La prossima fase della lotta cinese contro il Coronavirus, di Phillip Orchard. Traduzione di Piergiorgio Rosso

Un colpo da maestro. Il gruppo dirigente del Partito Comunista Cinese è riuscito in queste ultime due settimane in un miracolo. E’ riuscito a ribaltare, almeno in Europa e in Italia, la percezione della propria immagine di primo responsabile della propagazione incontrollata del coronavirus all’interno e della sua diffusione all’esterno. Il danno politico legato all’attività censoria e agli iniziali ritardi nella informazione, dovuti verosimilmente in parte a timori di ordine pubblico e di lesione di immagine e in parte alle necessità di predisposizione di un apparato operativo funzionale sono stati compensati dal successo quantomeno momentaneo nel contenimento del virus dovuto ai draconiani interventi di isolamento, pur al netto delle presumibili manipolazioni di dati che riguardano la Cina al pari degli altri paesi. Le condizioni oggettive favorevoli all’incubazione di epidemie, in parte dovute a ragioni climatiche, ma in parte a condizioni socioeconomiche, in un breve lasso di tempo sono scivolate nel dimenticatoio di fronte all’espandersi dell’emergenza e alla rimozione, alla imperdonabile sottovalutazione ed improvvisazione almeno iniziale con le quali si è affrontato il problema dei focolai rispettivamente in Iran, in Iraq, in Italia e via via negli altri paesi. La successione temporale e geografica della propagazione, al netto delle evidenti manipolazioni dei dati in corso nei vari paesi, indicano e confermano l’origine e il percorso di diffusione. A questa confusione ed allarme crescenti si sono sovrapposte delle vere e proprie campagne ossessive riguardanti l’origine artificiale del virus e la volontarietà della diffusione. Non che l’ipotesi sia inverosimile. A Wuhan ci sono laboratori appositi dediti alla ricerca e manipolazione dei virus e un incidente che possa aver provocato la fuga del virus rimane una ipotesi plausibile; manipolazioni destinati presumibilmente ad uso civile, quanto militare. Ne è seguita invece una vera e propria battaglia mediatica e di manipolazione informativa tesa ad attribuire la responsabilità a l’uno o all’altro, ai cinesi o agli americani. L’esito di questa battaglia, specie in Italia e nel gossip internettiano, sembra volgere decisamente a favore della Cina. Una schiera di adepti sembra essere colta da furore indomito nel cavalcare questa onda; furore che nella gran parte dei casi si riduce a fungere da gran cassa più o meno inconsapevole sulla base di spartiti scritti da altri. In un prossimo articolo mostreremo come l’esasperazione delle teorie più complottistiche e allarmistiche, venute alla luce negli ultimi decenni, nascono proprio da fonti equivoche di quel paese, gli Stati Uniti, oggetto degli strali dei più accaniti partigiani della polemica antiamericana. Tanto accaniti per altro, quanto dannosi alla causa del recupero delle prerogative di sovranità della nostra nazione e del nostro stato, gravemente compromesse dalla catastrofe militare del ’43 e dalla qualità delle classi dirigenti specie degli ultimi tre decenni. Si sa però che le vittorie mediatiche spesso e volentieri non coincidono con la vittoria della verità. Quest’ultima probabilmente non verrà mai alla luce. Quello che appare chiarissimo, purtroppo, specie in Italia, è la capacità di assorbimento acritico delle informazioni più astruse e la propensione partigiana di abbeverarsi fideisticamente ad una delle due fonti secondo le proprie propensioni di fedeltà e sudditanza. Entrambi i burattinai hanno agito da maestri, i cinesi più degli americani. Trump ha parlato di virus cinese; le varie ambasciate cinesi, nelle telefonate e nelle voci insinuanti fatte circolare, parlano di virus giapponese, americano, tedesco o italiano a seconda degli interlocutori. I secondi, forti della loro esperienza plurimillenaria, stanno prevalendo sui primi anche su questo aspetto, almeno per il momento. Il colpo da maestro lo si è raggiunto con la fornitura di aiuti, pervenuti all’Iran, all’Iraq e poi all’Italia a fronte di un comportamento meschino e cieco dei paesi fratelli europei e dell’assenza di un qualsiasi gesto da parte americana. Nelle more buona parte degli aiuti giunti da Pechino sono destinati alle comunità cinesi in Italia, tra le quali quella milanese che conta alcune decine di migliaia di immigrati provenienti dalla regione di Wuhan. Onore al merito della lungimirante diplomazia cinese. E onore alla sua capacità di influenza e controllo militare e “comunitario” delle proprie comunità all’estero. Decisamente sconfortante, al contrario, il comportamento dei tifosi del Bel Paese i quali pur di liberarsi dal gioco di un padrone non esitano ad accettare, a volte senza nemmeno accorgersene, di buon grado il giogo dell’altro contendente. L’esito di questo atteggiamento l’abbiamo già conosciuto in altri secoli bui, con il nostro suolo calpestato da più padroni a volte in contrasto e a volte in collusione tra di loro, comunque ai danni nostri. Se si cominciasse a mettere in secondo piano l’aspetto “affettivo” nelle relazioni internazionali e nelle logiche geopolitiche, si individuerebbero più facilmente i limiti, i punti critici e i lati oscuri dei rapporti di dominio instaurati tante dalle potenze emergenti che da quelle impegnate a difendere le posizioni egemoniche consolidate. Rappresenterebbero esattamente gli spazi di opportunità ed agibilità di una politica più autonoma ed indipendente, di costruzione di una identità nazionale politicamente più salda. Alzare la testa e saper guardare con i propri occhi comporta però dei rischi; per degli uccellini vissuti in gabbia la fuga da una porticina aperta il più delle volte si risolve comodamente con il ricovero rassicurante in un’altra gabbia. Non è detto, tra l’altro, che essa sia alla fine più accogliente. Gli sviluppi legati a questa crisi saranno tutti lì a dimostrarlo. La simpatia e l’affinità culturale verso un popolo, nella fattispecie cinese, non deve comportare una subalternità o peggio ancora la ricerca di un nuovo protettore, pena il deterioramento dei rapporti di amicizia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La prossima fase della lotta cinese contro il Coronavirus

[https://geopoliticalfutures.com/the-next-phase-of-chinas-fight-with-the-coronavirus/] di  Phillip Orchard – March 13, 2020

 

Il Partito Comunista Cinese vorrebbe farci sapere che sta vincendo la guerra contro il coronavirus e che tutti noi dobbiamo ringraziare Xi Jinping. Questo è stato il messaggio centrale dei media statali cinesi nelle ultime settimane, segnando un importante punto di svolta nella crisi. Internamente, la massiccia mobilitazione della Cina contro il virus sembra aver frenato la marea, con il tasso di crescita delle nuove infezioni che rallenta a valori a singola cifra e l’industria cinese che sta tornando al lavoro con cautela. E mentre l’epidemia è diventata una pandemia, le risposte a chiazze dei governi occidentali hanno messo in una luce più favorevole sia i passi falsi fatti di Pechino all’inizio, che i suoi successivi successi.

E’ stata una fortuna per i propagandisti di Pechino, che ora possono richiamare l’attenzione sui trionfi della Cina e sui problemi del mondo. Il loro messaggio ha anche chiarito che Xi e il suo circolo interno emergeranno intatti dalla crisi sanitaria – e forse anche più forti. Xi ha comandato le battaglie decisive della “Guerra popolare” contro un nemico invisibile, almeno secondo i media statali intenzionati a elevare il presidente a uno status simile a quello di Mao.

Ma se Xi è al sicuro sul suo trono, il suo regno non lo è. L’economia cinese, per dirla chiaramente, è in pessime condizioni. Quasi tutti i problemi che Pechino non era riuscita a risolvere sono stati peggiorati di un ordine di grandezza dalla crisi del coronavirus. E mentre il virus che diventa globale potrebbe rappresentare un colpo di striscio alla iper-macchina cinese, la sua diffusione potrebbe benissimo chiudere le strade più promettenti del paese verso una rapida ripresa.

La battaglia di Xi

Un mese fa, il CCC stava vacillando. L’epidemia era diventata quasi incontenibile e la struttura decisionale strettamente centralizzata di Xi sommata ad una cultura della censura, erano almeno in parte responsabili. Ciò ha creato pressioni sia in patria che all’estero, costringendo Pechino ad attuare una svolta verso la “campagna dei cento fiori” di Mao, allentare le restrizioni ai rapporti indipendenti e censurare i social media con un tocco più leggero. Lo sdegno che seguì, in particolare dopo la morte del dottore Li Wenliang, fece paura a Pechino, costringendola a una serie di mosse goffe per soffocare il dissenso. Pechino fu anche costretta a rinviare il suo Congresso Nazionale annuale, su cui il PCC fa affidamento per allineare i meccanismi dello stato con la sua agenda. Per gran parte di questo tempo, lo stesso Xi era chiaramente assente dai riflettori. Quando il governo centrale ha finalmente lanciato una campagna per dimostrare il suo comando nella risposta alla crisi, non è stata guidata da Xi ma dal Premier Li Keqiang, la figura più vicina a Xi rispetto a un rivale del Comitato permanente del Politburo. Ma non appena apparve chiaro che la crisi avrebbe raggiunto il picco, all’inizio di febbraio, Xi è tornato saldamente di nuovo in scena.I pilastri del potere in Cina sono spesso descritti come “le tre P”: l’Esercito Popolare di Liberazione [PLA in inglese – NdT], il personale e la propaganda. E diventando il volto pubblico della risposta del governo, Xi ha dimostrato di controllare ciascuna di esse. All’inizio di febbraio ha schierato l’esercito, che gli risponde direttamente come presidente della Commissione militare centrale e che era stato notevolmente assente dalla risposta di gennaio, per costruire ospedali, trasportare forniture, garantire l’ordine pubblico e inviare medici in prima linea a Wuhan. Se Xi avesse perso il controllo delle nomine del personale chiave, non sarebbe stato in grado di sostituire la leadership del partito nella provincia di Hubei con una coppia di suoi fedelissimi. Infine, la macchina della propaganda è andata a tutto regime per fare del Presidente un leone. I media statali hanno iniziato a riferirsi al presidente come “il leader del popolo” e soprattutto, durante la tanto attesa visita di Xi a Wuhan questa settimana, equiparando la sua leadership nella lotta contro il coronavirus al comando di Mao sulla vittoria della guerra civile del Partito Comunista nel 1949. Questo rappresenta più di un mero simbolismo. Elevando efficacemente Xi allo status di Mao, il Partito Comunista sta legando la propria legittimità ancora più strettamente al culto della personalità di Xi, rendendo quasi impossibile per i rivali sloggiarlo.Tuttavia, ci sono almeno altre due “P” che contano. La prima è il pubblico, che per ora sembra sostenere ampiamente il PCC. A dire il vero, ci sono sacche di malcontento per la cattiva gestione di Pechino – e non solo nei circoli dei social media all’interno dei quali ingannare con astuzia i censori è diventata una forma d’arte. I medici di Wuhan non hanno smesso di parlare della soppressione da parte del governo della informazione sul virus. Un discorso particolarmente ottuso tenuto dal capo del partito di Wuhan che chiedeva una “campagna di educazione alla gratitudine” per i residenti della città prima del tour di ispezione di Xi, è stato affossato dai censori dopo aver ottenuto così tanti contraccolpi. E i video trapelati hanno mostrato che il vice premier cinese Sun Chunlan è stato inondato di insulti da cittadini in quarantena durante la sua visita a Wuhan. Ma questo deve ancora tradursi in un qualsiasi tipo di movimento di massa per le strade.Ciò è dovuto in parte al fatto che il paese è stato effettivamente bloccato. (In effetti, i sistemi di controllo digitali messi in atto per combattere la diffusione del virus saranno utili per combattere i tentativi di mobilitazione contro il governo in futuro.) Anche perché non si vede in giro nessun esponente o partito di opposizione di rilievo. (Questo è il motivo per cui qualsiasi segno di una divisione importante nel PLA o nel Politburo sarebbe così importante). Ma il potere della macchina mediatica dello stato non dovrebbe essere sottovalutato. La propaganda è più efficace quando contiene noccioli di verità. Pechino può ragionevolmente indicare i blocchi in Italia e altrove per sostenere che la sua risposta era entro i limiti accettabili e potrebbe indicare la grave carenza di maschere mediche, kit di test, letti d’ospedale e così via in luoghi come gli Stati Uniti per sostenere che, qualunque siano i suoi difetti, il modello di governo del PCC è superiore alle democrazie occidentali in una crisi.La guerra non è finitaL’altra “P” è la prosperità. La crescita a rotta di collo stava già diventando impossibile da sostenere. A febbraio l’economia si è effettivamente fermata. Circa un terzo delle imprese cinesi rimane chiuso, e molte altre operano solo a capacità parziale. Come è stato chiarito dai dati anemici sulla crescita del credito pubblicati questa settimana, le croniche difficoltà di Pechino per ottenere liquidità per le piccole e medie imprese – che rappresentano fino all’80% dell’occupazione in Cina e più della metà delle quali afferma di poter usare i loro risparmi per massimo due mesi – persistono. Anche il “sistema bancario ombra” ha toccato un minimo da tre anni, a febbraio. Questa è una buona notizia per la battaglia a lungo termine di Pechino contro prestiti sconsiderati, ma è una cattiva notizia nell’attuale contesto.Abbiamo notato che la Cina sarebbe ragionevolmente ben posizionata per un recupero a “V” una volta che potesse contenere il virus abbastanza da riavviare il suo motore di produzione, vale a dire fino a quando potesse evitare lo sfondamento dei rischi sistemici nel settore finanziario o immobiliare. Fondamentalmente quello che è successo dopo l’epidemia di SARS nel 2003. Una volta che le persone potranno effettivamente tornare a lavorare in massa, non sarà difficile riavviare i settori delle fabbriche e dei servizi cinesi.Il ritmo della ripresa dipenderà quindi principalmente dalla domanda. La massiccia spesa per gli stimoli e il settore statale aiuteranno. Ma con la perdita di massa dei salari a breve termine che potrebbe trascinare verso il basso il consumo interno per almeno un mese o più, il consumo esterno sarà di nuovo la chiave.Questo è il motivo per cui la diffusione globale della crisi è un grosso problema per la Cina, soprattutto perché sta avvenendo a un ritmo che potrebbe durare mesi e potrebbe risalire nuovamente in autunno. Interruzioni prolungate degli scambi sarebbero abbastanza gravi per le esportazioni cinesi, che sono diminuite di oltre il 17% solo a gennaio e febbraio. Più le economie europee e statunitensi rallentano, più la domanda occidentale di beni cinesi si prosciugherà. In questa luce, i peggiori scenari come quelli presentati dalle Nazioni Unite che prevedono un colpo di $2 trilioni di dollari al prodotto interno lordo globale, sembrano in qualche modo ottimisti.

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Nel frattempo, lo stress sui mercati finanziari in Occidente – combinato con la probabile spinta alle forze politiche anti-globalizzazione e l’ampia consapevolezza tra le multinazionali che le catene di approvvigionamento sono diventate eccessivamente dipendenti dalla Cina – ridurranno gli investimenti e i flussi di capitali verso la Cina. Nonostante l’impressionante capacità della Cina di individuare ogni singolo contagiato da virus in ogni singola porta delle fabbriche o degli aeroporti, non è impossibile che il virus ritorni. Altre quarantene di massa, ovviamente, potrebbero essere incalcolabilmente dirompenti. (Un lato positivo del rallentamento globale per Pechino: il crollo dei prezzi del petrolio avrà effetti contrastanti sull’economia cinese, ma nel complesso farà più bene che male.)Da quasi un decennio eravamo in attesa del prossimo grande shock che avrebbe testato la resilienza del sistema guidato dal PCC. L’ipotesi era che lo shock più probabile sarebbe venuto da forze esterne. Si scopre che lo shock è arrivato dall’interno, si è diffuso nel resto del mondo e ora sembra probabile che ritorni indietro. Non c’è nulla che i propagandisti cinesi possano fare a riguardo.