo carnevale di norme turbinanti che non ci impedirebbe di perdere la testa. Ciò è tanto più flagrante in quanto da parte dei nostri governanti indica una nuova disobbedienza nei confronti dell’Unione Europea di cui sono comunque stati sempre zelanti collaboratori. Ciò che era irresponsabile, persino la follia, divenne improvvisamente d’una sconcertante facilità quando, ad esempio, si impose “temporaneamente” un orario di lavoro settimanale di sessanta ore invece delle quarantotto ore previste secondo le regole europee. L’equilibrio dell’esercizio del potere tra astuzia e forza secondo Machiavelli è quindi sconvolto da un evidente squilibrio verso la forza, anche se  “quelli che si limitano a essere leoni sono molto goffi ” [23] ; ma sorprendentemente, è la legge che ha assunto le sembianze della ferocia.

 

APPUNTI:

  1. Serge Latouche, in “La Mégamachine – ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso”, capitolo I “tecnica, cultura e società, 1 La Mégamachine e la distruzione del potere sociale, éd. La Découverte / Revue du MAUSS, p.45
  2. Carl Schmitt, in “Tele-democrazia – L’aggressività del progresso”, Legalità e legittimità (1970), in “Machiavelli – Clausewitz – Legge e politica che affrontano le sfide della storia”, trad. di Michel Lhomme, p.249-250, ed. Krisis
  3. Hippolyte Taine, “Le origini della Francia contemporanea – La rivoluzione: la conquista giacobina”, Hachette, 1878, p. 276
  4. Nicolas Machiavelli, in “Il principe”, cap. XVIII Come i principi devono mantenere la parola, p.74, edizioni Charpentier, Libraire-éditeur (Parigi, 1855), traduzione di Jean-Vincent Périès  (1825)
  5. Ibidem, p.75
  6. Citato da James Burnham, in “L’era degli organizzatori”, p.1, edizioni Calmann-Lévy, collezione Freedom of the mind.
  7. Nicolas Machiavelli, in “Il Principe”, cap. XVIII “Come i principi devono mantenere la loro fede”, p. 126-127, ed. The Pocket Book (1963)
  8. Nicolas Machiavel, in “Discorso sul primo decennio di Tite-Live”, Libro I, capitolo 4, p.68, ed. Gallimard, collezione NRF / La Bibliothèque de philosophie (2004)
  9. Carl Schmitt, in “La dittatura”, 1. La dittatura del commissario e la teoria dello Stato, a) La teoria della tecnica statale e la teoria dello stato di diritto, p.82, Edizioni Seuil, collezione Punti.
  10. Carl Schmitt, in “Legalità e legittimità”, Introduzione, p. 38-39, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  11. Maximilien de Robespierre, Sessione del 18 novembre 1790, Archivi parlamentari, 1a serie, Tomo XX, pag. 516.
  12. Carl Schmitt, in “Legalità e legittimità”, Introduzione, p. 38-39, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  13. Jean-Pierre Chevènement, in “Lo stato e la democrazia – Discorso ai prefetti (Parigi, 2 luglio 1998)”, in “La Repubblica contro il pensiero positivo”, p. 121, ed. Plon (1999).
  14. Sentenza del Consiglio di Stato del 21 marzo 1901, relativa alla ricevibilità del ricorso di un contribuente contro una deliberazione del consiglio comunale in materia di finanze del comune.
  15. Maurice Duverger, in “Nostalgia per l’impotenza”, II. Le due Europa – L’Europa dell’impotenza, p.116, edizioni Albin Michel (1988)
  16. Serge Latouche, in “I pericoli del mercato planetario”, cap. I, “Globalizzazione dell’economia o” economizzazione “del mondo”, p.31, ed. Science Po Press
  17. Carl Schmitt, in “Legalità e legittimità”, Introduzione, p. 38-39, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  18. Ibidem, conclusione, p.133-134
  19. Carl Schmitt, in “Tele-democrazia – L’aggressività del progresso”, Legalità e legittimità (1970), in “Machiavelli – Clausewitz – Legge e politica che affrontano le sfide della storia”, trad. di Michel Lhomme, p. 250, ed. Krisis
  20. Carl Schmitt, in “Legittimità e legittimità”, Conclusione, p.133-134, ed. Le macchine da stampa dell’Università di Montreal, trad. di Christian Roy e Augustin Simard
  21. Maurice Duverger, in “La nostalgia dell’impotenza”, Introduzione – La sconfitta dei vincitori, p.14, edizioni Albin Michel (1988)
  22. Hippolyte Taine, “Le origini della Francia contemporanea – La rivoluzione: la conquista giacobina”, p.276, edizioni Hachette (1878)
  23. Nicolas Machiavelli, in “Il principe”, cap. XVIII Come i principi devono mantenere la parola, p.74, edizioni Charpentier, Libraire-éditeur (Parigi, 1855), traduzione di Jean-Vincent Périès  (1825)

https://patriotesdisparus.com/2020/05/08/petit-precis-de-la-dictature/

DA MASSIMO MORIGI A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE_A PROPOSITO DEL REALISMO POLITICO, di Massimo Morigi

RECENSIONE CUMULATIVA A “SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA” (http://italiaeilmondo.com/?s=sovranismo+e+libert%C3%A0+politica  E http://www.webcitation.org/6yPG6YC86), “STATO RAPPRESENTATIVO E VINCOLO DI MANDATO” (http://italiaeilmondo.com/?s=STATO+RAPPRESENTATIVO+E+VINCOLO+DI+MANDATO E http://www.webcitation.org/6yPGTH6Wo), “NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE” (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI E http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) E “SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO” ( http://italiaeilmondo.com/?s=sentimento+ostile E http://www.webcitation.org/6yPGwg0i6 O https://www.rivoluzione-liberale.it/wp-content/uploads/2017/03/SENTIMENTO-OSTILE-ZENTRALGEBIET-E-CRITERIO-DEL-POLITICO.pdf E http://www.webcitation.org/6yPIFo21y) DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’appena passato mese di marzo sulle pagine elettroniche dell’ “Italia e il mondo” sono stati ospitati quattro interventi di Teodoro Klitsche de la Grange, sui cui relativi titoli, URL di riferimento e “congelamenti” su WebCite si è già data indicazione bibliografica nel titolo del presente commento. Esaurita questa premessa diciamo tecnica (ma che in sè contiene già una valutazione estremamente positiva di questi interventi, visto che si è ritenuto doveroso preservarli a futura memoria dal rischio della decadenza degli URL originari), veniamo ora di sviluppare una valutazione complessiva in merito agli stessi, valutazione globale non solo estremamente positiva (e questo s’è appena detto ma repetita anche se stufant iuvant) ma anche di facilissima formulazione perché in questi interventi Teodoro Klitsche de la Grange – come del resto in tutti i suoi precedenti lavori – si è dimostrato come uno dei più interessanti interpreti e rinnovatori presenti sull’italica – e, purtroppo, assai derelitta da questo punto di vista –  piazza del pensiero politico realista. Quindi, i suoi punti di riferimento sono quegli autori, Tucidide, Niccolò Machiavelli, Carl von Clausewitz, e per giungere ai contemporanei  Julien Freund, che costituiscono le fonti basilari del pensiero realista e naturalmente – e, applicandola al Nostro mai come in questo caso l’icastica formuletta inglese è stata appropriata – last but not the least Carl Schmitt. Del quale grande giuspubblicista Teodoro Klitsche de la Grange si dimostra non solo profondo conoscitore – e “sviluppatore” del suo pensiero – dal punto di vista strettamente politologico e filosofico-politico ma anche dal punto di vista della teoresi giuridica, caratteristica questa di La Grange non solo estremamente preziosa in sede di trattazione dello Schmitt (preziosa, ovviamente, qualora questa maestria nelle scienze giuridiche molto importante nell’affrontare lo Schmitt sia accompagnata da altrettanta conoscenza politologica come nel suo caso) ma anche per l’affermazione di una autentica cultura realista, il cui costante rischio, specialmente ma non solo a livello di vulgata popolare, è quello di sprofondare in una sorta di nascosto naturalismo e/o criptopositivismo, in ultima analisi, quindi, in una negazione del vero realismo, il cui nucleo generatore è mettere sempre al primo posto le teleologie dei vari attori singoli od associati che siano;  teleologie in cui il primo stadio di manifestazione e cristallizzazione consiste appunto nella dimensione giuridica. Che del resto la riflessione sulla dimensione teleologica del diritto sia centrale in La Grange, e lo sia lungo la fecondissima direttrice già a suo tempo tracciata da Schmitt, ben risalta dalla seguente citazione dalla nota n. 9 di Sovranismo e libertà politica, dove sulla scorta della schmittiana Politische Theologie viene smontata la concezione Kelseniana del diritto e del ‘politico’ puramente procedurale, concezione che a livello di teoria giuridica non è altro che l’espressione della contraddizione dell’ attuale ideologia democratica, formalmente basata sulla decisione del popolo ma che questa dimensione decisionistica della politica alla fine nullifica perché, in ultima istanza, questa decisione deve essere sempre e comunque conforme ad astratti principi universalistici e che trovano questi principi garanzia della loro realizzazione non tanto attraverso un rispetto sostanziale  della decisione ma attraverso un procedimento formale di creazione giuridica in cui alla fine poco importa se questo realizzi o meno l’autentica teleologia della decisione stessa: «riportiamo [scrive La Grange] i passi salienti delle critiche di Schmitt: “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fatto si tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto”  in Poltische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.» Comunque, se quanto appena citato ci permette di definire il La Grange come un ortodosso – ed anche assai attrezzato dal punto dell’acribia sulle fonti – esponente del pensiero realista nonché conoscitore del pensiero di Schmitt, la cui caratteristica è seguire l’autentico sviluppo, di natura tutta teleologica, del momento giuridico nella dimensione del ‘politico”, e La Grange coglie in pieno questa evoluzione che si sviluppa senza soluzione di continuità, è giunto a questo punto il momento di dare piena giustificazione alla nostra affermazione iniziale che La Grange non è solo un profondo conoscitore e cultore del pensiero realista ma ne è soprattutto un rinnovatore. Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.» Oltre alla totale demolizione del mito di una globalizzazione che si vorrebbe pacifica mentre in realtà è il suo esatto contrario perché questa vuole inesorabilmente eliminare ogni potere teleologicamente responsabile per sostituirlo con gli imperscrutabili meccanismi sociali ed economici della globalizzazione stessa (libera, o meglio anarchica, circolazione di capitali, merci ed uomini con conseguente annientamento di ogni peculiarità politica, economica e culturale degli stati nazione e delle diverse etnie), le parole appena citate rendono ampia dimostrazione di un pensiero realista veramente innovatore e che compie un’hegeliana Aufhebung del magistero schmittiano perché ha compreso «che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari». Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico questa complementarietà non è solo necessaria dal punto di vista della creazione e conduzione di una vitale e reale Res Publica ma, ancor più, costituisce un inscindibile binomio dialettico: che per comodità espositiva e di descrizione delle varie situazioni possiamo di volta in volta definire legge o forza; le quali però, nella sostanza, non sono che due espressioni e manifestazioni basilari ed originarie di quel conflitto-azione strategica da cui origina la società e tutta la dinamica storica (ed anche tutta la dinamica creatrice  del mondo fisico-naturale, ma questa non è la sede per dilungarci sull’argomento, per il quale si rimanda volentieri a quanto precedentemente già detto, in particolare nel Dialectvs Nvncivs ma anche in altri luoghi). Resta da vedere quanto Teodoro Klitsche de la Grange possa concordare dal punto di vista della teoresi a tutta questa  peculiare direzione dialettica e originata da una interpretazione in chiave di filosofia della prassi del magistero marxiano ed in particolare delle sue Glosse a  Feuerbach (e quindi quanto sia disposto ad inserire nel suo Pantheon realista autori come Antonio Gramsci e il György Lukács di Storia e coscienza di classe: intanto, dalla lettura di Sentimento ostile, Zentralgebeit e criterio del politico, l’ultimo dei quattro articoli gentilmente concessi all’attenzione dei lettori dell’  “Italia e il mondo”, abbiamo con piacere potuto notare che non esiste alcuna preclusione verso il grande disconosciuto della cultura italiana del Novecento, e cioè verso Giovanni Gentile la cui interpretazione della filosofia di Marx in chiave attualista come filosofo della prassi non solo costituisce un “rimettere coi piedi per terra” l’impostazione filosofica in chiave antipositivista del pensatore di Treviri ma costituì anche la base per il successivo sviluppo della filosofia della prassi in Antonio Gramsci, così come ci viene restituita e sviluppata nei suoi Quaderni del Carcere), ma questo costituisce non dico un problema trascurabile o da relegare solamente ad un dibattito fra specialisti (non bisogna mai peccare di falsa condiscendenza) ma certamente è un aspetto secondario nel giudicare l’importanza dell’impostazione del realismo politico fornitaci da Teodoro Klitsche de la Grange e questo perché tutto l’argomentare di questo valente studioso va veramente nella direzione della creazione e disvelamento di quell’ ‘epifania strategica’ che, a meno che il pensiero realista non si voglia chiudere in sé stesso, deve costituire il momento generatore ed obiettivo del pensare il ‘politico’. Ed è soprattutto per questa intima teleologia, unita alle sue non comuni capacità critiche,  che  dobbiamo ringraziare Teodoro Klitsche de la Grange.

 

Massimo Morigi – 5 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

sulla rappresentanza politica, di Teodoro Klitsche de la Grange

SULLA RAPPRESENTANZA POLITICA

 

  1. – Sul tema della rappresentanza politica occorre fare una precisazione preliminare: che di un termine o di un oggetto, com’è noto, possono aversi diverse definizioni e concetti, a seconda dell’angolazione da cui lo si studia. Così, per un giurista l’espressione de qua avrà un certo significato, per un politologo sarà diverso, per un filosofo o un sociologo un altro ancora. Tutti magari veri o validi e correttamente ricostruiti, ma, ovviamente, nell’ambito dei rispettivi “campi” scientifici.

L’essenziale è, trattando di tale argomento, da una parte non far confusioni, pretendendo di paragonare il concetto giuridico con quello sociologico e disputare sulla validità dell’uno o dell’altro; operazione impossibile, dato che la disomogeneità dei campi e criteri d’indagine la rende simile al tentativo di sottrarre triangoli a quadrati. Dall’altra a non perder del tutto i contatti, anche al fine di chiarire il concetto giuridico di rappresentanza, con i contributi che possono derivare da altre scienze umane.

Tale premessa si rende necessaria perché la rappresentanza è uno dei temi che più si prestano a confondere il diritto con la politica, la sociologia o la filosofia, ed addirittura con modi di intendere usuali ed atecnici. Per fare un esempio, il nesso spesso ripetuto, e che tratteremo in seguito, tra rappresentanza e scelta elettiva si spiega solo con l’adagiarsi su un modo corrente di intendere la prima, mutuato da assemblee sindacali e da congressi di partito.

  1. – Fatte queste brevi precisazioni, occorre ricercare il concetto di rappresentanza politica prima di tutto escludendo ciò che non è, o che è meramente accidentale rispetto ad esso.

In primo luogo che la rappresentanza sia un rapporto tra più soggetti, rappresentanti e rappresentati, concretamente identificabili come soggetti di diritto, titolari di obblighi e rapporti reciproci. Basta guardare la costituzione vigente, come quasi tutte le carte costituzionali, per rendersi conto che non è così. L’art. 67 recita testualmente: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Quindi, se può immaginarsi un rapporto, questo e’ tra un soggetto concreto (il parlamentare) e un’entità ideale (la Nazione), ma certo non è per nulla simile al rapporto giuridico “di rappresentanza” nel senso correntemente inteso.

In secondo luogo, che il rappresentante rappresenti chi l’ha eletto, scelto, delegato. La prevalente dottrina ha coerentemente negato ciò, non solo perché è del pari contraddetto dall’art. 67 della Costituzione, come da analoghe norme in ordinamenti similari, ma anche perché spesso chi elegge, sceglie o delega è esso stesso un corpo rappresentativo di un quid cui il rappresentante deve dare capacità d’azione. Così il corpo elettorale è in sé già rappresentativo, come notato dalla dottrina francese da quasi un secolo, del “popolo” e della “Nazione” e pertanto non coincide con questi, non foss’altro perché non ne fanno parte i minori e certe, sia pur limitate, categorie di cittadini.

Del pari, non c’è alcun nesso sostanziale tra rappresentanza e procedimento elettorale, né nel senso che tutti i rappresentanti sono elettivi, né nell’altro, e reciproco, che tutti gli eletti sono rappresentanti.

Quanto al primo occorre riprendere in mano la prima costituzione moderna europea, cioè quella francese del 1791, per leggervi (titolo III, art. 2 secondo comma) che “La constitution francaise est représentative: les représentants sont le corps législatif et le roi”: e il re non era sicuramente scelto per elezione. Formulazione mantenuta in gran parte dalle costituzioni monarchiche dell’800, ivi comprese alcune di quelle italiane pre-unitarie (v. per esempio artt. 2-3 Cost. Regno di Napoli del 1815; artt. 1 e 50 Cost. Regno delle Due Sicilie del 1848), anche se talvolta i termini rappresentanza, rappresentativa e rappresentante erano riferiti genericamente alla costituzione come forma di governo e specificatamente ai soli parlamentari (o ai deputati delle camere elettive). Perciò Santi Romano riteneva che “l’elezione è un mezzo, sia pure il più idoneo, ma non l’unico possibile per attuare la rappresentanza politica, della quale, comunque, non esaurisce e rivela la natura intrinseca.” Ancor più semplice è mostrare che eleggere un organo non implica che questo rappresenti alcunchè: gli esempi, nel diritto pubblico italiano e non, sono tanti e così noti che è inutile ricordarli. Più precisamente, e restringendo il discorso agli organi costituzionali, il fatto che i componenti di quelli rappresentativi sono scelti per elezione ed abbiano il mandato temporaneo è una conseguenza dell’idea di democrazia e non di quella di rappresentanza.

Inoltre, è da valutare se la rappresentanza implichi sempre responsabilità verso qualche soggetto, in particolare, nel caso di rappresentanza elettorale, verso gli elettori o il “rappresentato”.

Anche qui la risposta è tendenzialmente negativa: lo è del tutto, almeno in termini giuridici, se si ritiene – correttamente – che il rappresentato sia un’entità ideale come la Nazione e come il Popolo, e lo è in larga misura se si pensa che siano gli elettori, o meglio il corpo elettorale. Infatti, il rappresentante non è giuridicamente responsabile verso il corpo elettorale, almeno secondo il corrente concetto di responsabilità, lo è invece politicamente.

Con ciò, però, la responsabilità, che si vorrebbe connotato della rappresentanza politica, si rivela comunque assai ridotta. Come si vedrà in prosieguo, la responsabilità politica del rappresentante, lungi dal caratterizzarlo in quanto tale, è essa stessa conseguenza della natura e dei caratteri dell’istituto. Il rappresentante, in altri termini, non è tale perché è responsabile, ma è tale perché, a differenza di altri soggetti di funzioni pubbliche, è quasi totalmente irresponsabile. Tra i due concetti, nella disciplina degli istituti rappresentativi, c’è più opposizione che correlazione.

  1. – Occorre ora connotare positivamente il concetto di rappresentanza. Ma una comprensione di questa non può prescindere dall’analisi della funzione e dalla valutazione di una teoria più volte ripetuta, identificante la funzione delle istituzioni rappresentative nell’essere lo specchio, la “carta geografica” della società come diceva Mirabeau, di guisa da dar voce ai contrastanti interessi ed opinioni.

Orbene, è chiaro che una simile tesi può essere corroborata solo se l’organo rappresentativo è collegiale, abbastanza ampio ed elettivo: caratteristiche che non sempre ha. Di conseguenza, per gli stessi motivi sopra cennati, questa teoria non spiega e non comprende tutti i casi di rappresentanza politica: identifica, cioè, un aspetto accidentale, e tutto sommato subordinato (anche se importante), della composizione ed organizzazione delle istituzioni rappresentative, ma non ne individua i caratteri e la funzione essenziale.

Funzione essenziale che va individuata nel dare capacità di azione politica e quindi di esistenza ad una comunità organizzata.

Potrebbe sembrare strano a chi pensa che rappresentare consista nel dare “una voce”, nel far “partecipare”, ma è proprio questo che può ricavarsi dalla teoria politica e costituzionale positiva del XVII secolo in poi. Un breve esame storico mi permetterà di argomentare tale tesi, d’altra parte già esplicitata da altri.

Infatti Hobbes, nel noto passo del Leviathan (cap. XVI), intuisce tale funzione della rappresentanza giudicando che “una moltitudine di uomini diventa una persona, quando è rappresentata da un uomo o una persona” e nel capitolo successivo chiarisce il concetto: dopo aver descritto gli inconvenienti dello “stato di natura” scrive “il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli… è di conferire tutto il proprio potere ad un uomo o a un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri con la pluralità dei voti, ad un volere solo: che è quanto a dire a deputare un uomo od un’assemblea di uomini a rappresentare le loro persone, ed a riconoscersi… autore di qualunque cosa colui, che così lo rappresenti, possa fare o cagionare…”. In altri termini Hobbes identifica la funzione caratteristica della rappresentanza, nel dare volontà unitaria ad una società umana e con ciò l’unità necessaria ad un’esistenza sicura ed ordinata (cioè, nella visione di Hobbes, è un principio di forma costituzionale).

Passando a Montesquieu, si può leggere che “il grande vantaggio dei rappresentanti, è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo non vi è adatto: e ciò è forse uno dei grandi inconvenienti della democrazia”. E Montesquieu insiste sul fatto che un governo rappresentativo è necessario sia per l’incapacità del popolo di gestire la cosa pubblica, mentre d’altra parte è, ovviamente, vitale che siano prese le decisioni: e non vi è altro sistema per decidere che con rappresentanti.

Arrivando a quella grande fucina del diritto pubblico moderno che è l’opera dei costituenti francesi della fine del ‘700, troviamo Sieyès che fonda la necessità della rappresentanza in gran parte adducendo gli stessi motivi di Montesquieu e, in altra, come effetto della divisione del lavoro. Ma, soprattutto, nell’affermare la sovranità nazionale, l’art. 2 primo comma del titolo III della Costituzione del 1791 afferma “La Nation, de qui seule émanent tous les pouvoirs, ne peut les exercer que par délegation”.

Con ciò la ragione della rappresentanza aveva, in un certo senso, un’espressione costituzionale. Ma del pari, dall’assemblea costituente erano fissati altri caratteri essenziali del rappresentante: l’indipendenza dagli elettori, con il rifiuto dell’imperatività del mandato; la rappresentanza della nazione e non di singole parti o frazioni, anche se organizzate; infine la distinzione tra rappresentante (politico s’intende) ed altri esercenti pubbliche funzioni. In particolare il rifiuto del mandato imperativo e l’affermazione di una rappresentanza “generale” implica una conseguenza di notevole importanza per confutare la tesi della rappresentanza, anche se elettiva, come “specchio” o “carta geografica” della società civile.

Una rappresentanza “frazionistica” comporterebbe la logica conseguenza di istituti simili a quelli medievali e cetuali, col vincolo del mandato e la consapevolezza d’esser delegato di parte: la conformazione di quella moderna invece col vietare l’imperatività del mandato, ed affermare, nel singolo parlamentare, la rappresentanza del tutto, esclude proprio perciò quella della parte. Detto in altre parole, e precisamente con quelle di Santi Romano, le istituzioni rappresentative sono istituzioni necessarie, perché il “popolo, quando non si ha un governo democratico diretto, non ha la possibilità giuridica di curare e tutelare i suoi interessi se non per mezzo di rappresentanti e, di solito, scegliendo esso stesso questi ultimi”.

Che poi vi sia una rispondenza tra corpo elettorale ed eletti, del tipo di quella criticata, è un sovrappiù; ed è errato credere che la rappresentanza politica, così come voluta dai costituenti delle prime costituzioni democratico-liberali, volesse dire dar voce ai contrasti d’opinioni e d’interessi. Tutt’altro: basta leggere il discorso di Sieyés all’Assemblea costituente contro il mandato imperativo del settembre 1789, o il decimo saggio del “Federalista”, per rendersi conto che il frazionamento pluralistico di una rappresentanza elettiva era ciò che questi più temevano; ed il senso di quel “rappresentare la Nazione” (o il popolo) e di agire senza dipendenze è in gran parte rivolto contro gli esiti paralizzanti di un eccessivo frazionamento dell’istituzione, o delle istituzioni, rappresentative.

  1. – Ma detto ciò, e chiarito che funzione della rappresentanza è dar capacità d’azione ad una collettività che “come tale non può agire”, occorre ora vedere cosa sia rappresentato dal rappresentante.

A noi sembra di poterlo riassumere in tre proposizioni: a) che      rappresenti un’entità ideale; b) come unità; c) e come totalità.

Un’entità ideale. – Ho appena ricordato che quasi tutte le costituzioni borghesi postulano che ad esser rappresentata sia la Nazione o il Popolo. Ed è chiaro che né l’una né l’altro sono soggetti concretamente esistenti. Concretamente esistente è una moltitudine di uomini. L’entità “popolo” o quella “nazione” sono pertanto astrazioni ideali, comunque non paragonabili, per intendersi, al Sig. Rossi che nomina procuratore il rag. Bianchi per acquistare una appartamento.

Certo popolo e nazione esprimono particolari legami, anche non politici, esistenti tra uomini, che valgono a costituirli in comunità; ma questo, ovviamente non basta a personificarle.

Del pari, anche là dove – come nelle costituzioni dei paesi del socialismo reale – si parlava di “rappresentanza” del “popolo lavoratore”, o dei “lavoratori”, bisogna dire che anche qui si trattava di entità ideali, che hanno bisogno di essere impersonate per avere una concreta esistenza e capacità d’azione.

Come unita’. – In effetti, il rappresentato è sempre concepito come uno (il popolo, la nazione, i lavoratori, la classe lavoratrice), ma non è solo questo tratto a costituire l’unità del rappresentato, nel (o nei) rappresentante. Anche le istituzioni rappresentative sono produttrici di unità, o per meglio dire, sono esse stesse l’unità. L’intuizione di Hobbes sopra ricordata, che il rappresentante fa di una moltitudine un’unità, è tuttora valida ad individuare uno dei caratteri, forse anzi il principale, sia strutturale che funzionale, della rappresentanza. Senza una struttura rappresentativa una collettività non può agire come unità, ma è solo disordinata espressione di volizioni individuali. D’altra parte ove il rappresentante non sia un solo uomo, ma un collegio, è costituito di guisa da raggiungere l’unità attraverso regole di decisione. Ed è indubbio che un Parlamento, anche quelli meno capaci a decidere perché frazionati e poco omogenei, raggiunge una decisione unitaria (e perciò esprime l’unità) con una facilità enormemente superiore ad un’assemblea di diecine di milioni di persone (del tutto impossibile) o di un referendum (lungo e macchinoso).

E come totalità. – Nella rappresentanza c’è anche il carattere (qualcuno direbbe la pretesa) di rappresentare la totalità implicita nell’entità ideale rappresentata, e spesso statuita esplicitamente nelle carte costituzionali. E’ chiaro comunque come una rappresentanza che non fosse quella della totalità, sarebbe contraddittoria alla propria funzione, di dar capacità d’azione ed esistenza ad una collettività, unitariamente concepita. Il che non significa che non possono coesistere due o più istituzioni rappresentative; esclude soltanto che ciascuna di esse, quando “politica”, rappresenti una parte e non il tutto.

Ciò stante occorre tirare le conseguenze di quanto detto.

In primo luogo appare superata la vexata questio se quella politica sia rappresentanza d’”interessi” o di “volontà”. Di volontà non può essere perché solo una (o più) persone sono capaci di aver una volontà. Se ad esser rappresentato è qualcosa di ideale, è escluso che possa esservi una rappresentanza di volontà come insegnava, anche per altre ragioni, Santi Romano. Non resta, a seguir questa classificazione, che ritenerla rappresentanza d’interessi. Ma con due precisazioni.

Da una parte il carattere pregnante e più rilevante della rappresentanza politica non può trovarsi in tale dicotomia e nella conseguente sussunzione.

In secondo luogo che come rappresentante d’interessi, deve intendersi quel che intendeva il Romano, e cioè la rappresentanza degli interessi nazionali o generali e, non, per intendersi, quelli della corporazione X o dell’associazione Y.

Secondariamente, appare opportuno trattare brevemente della distinzione tra rappresentanza politica (del “Popolo” o della “Nazione”) e quelle istituzioni rappresentative di realtà locali (Regioni, Provincie, Comuni) i cui componenti sono eletti su liste solitamente partitiche, a seguito di campagne elettorali fortemente caratterizzate in senso politico. Non manca chi fa di ogni erba un fascio, riconoscendo carattere di rappresentanza politica agli uni e agli altri.

In effetti tale impostazione non può essere condivisa: sopra accennavamo che la costituzione francese del’91 disponeva (cap. IV, sezione II, art. 2) che “Les administrateurs n’ont aucun caractére de répresentation”. C’era nei costituenti la piena consapevolezza e la volontà di negare ogni carattere rappresentativo (politico) agli agents incaricati delle funzioni amministrative: ciò era fatto prevalentemente risalire al carattere d’indipendenza che hanno i rappresentanti politici e che manca ad amministratori, giudici e funzionari.

Anche nella costituzione italiana vigente il carattere di rappresentanza politica è riconosciuto ai parlamentari (art.67) e al presidente della Repubblica (art.87). Tuttavia, è scritto che il Presidente della Giunta regionale “rappresenta la regione” (art.121), mentre nulla è detto sul carattere di rappresentanza, e tanto meno politica, di altri organi. Ciò non toglie che la rappresentanza, come istituto giuridico derivato dall’analogo privatistico, sia largamente impiegata nelle leggi ordinarie per designare alcune funzioni o i titolari di tali organi.

Ma è certo che non trattasi di rappresentanza politica: il perché è stato tanto spesso ripetuto e con argomentazioni svariate, che appare inutile ricordarlo. Proviamo comunque ad aggiungerne una.

Nella rappresentanza comunemente intesa si esprime una particolare relazione del rappresentante con una persona o un’istituzione, una posizione dello stesso nei confronti del rappresentato o dei terzi.

Così, che il Presidente della Giunta regionale rappresenti la Regione, che il Sindaco rappresenti il Comune in giudizio, è cosa analoga al Presidente della FIAT che rappresenta la società verso i terzi. Invece nella rappresentanza politica l’altro termine del rapporto non è un’istituzione, ma, come cennato, un’entità ideale. Si noti la differenza tra quel “rappresenta la Regione” e la rappresentanza del capo dello Stato e del Parlamento di cui la Costituzione non dice che rappresentano lo Stato ma “l’unità nazionale” e la “Nazione”: non un Ente è rappresentato, ma un quid che di per sé è considerato precedente e superiore a qualsiasi forma, giuridica o politica che sia. Tutto si può dir di concetti come “Nazione” ed “unità nazionale” tranne che si tratti di Enti, di persone fisiche o giuridiche.

E ciò è conseguente al carattere della rappresentanza politica e ne costituisce il connotato pregnante: infatti appartiene a quella categoria di concetti del diritto pubblico in cui il giuridico si salda con qualcosa che giuridico non è, e perciò rimane sempre al di là del diritto.

Sovranità, potere costituente e “diritto” di resistenza sono tra questi. La cosa più interessante è che questi sono, in un certo senso, i punti d’Archimede dell’organizzazione costituzionale, laddove la dimensione esistenziale della politica si congiunge col diritto. Pensare di poterli formalizzare con termini, concetti e relazioni esclusivamente giuridiche, vale a precludersene una comprensione esauriente ed i significati, anche giuridici, più interessanti.

In altri termini la rappresentanza è politica, proprio perché il rappresentato ha un carattere esclusivamente e genuinamente politico, ovvero perché il rappresentato non è per nulla (o è solo in parte) giuridificabile. In effetti, seguendo Carl Schmitt, si può dire con formula generale che il rappresentante rappresenti l’unità politica.

In ciò, nel dar forma ad un’entità informale, ideale e pre-giuridica, è la sua caratteristica peculiare, che lo differenzia dagli altri tipi di rappresentanti, sia di diritto pubblico che privato.

  1. – Dal rappresentare l’unità politica derivano ben precise conseguenze, che è appena il caso di ricordare. Il rappresentante politico è indipendente ed ha la garanzia di questa indipendenza: non ha (quasi) responsabilità giuridica; è sottratto, almeno relativamente, alla giurisdizione ordinaria, e, in alcuni casi, soggetto alla “giustizia politica”.
  2. – Concludendo questo breve excursus su un tema che avrebbe bisogno di trattazione ben più approfondita, devo trarne conseguenze in ordine all’incidenza che le sopra esposte considerazioni possono avere sull’attualità costituzionale.

Quando si propongono riforme volte al fine di facilitare il raggiungimento di maggioranze parlamentari attraverso una riduzione od un accorpamento dei gruppi ( o dei partiti) si sente subito parlare d’attentato al principio rappresentativo; e la “rappresentanza” viene contrapposta al governo secondo un uso risalente al XIX secolo, il cui senso, peraltro, è stato in larga parte smarrito. Le cose non stanno così: un’impostazione del genere identifica nel Parlamento l’unica possibile espressione del principio rappresentativo; e l’essenza di quest’ultimo, come cennato, nella riproduzione “in scala” della società civile.

Si dimenticano così i connotati essenziali della rappresentanza, opposti a questi, ripetuti in tante costituzioni e riconosciuti da tanti giuristi: basti ricordare con le parole di Romagnosi che “il potere governativo in qualunque stato civile, fu è e sarà sempre, rappresentativo” e che, come sopra spesso ripetuto, funzione principale della rappresentanza è dare capacità di agire alla comunità, e non voce ai contrasti sociali.

Le conclusioni che possono trarsi sono opposte a quelle tratte da altri. In primo luogo non è contrapponibile rappresentanza e governo; e tantomeno può identificarsi la prima con il Parlamento.

Rappresentante dell’unità politica può essere anche un organo monocratico, come il Capo dello Stato o un organo collegiale ristretto, come il Governo. Se una rappresentanza parlamentare non è in grado di agire politicamente, di garantire l’unità attraverso congrue decisioni, è buona regola che la rappresentanza dell’unità e della totalità sia assunta da un altro organo costituzionale, in concorrenza con il Parlamento o in esclusiva.

In secondo luogo se al Parlamento vuol conservarsi la funzione rappresentativa occorre che le regole per la formazione ed il funzionamento di questo siano tali da assicurarne la capacità di decidere. E’ certo che, con un Parlamento frammentato in gruppi o gruppetti, largamente condizionato  dagli interessi organizzati, tormentato dai tattici del voto segreto, la decisione politica è merce rara. Con un Parlamento del genere non si ha il “massimo di rappresentanza, ma il minimo di governo”.

 

TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE