IL RITRATTO DI ITALIAN GRAY, di Pierluigi Fagan

IL RITRATTO DI ITALIAN GRAY. Conoscerete la trama del famoso romanzo di Oscar Wilde in cui un tizio ottiene di rimanere giovane e bello purché non si specchi mai verificando così che la sua immagine reale è quella di un vecchio incartapecorito. Noi italiani, da trenta anni, funzioniamo nella stessa maniera.
Nello specchio c’è la nostra classe politica, lì in pubblico stante l’ampia classe dirigente che gli fa da coorte e non appare. Noi italiani siamo i giusti, giovani, belli, saggi che per lo più si fanno i fatti loro, individualmente o per famiglie o per bande, salvo talvolta incrociare qualche specchio e rimanere disgustati dall’orribile riflesso. Ma non capiamo che quello che vediamo è il nostro riflesso, pensiamo sia qualcun altro che ha preso il nostro legittimo posto.
Noi italiani siamo diventati una massa informe di gente che ha l’intestino al posto del cervello, con tutte le conseguenze della metafora in termini di fori eiettivi.
Quattro anni fa, vinse le elezioni una inedita forza politica che molti hanno salutato come il necessario superamento della vetusta dicotomia “destra-sinistra”, un trucco per dividere il popolo. Oggi, molti degli eletti sono in un vasto arco di forze politiche che vanno dall’estrema sinistra alla destra, ieri una deputata è andata addirittura con Renzi. Perché? Perché presupporre ci sia un modo di decidere sulle cose di governo di un Paese che sia “popolare” è una illusione pari a quella che esista un modo di deciderle giusto perché “tecnico”. I popolari (non uso qui populisti per disgusto epistemico verso il termine, poi vi sarò costretto per ragioni di pubblico intendimento) e i tecnicisti si corrispondono, sono illusioni politiche figlie della confusione vastamente diffusa e non figlia del long-Covid che gli è successivo.
In Italia abbiamo una destra post-fascista nel senso che non è fascista ma sentimentalmente non è poi così critica verso quella esperienza. In effetti non la conosce affatto, non è un giudizio di merito, è un giudizio confuso anch’esso, come quelli che palpitano a vedere bandiere con falce e martello nel Donbass, un giudizio sentimentale, una identità non precisa ma dal vago sapore, una parentela di quinto grado, ma pur sempre una parentela.
Poi abbiamo una destra popolare, a metà tra un partito di destra con venature sociali ed uno non saprei dire se non che deriva da un posizionamento cultural-geografico legato al Nord (?) poi apertosi ad istanze “populiste”. Una di quelle pietanze con decine di verdure fatte a lungo a cuocere assieme così che alla fine non sa di niente pur essendo fatta di tutto. C’è chi ha studiato alla Bocconi o chi rappresenta la piccola-media imprenditoria che opera dentro la catena del valore tedesca e chi ha fatto fortuna scrivendo libri avvelenati contro l’euro e l’Europa e la Germania. Antistatalisti, quindi fondamentalmente liberisti, ma sovranisti ma anche un po’ euristi, purché senza migranti e altre diavolerie post-moderne. Soprattutto senza mascherine.
Poi abbiamo una destra implicita, piccola borghesia che ha un solo interesse nella vita: poche norme e niente tasse, libertariana la si direbbe. Per lo più vota una forza politica inventata di sana pianta a tavolino da un signore multimiliardario con tre canali televisivi e qualche giornale, che è adorato come si adora l’idealtipo, l’eroe simbolico che assume in sé tutte le essenze bramate: soldi, figa e botox, barzelletta e risate, chiagni e fotti, un classico. Metà commedia dell’arte, metà “fatti li caxxi tui e goditi la vita”.
Poi abbiamo una destra conservatrice. In fondo “classica”, i valori fondamentali, l’ordine fondamentale, la tradizione fondamentale. Sono pochi o forse più che pochi meno del passato, ma tenaci, se non altro dal chiaro profilo che non va a mode ma a radici (tradizionale, appunto).
Poi abbiamo una destra che sarebbe già qualcosa se fosse solo liberale ma in realtà non discende propriamente dal liberalismo politico che non ha alcuna tradizione nel Bel Paese. A volte si abbina a forme liberali che chiamano “progressiste” creando così una parziale sovrapposizione con certa sinistra nominale che ha perso il significato del termine, spostandosi verso il liberalismo che di suo ha in effetti un campo molto largo che va da Hayek a Stuart Mill. Non avendo però alcuna reale competenza politica ma scimmiottando posizione politiche di ben altra levatura in Europa o Gran Bretagna, a volte si rende conto di non saper che pesci pigliare e quindi propende per il “governo dei tecnici”, come ci fosse un modo solo “tecnico” di prender decisioni politiche, un assurdo mai verificatosi o tale teorizzato in duemila anni e passa di filosofia politica occidentale. Ma a loro questa cosa piace in particolare poiché anelano il “Nuovo” come una volta si anelava il “Giusto”, che per loro sono sinonimi.
C’è poi un centro. Il centro è una posizione geometrica ovvero il luogo intermedio tra una destra ed una sinistra. Il loro vantaggio è prender o non prender il meglio o il peggio dei due mondi, ma senza averne fatta sintesi effettiva, non hanno teoria, hanno solo l’istinto a mettersi nel mezzo quando forze opposte spingono di qui e di là. Nell’ansia che crea il conflitto e la disputa sul dover prender decisioni, loro sono l’ansiolitico, né-né o sia-sia, sono “emergenti” dal conflitto di paradigmi, non hanno consistenza autonoma e quindi galleggiano con la leggerezza del sughero. Inaffondabili.
Poi c’è un centro-sinistra simmetrico l’altro centro-destra ovvero le due categorie paradossali della tradizione politica anglosassone che però ci si dimentica esser interna ad imperi. Avere un impero migliora molto la competizione tra classi sociali così si davano due modi, un po’ più conservatori o un po’ più liberali di declinare il bottino. Questo “centro-sinistra” è in realtà un “liberalismo di sinistra stuartmilliano” (ma dato che in Italia, come detto, non si conoscono i fondamentai plurali della composita tradizione liberale, nessuno se ne rende conto e si continua ad usare una etichetta sbagliata) che invero, di sinistra non ha che tracce, a volta solo sentimentali ma sempre più sbiadite ancorché vergognose e ultra-minoritarie.
Poi c’è una sinistra che per lo più non ha partito e stante che di tradizione era solita averne qualche decina poiché il settore è molto litigioso al suo interno e pieno di sfumature che si ritengono esiziali e decisive quando il resto del quadro politico va sempre più dall’altra parte. Ma poiché questa tradizione fa più riferimento agli ideali declinati in opere scritte di un secolo e mezzo fa che alla realtà e poiché ha perso ogni facoltà di salvare un nocciolo della posizione politica da rideclinare in concreto in un mondo nel frattempo piuttosto cambiato che non comprendono, è indifferente alla deriva. L’anagrafe ne sta falcidiando le fila e fra un po’ rimarrà solo il ricordo o una confusa “nostalgia canaglia”.
Infine, c’è una quasi-sinistra dalle ambizioni popolari senza però una chiara percezione di cos’è davvero oggi il popolo italiano, né il mondo. Soprattutto dedita a recitare il mantra penitenziale “non c’è più la destra e la sinistra”, per celare la propria identità di cui ha introiettato la vergogna visto sia le confuse manifestazioni pubbliche del concetto (del centro-sinistra che in realtà è un liberalismo progressista, della sinistra teorica surreal-patetica) e visto il bombardamento trentennale delle destre che ne hanno ridicolizzato le aspirazioni in un mondo che “non è più quello di una volta”. Essa è contro per principio ma quando è a favore, è a favore di cose per lo più irrealizzabili o a scadenza pluri-decennale, così quando fa opposizione va tutto bene, semmai ha la ventura di dover governare qualcosa non sa bene che pesci prendere anche perché la complessa realtà coi suoi attriti disordinati e contradditori le sfugge.
Quest’ultima e la precedente, condividono l’assoluta mancanza di cognizione su cosa dovrebbe esser una democrazia. I primi perché a lungo flirtanti col romanticismo rivoluzionario, i secondi perché attratti della teoria populista che si farebbe fatica a definire una vera e propria teoria, ma di questi tempi nessuno se ne accorge, è “nuova” e quindi sembra idonea per simpatia a corrispondere alla novità dei tempi.
Così questa Italia fatta da persone assai confuse che scambiano qualche scabroso pseudo-leader per la parte di popolo che l’ha votato, per quanto in condizioni oggettive sempre più precarie o negative (non tutti, c’è una piccola Italia che è sempre più ricca e gode di tale confusione che alimenta attivamente tramite i super-media e i circuiti di riproduzione culturale di cui è proprietaria o su cui ha influenza decisiva, quell’Italia che ha i soldi che però a nessuno viene in mente di andargli a prendere, per carità, il problema è altrove -euro-UE-neoliberismo-globalismo-capitalismo-postmodernismo altri oggetti della mente teorizzante), andrà a votare chissà cosa, pensando cosa, aspettandosi cosa. Andrà a votare più spesso contro qualcuno che non a favore di qualcosa.
Dati i presupposti confusi, ci sarà un po’ di confusione, poi tutti si renderanno conto che “così non si può più andare avanti” non poi perché si avrà un soprassalto di lucidità realista ma perché ci sarà qualche ricatto concreto che metterà di fronte a situazioni imbarazzanti, ed alla fine si invocherà a maggioranza il fatidico “fate funzionare le cose, per Diana!”. E si tornerà così a qualche forma di tecnicismo di unità nazionale, ma quantomeno senza la solfa del “non ci fanno votare” poiché lo avremo appena fatto.
Potremo tornare così all’adorato specchio delle nostre brame a chiedere sul chi è il meglio del reame, sputando sull’orrenda immagine di quell’estraneo che non riconosciamo nostro.