SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*), di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

 

NOTA

Questo articolo è stato pubblicato nel 2003 su “Palomar”. E’ il primo di una serie di saggi che saranno pubblicati sul sito. La problematica che affronta appare tuttora – in gran parte – attuale. Sovranità, jus belli, potere e diritto sono riproposti di continuo in un ordine internazionale in via di trasformazione, di cui il conflitto in Ucraina è una delle conseguenze. 

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*)

Carl Schmitt, nelle prime pagine del “Der Nomos der Erde”, dopo aver individuato nell’occupazione sia l’atto fondante di un ordinamento che la possibilità di dominio non solo sulla terra, ma anche (sia pure profondamente diverso) sul mare, e i rapporti tra i due tipi, sostiene che queste sono profondamente trasformate “da un nuovo avvenimento spaziale: la possibilità di un dominio sullo spazio aereo. Cambiano non solo le dimensioni della sovranità territoriale, non solo l’efficacia  e la rapidità dei mezzi umani di potere, di comunicazione e informazione, ma anche i contenuti dell’effettività. Quest’ultima possiede sempre un aspetto spaziale e rimane sempre, tanto nel caso delle occupazioni di terra e delle conquiste, quanto nel caso delle barriere e dei blocchi, un importante concetto di diritto internazionale. Muta inoltre, in seguito a ciò, anche la relazione tra protezione e obbedienza, e quindi la struttura del potere politico e sociale stesso, e il rapporto tra questi e altri poteri. Ha inizio così un nuovo stadio della coscienza umana dello spazio e dell’ordinamento globale”.

Tale affermazione, come tutto l’inizio del “Der Nomos der Erde”, si può collegare alla definizione che un altro grande giurista, Maurice Hauriou, da dell’ “idea direttiva” dello Stato ovvero di “attività protettiva di una società civile nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale” e prosegue, chiarendola, “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di “idea direttiva dell’impresa” né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o dalla sua funzione”[1]. Nel “Précis de droit constitutionnel” Hauriou ricollega l’idea di Stato all’ “ordine  individualista”, conseguente al formarsi di civiltà sedentarie[2]: di guisa che la sedentarietà, cioè il rapporto stabile e ordinato con la terra è il fondamento (tra l’altro) dell’idea di Stato, tipo particolare di ordinamento localizzato.

Lo Stato (e il di esso concetto) si specifica con una serie di distinzioni caratteristiche, tra le quali, particolarmente interessante il tema qui trattato, è quella tra interno ed esterno e la delimitazione tra tali due aree, cioè il confine. Interno ed esterno, intra o extra moenia, non costituisce soltanto una divisione spaziale, né si limita a determinare l’ambito d’esercizio dell’imperium dello Stato, ma è la distinzione tra due diversi “ordinamenti”, fondati su principi e presupposti diversi. All’interno, lo spazio della sovranità statale, dell’imperium basato sul principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[3], la volontà sovrana è, per definizione, irresistibile e non condizionabile con limiti e controlli giuridici.

Corollario di questa illimitatezza è che non vi è alcun potere esterno che possa influire all’interno (dei confini) dell’unità politica. Mentre all’esterno il diritto internazionale (denominazione che Schmitt corregge, con maggiore precisione, in interstatale) si basa su una società di Stati simili e pari, componenti l’ordinamento internazionale: per cui, di converso, nessuno può dettar legge all’altro, ma i rapporti tra gli stessi sono a carattere, in linea di principio, paritario. Tuttavia Spinoza ne coglieva assai chiaramente il senso (e il limite), quando scriveva che “Lo Stato, dunque, in tanto è autonomo in quanto è in grado di provvedere alla propria sussistenza e alla propria difesa dall’aggressione di un altro, e… in tanto è soggetto ad altri, in quanto teme la potenza di un altro Stato o in quanto ne è impedito dal conseguire ciò che vuole o, infine, in quanto ha bisogno del suo aiuto per la propria conservazione o per il proprio incremento”[4]; per cui uno Stato, in diritto uguale e pari agli altri, lo è di fatto nella misura in cui riesca ad avere potentia sufficiente a garantire quel tanto di jus effettivamente esercitabile nel consesso internazionale (o interstatale).

Il rapporto tra jus e potentia, nel pensiero di Spinoza, è simmetrico: nel senso che non c’è il primo senza la seconda, né la seconda senza il primo. Un diritto internazionale che non si fondasse sul potere di fatto dei soggetti dell’ordinamento internazionale di conservare la pace e fare la guerra ma su un legalitarismo normativistico sarebbe un non-senso, una parata inutile di pubbliche impotenze.

Ciò non è senza conseguenze, ovviamente, per lo Stato: se questo non ha potentia sufficiente a garantire la protezione, perché non può, almeno, difendersi, se non aggredire, è la stessa obbligazione politica “principe” verso i sudditi a perdere – anch’essa – di senso. Uno Stato che ha bisogno della protezione di un altro non è libero; e neppure può garantire la protezione dei cittadini, (o lo può, ma solo in parte) per la medesima ragione. In tal modo, a seguire Hobbes, ne viene meno anche la legittimità e la funzione, intesa dal filosofo di Malmesbury come garanzia della protezione cui corrisponde il dovere di obbedienza (con la conseguenza che questa va data a chi effettivamente è in grado di assicurare quella).

Le possibilità di fatto sono, tuttavia, quelle che determinano la possibilità concreta di appropriazione, distribuzione e regolazione di una materia e/o di uno spazio: è la potentia che determina lo jus: il “Nomos” moderno della terra presupponeva la navigazione oceanica (e tecnologia, conoscenze che l’hanno reso possibile), cui conseguiva l’appropriazione e la divisione del continente americano – e di parte degli altri – realizzata dalle potenze europee. Ma anche su un altro versante, quello europeo ed euro-asiatico (continentale), connotato da una pluralità di Stati confinanti (per terra) o vicini, non difesi come l’Inghilterra dal fatto di essere un’isola, le innovazioni tecniche e scientifiche sviluppate tra il finire del medioevo e l’inizio dell’evo moderno non furono neutrali, ma decisive per l’assetto politico-giuridico costituitosi.

Sicuramente il nascere dello Stato moderno dal corpo delle monarchie feudali lo si deve a fattori “ideali”, tra cui non bisogna trascurare l’esigenza di una protezione più efficace di quella assicurata dal pluralismo feudale; ma tra quelli “materiali” appare decisiva la diffusione delle armi da fuoco. Queste decretarono l’obsolescenza, ad un tempo, della cavalleria aristocratica feudale e di quella “guerriera” dei popoli nomadi. A Pavia i tercios spagnoli, a Khazan gli strelizzi russi aprivano un nuovo capitolo della storia (militare e) politica; non nasceva solo lo Stato moderno, ma nelle contese tra questo e i non-Stati (interni ed esterni) – ovvero le altre forme di unità e organizzazione politica – il primo vinceva (quasi) sempre. Le aristocrazie feudali fecero così, essendo divenute più che inutili, d’impaccio alla nuova istituzione, una “fine” politica parallela a quella dei popoli nomadi, che per millenni avevano costituito uno dei principali “motori” della storia del Vecchio Mondo: negli stessi anni in cui la Fronda aristocratica perdeva il conflitto con lo Stato monarchico di Mazzarino e del giovane Luigi XIV, russi e cinesi s’incontravano sull’Amur, e definivano i confini dei rispettivi imperi. I nomadi erano circondati nelle loro tende, come la grande nobiltà francese sorvegliata a Versailles: non vi sarebbe stata più alcuna di quelle eruzioni nelle terre dei popoli stanziali che dalle invasioni indo-europee  protostoriche a Tamerlano avevano periodicamente rimesso in moto la storia del mondo. I popoli nomadi regredivano (nelle possibilità politiche) da Gengis Khan a Pugaciov: dall’imperatore al ribelle.

Così era ridimensionato, e praticamente scompariva, quel “principio fluttuante, vacillante” della storia, che Hegel vedeva nei nomadi[5].

Occorre vedere quanto di questa “chiusura” politico-istituzionale si debba allo spirito del Rinascimento e della Riforma, e quanto al fatto che artiglierie e moschetti erano molto più efficaci nel serrare le frontiere marittime e terrestri degli eserciti feudali, e molto meno condizionanti il potere monarchico. Sicuramente, tuttavia, lo “spirito” della modernità e l’elemento, per così dire, materiale, hanno collaborato allo stesso esito. Si può, a tale proposito, ricordare l’opinione di Marx che l’umanità si pone (e risolve) i problemi quando ne sono mature le soluzioni[6]. Il sistema degli Stati sovrani europei nasceva proprio al momento in cui ne maturavano le condizioni “fattuali”.

Appare decisivo che, comunque, non sarebbe stato possibile realizzare, almeno al grado di efficacia ottenuto, quella “chiusura” se non con i mezzi che la tecnica “moderna” aveva messo a disposizione: pochi moschettieri ed artiglieri ben armati ed addestrati potevano fermare e sconfiggere orde assai più numerose di valorosi guerrieri nomadi, occuparne e presidiarne il territorio (il che, in modo parzialmente inverso, nel senso della conquista e dell’espansione, si ripeterà nel Nord America).

La complessità, poi, della nuova organizzazione militare escludeva – o rendeva altamente improbabile, e quindi marginale – che gruppi poco numerosi o poco organizzati (ovvero non organizzati come Stati) potessero arrecare offese rilevanti alle comunità ordinate in Stati, anche a quelli più piccoli e deboli, come i principati italiani e tedeschi, per via di terra: per mare la situazione era parzialmente diversa. Lo sviluppo della pirateria atlantica ai danni anche delle grandi potenze, e il permanere di quella mediterranea (che colpiva però, come scriveva Montesquieu, essenzialmente i commerci dei piccoli Stati) era dovuto alla minor sproporzione, sul mare, del rapporto tra potenza e vulnerabilità: i commerci marittimi erano più vulnerabili dei confini. E più difficile inseguire e scoprire i pirati negli oceani che i predoni nelle steppe e nelle foreste.

2 L’intuizione di Schmitt che la nuova dimensione acquisita con la navigazione aerea modificava sia la guerra che le forme del “politico” è stato confermata dai nuovi attacchi terroristici.

Il nuovo tipo di terrorismo (tra l’altro realizzato col mezzo aereo) ha in comune con l’offesa dall’aria altre caratteristiche, già individuate chiaramente dal generale italiano Giulio Douhet, teorico – pioniere della guerra aerea “totale”. Non esistono in primo luogo, “linee” di fronte, perché sono impossibili (o pressoché superflue): il terrorista, come l’aereo, le può oltrepassare senza prima essere costretto a combattere per forzarle. Secondariamente, neppure barriere naturali possono concorrere a rinsaldarle: l’aereo quindi, come il terrorista, è “indipendente dalla superficie, capace di muoversi in tutte le direzioni con uguale facilità”.

In terzo luogo così “la guerra può far sentire la sua ripercussione diretta oltre la più lunga gittata delle armi da fuoco impiegate sulla superficie, per centinaia e centinaia di chilometri, su tutto il territorio ed il mare nemico. Non più possono esistere zone in cui la vita possa trascorrere in completa sicurezza e con relativa tranquillità. Non più il campo di battaglia potrà venire limitato: ……  tutti diventano combattenti perché tutti sono soggetti alle dirette offese del nemico: più non può sussistere una divisione fra belligeranti  e non belligeranti”. Un quarto aspetto è che: “la vittoria sulla superficie non preserva dalle offese aeree dell’avversario il popolo che ha conseguito la vittoria”; per cui concludeva Douhet: “Tutto ciò deve, inevitabilmente produrre un profondo mutamento nelle forme della guerra, perché le caratteristiche essenziali vengono ad esserne radicalmente mutate”[7] di guisa che il più forte esercito e la più potente marina non servono ad evitare le offese che il mezzo aereo – e il nuovo terrorismo – sono in grado di produrre.

Neppure determinati jura belli, come quello di preda, che valgono a relativizzare la guerra o almeno l’atto di ostilità, sono concretamente esercitabili in tipi di guerra – e di azioni belliche – come quella aerea o terroristica. Il saccheggio che soddisfa l’avidità dell’aggressore salvando in genere la vita dei vinti, in questo tipo di conflitto non è esercitabile. L’unico obiettivo dell’azione diventa quindi la distruzione della vita e dei beni del nemico, senza riguardo alle distinzioni classiche della guerra “relativizzata” dello jus publicum europaeum.

Tale conclusione mina quindi il ricordato presupposto, fondamento – di fatto – dello Stato moderno; il quale, caratterizzato dalla distinzione tra interno ed esterno, si fonda sulla possibilità concreta di serrare porti e frontiere, riducendo e minimizzando sia gli atti di ostilità non rapportabili alla guerra “classica” sia i soggetti che la possono esercitare. Questo (ulteriore) elemento di novità, è suscettibile di sviluppi impensabili in un sistema di relazioni internazionali dominato dai soggetti “normali” (gli Stati) e costruito con istituti, rapporti (e concetti) sull’idea (classica) di Stato e di conflitto interstatale.

L’ “opposizione” di mare e terra, e la delimitazione che ne deriva, (l’offesa arrecabile per mare si trasforma difficilmente in quella di terra; al punto che le potenze marittime hanno, nelle guerre intereuropee, sempre avuto necessità di almeno una “spada” sul continente) non esiste più per la guerra aerea: questa può colpire indifferentemente sul suolo e sull’acqua, e trasferire l’offesa dall’uno all’altro elemento senza cambiare il mezzo con cui è portata[8].

Analoga è la guerra terroristica, condotta da piccole unità, sfuggenti al controllo ed al regime delle “linee” (di confine, di fronte, di “amicizia”) tipiche dell’ordinamento internazionale classico, guerra compresa, come a tutte le altre distinzioni intrinseche e conseguenti al relativo diritto di guerra (belligeranti e neutrali; civili e militari e così via). Di guisa che come guerra aerea e terrorismo non tollerano o riconoscono “linee” così  affievoliscono o fanno venir meno quelle distinzioni, giuridiche, che costituiscono delle chiusure “ideali”, necessarie per umanizzare la guerra e scongiurarne la peculiare  dinamica dell’ “ascesa agli estremi” cioè alla guerra assoluta.

3 Carl Schmitt, nel passo citato, nota come le nuove forme di guerra e di dominio modificano la relazione tra protezione ed obbedienza, le strutture del potere politico (e sociale) e il rapporto tra poteri: così collega l’esterno all’interno, come sottolinea l’influenza delle situazioni fattuali e concrete sull’assetto normativo. E’ noto che i fattori concreti (geografici, storici, climatici, e così via) condizionano e modellano l’ordinamento (la costituzione) delle comunità umane: da Montesquieu a de Maistre l’hanno rilevato in tanti. Meno noto, anzi spesso trascurato, è che di solito le società si organizzano nella forma la quale meglio permette di condurre la guerra in una determinata epoca storica. Tuttavia il rapporto tra istituzioni e guerra fa parte del pensiero umano, almeno a far data da Polibio di Megalopoli e dalla sua spiegazione dell’ascesa di Roma[9]. Di tutti i (numerosi) fattori che determinano strutture e dimensioni di una società umana, questo, a dispetto di certe astrazioni della “progettualità” politica (praticata da ideologi, costruttori di utopie), è uno dei principali: perché se una società perfetta (sotto il profilo culturale, economico, giuridico) non fosse organizzata in modo da proteggersi efficacemente dai tanti vicini, non altrettanto colti, ricchi, pii o giusti, ma meglio attrezzati a far la guerra, non durerebbe che pochi anni o, al massimo, decenni. Le unità politiche di lunga durata sono state capaci di risolvere quel problema, con delle istituzioni non congrue perché buone, ma buone perché adatte; ed avendo oltretutto il senso politico di cambiarle, anche radicalmente, ove la rei novitas lo richiedesse.

La fortuna, in determinate epoche, di certe forme di aggregazione politica si deve così alla loro capacità di consentire un’esistenza libera alle comunità che in queste si organizzavano; la loro decadenza – e sostituzione con altre forme e tipi – dal non essere più adatte a quella.

Nella storia europea, in particolare mediterranea, vediamo che fino al IV secolo a.C. le comunità hanno la forma della polis o delle tribù; solo nell’Oriente mediterraneo  esistono imperi, le cui caratteristiche – come, ad esempio, l’estremo “decentramento” di quello achemenide – erano tuttavia tali da renderli nemici affrontabili dalle altre unità politiche, come dimostra l’esito delle guerre persiane. A partire dalla fine del IV secolo, i popoli mediterranei si organizzano – per larga parte – in unità politiche regionali: a oriente quelle degli epigoni di Alessandro, a occidente Roma e Cartagine. La fine dell’ultima potenza regionale, l’Egitto dei Tolomei, segnò l’inizio dell’imperium unico mediterraneo. Toynbee nota che nel I secolo d.C. l’area temperata del Vecchio Mondo, dall’Oceano Atlantico al Mar Cinese, era divisa in (solo) quattro grandi imperi, al di fuori dei quali esistevano una miriade di piccole comunità politiche, talvolta clienti degli imperi, ma per lo più indifferenti a questi, perché troppo deboli per muovere loro la guerra. In epoca più recente l’assetto costituzionale e il diritto pubblico interno delle potenze “marittime” (Inghilterra e U.S.A.) sono stati ritenuti tali perchè tipici di due “isole”: in senso geografico (e politico) l’Inghilterra da De Maistre[10]; in senso politico (perchè privi di nemici credibili  ai confini terrestri e grandi guerre da sostenere con questi) gli U.S.A. da Tocqueville e da Hegel[11]. Differente invece, quello degli Stati continentali, per la necessità di eserciti permanenti, sempre potente strumento di difesa e di centralizzazione, ma a volte d’oppressione. Si può affermare pertanto, parafrasando Marx, che il modo di condurre la guerra determina il modo di governare. In questo senso lo jus belli del diritto internazionale dell’Europa moderna era quello peculiare degli Stati, non solo dotati di una (notevole) omogeneità culturale, ma di forme politiche e modi simili di combattere e quindi di danneggiarsi o avvantaggiarsi (reciprocamente). Il che comportava – con l’eccezione, solo relativa, delle potenze marittime – delle regole applicabili (con relativa facilità) perché i soggetti dell’ordinamento internazionale erano simili e se non pari, almeno non troppo impari.

  1. Diversa appare la situazione attuale, per una pluralità di ragioni: riducendo le quali ai limiti del presente scritto, ovvero ai riflessi che possono avere i nuovi modi di condurre la guerra – aerea e aerospaziale in primo luogo, e terroristica – sulle forme ed organizzazioni dell’unità politica, abbiamo diverse conseguenze.

In primo luogo che la “chiusura” dello Stato, sulla cui possibilità si basava l’idea (e l’ideologia) del medesimo, appare più difficile, e così i “beni “ che assicurava alla comunità: ordine, pace, e sicurezza. Il “defensor pacis”, in un mondo in cui gli Stati sono fra loro come nello stato di natura è tale se riesce ad assicurare chiusura e distinzione tra interno ed esterno. Se tra questi spazi viene meno il confine, disordine e insicurezza penetrano all’interno, e non l’inverso. La capacità di garantire “attività protettiva” viene così correlativamente ridotta.

Secondariamente, nel XX secolo si è contribuito in vari modi ad attenuare e/o negare quella “chiusura”. La Weltbürgerkrieg del marxismo-leninismo, con la contrapposizione amicus/hostis tra borghesia e proletariato, e la minaccia – più volte prospettata (e spesso impiegata) di mobilitare, con la guerra rivoluzionaria, i proletari, amici dell’Unione Sovietica e quinta colonna alle spalle degli Stati borghesi, ne è stata quella, ideologicamente più intensa e qualificata[12]. Anche la nuova minaccia terroristica di Al Quaeda, non solo nega qualsiasi distinzione tra interno ed esterno (e le altre peculiari allo jus publicum europaeum), ma, a quanto è dato capire, nega che la distinzione tra amici e nemici corra lungo i confini degli Stati attualmente esistenti, islamici o “non”, e sembra piuttosto contrapporre credenti ad infedeli[13].

In qualche misura , anche se su basi diverse, la stessa aspirazione a leghe di Stati o comunque ad istituzioni internazionali che scongiurino il ricorso alla forza sostituendolo con procedure “giuridiche” (d’ispirazione Kantiana), o meglio para-giudiziarie, concorre ad attenuare quella distinzione, ma senza granchè dei benefici prospettati: anche perché, a ben vedere, non riesce a portare la pace se non attraverso la guerra, che differisce da una “normale” guerra solo perché a dichiararla e condurla è una lega di Stati piuttosto che uno Stato singolo[14]. Il caso del Kosovo ne è stata la conferma più chiara, perché occasione (e motivo) dell’intervento non era un’aggressione esterna (come nella guerra all’Irak per l’occupazione del Kuwait), ma la repressione attuata dallo Stato sovrano sulla popolazione di etnia albanese residente nel proprio territorio. Con ciò si contestava allo Stato l’esercizio della funzione di “polizia” cui è connessa quella di identificare il nemico interno (il ribelle) e anche il criminale. Il principio di non-intervento negli affari interni dello Stato, essenziale alla distinzione tra quelli e gli affari esterni, viene così meno. In termini weberiani le relazioni  chiuse vengono sempre più sostituite da relazioni aperte[15]. Conseguenza di ciò non è tuttavia di sostituire il diritto alla guerra, ma di espropriare lo Stato del diritto d’individuare il nemico , trasferendolo ad un’istituzione internazionale, cui compete il potere anche d’esercitare la “violenza legittima” e garantire la pace, non solo tra Stati, ma anche negli Stati[16].

In questo senso il termine di “operazione di polizia internazionale” spesso dato a quella guerra è in effetti corretto nel sostantivo, ma fuorviante nell’aggettivo: perché costituisce attività di polizia (in quanto interna allo Stato che la subisce), ma proprio per ciò, quanto all’oggetto non è internazionale, nel senso delle relazioni fra più Stati, ma solo con riguardo al soggetto cioè all’istituzione (internazionale) che l’esercita[17]. A una simile concezione vanno ricondotti anche altri organismi (come la Corte penale internazionale di cui al recente Statuto di Roma) che, derogando alle regole (per la verità ripetutamente violate nel XX secolo) dell’esclusività statale dell’esercizio della giustizia la trasferiscono, in determinati casi, all’istituzione internazionale[18].

  1. Dati i rapporti (e le distinzioni) tra interno ed esterno, jus e potentia, modi di guerra e forma politica, occorre vedere in quale guisa i nuovi tipi di ostilità possono modificare il Nomos o, più limitatamente, l’ordinamento internazionale, e di riflesso, e in quale misura, quello interno.

Nella situazione odierna nessuno Stato appare in grado di esercitare appieno lo jus belli, perché nessuno è in grado di condurre una guerra (con qualche possibilità di sopravvivenza) con gli U.S.A., tranne, forse, la Russia e, in futuro, la Cina. Lo jus non corrisponde pertanto alla potentia, limitata alle guerre realmente possibili. E anche tali tipi di ostilità (tra Stati senza eccessivo squilibrio di potenza), sono praticabili nei limiti in cui la superpotenza non se ne ritenesse lesa o minacciata: di fatto quindi sottoposte a un possibile veto U.S.A.. A questo occorre aggiungere il favore al principio di intervento, finalizzato alla salvaguardia di diritti umani che limita la sovranità al contrario, salvaguardata da quello di non-intervento.

In tale situazione è la guerra terroristica, condotta da piccoli – o piccolissimi – gruppi umani, l’unica sempre praticabile. Ciò comporta che questi gruppi sono, paradossalmente, più efficienti ed adatti  dello Stato all’esercizio dello jus belli (malgrado tale diritto non sia loro riconosciuto).

Si verifica così una scissione tra jus e potentia: confermata dal fatto che la maggior parte dei conflitti successivi alla Seconda guerra mondiale non sono guerre tra Stati, ma tra uno Stato e una fazione (partito, etnia, ecc.) o tra fazioni all’interno di uno Stato.

A questo punto si pone anche il problema se può considerarsi Stato, nel senso dello jus publicum europaeum un’entità politica largamente (o totalmente) di fatto priva dello jus belli. Ai giuristi – ma non solo a loro – è familiare giudicare che, se a un istituto – e al concetto corrispondente – si sottrae un carattere (un attributo) essenziale, questo non è riconducibile a quello normalmente considerato e definito. A sottrarre (o ridurre) lo jus belli  allo Stato, se ne azzera (o si riduce) la capacità di protezione. E’ possibile, poi, ricondurre, al genere “Stato” un’istituzione, connotandola, per fare un esempio (tra i molti), secondo la definizione “funzionale” di Hauriou: “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux[19]”, di cui la protezione è l’elemento essenziale? E lo stesso potremmo ripetere paragonandolo ad altre definizioni o concetti di Stato elaborati. Certo si può chiamare “Stato” un ente privo dello jus belli, analogamente a come l’eufemismo prima ricordato definisce “operazioni di polizia internazionale” delle guerre tout-court, ma occorre intendersi, prescindendo dal tasso d’ipocrisia o d’illusione di certe operazioni da vocabolario, che quanto ne risulta non è uno Stato né qualcosa di diverso dalla guerra.

Il tutto non è indifferente all’altro aspetto della sovranità, così limitata dalla (parziale) inidoneità del ricorso alla forza, cioè quello interno. Invero il rapporto hobbesiano tra protezione ed obbedienza e l’effettività della decisione sovrana poggiano sul monopolio statale della violenza legittima, che appare doppiamente eroso: in primo luogo dalla (parziale) inidoneità prima ricordata e, secondariamente, dal ruolo delle istituzioni internazionali.

Ma se lo Stato non è più idoneo, se non è più la “gran macchina” della pace e della sicurezza, se non riesce a tenere al di fuori dai confini lo “stato di natura”, a chi si dovrà dare obbedienza? Un sostituto dello Stato moderno non è all’orizzonte, e ciò ch’è visibile è piuttosto un ritorno, mutatis mutandis, a forme politiche pre-moderne, di volta in volta imperiali, feudali, particolaristiche, corporative, comunque contrapposte allo Stato e all’ordine interstatale dello jus publicum europaeum, perché non basate su quella chiusura (e distinzione) e sull’assolutezza della decisione sovrana. A un mondo in cui lo jus è determinato da quel tanto di potentia esercitabile in una situazione concreta e in continuo movimento, meno o poco “calcolabile” e prevedibile; e quindi tendenzialmente non comparabile con ordine concreto in se concluso, come quello determinato dallo Stato.

La non coincidenza tra Stato, sovranità e jus belli fa, di converso, intravedere, in futuro, forme politiche di confusione e sovrapposizione tra quelli: con Stati non sovrani, sovrani senza Stato, belligeranti non statali e così via. Lo stesso Impero, ordine politico assai differenziato nelle varie situazioni storiche, non ha escluso sia forme “interne” di ostilità (come le guerre “tribali” nelle colonie extraeuropee o i conflitti tra feudatari  nel Sacro Romano Impero), sia, di conseguenza situazioni di “pace” interna non comparabile a quella assicurata dallo Stato europeo “classico”, e, in taluni casi financo, autorità “locali” che praticano una politica all’esterno (quindi estera) non coincidente né compatibile con quella dell’Impero[20].

In effetti l’impero è un ordinamento politico che, al contrario dello Stato, ha conosciuto forme diversissime, in cui le variabili prevalgono largamente nelle costanti. Tuttavia uno dei caratteri tipici (quasi sempre) degli imperi è di consentire forme – più o meno limitate – di ostilità all’interno (e all’esterno) dell’unità politica, cui corrisponde spesso una “competenza” in politica estera, riconosciuta (o tollerata) alle unità politiche “minori” o “vassalle”. In questo contesto si può immaginare – ma di fatto l’immaginazione è divenuta, in parte, già realtà – che possano esservi forme di ostilità limitate sia nei soggetti (accanto agli Stati, movimenti e partiti di liberazione, forme in futuro anche gilde armate e compagnie di ventura) sia nel motivo e nei modi di guerra, secondo distinzioni che ricalcano la dottrina della “guerra giusta” di S. Tommaso e dei teorici della controriforma. Per cui certi motivi e modi di guerra sarebbero consentiti: come (nei modi) l’uso di armi convenzionali, la eliminazione degli obiettivi militari, al contrario dell’impiego di armi “NBC” e, in genere, la sistematica distruzione di bersagli civili. Nei motivi sarebbero consentite guerre per la tutela dei “diritti umani”, probabilmente l’autodeterminazione di popoli e regioni, forse guerre limitate per diritti determinati. A una moltiplicazione  dei soggetti ( lo justus hostis, limitato fino a tutto il XIX secolo allo Stato, diviene un concetto “elastico”) corrisponderebbe una casistica dei modi e dei motivi (justa causa e justus modus), con un solo limite: l’illiceità di nuova guerra (giusta) alla potenza egemone, d’altra parte già esclusa di fatto, che lo sarebbe così anche – e conseguentemente – di diritto. Al di sotto di questo, le guerre – entro una “soglia” determinata – sarebbero consentite e tollerate.

Inter pacem et bellum nihil medium: questa frase di Cicerone era ripresa da Schmitt (come titolo di un breve saggio) a denotare uno dei principi del diritto internazionale classico, da Schmitt considerato ormai tramontato per i vistosi vulnera subiti nel primo dopoguerra[21], e dovuti alla prassi di azioni ostili non militari o senza dichiarazione di guerra. Tuttavia sempre condotte da Stati contro Stati. Nel secondo dopoguerra (e già durante la seconda guerra mondiale) lo sviluppo inconsueto di nuovi soggetti politici belligeranti, con i movimenti partigiani, aggiungeva allo Stato un “nuovo” soggetto politico[22].

Il successivo sviluppo è costituito proprio da Al Quaeda, il cui principale carattere differenziale rispetto ai movimenti partigiani e ai partiti rivoluzionari è di non avere come quelli, seppure in forma fluida, gli elementi di Stato “in embrione”[23], ma prescinde (almeno apparentemente) in modo completo dalla “statalità”. Ciò non ha impedito a un’organizzazione avulsa da un popolo e da un territorio (cioè da due dei tre elementi-base dello Stato) di condurre un’operazione “bellica”[24].

La presenza, pertanto di soggetti politici non statali e il carattere “illimitato” e “irregolare” delle guerre da questi condotte, contrapposto alla “guerra in forma” fra Stati dello  jus publicum europaeum, appare non inquadrabile in un ordinamento che, come quello classico, costituisce un sistema di relazioni fondate su un contesto di pace e sicurezza reciproca. Il nuovo Nomos post-moderno che si intravede al tramonto dello Stato e dell’ordinamento “classico” appare quindi assai meno rassicurante di quello formatosi nell’età moderna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

(*) Questo articolo è la rielaborazione di un contributo scritto per la rivista nordamericana “Telos”, destinata ad un “Symposium” internazionale sul “Der Nomos der Erde” di Carl Schmitt.

[1] V.M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social), trad. it. in Teoria dell’istituzione e della fondazione, Milano 1967, pp. 15-15.

[2] M. Hauriou op. cit., P. Iª, cap. 1, Sez. II, Paris 1929 p. 41 ss..

[3] E’ la definizione di I. Kant in “Die Metaphysik der Sitten”, p. II, sez. I.

[4] Trattato politico, Torino 1958 p. 196.

[5] V. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 212. Hegel prosegue con considerazioni sul diritto “Non sono legati al suolo, e non conoscono niente dei diritti che la convivenza, insieme con l’agricoltura, rende di natura obbligatoria. Questo principio incostante ha costituzione patriarcale, ma prorompe in guerre e rapine interne, ed anche in aggressioni contro altri popoli”.

[6] Nella prefazione alla Zur Kritik der Politischen Ökonomie, trad. It., Roma 1974, pp. 5-6.

[7] Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, rist. Roma 1955, p. 9-10.

[8] Scrive Schmitt che i conquistadores (ma lo stesso vale per i coloni inglesi) si spostavano velocemente e per questo sottomisero gli Amerindi: sui vascelli per mare e sui cavalli per terra. La guerra aerea evita anche l’inconveniente di dover cambiare mezzo di trasporto.

[9] VI libro delle Storie.

[10] Du Pape, II, 2.

[11] La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. 1, cap. VIII°. Una considerazione analoga faceva Hegel, secondo il quale “L’America del nord…va considerata come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra” e prosegue: “ gli Stati liberi nordamericani non hanno nessuno Stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli Stati europei sono reciprocamente, uno Stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canada e il Messico non incutono loro timore”. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 231. Si noti che sia Hegel che Tocqueville prendono lo spunto per queste considerazioni dal rifiuto di alcuni Stati del New England d’inviare i loro contingenti militari nella guerra del 1812 contro l’Inghilterra.

[12] Ne è un esempio chiaro ed argomentato, tra tanti, il discorso di Stalin al XVII congresso del PCUS (nel 1934): “la guerra si svolgerebbe non unicamente sul fronte, ma pure nell’interno dei paesi dei nostri nemici. La borghesia può essere sicurissima che i numerosi amici della classe operaia dell’U.R.S.S. nell’Europa e nell’Asia tenterebbero di colpire alle spalle i loro  oppressori che avessero ordito una guerra delittuosa contro la patria della classe operaia di tutti i paesi…”. Tale minaccia di Stalin era indirizzata (prevalentemente) alle democrazie liberali. Fu attuata, com’è noto, in tutt’altra direzione.

[13] Il tratto comune tra marxismo-leninismo e fondamentalismo islamico appare non solo quello di prescindere degli Stati (e dei confini) al fine di scriminare amici e nemici, ma anche di depotenziare o negare l’idea di Stato. Se nel marxismo questo è destinato ad estinguersi con l’avvento della società senza classi, nell’Islam – più o meno fondamentalista – appare negata la distinzione tra potere  spirituale e temporale, che nell’idea di Stato dell’Europa moderna è il carattere fondamentale.

[14] Quando poi s’intende applicare un diritto a carattere universalistico (diritti umani) ci s’imbatte  in una contraddizione con i principi dell’ordinamento internazionale. Non solo, il che è evidente con la “chiusura” per cui è lo Stato a decidere cos’è che deve valere come diritto all’interno dell’unità politica; ma anche col principio che, a determinare la “legittimità” di uno Stato non è la conformità delle sue leggi (o comportamenti) a un sistema ideale o anche positivo di norme, ma l’effettività del potere sul (proprio) territorio. Che questo sia un criterio non solo realistico ma anche opportuno è dimostrato dal fatto che riconoscimenti e trattati hanno un senso solo con chi può garantire la pace o minacciare la guerra: ove non sia in grado di fare queste due cose, un trattato con lo stesso è del tutto inutile, e talvolta farsesco.

[15] V. Max Weber Wirtshaft und Gesellshaft, Vol. I°, p. 1, cap. I, prgrf. 10.

[16] A sviluppare coerentemente  certe posizioni di “pacifismo giudiziario” si ha l’impressione si creda di aver risolto l’enigma della storia (e della Provvidenza) invertendo il detto di Hegel Die weltgeschichte ist das weltgericht, e cioè trovato il weltgericht adatto a giudicare e financo a fare la storia del mondo. Ma non è questo il reale rapporto tra Storia e Tribunali (anche autorevoli). Lo prova il fatto che nella veste di giudici stanno sempre i vincitori, in quella d’imputati, i vinti.

[17] In effetti si potrebbe sostenere, a sostegno dell’intervento nel Kosovo, che, di fatto nella regione lo Stato iugoslavo non esisteva più, essendovi una guerra civile. In tal caso, a seguire Kant, non varrebbe più il principio di non intervento v. in “Per la pace perpetua” in Antologia degli scritti politici, Bologna 1961, p. 110; sul tema, ci sia consentito richiamare il nostro scritto “Breve Storia della guerra giusta” in Palomar 2/2002.

[18] Com’è noto tale trattato non è stato ratificato  dagli Stati militarmente più forti del pianeta come gli USA, la Russia e la Cina, e neppure da quelli che verosimilmente avrebbero più occasioni (e tentazioni) per violare le regole istituite dal Trattato, come Israele, l’India o il Pakistan. E’ dubbio quale consistente beneficio per la pace ed il diritto possano apportare norme non applicabili ai (più) probabili trasgressori

[19] V. Précis de droit Constitutionnel  cit. p. 49, Paris 1929, in cui ne descrive le funzioni essenziali (quella riportata nel testo è la prima).

[20] Un esempio classico ne costituisce, a leggere l’Anabasi, quella del satrapo Tissaferne contro i mercenari greci; ovvero come scrive Otto Brunner in “Land und Herrshaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs in Mittelater„ (trad. It. Milano 1983, p. 7) quella dei feudatari nel medioevo: “si da politica – politica spinta sino all’estrema conseguenza della guerra – non solo fra gli “Stati” medievali ma anche al loro interno … i regni medievali  si articolano in poteri locali ai quali competono il diritto ed il dovere di svolgere, entro determinati confini, una politica autonoma sia all’interno che dall’esterno del territorio. Anzi, questa politica, in certe circostanze, può perfino volgersi contro i poteri superiori”.

[21] Inter pacem et bellum nihil medium trad. it. ne lo Stato, X, 1939, pp. 541-548.

[22] In effetti “vecchio” dato che risaliva alle guerre napoleoniche, come ricordato da Schmitt nella Theorie des Partisanen (1963), che lo fa risalire ai guerilleros spagnoli antinapoleonici del 1808-1812. In realtà le prime forme della moderna guerra partigiana devono essere fatte risalire agli insorgenti italiani del 1796-1799 e all’esercito della “Santa Fede” guidato dal Cardinal Ruffo, che riconquistò il Regno di Napoli nel 1799.

[23] Come notato da un grande giurista italiano, Santi Romano, nel 1946, in uno scritto sul partito rivoluzionario: “si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano,, se il movimento è vittorioso si sviluppa sempre più in tal senso”, Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, p. 224, rist. Milano 1983.

[24] Sul che ci permettiamo di rinviare a quanto scritto in Osservazioni sul terrorismo post-moderno in Behemoth n. 30, luglio-dicembre 2001.

saggio del 2003, pubblicato su “Palomar” n. 14 (4/2003)

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